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  • Il ras della Sila: “u nivureddu” di Longobucco che diventò principe d’Etiopia

    Il ras della Sila: “u nivureddu” di Longobucco che diventò principe d’Etiopia

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    Durante il fascismo la Calabria è nel destino di chi subisce il confino di polizia. Si stima che tra il 1926 e il 1943 i confinati in Italia siano 18.000 e di questi il 15% si ritrovi lì.
    La propaganda antifascista in quegli anni è tra i peggiori crimini da prevenire: bisogna domare ogni istinto ribelle. Non importa aver commesso un reato per finire al confino, basta un semplice sospetto di pericolosità. È una misura di prevenzione che si applica con un mero allontanamento, ma di fatto priva della propria autodeterminazione chi se la vede infliggere. Il regime preferisce luoghi dell’entroterra, isolati durante i mesi invernali, difficilmente raggiungibili, scarsamente politicizzati. Ed è così che a Longobucco, paesino di poche anime sulla Sila cosentina, si scrive un’inaspettata favola da Mille e una notte.
    Ma senza lieto fine.

    Abis… Sila

    L’Italia è appena uscita vittoriosa dalla campagna d’Africa, ma nella nuova colonia non mancano i malumori verso l’invasore. Un esempio? L’attentato a Rodolfo Graziani, figura di spicco del fascismo italiano, accusato di crimini di guerra e viceré d’Etiopia. Graziani rimane ferito nell’agguato, la dura repressione alla resistenza anticoloniale non si fa attendere e provoca migliaia di vittime.
    I fascisti decidono di allontanare figure della classe dirigente etiope per scongiurare il rischio che animino nuove insurrezioni contro il regime.
    E così una parte degli etiopi finisce al confino in Sila, a Longobucco. Sebbene l’isolamento del paese si presti ad aspre detenzioni, la permanenza si rivela migliore del previsto.

    I deportati etiopi al confino a Longobucco sono infatti personalità vicinissime a Hailé Selassié, l’imperatore che dopo l’occupazione fascista aveva scelto l’esilio volontario. Hanno un livello socioculturale elevato e intrattengono contatti epistolari con Mussolini e alti prelati nel tentativo di cambiare la propria sorte.
    È in effetti la Santa Sede a muoversi per garantire loro un soggiorno meno duro. A testimoniarlo, una lettera di monsignor Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, al nunzio apostolico monsignor Francesco Borgongini Duca. Montini evidenzia le difficoltà economiche del figlio dell’ex ministro di Etiopia e chiede una soluzione al problema.

    Al confino a Longobucco: «Purché non siano serviti da bianchi»

    Data l’attenzione che i confinati etiopi riscuotono, le autorità fasciste assumono nei loro confronti un atteggiamento moderato. I nuovi arrivati non tardano ad accorgersene e si uniscono ai longobucchesi per ottenere maggiori compensi dalle casse del regime.
    Gli italiani chiedono i pagamenti per i servizi offerti ai confinati e gli etiopi avanzano richieste per abiti, cibo e integrazioni degli assegni. Anche in virtù di questo scambio reciproco, le autorità trasgrediscono all’obbligo di non far incontrare i confinati con la popolazione locale.

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    Telegramma del prefetto Palma col permesso di uscita per i confinati. A sinistra, scritto a penna e sottolineato, si legge: «Il Duce consente purché non siano serviti da bianchi. Prego assicurarsi».

    Gli etiopi arrivano lassù con l’etichetta di irriducibili e pericolosi, ma l’interesse e la propensione a creare un clima cordiale per il quieto vivere rendono possibile l’incontro tra le due culture. Un certo peso pare averlo anche il fatto che, sebbene privati della libertà di lasciare Longobucco, siano prigionieri molto particolari rispetto ad altri al confino: vestono in doppio petto, nella villa che gli ha assegnato la Prefettura ci sono molti libri e si organizzano concerti. E poi, si racconta, ricevono un assegno di mille lire al mese, la somma che gran parte degli italiani dell’epoca sogna ascoltando l’omonima canzone alla radio.

    Se, da principio, c’è chi li guarda circospetto, presto gli etiopi al confino diventano parte della comunità di Longobucco. Notabili africani e contadini silani vanno d’amore e d’accordo, al palazzo e ri nivuri (dei neri, ndr) le donne del paese portano minestre e verdure, le sarte cuciono per loro degli abiti in occasione delle festività. Colori, lingue, profumi per sette anni si incrociano nei vicoli.

    È nato nu criaturo, è nato niro

    Di quella convivenza la traccia più nitida resta Michele Antonio Scigliano, figlio della relazione illegittima tra Giuseppina Blaconà, una contadina di Longobucco, e il ras Ubie Mangascià al confino in Sila. Lui ha bisogno di una brava cuoca; lei ha il marito Vincenzo Scigliano al fronte, proprio in Etiopia, e bisogno di un lavoro. S’incontrano, si piacciono. E il 19 febbraio del 1939 a Longobucco nasce un bambino. Con la pelle scura come suo padre, povero come sua madre.

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    1953, l’ambasciatore etiope (di spalle) a Roma torna in visita a Longobucco, dove era stato confinato

    Per il paese e il regime è uno scandalo. Il ras Mangascià viene trasferito da Longobucco a Bocchigliero e lì rimane fino al 1943, quando gli alleati riportano gli etiopi al confino nella loro terra. Tornato in Africa, Mangascià diventa ministro delle Poste e consigliere della Corona, sposa una principessa del luogo molto vicina all’Imperatore.
    Non dimentica però – e come lui altri confinati, che torneranno in Sila negli anni successivi – gli affetti lasciati sulle montagne calabresi, almeno non del tutto. Invia un po’ di denaro per contribuire alla crescita del figlio, chiede a Giuseppina di trasferirsi col bambino ad Addis Abeba, ma lei rifiuta.

    ‘U nivureddu, da boscaiolo a miliardario

    Michele Antonio, nel frattempo, cresce con la sola madre. Per tutti è u nivureddu. Conduce una vita di stenti, cerca di racimolare qualche quattrino con i lavori più umili, tra qualche gesto di inclusione e le chiacchiere di paese che lo dipingono come figlio del peccato.
    Appena maggiorenne si sposa con Filomena, povera come lui. Poi la sua vita cambia all’improvviso.

    Nel municipio di Longobucco arriva una lettera, è dell’ambasciata d’Etiopia. Informa i cittadini che si andava cercando il figlio del ras. Qui le versioni della storia arrivate fino ad oggi divergono: secondo alcuni nella missiva si parla della morte del principe e della concessione dell’eredità al figlio Michele Antonio Scigliano; secondo altri di riferimenti a eventuali lasciti non ci sarebbe ombra. Fatto sta che u nivureddu per tutti è diventato miliardario.

