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  • Villa Rendano: un 2023 carico di appuntamenti

    Villa Rendano: un 2023 carico di appuntamenti

    Per tutto il 2023 Villa Rendano sarà teatro di un nutrito e variegato cartellone di eventi che in parte verrà realizzato in collaborazione con il comune di Cosenza
    È partita la stagione culturale della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani che quest’anno celebra il decennale della sua costituzione.

    La fondazione compie dieci anni

    «Sarà un anno ricco di iniziative, che spazieranno dal ricordo di importanti anniversari, in campo storico, politico, istituzionale, artistico e musicale, alla presentazione di libri, alla poesia, con l’ambizione di essere, ancor più di quanto non sia avvenuto in questi mesi, un punto di riferimento per il territorio, offrendo ai cittadini l’opportunità di conoscere e approfondire temi e questioni cruciali nella quotidianità del nostro tempo». Così Walter Pellegrini, il presidente della Fondazione “Attilio ed Elena Giuliani”, annuncia le attività culturali del 2023, il decimo della prestigiosa Istituzione cittadina.

    L’hi tech per iniziare

    Il calendario è iniziato il 25 gennaio, alle 17,30, con i docenti dell’Università della Calabria Domenico Talia e Antonio Palmiro Volpentesta, intervenuti sul tema Interconnessione planetaria: dall’alba di Internet alla comunicazione globale, ricostruendo le tappe che hanno portato da Arpanet a Internet.
    L’interconnessione planetaria è stato il tema inaugurale di Storia in Villa, un contenitore culturale in cui troveranno spazio altri importanti anniversari che la Fondazione intende proporre all’attenzione generale.

    Storia In Villa: da Pinocchio a Zeffirelli

    Tra i tanti, i centoquarant’anni dalla prima pubblicazione di Pinocchio, gli ottocento anni dal primo presepe realizzato da San Francesco d’Assisi, il duecentocinquantesimo anniversario della morte di Alessandro Manzoni, i cento anni dalla nascita di don Milani, i quarant’anni dall’arresto di Enzo Tortora, i sessant’anni dalla tragedia del Vajont e dalla morte di J.F. Kennedy, i trent’anni dell’Unione europea, il settantacinquesimo anniversario della nascita di Peppino Impastato, il decennale della morte di Margherita Hack e di Nelson Mandela, il centenario della nascita di Franco Zeffirelli, i cinquant’anni della storica sentenza della Corte Suprema americana sull’aborto.

    I protagonisti di Cosenza

    Nella programmazione di Storia in Villa sono previsti anche i ricordi di alcune figure prestigiose, purtroppo scomparse, che con la loro azione hanno segnato la vita culturale, artistica, sociale e civile non solo della città dei Bruzi.
    Si comincerà con un “medaglione” dedicato al giornalista Emanuele Giacoia, elemento di punta della Rai calabrese e protagonista di molte trasmissioni sportive nazionali. Si proseguirà quindi con il poeta Franco Dionesalvi, il regista Antonello Antonante, il giornalista Raffaele Nigro e lo scrittore, giornalista e commediografo Enzo Costabile.
    Altri ricordi di figure importanti saranno programmati nel corso dell’anno e proseguiranno anche durante il 2024.

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    Antonello Antonante (foto Alfonso Bombini 2020)

    Libri in Villa

    Libri in Villa verrà realizzato in collaborazione con il Comune di Cosenza e sarà lo spazio dedicato ai volumi di maggiore successo, a livello nazionale, meridionale e regionale.
    Tra i primi appuntamenti, il 2 marzo, l’incontro con Mimmo Gangemi, che presenterà il suo romanzo L’atomo inquieto, edito da Solferino.
    Il 29 marzo, invece, sarà la volta della giornalista Rai Annarosa Macrì, con il suo ultimo romanzo edito da Rubbettino.

    I venerdì e il Cineforum a Villa Rendano

    Continueranno, inoltre, I venerdì di Villa Rendano, gli approfondimenti tematici di Villa Rendano, coordinati dal giornalista Antonlivio Perfetti, che stanno riscuotendo enorme successo.
    Fiore all’occhiello della programmazione 2023 sarà anche il Cineforum, coordinato da Franco Plastina, attraverso il quale la Fondazione intende offrire ai numerosissimi amanti del cinema presenti in città un appuntamento settimanale con la proiezione di film e documentari.
    Il programma prevede anche un ricordo di Massimo Troisi, del quale quest’anno ricorre il settantesimo anniversario della nascita, con la proiezione del film Il Postino.

    Un ricordo di Sergio Giuliani

    Nel 2023 ricorre anche il decennale dell’avvio delle attività della Fondazione “Giuliani”, che verrà celebrato con una giornata in ricordo del fondatore, Sergio Giuliani, e l’istituzione di alcune borse di studio, in memoria del filantropo e benefattore cosentino, destinate a studenti particolarmente meritevoli.

    Il conferimento della cittadinanza onoraria a Sergio Giuliani

    Poesia e territorio

    Un evento particolarmente importante sarà anche il Festival della poesia I padri della parola, realizzato in collaborazione con la Regione Calabria e che si svolgerà a Cosenza in primavera. Vi parteciperanno alcuni tra i maggiori poeti italiani con il coinvolgimento delle scuole superiori dell’area urbana cosentina.
    Riprenderà, inoltre, il progetto I borghi, che prevede anche in questo caso il coinvolgimento degli studenti delle scuole superiori della provincia di Cosenza, chiamati a descrivere le realtà, la cultura e le tradizioni dei rispettivi territori.

    Consentia itinera: le novità del Museo di Villa Rendano

    Per quanto riguarda il Museo Consentia itinera, a partire dal mese di febbraio numerosi e interdisciplinari saranno i laboratori educativi e creativi destinati ai bambini ed alle famiglie, grazie al finanziamento dell’Agenzia per la Coesione Territoriale.

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    Una sala del museo multimediale Consentia itinera

    Tra i temi affrontati, le antiche lavorazioni artigiane trasferite ai piccoli da abili maestri (pietra, argilla e legno), la cura del patrimonio e della legalità (con visite nei luoghi degradati del centro storico e proposte di recupero), le scoperte scientifiche (con incontri ed esperimenti rivolti ai “piccoli scienziati” ma ancora laboratori creativi lungo la linea del tempo) attività sulla storia di Cosenza) e incontri di musica partecipati e interattivi.
    Nel mese di marzo 2023, infine, la Fondazione Giuliani inaugurerà, nelle sale multimediali del Museo Consentia itinera, la nuova mostra digitale sulla scienza e la tecnologia dal titolo Urania. Scienza e cultura realizzata in collaborazione con il Museo Galileo di Firenze e con il contributo economico del Mur.

  • Petrolini sul grande schermo, il recupero parte da Paola

    Petrolini sul grande schermo, il recupero parte da Paola

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    Ettore Petrolini è stato tra i più grandi attori ed autori del teatro comico italiano. La sua originalità si è espressa soprattutto con vena satirica in parodie e comicità, tra macchiette dei teatri minori e personaggi di operette e riviste di varietà che hanno trovato posto nelle sue commedie. Molti monologhi, per fortuna incisi su dischi dell’epoca, danno modo ancora oggi di apprezzare la modernità della sua irridente verve comica.
    Ma Petrolini fu anche interprete di cinque film tra il 1913 e il 1931. La produzione cinematografica, per quanto rada, ha permesso comunque di immortalare il suo magistrale estro su pellicola. E il recupero di quei film passa oggi dalla Calabria grazie a Gianmarco Cilento.

    Gianmarco Cilento e il “Progetto Petrolini”

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    Gianmarco Cilento

    Studioso e autore di saggi e monografie incentrati sulla storia e i protagonisti del cinema nazionale, Cilento vive a Paola. Insieme ad una squadra di critici e appassionati come lui – e in collaborazione con l’associazione culturale Ettore Petrolini e Diari di Cineclub – è il promotore di “Progetto Petrolini”. Si tratta di un lavoro di ricerca che culminerà con la pubblicazione di un libro dedicato alla filmografia dell’attore romano.  A curare il volume saranno inoltre Adriano Aprà, Alfredo Baldi, Anna Maria Calò, Nino Genovese, Anton Giulio Mancino, Silvia Nonnato, Domenico Palattella, Davide Persico, Simone Riberto e Marco Vanelli. Si tenterà così di recuperare, prima che sia troppo tardi, l’opera cinematografica di Ettore Petrolini, allo stato attuale parzialmente dispersa.