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    Deportate etiopi insieme a donne di Longobucco

    La notizia della chiamata di Michele Antonio in Etiopia elettrizza i longobucchesi che risfoderano la loro arma migliore: la solidarietà. Preparano (a loro spese) feste e banchetti, gli comprano vestiti nuovi. Nasce addirittura un comitato – ne fanno parte, tra gli altri, il sindaco Giacinto Muraca e il vicesindaco Antonio Celestino – per chiedere un mutuo in banca allo scopo di gestire le spese di viaggio.
    Il neo miliardario – secondo chi sostiene che il comunicato parli dell’eredità – va in giro promettendo, oltre alla restituzione dei soldi spesi in suo onore e per la sua partenza, anche gloria e splendore per Longobucco, il paese che aveva accolto il padre e cresciuto lui.

    Il principe non cerca moglie

    Giunto in Etiopia, però, l’unico pensiero è la sua nuova vita da principe. Di lui – tantomeno del denaro da restituire – in paese non si saprà più nulla. Qualcuno ancora oggi dice che lo abbiano ammazzato dei sicari assoldati da ulteriori eredi che non volevano dividere con lui il malloppo. Altri che la sorella di Ubie Mangascià abbia fatto cancellare dal testamento quel nipote mezzosangue.

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    Michele Antonio con sua moglie Filomena e loro figlia Giuseppina

    Filomena, intanto, per la vergogna è tornata da sua madre a Rossano portando con sé i due figli. Al Corriere della Sera, che va a intervistarla nel 1963, racconta di essere andata a trovarlo in Africa pochi mesi prima. Michele Antonio – riferisce al cronista – pare avere problemi col testamento che gli ha cambiato la vita, ma va in giro su macchinoni in dolce e numerosa compagnia. Promette anche a Filomena denaro che non invierà mai. Si mostra freddo, ma non troppo. «I fimmini tutti l’ommini ce l’hanno… però Antonio non si è scordato di me e l’ha dimostrato!», spiega al giornalista la donna accarezzando nel pancione il loro terzo bambino che dovrà presto sfamare in qualche modo. Il marito le ha chiesto di chiamarlo Mangascià.

    Longobucco e il confino

    Gli etiopi non sono i primi dissidenti a essere finiti al confino a Longobucco, né gli ultimi. Passano da lì in quegli anni i personaggi più disparati, da Lea Giaccaglia ad Amerigo Dumini. E il paese fa da cornice anche alla tragica morte di tre confinati, due uomini e una donna. Le autorità archiviano il caso in tutta fretta, derubricandolo a omicidio-suicidio frutto della gelosia. Si tratterebbe, al contrario, di un delitto politico legato al mondo del nazionalismo croato di estrema destra, all’epoca alleato dei nazifascisti.

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    Il “Palazzo e ri nivuri” oggi

    In Sila, però, il passaggio di queste genti ha lasciato ben poco di tangibile, solo racconti. Rimangono in filigrana nella storia di un paese, che per poco tempo, vide l’Africa a spasso nei suoi vicoli.
    I longobucchesi di quegli anni non ebbero la sensibilità intellettuale di comprendere la portata del fenomeno, non conservarono abiti, ricetti, oggetti o lettere. Ma, in tempi non sospetti, custodirono, per tramandarcelo, il bene più prezioso: l’umanità.

     

  • Nardello e gli USA, “l’Area 51” dell’Aspromonte

    Nardello e gli USA, “l’Area 51” dell’Aspromonte

    Dopo una prima parte di inverno in sordina, gelo e neve sembrano volersi fare strada e l’Aspromonte si colora di bianco a quote via via più basse. D’altronde il bianco da queste parti rimane colore dominante in ossequio ad una radice linguistica greca dove asper non vuole essere abbreviazione di asperrimo, quanto invece eloquente riferimento cromatico.
    Fu infatti proprio il bianco dei calanchi e quello delle nevi nell’immediato entroterra il colore che accolse i primi greci sulle nostre coste. E fu perciò proprio da quel primo sguardo, da quel colpo di fulmine, che prese origine l’appellativo che oggi in tanti erroneamente accostano alla natura impervia dei luoghi.

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    Il bianco dei calanchi di Palizzi accolse i marinai greci in Calabria

    È strana la neve, fenomeno meteorologico accompagnato sempre da una dicotomia: tormento per i pastori di alvariana memoria – assai meno per quelli 2.0 – e occasione di gioia per i bambini e di comprensibile sollievo per gli operatori turistici. Ma, se vogliamo, la neve ha anche un’altra sua valenza che in questa fase storica in cui il concetto di educazione al bello è spesso abusato, assume un valore pratico a cui si aggiunge un retrogusto poetico. È quasi come se la neve conservasse nella forma dei suoi cristalli, una cifra stilistica spesso sconosciuta all’uomo. Copre, uniforma, rende tutto uguale la neve, cancellando le storture prodotte dall’uomo.

    L’Aspromonte delle cattedrali nel deserto

    E di storture ne ha viste nel tempo questa montagna, violentata nello spirito e nella forma, nell’immagine e nei contenuti. Le ferite sono in superficie e ben visibili. Non si fatica, infatti, a trovare in un contesto di rara e ancora selvaggia bellezza elementi che parlano di degrado, di abbandono, di incuria. Cattedrali nel deserto che rimangono a perenne testimonianza di scelte scellerate, di miraggi mai realizzati, di improbabili intuizioni naufragate prima ancora di prendere il largo.

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    Uomini della Polizia nella Locride durante la stagione dei sequestri di persona (foto Gigi Romano)

    Dalla ghost town di Cardeto Sud, apoteosi di speculazione edilizia nata verso la metà degli anni Settanta, ai ruderi di Piani Moleti in territorio di Ciminà. Dall’ex base NAPS dei Piani di Stoccato in territorio di Oppido Mamertina poco più su della frazione di Piminoro (nata per ospitare i nuclei speciali antisequestri), alla struttura sportiva di Canolo nuova, sui pianori di Zomaro, concepita negli anni Ottanta con la velleità di ospitare la preparazione atletica di squadre di calcio professionistiche, mai entrata in funzione e divenuta nel tempo luogo di pascolo per mandrie più o meno sacre.
    È lungo l’elenco di incompiute, lunga la classifica di ecomostri rimasti a deturpare, a segnare in calce un’epoca che piaccia o meno, va accettata e riconosciuta. Sappiamo bene come utopia e poesia spesso debbano cedere il passo ad una realtà che quasi mai è come vorremmo.