    I cinque film perduti (o quasi)

    Petrolini disperato per eccesso di buon cuore di Ubaldo Pittei (1913), Mentre il pubblico ride di Mario Bonnard (1920), Nerone di Alessandro Blasetti (1930), Il cortile e Il medico per forza, di Carlo Campogalliani (1931): queste le pellicole che hanno visto l’attore romano protagonista lungo quasi un ventennio. Le prime due sono mute, mentre le altre sono state registrate con il sonoro. E se i due film senza voci sono al momento irreperibili, Nerone e Il medico per forza lo sono parzialmente all’interno del film di montaggio Petrolini, uscito nel 1949. Il cortile invece, dopo decenni d’invisibilità, è stato fortunatamente “ritrovato”. Le ricerche di Cilento hanno infatti appurato che del film esistono addirittura due copie, una conservata al Museo del Cinema di Torino e l’altra alla Cineteca di Bologna.

    Alla (ri)scoperta del Petrolini perduto

    «Compito del progetto – spiega Cilento – è non solo quello di recuperare i due film muti dell’attore romano, ma anche le versioni integrali di Nerone e Il medico per forza. Un lavoro di ricerca sicuramente impegnativo e faticoso, quanto doveroso. Vogliamo evitare che di tali pellicole si possa spegnere definitivamente anche l’ultima speranza di recupero. Per l’estrema complessità si auspica il sostegno di ogni ente pubblico e associazione culturale interessata alla preservazione del patrimonio cinematografico. Recuperare il perduto cinema di Ettore Petrolini, così da poterlo apprezzare noi e tramandarlo alle future generazioni, è la nostra missione. E che questa sia l’inizio di una serie di iniziative volte a promuovere le carriere cinematografiche irreperibili di altri artisti dello spettacolo italiano».

    Alessandro Pagliaro

  • La vita non ha ieri e il domani è già qui

    La vita non ha ieri e il domani è già qui

    «Il Futuro è passato e noi non ce ne siamo nemmeno accorti», dice Vittorio Gassman nel 1974 in C’eravamo tanto amati di Ettore Scola. Un film tanto profetico quanto definitivo sulle “progressive sorti” dell’impegno politico e della visione della storia, del suo divenire, dei destini pubblici e privati di generazioni che volevano tutto e subito.

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    Cesare Luporini interviene al XV Congresso nazionale del Pci (Archivio fotografico del Pci, Fondazione Gramsci)

    Cesare Luporini, a proposito di progressive sorti, afferma che «Leopardi condanna la ragione come facoltà umana sviluppatasi e conquistata col progresso e genitrice di progresso, la ragione che è, nel senso illuministico della parola, filosofia. Questa ragione è facoltà di analisi, calcolo e riflessione. E secondo Leopardi, come riflessione essa arresta l’immediatezza dell’azione e le toglie il carattere eroico; come calcolo produce l’egoismo caratteristico del moderno uomo civile, in opposizione allo slancio, agli impulsi naturali, alle generose illusioni che guidavano i liberi cittadini antichi; come analisi essa scompone le cose (e i sentimenti) e per lei ciò che è grande diventa piccolo e le illusioni si rivelano per tali».

    Il futuro e l’inarrestabile progresso

    Il fluire del tempo, il futuro noi lo si concepiva in un sol modo: come positivo e inarrestabile progresso, certi, forse solo speranzosi o indottrinati, che le contraddizioni economiche e sociali che tale sviluppo avrebbe portato con sé avrebbero rinvenuto nella definizione di un nuovo uomo, di un nuovo sistema di relazioni e gerarchie la sintesi perfetta e lo sbocco del naturale esito delle cose.
    L’impegno, lo strumento, l’orizzonte, la meta, in una sarabanda che incrociava eventi ed esperienze, confronti e soliloqui, certezze e scazzottate: non come eravamo, ma come saremmo stati.

    Uno sguardo a misura d’uomo

    Quando insorse il dubbio, si incrinò la speranza, si abbassò la linea dello skyline? Ciascuno di noi ha un proprio datario, qualcuno anche quello generazionale: alcuni si incrociano, si sovrappongono, altri divergono. Per certo, quando i paradigmi dell’elaborazione, della fede, quella laica, si avvitano su se stessi e il labirinto delle tesi e delle premesse finisce di cozzare di volta in volta contro muri ciechi sempre più respingenti, qualcosa subentra, qualcosa cambia, in corrispondenza altresì di anagrafi e di aggiornamenti, dell’irrompere di nuove culture.
    Magari all’inizio impercettibilmente, poi piano piano in crescendo, si appalesa come sbocco naturale e ineludibile uno sguardo che definire maturo è scontato quanto inadeguato, consapevole altrettanto che maturo: non rassegnato, cioè, e né tantomeno liquidatorio, solo meno ideologico. Insomma, a misura d’uomo.

    L’incarnazione del potere

    Todo Modo di Elio Petri è del 1976. Ed è, ridotto all’osso, una rappresentazione algida del potere e degli uomini che lo incarnavano in quei decenni, dell’”imperativo categorico”, di scardinare quel sistema, di sconfiggere quegli uomini.
    C’è Sciascia, dietro, logicamente, e un uomo di cinema che il cinema lo concepiva come militanza e strumento di cambiamento e di proselitismo, poco importano i rischi di autoreferenzialità, in una sorta di circuito chiuso con spettatori e cultori autocompiacenti.

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    Mastroianni e Volontè in Todo Modo

    Lo presentammo esattamente cinque anni fa. Solo cinque anni fa, già cinque anni fa, accompagnandolo con una ricca discussione, Ugo Caruso, Alfonso Bombini, Franco Plastina e io in un luogo che non c’è più, almeno fisicamente, all’Acquario, a Cosenza.
    Avvertimmo l’esigenza di farlo, forse l’urgenza, e parlammo, davanti a un pubblico devo dire non particolarmente numeroso ma in tutta evidenza molto coinvolto, non solo di cinema.
    Volevamo capire.
    Se e in qual misura ci riuscimmo non so dire, per certo è una esperienza da riproporre, oggi, ovviamente aggiornata: materiale nuovo ce n’è in abbondanza.

    Massimo Veltri
    Professore ordinario all’Unical ed ex senatore della Repubblica

  • Il rivoluzionario e il Garofano: Lo Giudice, l’ultimo dei craxiani

    Il rivoluzionario e il Garofano: Lo Giudice, l’ultimo dei craxiani

    Enzo Lo Giudice, paolano doc scomparso nel 2014, fu l’avvocato di Bettino Craxi ai tempi di Tangentopoli.
    Infatti, era diventato noto, soprattutto negli ultimi anni, per la sua difesa a spada tratta nelle aule del Tribunale di Milano del leader del Garofano.
    Eppure Lo Giudice non fu solo il difensore del segretario del Psi.

    Lo Giudice marxista e rivoluzionario

    Nel 1968, l’avvocato fu tra i fondatori della rivistaServire il Popolo e dell’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti).
    Quest’ultima era una formazione extraparlamentare piccola e combattiva, molto critica nei confronti de Pci. E vi militò, come padre fondatore, anche Aldo Brandirali, diventato in seguito esponente di spicco di Comunione e Liberazione.
    Enzo Lo Giudice, così lo racconta Stefano Ferrante nel suo libro La Cina non era vicina, era un organizzatore di rivolte dei contadini calabresi e dei senza casa.

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    Enzo Lo Giudice

    Il Tirreno in rosso

    A quei tempi Paola e Cetraro erano diventati i centri principali delle “lotte proletarie” del Meridione. Lì erano di casa l’attore Lou Castel (interprete de I pugni in tasca) e il regista Marco Bellocchio, che proprio sul Tirreno cosentino girò il documentario Paola-Il popolo calabrese ha rialzato la testa. Queste vicende sono tornate da poco alla ribalta grazie al libro di Alfonso Perrotta, Maoisti in Calabria che ripercorre con notizie inedite quell’epoca avventurosa .

    Gli esordi: dalla sinistra alla rivoluzione

    Ma riavvolgiamo il nastro. Sin da giovanissimo Enzo Lo Giudice coltivò la passione per la politica.
    Figlio di ferroviere, aderì al Psi. Militò nella corrente di sinistra di Lelio Basso. Già collaboratore de La parola socialista, il periodico di Pietro Mancini, Lo Giudice passò nel Psiup. «Era un periodo – disse una volta – in cui rinnegavamo la linea revisionista di tipo elettorale che aveva corrotto il Pci dopo la svolta di Salerno di Togliatti nel 1944».