    Monte Nardello, un luogo strategico

    Qualche mese fa, prima che l’inverno si decidesse a fare sul serio, ho rivisitato un luogo, che al pari di quelli prima indicati, testimonia di una incuria e un degrado che reclamano giustizia. Questa storia, fa riferimento ad un punto geografico preciso dove si cristallizza un’epoca, una fase storica a molti sconosciuta e assai particolare, durante la quale l’Aspromonte diventa crocevia di rotte internazionali. Il luogo di cui parliamo è monte Nardello. Siamo a circa 1.750 metri di quota in territorio del comune di Roccaforte del Greco. Risalendo il crinale di qualche centinaio di metri, siamo a ridosso del Montalto, da dove lo sguardo abbraccia idealmente lo Ionio e il Tirreno, facendo cogliere in tutta la sua maestosità la misura di una collocazione geografica strategica.

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    La zona in cui sorge la base

    Per capire cosa succede a Nardello, facciamo un passo indietro. È il 1965, sull’Aspromonte succede qualcosa che, fino a qualche anno prima, in una montagna ancora quasi completamente in bianco e nero sembrava impensabile: su quei monti arrivano gli americani.
    Il progetto, mai del tutto realizzato, si chiama Aspromont Horizon. È il nome dello studio che, fin dalla fine degli anni ’50, elaborano gli Stati Uniti, pensando proprio all’Aspromonte, ma anche alla Sicilia con le basi di Catania e Trapani, come crocevia strategico in tema di raccolta ed elaborazione di dati sensibili.

    Un’Area 51 in salsa calabrese

    Dall’altra parte del mondo siamo in piena guerra fredda ed in ballo c’è il controllo delle telecomunicazioni nell’area del Mediterraneo. In questo contesto geopolitico prende vita la storia di Nardello, divenuto nell’immaginario collettivo di quegli anni, luogo quasi mistico. Su di esso aleggiava una lunga serie di storie più o meno fantasiose che andavano dagli esperimenti con gli ufo, all’utilizzo di missili. Insomma, una sorta di Area 51 in salsa calabrese.
    La cosa più fantascientifica da quelle parti, però, pare avere poco a che fare con guerre e invasioni aliene. Nei giorni in cui la base apre alcuni spazi al pubblico sono tanti i ragazzi che dalla città e i paesi vicini si avventurano sul Monte Nardello per ascoltare la musica americana, altrimenti inaccessibile per loro, dal juke box insieme ai soldati.
    Dopo circa vent’anni di attività, si arriva al 1985, quando l’utilizzo sempre più massiccio dei satelliti determina ufficialmente la fine dell’operatività della struttura.

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    La base di Monte nardello in una immagine di qualche decennio fa

    Abbandonata sul finire degli anni ottanta, nel 1993 viene ufficialmente dismessa e trasferita al Ministero della Difesa italiano, cadendo in totale stato di abbandono. Nei decenni successivi si è assistito ad un saccheggio selvaggio di tutto ciò che poteva essere sottratto, in sfregio a qualsiasi riguardo, a conferma di come nel sentire comune, la res publica si trasformi spesso e facilmente in res nullius.
    Oggi i luoghi dell’ex base USAF, un’area di circa tre chilometri e mezzo di diametro, in un contesto lunare, disegnato da centinaia di alberi abbattuti dagli incendi degli ultimi anni, si presenta come una distesa desolata.

    Nardello, cosa resta dopo Aspromont Horizon

    A preoccupare, più degli alberi abbattuti, sono i residui di amianto che suggeriscono lo spauracchio del disastro ambientale. Da anni le associazioni ambientaliste segnalano il pericolo. Ma Nardello, nell’indifferenza generale, continua a rimanere là, silenzioso testimone di un sogno americano che ha ceduto il passo ad un neorealismo postmoderno calabrese.

  • RITRATTI DI SANGUE | Faide, affari e finti pentimenti: storia di Nicolino Grande Aracri

    RITRATTI DI SANGUE | Faide, affari e finti pentimenti: storia di Nicolino Grande Aracri

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    «In Emilia Romagna le mafie sono figlie adottive». Così, appena pochi giorni, fa, il procuratore generale di Bologna, Lucia Musti, definiva la presenza della criminalità organizzata in quella regione. Terra di affari l’Emilia Romagna. Ma anche terra di omicidi e di faide.

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    La statua di Peppone a Brescello (RE)

    Nicolino Grande Aracri: da Cutro all’Emilia Romagna

    Se oggi si può parlare di presenza della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, molte delle responsabilità sono in capo a Nicolino Grande Aracri. Il boss venuto da Cutro, in quei luoghi, avrebbe ricreato nell’economia, ma anche nella politica, le medesime dinamiche della casa madre. Lo chiamano “Il Professore” o “Mano di gomma”.

    Quando, nel gennaio 2015, i carabinieri lo arrestano, nel corso di una perquisizione domiciliare rinvengono anche una spada simbolo dei Cavalieri di Malta. È la maxi-inchiesta “Aemilia” a mostrare e dimostrare, in tutta la sua ampiezza, la capacità della ‘ndrangheta non solo di penetrare tutti i territori, ma anche di entrare in stanze apparentemente inaccessibili. Da Cutro, paese in provincia di Crotone, Grande Aracri infatti avrebbe costruito un impero in Emilia Romagna, ma si sarebbe mosso in ambienti impensabili, se non si considera la ‘ndrangheta come l’organizzazione criminale più potente d’Italia e tra le più potenti in Europa e al mondo.

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    Una guardia svizzera in Vaticano

    Le ingerenze di Grande Aracri, infatti, sono da registrare negli ambienti massonici, ma anche in Vaticano e fino alla Corte di Cassazione. Un’inchiesta mastodontica, quella che svela gli affari della ‘ndrangheta crotonese in Emilia Romagna, con cui gli inquirenti scoprono lucrose operazioni finanziarie e bancarie che alcuni soggetti avrebbero messo in atto per conto di Grande Aracri, ponendosi come intermediari tra questi e altri soggetti estranei all’associazione al fine di consentire l’avvicinamento a settori istituzionali anche per il tramite di ordini massonici e cavalierati.
    Ancora una volta la ‘ndrangheta si mostra per quella che è: non solo una banda armata, ma un’organizzazione che ha come proprio principale scopo quello di tessere relazioni sociali e istituzionali al fine di arricchirsi e condizionare i territori su cui opera.