    Avvocato e scrittore

    Arrestato nel 1971 durante un comizio, Enzo Lo Giudice si alternò tra l’avvocatura (fu tra i difensori nel processo napoletano ai militanti dei Nuclei armati proletari), e la scrittura. Pubblicò il romanzo Donna del Sud e i saggi Sud e Rivoluzione, La questione cattolica, Processo penale e politica, Il diritto dell’ingiustizia, La democrazia impossibile o dell’utopia.
    Nel 1978 difese anche l’anarchico calabrese Lello Valitutti, testimone della morte di Giuseppe Pinelli ai tempi della strage di Piazza Fontana a Milano. Valitutti era finito in carcere perché accusato di appartenere al gruppo estremistico insurrezionale Azione rivoluzionaria.

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    L’anarchico Lello Valitutti

    In ricordo di Bettino

    Tra i promotori della Fondazione Craxi, Lo Giudice ha raccolto nel libro Le urne e le toghe (2002) alcuni contributi del segretario del Psi sui temi della giustizia e del ruolo della magistratura in Italia.
    Sull’argomento il nostro era ferratissimo: proprio Craxi gli aveva affidato le difese più ardue da tutte le accuse del pool di Mani pulite, in particolare quelle di Antonio di Pietro.
    Quello tra Lo Giudice e Craxi fu un incontro di storie diverse: il rivoluzionario e il riformista si trovarono uniti in una battaglia impossibile a garanzia della libertà politica, in una Italia che voleva sostituire il giustizialismo alla giustizia.

    Veleno su Tangentopoli

    Da qui il giudizio tranchant di Lo Giudice su Tangentopoli, ribadito nel 2003 in una intervista a Critica sociale.
    «Craxi – ha dichiarato l’avvocato – è stato giudicato colpevole in un processo senza contraddittorio sulla base di semi-prove precostituite fuori dal dibattimento, nel quale l’imputato è stato privato del principale diritto di difesa, quello di interrogare e fare interrogare i suoi accusatori».

    Un processo “rosso” a Craxi

    Più dura l’accusa politica: «La linea della sinistra è stata traslata nella giurisdizione che ha avuto come programma “la questione morale”, in forza della quale i giudici sono diventati sacerdoti ordinati dal popolo alla grande missione. Craxi era “un delinquente matricolato” e doveva essere condannato comunque».
    Per questo suo impegno più “politico” che “legale”, Craxi volle manifestargli in una notte di dialoghi ad Hammamet tutta la sua amicizia: «Lei non riesce a darmi del tu – gli disse una volta – eppure io finalmente ho trovato un amico. Che io lo sia per lei, già lo so».

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    Bettino Craxi ad Hammamet

    A tu per tu col leader in disgrazia

    In alcuni scritti, in parte inediti, Lo Giudice parla del suo rapporto intimo e allo stesso tempo rispettoso col segretario del Psi. Soprattutto dei lunghi dialoghi intercorsi nel residence-prigione della Tunisia.
    In particolare, sono illuminanti le parole sul “dispiacere” che Craxi provava in “esilio” a causa della diaspora in atto nel partito.
    Nei tanti momenti di sconforto, il pensiero che forse lo assillava di più era quello di non aver potuto compiere il “miracolo” dell’unità socialista – anche con il Pci che avrebbe dovuto “socialdemocratizzarsi” – per ricollocare l’antica famiglia della sinistra riformista nell’ambito della grande tradizione socialista italiana ed europea.

    La rivoluzione abortita dalle toghe

    «In una delle conversazioni notturne ad Hammamet – scrive Lo Giudice – Bettino Craxi mi confidò il suo cruccio: la falsa rivoluzione dei magistrati aveva interrotto l’impegno principale del suo lavoro politico, l’impresa storica della riunificazione di tutti i socialisti nel grande partito riformista, strumento di modernizzazione del paese». La prospettiva craxiana «era l’allargamento dello spazio in cui collocare la forza autonoma socialista che si liberava dalle regole rigide dell’economia capitalistica e dal massimalismo e dal dogmatismo della sinistra radicale».

    I pubblici ministeri Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo insieme al procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli

    L’utopia umanitaria di Bettino

    Ancora: «Craxi era convinto che i grandi interessi generali del popolo lavoratore avrebbero alla fine sostenuto il primato degli ideali socialisti. Il sistema della libertà e la carta dei diritti umani avrebbero potuto battere il fronte degli opportunismi politici». Queste riflessioni trovavano riscontro nell’analisi a posteriori di Lo Giudice in uno dei suo scritti: «Il nostro paese soffre per il basso livello culturale della lotta politica, dalla quale provengono odi, risse e veleni».
    Perciò «nella confusione incestuosa di destra e sinistra si va aprendo uno spazio dove ha diritto di vivere l’autonomia socialista, unica alternativa valida, sia come teoria che come pratica politiche».

    L’alternativa socialista secondo Lo Giudice

    L’alternativa socialista, conclude l’avvocato, «ha un suo programma risolutivo di questa tenaglia economica che è grave perché non riduce ma amplia il divario ricchezza-povertà. Serve, dunque un soggetto politico che conti, capace di raccogliere l’esigenza del partito già manifesta e quella ancora potenziale ma che si avverte in ogni angolo del paese».
    Malato da tempo Enzo Lo Giudice si è spento a Paola. La sua città lo ha onorato dell’intitolazione di uno spazio antistante il Tribunale.

    Resta tuttavia ancora non “comprensibile” il motivo della celebrazione dei suoi funerali al Convento di San Francesco, per un ateo convinto come lui, che aveva sempre manifestato ostilità nei suoi scritti nei confronti della religione e dell’operato della Chiesa.

    Alessandro Pagliaro

  • L’uomo del cinema aspetta il secolo del Santa Chiara a Rende

    L’uomo del cinema aspetta il secolo del Santa Chiara a Rende

    C’è gente come Tullio Kezich che ha passato una vita al cinema. Altri come Orazio Garofalo non possono farne a meno. Una questione di famiglia. Il Santa Chiara a Rende non è solo il cinematografo più antico della Calabria ancora in funzione. È un luogo predestinato sin dalle origini. Regala sogni ed emozioni dal dicembre del 1925, come La Corazzata Potëmkin di Sergej M. Ėjzenštejn.

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    Orazio Garofalo davanti all’ingresso del cinema Santa Chiara a Rende (foto Alfonso Bombini)

    Il nonno d’America

    Pietro Garofalo lascia Rende per New York nel 1912. È uno tipo scaltro. Dopo le inevitabili difficoltà degli inizi, trova la sua strada. Non se la passa male, gestisce pure un biliardo nel Bronx. Il sogno americano finisce e si sveglia in Calabria nel 1924. Gli resta un bel gruzzolo da investire nell’acquisto di una parte del convento Santa Chiara. Diventerà nel 1925 il cinematografo omonimo.
    Compra un proiettore “Pio Pion”. Oltre 130 posti in sala tutti occupati. Oggi si dice sold out. Al mattino il cinema sparisce e in quel posto si producono fichi secchi.

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    Il proiettore Pio Pion in dotazione al Santa Chiara

    Il buttafuori

    Pietro Garofalo ha tre figli maschi: Italo Costantino, Francesco (che diventerà preseparo di fama) e Antonio. Lavorano col padre. L’ultimo è il buttafuori del cinema Santa Chiara: dopo la prima proiezione trova sempre qualcuno che fa il furbo e vuole restare, gratis, per la seconda. Ci pensa lui. Braccia possenti e spalle larghe. Lo racconta così suo nipote Orazio.

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    Italo Costantino Garofalo

    Il cinema sfida le bombe

    L’epopea del muto, Charlie Chaplin, Stanlio e Ollio segnano gli albori del Santa Chiara. In sala suona l’immancabile orchestrina. I grandi western americani, la Garbo e poi l’arrivo del sonoro sono impressi nella memoria collettiva di una comunità. La sala è talmente piena e i muri sudano dal calore e dall’umidità. Poi arriva la guerra e ferma il cinema. Mancano le pizze coi film. Italo Costantino Garofalo sfida le bombe degli Alleati, corre a Napoli e torna con le pellicole a Rende. Per certi versi sembra una storia alla Theo Angelopoulos de Lo sguardo di Ulisse.