    Grande Aracri e la massoneria

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    Nicolino Grande Aracri in un’immagine di qualche anno fa

    Come emerge dalle intercettazioni agli atti dell’inchiesta “Kyterion”, Nicolino Grande Aracri sarebbe stato molto ben inserito in ambienti massonici, ottenendo anche l’investitura a “Cavaliere”. È lo stesso boss originario di Cutro a confermarlo in una conversazione captata: «Io ho avuto la fortuna di capire certe cose…sia dei Templari…sia dei Cavalieri Crociati…di Malta…la Massoneria di Genova…».
    Sono gli stessi soggetti intercettati nell’inchiesta a dar peso al legame tra massoneria e criminalità organizzata: «E lì ci sono proprio sia ad alti livelli istituzionali e sia ad alti livelli di ‘ndrangheta pure».

    Il meccanismo è quello che nasce con la “Santa”. Grazie alla massoneria, alcuni soggetti, pur se non affiliati alla ‘ndrangheta, sono in grado di assicurare al sodalizio entrature nelle sedi istituzionali più disparate come quelle della Chiesa e della magistratura, per garantire – è scritto negli atti processuali – “pressioni e capacità di intervento circa le vicende processuali degli affiliati”.

    Le amicizie romane di Grande Aracri

    Grande Aracri avrebbe cercato di aggiustare un processo a Roma per far annullare la decisione del Tribunale del Riesame di Catanzaro che aveva confermato l’arresto del cognato. Quella sentenza fu effettivamente annullata con rinvio dalla Cassazione, ma gli inquirenti non riusciranno ad accertare il coinvolgimento di un magistrato.

    Sempre per aiutare il cognato, Nicolino Grande Aracri avrebbe speso (senza successo, tuttavia) anche le proprie amicizie in Vaticano. L’obiettivo è spostare il parente detenuto dal carcere di Sulmona a quello di Siano, a Catanzaro, in modo tale che fosse più vicino ai familiari: la provincia crotonese, infatti, non dista molti chilometri dal capoluogo di regione. Tramite un’amica giornalista, Grande Aracri prova a intervenire in Vaticano.

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    Il carcere di Siano

    La donna, infatti, è in stretto contatto con un monsignore, nunzio apostolico e, nel 1995, “cappellano di sua Santità”. Un prelato che sarebbe capace di smuovere cardinali e non solo. «Il nostro piccolo Giovanni tra una settimana starà vicino casa sua», dice la donna dopo l’incontro, avvenuto in Vaticano. Il monsignore manda anche i saluti alla moglie del detenuto: «Ha detto che è stata generosa e splendida. Gli ha lasciato 500 euro che lui ha preso volentieri per i suoi poveri».

    In Emilia Romagna si spara

    Non solo affari. Anche sangue. E a fiumi. Nonostante il negazionismo della classe dirigente, in Emilia Romagna la ‘ndrangheta è presente e influente almeno dagli anni ’80. Ma è negli anni ’90 che l’Emilia Romagna si trasforma, sostanzialmente, nella provincia di Crotone. Non solo per la presenza delle cosche che, secondo quanto riferito dai collaboratori di giustizia, sarebbe organizzata in cerchi, con un ruolo predominante da parte di Nicolino Sarcone. Ma anche perché, nei primi anni ’90, in Emilia Romagna si spara. Proprio come se ci si trovasse nell’entroterra calabrese.

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    Nicolino Sarcone

    È il 1992 quando vengono uccisi Nicola Vasapollo e Giuseppe “Pino” Ruggiero. Non a Cutro. Il primo (a settembre) a Pieve Modolena. Il secondo (a ottobre) a Brescello. Proprio sui luoghi di don Camillo e Peppone.
    E i mandanti sarebbero proprio due tra i boss più carismatici della ‘ndrangheta in Emilia Romagna: Nicolino Grande Aracri e Nicolino Sarcone, che delle cosche di Cutro sarebbe l’avamposto a Reggio Emilia.

    Per Grande Aracri la svolta arriva con la carcerazione di Antonio e Raffaele Dragone, i boss crotonesi a cui era inizialmente legato. La scissione con il clan Dragone comincia a maturare proprio in quegli anni fino a sfociare in una vera e propria faida che raggiunge il culmine quando, nel 1999, viene assassinato a Cutro Raffaele Dragone, figlio dell’anziano capobastone. Seguirà una lunga scia di sangue. Tra il 1999 e il 2004 in provincia di Reggio Emilia cadono uccise dodici persone.
    Eppure, dovranno passare diversi lustri, con l’inchiesta “Aemilia” prima, curata dal pm Beatrice Ronchi, e con l’inchiesta “Grimilde” poi, per poter parlare, con voci negazioniste più blande, di ‘ndrangheta in Emilia Romagna.

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    L’auto di Antonio Dragone dopo l’agguato mortale

    Il 19 luglio 2018 la Corte d’assise d’appello di Catanzaro ha condannato Nicolino Grande Aracri ed il fratello Ernesto, entrambi all’ergastolo. Sentenza divenuta definitiva nel giugno del 2019, per l’omicidio del vecchio capobastone di Cutro, Antonio Dragone, avvenuto nel 2004 nelle campagne del Crotonese, del quale Nicolino Grande Aracri era stato il braccio destro.

    Gli affari di Nicola Femia

    Nicolino Grande Aracri e Nicolino Sarcone sono forse i due boss maggiormente carismatici della ‘ndrangheta in Emilia Romagna. Ma non gli unici.
    Un nome importante è quello di Nicola Femia. Per anni fa girare diversi soldi in quei luoghi, poi lo arrestano e diventa collaboratore di giustizia.
    Femia, da ex uomo forte della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, decide di collaborare dopo essere stato pesantemente condannato in primo grado per i propri affari illeciti al nord, fatti soprattutto di gioco d’azzardo. L’impero delle slot machine, soprattutto.

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    Nicola Femia

    Femia ricorda gli anni calabresi e racconta del ruolo avuto da poliziotti, 007 e mediatori nella stagione dei sequestri che ha terrorizzato l’Italia. I protagonisti hanno tanti nomi. Molti, soprattutto se di rango istituzionale, occulti. Altri noti. Come quello del boss Vincenzo Mazzaferro, di cui Femia si definisce “uomo riservato”.
    Questo ruolo, gli avrebbe consentito di conoscere la trattativa che le Istituzioni avrebbero imbastito con la ‘ndrangheta, in particolare per la liberazione di Roberta Ghidini, sequestrata il 15 novembre 1991 a Centenaro di Lonato, in provincia di Brescia, e liberata in Calabria dopo 29 giorni.