    La tv uccide il grande schermo

    Franco Franchi e Ciccio Ingrassia sono già un classico del Santa Chiara. Proiettano i film di Fellini, poi quelli con la Loren e la Lollobrigida, la “bersagliera” morta da poco. La macchina dei sogni a Rende si ferma alla fine degli anni Settanta. La tv a colori ha invaso le case degli italiani. Il grande schermo comincia ad avvertire i primi contraccolpi. Il Santa Chiara chiude.

    Nuovo cinema Santa Chiara

    Arintha perde il suo storico cinema. Ma qualcosa si muove. Si moltiplicano le riunioni nel centro storico alla presenza dei Principe (Cecchino e Sandro), i due politici che hanno trasformato Rende in una città modello nella Calabria di quegli anni. Il Comune alla fine rileva la sala diventata una specie di magazzino. Resterà tale per tanto tempo.
    Intanto Italo scrive a Giuseppe Tornatore. Il regista de Il Camorrista e di Nuovo cinema Paradiso, risponde all’appello. E butta giù una lettera per Italo e suo figlio, un giovane Orazio. Li incoraggia a non mollare. È il 1996.

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    La lettera del regista Giuseppe Tornatore a Italo Costantino Garofalo

    Bisogna aspettare il 2015 per la riapertura del Santa Chiara. A tagliare il nastro è il sindaco Marcello Manna. La palla passa ad Orazio. Che mette a disposizione la sua competenza e il suo tempo a titolo interamente gratuito.
    Sono circa 235 i film proiettati negli ultimi 7 anni. Cinema d’autore quanto basta. E in attesa dell’inizio delle pellicole Orazio proietta la sua videoarte: un vero maestro nella tecnica del found foutage.

    I giovedì al cinema Santa Chiara

    La passione di Orazio ha inizio con i giovedì del Santa Chiara. Quando Italo prova ad aprire le pizze e prova le pellicole che poi allieteranno le serate del pubblico pagante. Qualcuna è spezzata, rovinata. Cosa fare? Italo non si dà per vinto. Taglia e cuce come un montatore. «I film non perdono coerenza e non hanno interruzioni. Quanta abilità mio padre». Orazio Garofalo ricorda il suo genitore e mentore. Non dimenticherà mai i ritagli delle pellicole, il proiettore 35 mm a manovella e quel fazzoletto di stoffa aperto sul quale si materializzano le immagini in movimento: così nasce l’amore per il cinema.

    La filosofia di Finuzzu

    Il Santa Chiara di Orazio «non è d’essai ma nickelodeon», espressione nata negli Stati Uniti per indicare il carattere economico e proletario della Settima arte a 5 centesimi di dollaro all’ingresso. Il Santa Chiara procede in qualche modo insieme a un altro simbolo della cultura rendese: il Finuzzu film festival. Sulla terrazza di Serafino, presidente del circolo Reduci e combattenti morto lo scorso anno, la nuova commedia all’italiana ha divertito gli abitanti del centro storico insieme ad anguria, dolci e bibite. Perché il cinema, prima di essere legittima masturbazione mentale degli intellettuali (o presunti tali), è soprattutto arte popolare.

  • Melia e le grotte di Trèmusa: se un disastro si trasforma in opportunità

    Melia e le grotte di Trèmusa: se un disastro si trasforma in opportunità

    Quella di Melia è una storia di rigenerazione. Una rigenerazione che parte dal basso, da piccoli passi compiuti sui territori da cittadini che, da una parte, si battono contro l’abbandono e l’isolamento e, dall’altro, fanno squadra per valorizzare le proprie comunità ed i tesori che custodiscono. In altri termini trasformano un disastro in opportunità. Vediamo come.
    Melia, provincia di Reggio Calabria, è una borgata di Scilla abbarbicata sulle pendici dell’Aspromonte, appena fuori dall’area di competenza del Parco. Non si tratta di un dettaglio perché le grotte di Trèmusa, ad oggi ancora inaccessibili per la frana di cui parleremo, hanno fornito un contributo essenziale per i riconoscimenti guadagnati dal Parco Aspromonte in ambito Unesco.

    L’antefatto: Melia isolata

    A giugno 2021 si verifica una frana sulla strada interpoderale nel territorio della frazione scillese. Ne segue, il successivo dicembre, una seconda che lascia praticamente il territorio isolato. Si tratta dello smottamento della Strada Provinciale 15, Scilla-Melia. Qualche anno prima la Città Metropolitana aveva stanziato 300 mila euro per interventi di messa in sicurezza in un cantiere partito e abbandonato da tempo.

    La frana sulla Sp 15 Scilla-Melia
    La frana sulla Sp 15 Scilla-Melia

    La frana del giugno 2021 ha consentito di organizzare una ricognizione archeologica nell’area immediatamente adiacente alle grotte di Trèmusa. La ricognizione è stata promossa dall’associazione Famiglia Ventura, supportata dall’associazione La Voce dei Giovani e dalla parrocchia di Melia, finanziata dai Lions e diretta dall’archeologo Riccardo Consoli. Due i gruppi di lavoro: il primo coordinato dal topografo Antonio Gambino, che si è occupato di effettuare i rilievi e la pulitura paesaggistica nella zona delle gole; il secondo da Consoli, che ha effettuato una prima indagine stratigrafica del suolo.

    Risultati superiori alle aspettative

    Doveva trattarsi di una semplice attività didattica con gli studenti dell’Università di Messina e di Firenze, ma i risultati hanno superato le aspettative.
    Ne è emerso un quadro affascinante: sotto il manto stradale sono state individuate diverse stratificazioni, risalenti a diverse epoche che vanno dal periodo tardo ellenistico a quello borbonico. Riemersi parte del percorso di epoca romana e un ciottolato di età borbonica. Le ricerche hanno permesso di individuare il tracciato della vecchia Popilia proprio presso il valico del Vallone Favazzina su cui affacciano le gole di Trèmusa. Non era scontato che fosse così: non vi era certezza che la strada consolare romana passasse da quell’area.

    La Storia è passata da Melia

    Lo spiega Riccardo Consoli, archeologo dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Assieme a Lino Licari, guida paesaggistica e archeologo ante litteram, e a Gambino, Consoli ha compiuto i rilievi. Secondo il ricercatore quello delle grotte di Tremusa «è l’unico passaggio per attraversare il territorio venendo da Nord. Superati i piani di Corona, giunti e oltrepassati i piani di Solano, sorpassato il Vallone di Bagnara e arrivati a Favazzina, sarebbe stato difficoltoso dirigersi a Sud scendendo verso il mare per poi risalire. Dato che è accertato che il percorso della via Popilia passasse dai piani, l’unica via percorribile doveva passare per il Vallone di Tremusa che collega la via del Nord con l’altopiano di Melia per poi scendere da Campo Calabro fino a giungere a Reggio».

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    L’antica via Popilia

    «All’altezza del vallone di Tremusa – prosegue Consoli – insiste una lingua di terra che consente un attraversamento dolce tra le due sponde della vallata. Dai primi rilievi effettuati sull’area, abbiamo rinvenuto diverse tracce di questa strada, attraverso alcuni elementi visibili: fontane, canalette e una serie di dettagli che fanno riconoscere che si tratta di un percorso tracciato in epoca romana. Ed in effetti fino all’Ottocento, ossia fin quando non si è iniziato ad adottare il cemento armato, quel percorso è rimasto tale. Anche la strada regia passava da lì».

    «Melia, per la sua posizione, era il trait d’union tra la Sicilia e il varco per il Nord. Un crocevia. Questo – conclude l’archeologo – ci fa affermare senza ombra di dubbio, anche sulle tracce del passaggio di Sant’Antonio da Padova che risalì verso Nord dopo il naufragio a Milazzo, che la Storia è passata da Melia. Questi dati non sono solo importanti a livello archeologico, ma possono rappresentare l’avvio di nuovi percorsi turistici e di trekking per rivalutare un’area di indubbia importanza storica».

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    Devoti di Sant’Antonio da padova in pellegrinaggio a Milazzo

    L’importanza delle grotte di Trèmusa

    Si tratta dei primi rilievi effettuati dopo duecento anni. Nell’ambito della ricognizione, il gruppo di Gambino è riuscito a sviluppare un modello in 3D misurabile delle grotte, combinando la fotografia terrestre a un GPS. Le grotte, che fanno parte del bacino idrografico della fiumara Favazzina – in particolare del suo affluente, il Trèmusa – si sono rivelate molto più ampie e profonde di quello che possono apparire. L’area è molto vasta, scende nel ventre della montagna per diverse centinaia di metri con fenomeni carsici visibili e ben percepibili. All’ingresso c’è una sorta di arco, o semicerchio. Sulla destra, un grande spazio aperto, che affaccia sul Vallone Trèmusa, da dove iniziano i cunicoli che si tuffano nella montagna. A sinistra, invece, c’è una sala altrettanto ampia dove è più evidente la carsicità del luogo.