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    Roberta Ghidini e sua madre si abbracciano in lacrime poco dopo la liberazione della ragazza

    Un sequestro per il quale è stato condannato il boss Vittorio Jerinò: quella liberazione sarebbe costata 500 milioni di lire, in una valigetta che avrebbe fatto il giro della Locride tra le mani proprio di Mazzaferro, appositamente fatto uscire dal carcere di Regina Coeli – in base all’oscuro “accordo” – per assolvere tale ruolo. Una delle stagioni più oscure della storia d’Italia, di cui, al momento, si conoscono solo pochi flash, come quelli, inquietanti, spiegati da Femia: «I Servizi ci mangiavano con i sequestri. Se arrivavano cinque miliardi, due miliardi se li prendevano i servizi».

    Il finto pentimento di Nicolino Grande Aracri

    Anche i protagonisti della ‘ndrangheta emiliana si muovono sempre in ambienti torbidi e occulti. E, stando a quanto sostenuto dagli inquirenti, utilizzano anche i metodi più subdoli della ‘ndrangheta d’élite. Nell’aprile 2021, infatti, è dirompente la notizia del pentimento di Grande Aracri. In tanti sperano che la ‘ndrangheta possa aver trovato il suo Tommaso Buscetta. Un boss di altissimo rango in grado di aprire le porte più inaccessibili sulla struttura della ‘ndrangheta unitaria, ma anche sui suoi riferimenti istituzionali.

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    Il procuratore Nicola Gratteri

    L’illusione durerà solo pochi mesi. La collaborazione di Grande Aracri viene gestita dalla Dda di Catanzaro, retta da Nicola Gratteri, che impiegherà pochi mesi per bollare come inattendibile la scelta e fantasiose le rivelazioni di Grande Aracri e a smascherare la manovra, rispedendolo al 41bis.
    Una manovra per incolpare qualche nemico storico, per sminuire i suoi crimini, ma, soprattutto, per salvare la famiglia. La moglie e la figlia, soprattutto. In una relazione depositata, i pm antimafia parleranno anche del “sospetto peraltro che l’intento collaborativo celasse un vero e proprio disegno criminoso”.

  • Elsa Morante e noi: inizia a Cosenza il suo romanzo più famoso

    Elsa Morante e noi: inizia a Cosenza il suo romanzo più famoso

    La Storia, il classico controverso di Elsa Morante, parte da Paola.
    Infatti, Nora Almagià, la madre di Ida Ramundo, la protagonista, si lascia annegare in un tratto di Tirreno compreso tra Paola e Fuscaldo.
    La Storia divenne all’epoca (1974) un avvenimento letterario e suscitò enorme scalpore: divise la critica, tra chi gridava al capolavoro e chi invece riteneva si trattasse soltanto di un lungo feulleiton.
    Comunque sia, il libro resta un long seller: non a caso, ne vengono riproposte tuttora nuove edizioni.

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    La scrittrice Elsa Morante

    Una storia calabrese di Elsa Morante

    La protagonista è Ida Ramundo, attraverso le cui vicende la Morante racconta un dramma collettivo tra Seconda Guerra mondiale fino alla liberazione e oltre.
    Attorno a Ida, una donna spaurita e perseguitata dal destino, e ai suoi due figli, Ninuzzu e il piccolo Useppe, si muove un microcosmo di piccoli personaggi, nel contesto di una storia più grande, piena di violenza devastatrice, di orrori e miserie.
    Le vicissitudini di Ida iniziano dalla Calabria. Così scrive Elsa Morante sulla famiglia della protagonista: «Il padre Giuseppe Ramundo era di famiglia contadina dell’estremo sud calabrese. E la madre di nome Nora, una padovana di famiglia piccolo-borghese bottegaia, era approdata a Cosenza, ragazza di trent’anni e sola in seguito ad un concorso magistrale».
    Nora è di origine ebraica, ma non vuole rivelarlo per paura delle conseguenze delle leggi razziali. Insieme al marito, anche lui maestro elementare, si stabilisce a Cosenza per motivi di lavoro.

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    Una edizione recente de “La Storia”

    Elsa Morante racconta un anarchico cosentino

    Proprio in questa città nel 1903 nasce Ida. Suo padre ha letto Fauré, Tolstoj Proudhon, Bakunin e Malatesta e questo fa star male Nora, che oltre a dover custodire il suo “segreto” si ritrova per casa un marito anarchico.
    «Aveva preso a frequentare un piccolo ambiente appartato – scrive di Giuseppe, la Morante – dove finalmente poteva dare sfogo ai suoi pensieri. Non ho potuto controllare l’ubicazione precisa di quella osteria. Però qualcuno in passato, m’accennava che per arrivarci bisognava prendere una tranvia suburbana, se non forse la cremagliera, su per il fianco della montagna».
    Sicuramente la scrittrice non conosceva per davvero quei luoghi, però da come li descrive, si comprende benissimo che deve essere rimasta affascinata dai racconti che dei suoi amici calabresi a Roma. Forse degli artisti, oppure politici.

    La follia di Nora

    Sta di fatto che la scrittrice sembra scusarsi per non essere più precisa nei dettagli.
    E comunque rende omaggio a Cosenza, e proseguendo nel libro, anche a Paola.
    Dopo la morte del marito, Nora è sopraffatta dalle sue paure ed esce di senno. Decide di recarsi in Palestina, dove secondo le sue congetture si ritroverebbero tutti gli ebrei del mondo per sfuggire agli orrori delle persecuzioni razziali.
    Prende il treno dalla stazione di Cosenza per Paola e, una volta lì, imbarcarsi su una nave per la Terra promessa.

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    Il treno che da Paola portava a Cosenza

    La tragica fine di Nora

    «Qualcuno ricorda di averla vista, nel suo vestituccio estivo di seta artificiale nera a disegni cilestrini, sull’ultima cremagliera serale diretta al lido di Paola. Forse, sarà andata girovagando per un pezzo lungo quella spiaggia senza porti. Difatti il punto preciso dove l’hanno ritrovata, è a vari chilometri di distanza dal lido di Paola, in direzione Fuscaldo. Era una bellissima notte illune, quieta e stellata». Così finisce la storia di Nora Almagià. Così da Paola inizia “La Storia”.

  • Calabria 1783, il grande Flagello

    Calabria 1783, il grande Flagello

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    È stato uno dei terremoti più disastrosi della storia d’Italia, nonché quello che più ha segnato la narrazione recente e l’identità stessa della Calabria, ultimo sud della Penisola. È praticamente impossibile, infatti, partecipare a una conferenza, un intervento pubblico sulla storia della Calabria – dal punto di vista culturale, religioso, artistico o architettonico che sia – e non giungere a un certo punto al terribile sisma che duecentoquaranta anni fa sconquassò e cambiò per sempre le sorti e il volto della regione. Parliamo del Terremoto della Calabria meridionale del 1783.