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    Conchiglie fossilizzate nelle viscere delle grotte di Trèmusa

    Proprio all’ingresso è stato rilevato un accumulo di terra non indifferente su cui effettuare analisi stratigrafiche più approfondite che potrebbero portare a scoprire nuovi elementi. La presenza dell’acqua, che in passato doveva essere molto più abbondante, e la possibilità di trovarvi riparo ha rafforzato l’ipotesi che potesse trattarsi di un luogo di passaggio battuto e utilizzato in passato, grazie anche alla presenza di numerosi terrazzamenti intorno. Si dovrà stabilire con studi più approfonditi se abbia avuto altre destinazioni d’uso, quale eventuale luogo di culto.

    Melia e il Parco dell’Aspromonte

    L’attività svolta, senza essere stata concordata preventivamente, si inserisce in modo naturale nel rinnovato impulso che l’Ente Parco Aspromonte dedica alla speleologia con una serie di progetti già in cantiere. Gli esiti della ricognizione collocano Melia sotto una lente di rinnovato interesse, sia dal punto di vista speleologico, sia da quello squisitamente storico-culturale. Motivo per cui è nata l’idea di inserire il borgo nella rosa di luoghi dove portare gli alunni delle scuole che aderiscono ai progetti di formazione del Parco dell’Aspromonte.

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    Uno scorcio del Parco dell’Aspromonte

    Qualche giorno fa la Città Metropolitana ha annunciato lo stanziamento di 600 mila euro per il recupero della SP 15: un provvedimento atteso da tempo e rafforzato anche dall’emergere di una valenza culturale del borgo ancora inaccessibile da Scilla. Valenza costituita dalle scoperte emerse dalla ricognizione archeologica e dalla presenza di quelle gole che hanno contribuito, pur se fuori Parco, al riconoscimento dell’Aspromonte come geoparco Unesco. L’attività ha permesso non solo di scoprire importanti tracce del passato, ma ha richiamato studiosi, esperti, istituzioni, associazioni locali a lavorare per la comunità. La stessa Soprintendenza per i Beni Culturali ha aperto uno specifico dossier.

    L’unione fa la forza

    Le forze si sono unite e in tutta Melia sono partite forme di collaborazione e compartecipazione. L’intera comunità ha aperto le proprie porte, un tam-tam che ha supportato le attività di ricognizione, lasciando gli studiosi liberi di passare tra i poderi per puntellare la loro ricerca. Elemento, anche questo, non scontato. La stessa associazione Voce dei Giovani ha fatto da megafono, ribadendo l’importanza di un progetto che mira a rendere Melia nuovo punto di attrazione turistico-culturale.

    La campagna di ricognizione ha fatto dunque da vero e proprio collante di comunità. A cascata, e grazie al rinnovato interesse, è stato ripubblicato su iniziativa dell’associazione Famiglia Ventura lo storico testo del 1908 Cenni storici dal borgo di Melia. Sembrava perduto ma una copia è stata ritrovata presso la biblioteca di Palmi, consentendo così l’uscita di una nuova edizione. E rinvigorendo quello che spesso manca in Calabria: la cura e la tutela della memoria storica, elemento essenziale per il recupero dell’identità del borgo. In questo solco va inserito anche il recupero di una cartolina raffigurante un melioto fatto prigioniero in Egitto nel 1941 che è stata consegnata agli eredi dell’uomo.

    Partire dai territori, restare sui territori

    L’operazione di Melia pare seguire lo stesso ragionamento fatto a Bova con il progetto Se mi parli, vivo. Lì, tramite l’azione dell’Associazione Jalo to Vua e, grazie alle competenze di alcuni ricercatori originari del luogo, il greco di Calabria è diventato un attrattore che ha richiamato linguisti da tutta Europa.
    Nel caso di Melia, il lavoro dell’associazione Famiglia Ventura è stato importante: dal 2011 l’organizzazione promuove la cultura attraverso la lettura e l’arte su tutto il territorio metropolitano, perseguendo la valorizzazione e il coinvolgimento delle comunità locali.

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    Scritte in grecanico su un portone a Bova

    «Melia è una borgata con cui si è creata una relazione speciale. Concentrare l’attenzione degli archeologi in un’area periferica come quella delle Grotte di Trèmusa è un modo sia per promuovere la ricerca in località poco studiate, sia per accendere un riflettore sulle problematiche e sulle opportunità di territori spesso dimenticati dalle istituzioni o dai grandi circuiti economici e turistici. Territori che possono rappresentare ulteriori nodi di sviluppo per il comprensorio di Reggio», ha spiegato Francesco Ventura, ex presidente dell’associazione e promotore dell’iniziativa.

  • Addio a Empio Malara, l’uomo che disegnò la Rende futura

    Addio a Empio Malara, l’uomo che disegnò la Rende futura

    L’anagrafe ha archiviato un pezzo importante della storia calabrese contemporanea: l’architetto e urbanista Empio Malara.
    Malara è scomparso la mattina del 19 gennaio alla non tenera – e, per molti, invidiabile – età di 90 anni, dopo averne passato molti a disegnare città, a valorizzarne altre e a sognarne altrettante.

    Un architetto per due città

    Vaga formazione anarchica e solida militanza socialista, il cosentino Empio Malara fece carriera nella Milano non ancora “da bere” degli anni ’70.
    C’è da dire che si trovò bene anche in quest’ultima, dato che, grazie a una solidità professionale quasi senza pari e a una concezione visionaria dell’urbanistica, riuscì a superare indenne gli anni ruggenti del craxismo e la loro fine tragica.
    Milanese d’adozione e cosentino legato alle origini, come i migranti vecchia maniera. E non a caso, i necrologi che lo ricordano sono usciti in contemporanea sulle testate calabresi (va da sé) e sul Corriere.

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    Empio Malara nel suo studio di Milano

    Empio Malara “polentone”

    L’urbanistica è questione di sensibilità ed empatia, coi territori e chi li vive.
    Non a caso, a Milano Malara si concentrò sui Navigli, che voleva pienamente navigabili, anche a scopi commerciali.
    Al riguardo, c’è da scommettere che dietro la rivalutazione dellecase di ringhiera, una volta sinonimo di povertà (di cui resta traccia nei racconti di Giorgio Scerbanenco) ma oggi molto “trendy”, ci sia il suo zampino.
    In ogni caso, Malara ha avuto molti riconoscimenti dalla Milano profonda, a partire da un attestato di benemerenza civica.

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    La zona dei Navigli a Milano

    Empio Malara “terrone”

    La parabola professionale di Malara in Calabria evoca il titolo di un film: Ritorno al futuro.
    L’urbanista, già archistar fu ingaggiato da Cecchino Principe per evitare che lo sviluppo di Rende, lanciatissima dall’Unical, diventasse caotico.
    Sensibilità ed empatia significavano una cosa nella Calabria degli anni ’70: immaginare i desideri di sviluppo e crescita economica degli abitanti della zona.

    La Rende avveniristica di Empio Malara

    Malara disegnò una Rende futuribile, in cui i palazzoni coesistevano col verde e, soprattutto, non evocavano certe immagini lugubri da socialismo reale (o, spesso fa lo stesso, da edilizia meridionale doc).
    Uno dei suoi fiori all’occhiello resta Villaggio Europa: un quartiere popolare all’avanguardia, che comprendeva, al suo interno, scuole e strutture sportive.

     

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    Villaggio Europa a Rende

    Nel suo caso, l’architettura diventava il forcipe dell’emancipazione sociale: la povertà non era sinonimo di degrado e la necessità di ricorrere all’edilizia popolare non obbligava ad accontentarsi.

    Un progetto tra due epoche

    Fin qui (e in estrema sintesi) i meriti. Purtroppo, il tempo denuda anche i limiti.
    La visione di Malara nacque in una fase storica in cui ancora non si parlava di “Grande Cosenza” né di città unica.
    Cosenza era ancora al massimo della sua capacità urbana e Rende aveva appena iniziato il suo sviluppo prodigioso. Quindi la Rende ideata dal vecchio Principe e disegnata da Malara era bella ma non ambiziosa: era la prosecuzione ad est di Cosenza, troppo intasata e bloccata dai suoi colli per sviluppare a ovest.