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    Le macerie dopo il terremoto del 1908

    Conosciuto pure come Terremoto di Reggio e Messina del 1783 – nome sempre meno utilizzato dopo il più noto e vicino sisma del 1908 che cancellò le due città affacciate sullo Stretto –, l’evento sismico fu tra i più prolungati della storia del Paese.

    “Un giudizio universale l’aspettava, ma brutale e cieco, poiché era per ravvolgere nel medesimo abisso indistintamente e chi era bianco d’innocenza e chi era nero di delitto.
    [“Storia d’Italia” di Carlo Botta, volume ottavo, da “Biblioteca scelta di Opere italiane antiche e moderne”, volume 464, Silvestri 1844]

    Anticipata secondo gli scritti dell’epoca da un autunno e inizio d’anno piovosissimi – presagio di sventura, e che già aveva provocato alluvioni e smottamenti in molti centri –, la prima catastrofica scossa si verificò poco dopo mezzogiorno del 5 febbraio 1783. Ma nell’arco dei successivi cinquanta giorni se ne registrano altre cinque violentissime, momenti campali di un orrendo tremolio che fino al tramonto di marzo accompagnò l’esistenza dei calabresi.

    Quelli di febbrajo esercitarono principalmente il loro furore sopra le città più vicine al Faro, l’ultimo su quelle che verso lo strangolamento d’Italia tra i golfi di Sant’Eufemia e di Squillace sono poste. [Ibidem]

    Calabria, 5 febbraio 1783: terremoto a Oppido

    Mercoledì 5 febbraio 1783. Il paese epicentro della prima devastante scossa fu Oppido, antichissimo abitato compreso fra la Piana di Gioia e l’Aspromonte. La montagna si spaccò sfracellando case, campagne, il castello e la cattedrale: un sussulto di magnitudo 7.1 (undicesimo grado della scala Mercalli) che rase totalmente al suolo la cittadina del Reggino, mietendo circa cinquemila anime.

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    Alexandre Dumas padre

    In visita – fortuita, ché fu costretto ad approdarvi a causa di una tempesta marina che gli aveva reso impossibile lo sbarco in Sicilia – in Calabria alla metà degli anni trenta dell’Ottocento, Alexandre Dumas padre scrisse di Oppido che «ebbe la sorte di tutte le belle donne: oggetto di desiderio nella loro giovinezza, di disgusto nella loro decrepitezza, d’orrore dopo la loro morte» [Viaggio in Calabria, Rubbettino 1996].

    Dopo quella di mezzodì del 5 febbraio che cancellò Oppido, le scosse proseguirono nelle ore immediatamente successive. Se ne registrarono 949 fino al 7 febbraio quando un nuovo rabbiosissimo sisma – magnitudo 6.7 – annichilì Soriano e il suo Convento di San Domenico, fra i più maestosi del Continente, già distrutto e poi ricostruito dopo il terremoto del 6 novembre 1659.

    Nove giorni dopo l’ecatombe

    Gli aiuti arrivarono dopo lunghi giorni d’attesa. Le notizie del tremuoto – come si diceva al tempo – raggiunsero Napoli, sotto la cui corona borbonica soggiaceva la Calabria, solamente a nove giorni dai primi eventi. A recapitarle fu l’equipaggio della fregata Santa Dorotea, partita dal porto di Messina il 10 febbraio. Le prime missioni di soccorso giunsero nella regione quando la stessa continuava a tremare.
    Come detto, di fatti, il sommovimento tellurico imperversò sulla Calabria – la parte Ulteriore, dall’Istmo di Marcellinara allo Stretto di Messina, interessando in maniera ferale anche la città siciliana – fino agli ultimi giorni di marzo, precisamente il 28. In quella data si verificò un ultimo orribile episodio sismico sulla trasversale fra Feroleto e Borgia, interessando i centri di Maida, Marcellinara, Girifalco e Cortale.

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    Un’illustrazione mostra il maremoto sullo Stretto del 1783

    I paesi demoliti dalla furia del terremoto furono tantissimi. A causa del cosiddetto Flagello, più di centottanta abitati andarono distrutti. Fra questi, oltre ai già citati, Palmi, Seminara, Santa Cristina, Castelmonardo (l’odierna Filadelfia), Mileto, Serra San Bruno, Polistena, Cinquefrondi, Casalnuovo e Terranuova (oggi, rispettivamente, Cittanova e Terranova Sappo Minulio), Stalettì, Bagnara e Scilla. Il susseguente maremoto colpì queste ultime e travolse fatalmente le genti che avevano trovato riparo sulla spiaggia.scilla-terremoto-calabria-1783

    Oltre a ciò e al numero elevatissimo di vittime – la stima dell’insigne storico e saggista Augusto Placanica, contenuta nel suo L’Iliade funesta (Casa del Libro Editoriale, Roma 1982), attesta oltre trentamila morti, pari al «10 per cento della popolazione dell’intera provincia» della Calabria Ultra dell’epoca. Altre stime si spingono fino alla cifra di cinquantamila vittime con alcuni paesi che videro perire sotto le macerie oltre sei abitanti su dieci.

    Il terremoto del 1783 cambiò volto alla Calabria

    Si verificò un mutamento radicale della morfologia della regione. Una sequenza sismica così lunga e devastante portò infatti alla rivoluzione dell’aspetto paesaggistico della Calabria che da quei giorni non sarà più lo stesso. Tra le frane, gli scivolamenti e la liquefazione delle terre – uno scenario, riportano le cronache del tempo, da fine del mondo – la sella di Marcellinara, punto centrale dell’omonimo Istmo, si abbassò, numerosi torrenti e fiumi – come l’importante Mesima – cambiarono il proprio corso, si rovesciarono intere colline e presto si notò un po’ dovunque la comparsa di ampie fenditure, profondi crateri colmi d’acqua e sabbia, acquitrini e laghetti. Interessati dal fenomeno del bradisismo – vale a dire l’innalzamento o abbassamento della terra, assai visibile lungo le coste – furono inoltre i centri di Reggio Calabria, Bagnara e Scilla.