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    Cecchino e Sandro Principe

    Invece, a partire dagli anni ’80, la città del Campagnano si pose un altro obiettivo: far concorrenza al capoluogo per servizi e qualità della vita. Il disegno di Malara restava, ma i motivi ispiratori erano stravolti.

    Le ultime polemiche

    Offrono ancora parecchi spunti di riflessione le polemiche della scorsa primavera tra l’architetto e Sandro Principe.
    Malara, da un lato, rivendicava il suo “disegno” originale, che si basava su un ruolo di Rende importante ma comunque subalterno.
    Principe, dall’altro, ribadiva come la Rende di Malara fosse un sogno degli anni ’70 diventato “altro”, cioè una città autonoma e non “servente”.

    Il ricordo

    Non è questa la sede per approfondire certe dispute. Ma resta evidente che, in questo dibattito tra un amministratore col pallino dell’urbanistica e un urbanista che ha dato forma a un disegno politico, si è riflesso l’eterno dibattito tra tecnici e politici.
    Malara, milanese adottivo se n’è andato anche come cittadino onorario di Rende, reso tale dall’attuale amministrazione che vive un rapporto problematico col passato riformista.
    Di Malara rimane, al netto di polemiche evitabilissime (anche da parte sua), il ricordo di una visione legata al sogno di uno sviluppo mai realizzatosi per davvero.
    Una promessa tradita? Senz’altro. Ma anche una promessa grande.

  • Quel panino “ghiegghiu”: Mi ‘ndujo risponde a papàs Lanza

    Quel panino “ghiegghiu”: Mi ‘ndujo risponde a papàs Lanza

    Il panino della discordia continua a far parlare di sé. Dopo la “scomunica” di papas Pietro Lanza, arriva la nota stampa della rinomata catena di fast food. Che cita Checco Zalone e Kierkegaard per difendere il suo panino ghiegghiu.

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    Papàs Pietro Lanza ha scatenato le polemiche sul nome del panino

    Terroni di Calabria

    «E se non hanno offeso e scandalizzato nessuno le battute ed il gergo nazional-popolare di Zalone al quale non vogliamo minimamente paragonarci, toccando ed unendo tutti col e nel sorriso su temi di stringente attualità, così come nessun calabrese si è mai sentito offeso, anzi, dallo striscione con la scritta Terroni di Calabria col quale qualche anno fa abbiamo inaugurato le nostre sedi a Roma, onestamente non vediamo – fa sapere il management di Mi ‘Ndujo – come e perché possa e debba sentirsi addirittura offesa la grande e gloriosa comunità arbëreshe per un progetto di panino al quale, così come ci siamo da sempre caratterizzati, abbiamo proposto di dare un nome ironico, auto-ironico, divertente, incuriosente e che da oltre 7 secoli non offende nessuno, ma proprio nessuno».

    «U ghiegghiu, il panino senza intenti dispregiativi»

    «Non soltanto, non vi era – si legge nella nota stampa di Mi ‘Ndujo – e non vi è alcun intento offensivo e dispregiativo nella scelta di uno dei nomi più diffusi e riconosciuti per identificare, ripetiamo ironicamente, la comunità italo-albanese ma quel termine, depurato da qualsiasi strascico negativo di centinaia e centinaia di anni fa, unisce oggi in un sorriso e nel richiamo all’esistenza, in Calabria, di una minoranza linguistica che insieme alle altre arricchisce la stessa forza culturale e identitaria distintiva regionale».

    Il dibattito social

    «Prendiamo atto – continua la nota stampa di Mi ‘ndujo – dell’interessante dibattito che si è scatenato sui media e sui social, grazie al progetto del nostro panino, su quali siano le migliori strategie ed i migliori strumenti attraverso i quali recuperare eventuali ritardi ed errori del passato per investire meglio e diversamente sulla tutela linguistica e culturale della minoranza linguistica. Nutriamo rispetto e leggiamo con attenzione».

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    L’interno di uno dei locali della catena Mi ‘ndujo

    Restiamo imprenditori

    «Ma, attenzione, noi restiamo dei semplici e piccoli imprenditori, certo innamorati della nostra terra, di sicuro appassionati promotori della nostra identità più viscerale, senza dubbio convinti sostenitori del valore culturale, economico e di riscatto sociale della nostra biodiversità e della nostra enogastronomia di qualità, ma pur sempre – scandiscono – dei normali imprenditori».

    Alle istituzioni, laiche e religiose, compete e competerà occuparsi con sempre maggiore determinazione della valorizzazione del patrimonio culturale arbëreshe che sappiamo benissimo non coincidere con un panino, ci mancherebbe altro o con l’enogastronomia tipica che però apre porte e finestre culturali, sociali, turistiche ed economiche.

    La compagnia di Acri, Bisignano e Luzzi

    «Ma i panini nei quali – si legge ancora nella nota stampa – continuiamo a mettere prodotti e nomi dialettali e proverbiali di quella Calabria non oicofobica e che non si vergona di se stessa (come ad esempio i panini Acri, Bisignano e Luzzi tre panini cu i cazzi, proverbio antico che non ha mai offeso nessuno) sono stati e restano anche quegli strumenti con i quali stiamo restituendo tanta dignità e fierezza, anche lessicale e dialettale, fuori e dentro la regione ad intere generazioni di calabresi, terroni e ghiegghi, che con un semplice sorriso, senza pesantezza ed a testa alta sanno chi sono, lo dicono, ci scherzano e vogliono competere col mondo, senza pianti, mugugni, lamentele, divisioni, cliché e tabù di un’epoca che fortunatamente non appartiene loro».

  • Bonnie e Clyde alla calabrese: Ciccilla e Pietro Monaco, briganti

    Bonnie e Clyde alla calabrese: Ciccilla e Pietro Monaco, briganti

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    Una copia della foto che immortala Ciccilla è conservata nei documenti di Cesare Lombroso.
    Il papà dell’antropologia criminale è stato di sicuro incuriosito dalla brigantessa che, grazie al racconto di Alexandre Dumas, è entrata nelle cronache dell’Italia postunitaria da protagonista assoluta.
    La calabrese Maria Oliverio, alias Ciccilla (appunto…) vanta un primato: è l’unica donna che può vantare un ruolo di leader nel brigantaggio. Anche più, forse, della campana Michelina De Cesare.

    L’esordio splatter di Ciccilla

    È la sera del 27 maggio 1862. Maria Oliverio è uscita da poco dal carcere provvisorio, istituito nell’ex Convento di San Domenico a Celico, dov’è stata reclusa per oltre quaranta giorni assieme a Teresa, sua sorella maggiore.

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    Ruderi del Convento di San Domenico, il carcere di Ciccilla

    Maria, originaria di Casole Bruzio, cerca di rivedere suo marito Pietro Monaco, latitante da mesi. Lo incontra poco fuori Macchia di Spezzano, dove vive da quando è sposata. Lui non sembra affatto contento di vederla: prima prova a spararle con un fucile, poi di accoltellarla. La giovane fugge e, non potendo rientrare a casa (dove convive anche con la suocera e la cognata), si rifugia da Teresa.
    E lì succede l’irreparabile: le due sorelle litigano. Vengono alle mani e poi passano alle armi bianche. Maria ha la meglio: afferra un’accetta e colpisce Teresa 48 volte. Poi prende i nipoti, li affida a sua suocera e si dà alla macchia.

    Il retroscena passionale

    Perché Pietro tenta di uccidere Maria? E perché Maria uccide sua sorella, dalla quale si era rifugiata? Gli atti processuali, ricostruiti con precisione maniacale da Peppino Curcio nel suo Ciccilla (Pellegrini, Cosenza 2013) rivelano una realtà piuttosto torbida: Pietro è l’amante di Teresa.
    Quest’ultima, inoltre, avrebbe diffamato la sorella con Pietro: Maria, a sentir lei, si sarebbe concessa alle guardie durante la detenzione a Celico. Basta questo per scatenare tanta furia omicida? In quel tipo di società, povera e violenta, sì. Ma c’è anche dell’altro.

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    Scultura che ritrae Pietro Monaco “conteso” da Marie Oliverio e sua sorella Teresa

    Il retroscena politico

    Pietro nel 1862 non è ancora ufficialmente brigante, anche se scorre già la campagna nella banda di Domenico Straface di Longobucco, detto Palma.
    È ricercato perché ha disertato dall’ex esercito delle Due Sicilie per unirsi a Garibaldi e la sua situazione giuridica con gli obblighi di leva non è chiarita.

    Il motivo reale della carriera brigantesca di Monaco è la delusione: la distribuzione delle terre, promessa dal Generale, è rimasta sulla carta.
    Ciononostante, Monaco avrebbe mantenuto rapporti con Donato Morelli, notabile di Rogliano ed ex cospiratore filogaribaldino. A questo punto, entra in scena un altro personaggio: Pietro Fumel.

    Fumel l’ammazzatutti

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    Pietro Fumel

    Bestia nera dei revisionisti antirisorgimentali, il piemontese Pietro Fumel si è guadagnato una fama postuma di macellaio, a volte non immeritata. Militare di carriera e protagonista delle prime due guerre d’Indipendenza nell’Esercito sabaudo, arriva a Cosenza come braccio destro del prefetto Francesco Guicciardi, per conto del quale inizia una lotta spietata ai briganti.

    Lo fa con metodi spicci e non ortodossi: dà un’organizzazione militare ai reparti della Guardia Nazionale e mette a ferro e fuoco le campagne, anche con esecuzioni sommarie. I risultati arrivano, ma i mezzi sono discutibili, anche nella mentalità dell’epoca.
    È Fumel che fa arrestare Maria e Teresa e le tiene in carcere, per fare pressione su Pietro Monaco. Perché?

    Le due facce di Pietro Monaco

    Durante il processo del 1864, Ciccilla dichiara di essere stata incarcerata assieme alla sorella per costringere Pietro a costituirsi.
    Ma forse la verità è un’altra: Fumel e chi per lui (Morelli) vogliono usare la banda di Pietro, che in quel momento non ha una linea politica, per eliminare alcuni briganti filoborbonici. Tra questi, Leonardo Bonaro, che ha avuto contatti con il generale legittimista spagnolo José Borjes, e Pietro Santo Peluso, detto Tabacchera.
    A favore di questa tesi c’è un dato: i due vengono ammazzati poco prima della liberazione delle sorelle Oliverio. Che tornano libere senza che Monaco si sia costituito.

    Crimini in gonnella

    La carriera di Ciccilla inizia il 28 maggio del 1862 e termina nel febbraio del 1864, quando i bersaglieri la catturano a Caccuri, nel Crotonese, dopo due giorni di assedio, in cui perdono la vita due militari e un guardiaboschi del barone Barracco.
    In questi due anni, Maria accumula un curriculum spaventoso: trentadue capi d’imputazione per omicidio, violenze varie, rapine, estorsioni, danneggiamento ed uccisione di animali domestici.

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    Il castello di Caccuri sotto la neve

    La giovane (20 anni appena nel 1864), riconosce a suo carico solo il brutale omicidio della sorella. Per il resto afferma di essere stata costretta a delinquere dal marito e dagli altri briganti.
    Nessuno può smentirla: a partire da Pietro Monaco, sono tutti morti o in galera.

    Il colpo di Santo Stefano

    Facciamo un passo indietro. Anzi due. Il primo risale al 18 giugno 1863, quando la banda Monaco rapisce due cugini “che contano” a Santo Stefano di Rogliano: Achille Mazzei, ricco possidente e patriota vicino a Donato Morelli, e Antonio Parisio, sindaco di Santo Stefano e nobiluomo (tra l’altro discendente dell’umanista Aulo Giano Parrasio).

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    I due vengono liberati dopo il pagamento di 20mila ducati, una somma enorme per l’epoca (oltre i 200mila euro attuali). Cosa curiosa, Ciccilla non finisce sotto processo per questo rapimento. Ma dal dibattimento, a carico di altri superstiti della banda Monaco, emergono alcune ambiguità. Monaco, secondo alcuni pentiti, ha rapporti con Mazzei, che lo incarica di altri sequestri.
    Non solo: avrebbe colpito, parrebbe su commissione, la famiglia Spadafora, notoriamente filoborbonica

    Il rapimento del vescovo

    Il 31 agosto 1863, Pietro Monaco alza il tiro e, con un blitz spettacolare rapisce nove notabili ad Acri. Tra questi, Michele e Angelo Falcone, cioè il fratello e il papà dell’eroe di Sapri Giovan Battista e di Raffaele, maggiore della Guardia Nazionale.
    Ma il nome che spicca è un altro: Filippo Maria De Simone, il vescovo di Tropea, a domicilio coatto ad Acri perché antigovernativo. Ovvero, filoborbonico…
    Con vescovo sono rapiti due sacerdoti, i fratelli Francesco e Saverio Benvenuto. Ma, quel che è peggio, ci scappa il morto: Ferdinando Spezzano, eliminato subito dopo il sequestro. La misura è colma. Anche per i notabili che proteggono Monaco.

    Morte del boss

    Pietro muore la notte del 23 dicembre 1863, per mano del suo luogotenente Salvatore De Marco, alias Marchetta.
    Marchetta agisce con la complicità di Salvatore Celestino, detto Jurillu (fiorellino) e di Salvatore Marrazzo detto Diavolo. Quest’ultimo, c’è da dire, aveva tentato di avvelenare la banda due giorni prima…
    Il tradimento avviene in un essiccatoio per castagne di Jumicella, contrada di Serra Pedace, dove Monaco e Ciccilla si sono appisolati dopo il cenone. La dinamica è semplice e cruda: protetto dai compari, Marchetta spara al cuore del capo e colpisce anche Maria al polso.

    Il processo

    Le ambiguità del processo sono tantissime. Tra queste, la protezione del generale Giuseppe Sirtori e del giudice di Corte d’Appello Nicola Parisio.
    Attenzione ai dettagli. Sirtori, che guida la repressione del brigantaggio in Calabria, è stato un alto ufficiale garibaldino. In tale ruolo, ha guidato Pietro Monaco durante la battaglia del Volturno.
    Parisio, invece, è lo zio di Antonio, il sindaco rapito a Santo Stefano.

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    Il re Vittorio Emanuele II

    I due pezzi grossi chiedono la grazia per Ciccilla, condannata a morte dal Tribunale, e la ottengono dal re in persona. Quasi a voler completare un disegno tra notabili.

    La fine di Ciccilla

    Fin qui la storia della banda Monaco e di Ciccilla.
    Maria scampa il patibolo ma deve scontare l’ergastolo. Finisce in carcere a Torino, secondo alcuni nel forte di Fenestrelle, il presunto lager in cui i Savoia avrebbero internato (e, secondo alcuni, sterminato) molti soldati borbonici.
    In realtà, l’ipotesi di Fenestrelle come ultima dimora di Ciccilla non regge. Il forte, infatti, non era un carcere, ma un centro di raccolta per militari a cui far terminare la leva nel Regno d’Italia e sede di un corpo “disciplinare”, i Cacciatori Franchi, destinato ai militari più riottosi, anche piemontesi. Non un luogo adatto alla detenzione di donne.

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    Una scalinata nel forte di Fenestrelle

    Comunque sia, le tracce di Ciccilla si perdono dopo il processo. L’anno della morte presunta è il 1879.
    Maria porta nella tomba i tanti segreti e le ambiguità di due anni terribili, in cui da popolana è diventata, forse suo malgrado, protagonista.

  • Lello Valitutti: un superteste calabrese nel caso Pinelli

    Lello Valitutti: un superteste calabrese nel caso Pinelli

    Adriano Sofri nel suo La notte che Pinelli (Sellerio, Palermo 2009) rievoca gli anni bui della strage di Piazza Fontana.
    Il 12 dicembre del 1969 le bombe piazzate nella Banca dell’Agricoltura di Milano fecero 17 morti e 88 feriti. La Polizia seguì subito la pista degli anarchici. E i sospettati furono fermati e tradotti in Questura nel giro di poche ore.
    Tra questi c’erano Giuseppe Pinelli, Pietro Valpreda e Pasquale “Lello” Valitutti.

    Lello Valitutti, il supertestimone calabrese

    Quest’ultimo fu testimone di ciò che accadde nelle concitate ore della notte del 15 dicembre, quando il ferroviere Pinelli, dopo tre giorni di interrogatori stressanti, precipitò dalla finestra dall’ufficio – in cui si sostenne fosse presente il commissario Luigi Calabresi – e si schiantò dal quarto piano.
    Sulla dinamica di quel “volo” sono state condotte numerose inchieste da cui sono emerse altrettante “verità”.
    I poliziotti presenti parlano di suicidio. Al contrario, gli anarchici e tanta parte dell’opinione pubblica sostengono l’ipotesi dell’assassinio.
    A distanza di 53 anni, resta il mistero: tra i “testimoni” di allora, infatti, qualcuno ha abiurato e qualcun altro ha revisionato la propria storia.