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    Formazione di crateri di depositi sabbiosi nella Piana di Gioia Tauro (Atlante iconografico allegato alla “Istoria de’ Fenomeni del Tremoto avvenuto nelle Calabrie, e nel Valdemone nell’anno 1783 posta in luce dalla Reale Accademia delle Scienze, e delle Belle Lettere di Napoli”, Michele Sarconi, 1784)

    Il Terremoto del 1783 fu una ecatombe talmente colossale che non se ne trovarono eguali a memoria d’uomo, se non in epoche remote. Michele Torcia, membro dell’Accademia regia, nella sua relazione coeva dal titolo Tremuoto accaduto nella Calabria, e a Messina alli 5. Febbrajo 1783 paragonò la sciagura calabro-sicula al violentissimo sisma che nel 17 portò morte e distruzione in dodici città della provincia romana dell’Asia Minore, avvenimento riportatoci da Tacito e da Plinio il Vecchio.

    La riscoperta della “penisola della Penisola”

    Sancendo, dopo il devastante terremoto del 1638 e altri di minore entità a cavallo fra la fine del Seicento e i primi del Settecento, la posizione altamente sismica della Calabria, l’apocalisse del 1783 fu importante per riaccendere la luce sulla “penisola della Penisola”.
    Priva di vere strade che la collegassero al resto del Regno, luogo di transito caldamente sconsigliato ai viaggiatori del Grand Tour – che proprio in quella seconda metà del Settecento andava trasformandosi in una moda irrinunciabile per i giovani letterati e aristocratici della Vecchia Europa e che, sull’onda delle eccezionali scoperte di Ercolano (1709) e Pompei (1748), stava investendo anche il resto del Meridione –, “grazie” al Flagello la misterica e pericolosa finibus terrae di Calabria fu infatti “riscoperta”. Nel senso che si prese coscienza delle sue antiche problematiche, della sua fragilità ambientale, dell’arretratezza del suo disegno abitativo e del suo sistema economico e sociale.

    In Calabria il primo regolamento antisismico

    Così, oltre al ritorno della nobiltà calabra soggiornata a Napoli – più che altro preoccupata dei disordini scoppiati presso i propri feudi –, conversero in Calabria scienziati, medici, geologi e tecnici da tutto il mondo. Assieme a essi, dalla fine del Settecento e per tutto l’Ottocento, raggiunsero la regione anche scrittori, letterati, osservatori, membri dell’aristocrazia europea; uomini come Johann Wolfgang Goethe, Stendhal, Edward Lear, George Gissing che ne parlarono, ne scrissero, fecero da cassa di risonanza, avvicinando la Calabria al resto del Continente cui, pure inconsciamente, apparteneva.

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    Lo scrittore e viaggiatore George Gissing

    La mal conosciuta punta dello Stivale si trasformò in un cantiere di futuro. I nuovi paesi furono edificati secondo innovativi criteri urbanistici, cosicché in Calabria si assistette alla messa in atto del primo regolamento antisismico d’Europa che certamente contribuì a limitare i danni derivati dai continui terremoti che angustiarono la Calabria anche nell’Ottocento – ben otto quelli con magnitudo superiore a 5.5 registrati dal 1832 al 1894.

    Terremoto del 1783: la Calabria e la Cassa Sacra

    A coordinare le operazioni di risanamento della parte centromeridionale della regione fu il maresciallo Francesco Pignatelli, marchese di Laino, che Ferdinando IV di Borbone nominò Vicario generale delle Calabrie. Pignatelli si spostò in lungo e in largo per le aree più sconquassate, per i vari stati della Calabria Ulteriore, come il nobiluomo ebbe a titolare, nei resoconti spediti al sovrano, le molteplici zone visitate.

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    Nuova Pianta della città di Palmi (RC) proposta dai Borboni per la ricostruzione dopo il terremoto in Calabria del 1783

    C’è da dire che i soccorsi usufruirono anche della Giunta di Cassa Sacra, un organo straordinario che si occupò di trovare fondi per la ricostruzione anche attraverso la vendita di beni ecclesiastici, mobili e immobili, espropriati a chiese, conventi e monasteri. L’ufficio della Cassa Sacra – che, in aggiunta, non nascondeva l’ambizione di riscattare dal punto di vista economico e sociale la regione (un refrain intramontabile) – ebbe alterne fortune: oltre alla spoliazione del patrimonio culturale regionale, favorì infatti l’arricchimento dei possidenti e dei nobili, lasciando ai margini i ceti meno abbienti.

    E mentre l’Europa alimentava una nuova curiosità per la Calabria, i calabresi, stravolti dalle costanti calamità naturali e abbattuti dalla loro incerta e malagiata condizione, cominciarono man mano a perdere interesse verso la propria terra ferita e ostile, a staccarsi da essa e a dichiararsi vinti. Proprio nel momento in cui, forse… ma questa, come dicono quelli bravi, è un’altra storia.

  • Pietro Buffone e Argo 16: un tragico mistero dei nostri 007

    Pietro Buffone e Argo 16: un tragico mistero dei nostri 007

    «Ma è sicuro di quel che dice?», chiede Remo Smitti, pm della Procura di Venezia.
    «Sicurissimo dottore, sono ottant’anni che faccio la guerra al mio cognome», risponde il teste.
    L’interrogato è Pietro Buffone, vecchia gloria della Democrazia cristiana, non solo calabrese. È il 23 novembre 1999. Siamo sempre a Venezia, in Corte d’Assise, dove si svolge un dibattimento delicatissimo, su un mistero “minore”, ma non per questo meno tragico della storia repubblicana.
    Tra gli incriminati, c’è una figura eccellente: Zvika Zarzevsky, più conosciuto come Zvi Zamir, ex capo del Mossad. Sullo sfondo, un disastro areo: il caso Argo 16.

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    L’aereo Argo 16 sulla pista

    Argo 16: uno schianto a Marghera

    È l’alba del 24 novembre 1973. L’Argo 16, un bimotore Douglas C47-Dakota in dotazione al 306° gruppo del 31° stormo dell’Aeronautica Militare.
    L’aereo è decollato da poco dall’Aeroporto “Marco Polo” di Venezia per raggiungere la base Nato di Aviano. Ma poco sopra Porto Marghera, a Mestre, succede qualcosa.
    Il velivolo perde quota, urta un lampione e precipita verso le strutture della Montedison.
    Evita per un soffio gli enormi serbatoi di combustibile dello stabilimento petrolchimico e si schianta sull’ingresso del Centro elaborazione dati della Montedison: il muso dell’aereo sfonda l’atrio e devasta gli uffici. Un pezzo della fusoliera si stacca nell’impatto e finisce nel cortile, dove demolisce venti auto parcheggiate.