    Una versione che non cambia

    Chi, invece, ripete la stessa versione dei fatti, è Lello Valitutti di origine calabrese, citato più volte nel libro di Sofri. Suo padre Francesco è stato per tantissimi anni leader storico della Democrazia cristiana a Paola. La madre, Anna Maria Del Trono, apparteneva a una famiglia bene di Cetraro.
    Lello racconta, il 18 marzo 2004, durante l’iniziativa Verità e giustizia promossa dal circolo anarchico milanese Ponte della Ghisolfa e dal Centro Sociale Leoncavallo, la sua verità su quella tragica notte.
    Lo fa con espressioni misurate ma suggestive: «Da questo corridoio passano, portando Pino, Calabresi e gli altri, e vanno nella stanza vicino. Chi dice che Calabresi non era in quella stanza sta mentendo, nel più spudorato dei modi. Calabresi è entrato in quella stanza, è entrato insieme agli altri, nessuno è più uscito».

    E ancora: «Ve l’assicuro, era notte fonda, c’era un silenzio incredibile, qualunque passo, qualunque rumore rimbombava, era impossibile sbagliarsi, lui era in quella stanza. Dopo circa un’ora che lui era in quella stanza, che c’era Pino in quella stanza, che non avevo sentito nulla, quindi saranno state le 11 e mezzo, grosso modo, in quella stanza succede qualcosa che io ho sempre descritto nel modo più oggettivo, più serio, scrupoloso, dei rumori, un trambusto, come una rissa, come se si rovesciassero dei mobili, delle sedie, delle voci concitate».

    La strage di Stato

    Questo racconto di Lello Valitutti è apparso per la prima volta nel celebre libro La strage di Stato, la controinchiesta che fece scalpore quando uscì nel 1970, perché puntava il dito sui neofascisti di allora.
    La storia, dopo l’assoluzione del ballerino anarchico Pietro Valpreda e i processi di Catanzaro, ha dato ragione a Eduardo Di Giovanni e Marco Ligini, gli autori dell’opuscolo, che nel frattempo si erano dovuti difendere dalle accuse di diffamazione.

     

    Lello Valitutti e Gerardo D’Ambrosio: botta e risposta

    Un’altra volta, e precisamente nel 2002, Valitutti fu chiamato in ballo in modo errato dal giudice Gerardo D’Ambrosio, all’epoca dei fatti titolare dell’inchiesta, che in un’intervista al settimanale del Corriere della Sera, Sette, dichiarò: «Poi, ottenni un’altra prova sull’innocenza di Calabresi». «Quale?», domanda il giornalista. «La testimonianza di uno degli anarchici fermati, Pasquale Valitutti: aveva visto Calabresi uscire dalla stanza prima che Pinelli cadesse».

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    Gerardo D’Ambrosio all’epoca delle indagini sulla morte di Pinelli

    Valitutti rispose all’istante. In una lettera scritta all’allora direttore diLiberazione, Sandro Curzi, pubblicata il 17 Maggio 2002 dichiarò: «Vedo, ancora una volta, distorta la verità. Io sono l’anarchico Pasquale Valitutti e ho sempre sostenuto il contrario. Lo ripeto a lei oggi: Calabresi era nella stanza al momento della caduta di Pinelli. Se tutto è ormai chiaro, come dicono, perché continuare a mentire in questo modo vergognoso sulla mia testimonianza? Io sono ormai stanco, malato e fuori da qualsiasi gioco. Ma alla verità non sono disposto a rinunciare».

    Le vecchie lotte

    Per comprendere ancora meglio il carattere di Valitutti, il suo rigore e l’inossidabile fede negli ideali anarchici, basta consultare il carteggio intercorso, durante la sua detenzione a Lucca, con Franca Rame e Dario Fo, che si battevano per la sua liberazione.
    Lello era accusato di appartenere ad un gruppo denominato Azione rivoluzionaria. «Compagni – scrive – adesso vogliono farmi pagare le vecchie lotte per Pinelli e Valpreda, le carceri che ho combattuto insieme a tanti di voi. Gli elementi che hanno contro di me sono: la conoscenza con uno dei colpevoli del tentativo di sequestro Neri a Livorno e alcuni miei spostamenti che ritengono sospetti».

    Lello Valitutti, Dario Fo e Franca Rame

    Anche in quelle circostanze, non rinunciò a un rapporto franco con i propri interlocutori, manifestando disappunto, perché a suo dire, la Rame, non si stava impegnando troppo per sostenere la causa dei detenuti politici come lui.
    Dario Fo gli rispose in una lettera del 27 gennaio 1978: «Ti rispondo a nome di Franca perché, come saprai è ricoverata in ospedale a causa dell’incidente che ha avuto a Genova. È stata investita da una macchina e ha subito la frattura del braccio sinistro. Sinceramente non capisco il termine delusione che usi nella lettera che indirizzi anche a Franca. Lo sai benissimo che non si è tirata mai indietro. Quindi nel tuo caso è solo perché è bloccata all’ospedale e sta proprio male se non ha potuto far niente. Hai ricevuto il vaglia che ti è stato spedito il 18? Faccelo sapere per favore».

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    Dario Fo sul palco nel suo Morte accidentale di un anarchico

    Parla la mamma

    Tra i documenti custoditi nell’archivio storico della coppia di attori, c’è anche un appello della madre di Valitutti, indirizzato «ai giornali, ai compagni, agli amici», che denuncia le gravi condizioni di detenzione del figlio in attesa di giudizio a Volterra. «Vive in una cella munita unicamente di letto e luogo di decenza – scrive Anna Maria Del Trono – senza un lavandino, senza una seggiola, senza alcun mezzo di informazione, continuamente ammanettato. È ovvio che tale stato di completo isolamento possa considerarsi un omicidio nei confronti di un giovane già così provato nella salute. Ritengo responsabili della sua salute coloro che permettono che mio figlio soffra ingiustamente un trattamento indegno non dico di un uomo, ma di una bestia».

    Malato in carcere

    Sempre nell’epistolario, Pasquale Valitutti, una volta chiariti i motivi del mancato impegno di Franca Rame e Dario Fo, descrive il peggioramento della sua salute: «Sono affetto da una grave depressione nervosa con gravi conseguenze fisiche, L’avv. Lo Giudice sta raccogliendo un’ampia documentazione medica e al più presto presenterà una domanda di libertà provvisoria».

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    Enzo Lo Giudice e Antonio Di Pietro negli anni di Tangentopoli

    Il Lo Giudice, citato nella lettera, è Enzo, avvocato con lo studio a Paola e dirigente allora di primo piano del Partito marxista-leninista d’Italia, che diventerà in seguito il legale di Bettino Craxi in molti processi di Tangentopoli.

    Solidarietà tra carcerati

    Ma Lello in cella non pensa solo sé. Si preoccupa anche degli altri compagni rinchiusi in tutte le carceri d’Italia che devono difendersi in Tribunale. Ed esorta tutti quelli che vogliono contribuire a «far avere dei soldi al mio avvocato. Vi prego di non mandare nulla a me: l’avvocato difende altri compagni ed è giusto che a lui vadano i soldi. Mandateli a tramite vaglia o assegno, specificando che siete miei amici».
    Il giornalista Toni Capuozzo, in collegamento dal Brasile, nel commentare le dichiarazioni del governo italiano circa la mancata estradizione di Cesare Battisti, elencava i nomi di una serie di latitanti italiani che abiterebbero ancora in Brasile, tra cui l’anarchico Pasquale Valitutti.

    Libero e combattente

    Capuozzo non sapeva che Lello Valitutti da molti anni vive libero a Roma e partecipa, nonostante le gravi condizioni di salute, insieme a Licia Rognini, la moglie di Pinelli, alle iniziative che si tengono in memoria del suo amico e compagno volato in cielo a testa in giù.

    Valitutti, malgrado sia costretto da diversi anni sulla sedia a rotelle, continua a partecipare a manifestazioni di piazza, anche alle più dure e pericolose. Una volta è stato immortalato con una bomboletta spray in mano mentre spruzzava vernice su una camionetta della Guardia di Finanza. Un’altra foto lo ritrae mentre fronteggia un plotone di celerini in assetto antisommossa, con il pugno chiuso nella sua continua lotta anarchica antisistema.

    Alessandro Pagliaro