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    L’ex capo degli 007 israeliani Zvi Zamir

    Lo strano incidente di Argo 16

    In quest’incidente terribile perdono la vita i quattro membri dell’equipaggio: il colonnello Anano Borreo, capo-equipaggio, il tenente colonnello Mario Grande, secondo pilota, e i marescialli Aldo Schiavone e Francesco Bernardini rispettivamente motorista e marconista.
    Ma è davvero un incidente? Secondo l’Aeronautica Militare, che ordina un’inchiesta frettolosa, sì. Ma c’è chi nutre seri dubbi: il deputato missino Beppe Niccolai, che deposita un’interrogazione scritta al Ministero della difesa il 10 agosto 1974.
    Seconda domanda: cosa c’entra Pietro Buffone in questa vicenda?

    Pietro Buffone: il sottosegretario dei segreti

    In quel periodo terribile, Buffone è sottosegretario alla Difesa nel quarto governo di Mariano Rumor, che gli conferma l’incarico rivestito nel precedente governo Andreotti.
    Il deputato calabrese non è un sottosegretario qualsiasi, ma vanta un piccolo record: è il primo a gestire la delega ai Servizi segreti, fino ad allora riservata ai presidenti del Consiglio.
    Sull’argomento, Buffone è un esperto, visto che ha fatto parte della Commissione d’inchiesta sul Sifar, il Servizio militare, che in quegli anni si chiama Sid, e sa vita, morte e miracoli dei nostri 007. Soprattutto, ne conosce i peccati.

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    Pietro Buffone, ex sottosegretario alla Difesa

    L’antefatto: terroristi palestinesi in Italia

    Il 5 settembre 1973 emerge una strana notizia: i nostri Servizi segreti sventano un attentato contro un areo di linea della El Al, la compagnia di bandiera israeliana.
    Il bersaglio reale degli attentatori sarebbe Golda Meir, la premier israeliana in visita in Italia.
    Grazie a una soffiata del Mossad, gli agenti segreti ammanettano cinque arabi, legati a Settembre Nero, l’organizzazione terroristica palestinese interna all’Olp di Yasser Arafat. Due di loro hanno il passaporto algerino e, su pressione di Gheddafi, vengono messi in libertà provvisoria il 30 ottobre.
    Il giorno successivo vengono “esfiltrati” in Libia. Li trasporta l’Argo 16, che fa un breve scalo a Malta, prima di portarli a destinazione.
    Oltre ai due libici, a bordo ci sono quattro funzionari del Sid, tra cui il capitano Antonio Labruna e il colonnello Stefano Giovannone.

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    Il generale Gianadelio Maletti

    Intermezzo: rivalità nei Servizi

    Tra i peccati delle nostre barbe finte uno è particolarmente grave. Anzi mortale: la rivalità interna.
    Il capo del Sid, nella prima metà degli anni ’70, è il generale dei Bersaglieri Vito Miceli, che si distingue per uno spiccato filoarabismo e per la vicinanza a Gheddafi.
    Il numero due del Sid è il generale Gianadelio Maletti, capo dell’Ufficio D e acerrimo rivale di Miceli.
    Maletti è il collegamento tra gli israeliani e il Sid. Questa schizofrenia dei nostri servizi trova un equilibrio nel 1973, grazie a una spregiudicata operazione condotta da Aldo Moro.

    Il lodo Moro

    Stefano Giovannone, uomo di fiducia di Moro e capocentro del Sid a Beirut, è l’uomo chiave del lodo Moro, un accordo di diplomazia parallela (cioè fuori dai canali diplomatici ufficiali) e asimmetrica (cioè tra uno stato e organizzazioni non statali).
    Il contenuto dell’accordo è semplice ed efficace: l’Italia avrebbe tutelato gli uomini dell’Olp e questi si sarebbero astenuti dal fare attentati sul nostro territorio. Come, ad esempio, quello del 17 dicembre del 1973.

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    Aldo Moro

    L’attentato di Fiumicino

    Sono quasi le 13 del 17 dicembre 1973. Cinque palestinesi entrano nel terminal di Fiumicino e si mettono a sparare all’impazzata.
    Uccidono due uomini e raggiungono un Boeing 707 della Pan Am. Vi gettano dentro una bomba al fosforo e due granate. L’esplosione uccide trenta passeggeri, tra cui quattro italiani.
    Poi, gli attentatori salgono a bordo di un altro aereo: un Boeing 737 della Lufthansa diretto a Monaco. Prendono sei ostaggi e lo dirottano. Dopo un volo rocambolesco, l’aero atterra a Kuwait City, dove i cinque tornano in libertà.

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    L’attentato di Fiumicino

    Argo 16: il processo

    L’Argo 16 è un areo che scotta: non trasporta solo agenti segreti e presunti terroristi arabi. Ma si occupa soprattutto dei membri di Gladio, l’organizzazione Stay Behind italiana: li porta periodicamente a Poglina in Sardegna, dove c’è il loro centro d’addestramento.
    Anche per questo particolare utilizzo dell’Argo 16, l’“incidente” di Porto Marghera è al centro di dietrologie dure a morire. Soprattutto perché su questa vicenda non ci sono chiare verità giudiziarie.
    Il primo magistrato a occuparsene è il giudice istruttore Carlo Mastelloni, che mette sotto inchiesta Zvi Zamir, il suo braccio destro Asa Leven e 22 ufficiali della nostra Aeronautica.
    Il teorema di Mastelloni è inquietante: sono stati gli Israeliani.

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    Il magistrato Carlo Mastelloni

    Buffone il superteste

    Illuminante, al riguardo la testimonianza di Buffone, che conferma le dichiarazioni del generale della Guardia di Finanza Vittorio Emanuele Borsi.
    L’ex sottosegretario traccia un nesso inquietante tra il fallito attentato di Ostia, il disastro dell’Argo 16 e la strage di Fiumicino.
    Secondo quanto gli avrebbe confidato Maletti, il responsabile di questo intrigo sarebbe stato Miceli.
    Miceli avrebbe liberato i due libici, nonostante il contrario avviso di Maletti. E l’Argo 16 sarebbe stato sabotato dagli israeliani per ritorsione.
    Sempre Miceli avrebbe dato l’assenso all’attentato di Fiumicino, come risposta agli israeliani.

    Il processo finisce in niente

    Alla fine, il processo naufraga dietro la classica sequenza di insufficienze di prove, che per il codice di Procedura penale, entrato in vigore poco prima di Tangentopoli, equivale alla formula piena.
    Zamir e gli altri imputati la fanno franca, anche perché il segreto di Stato massacra l’istruttoria di Mastelloni. Tutto questo sebbene Maletti e Cossiga confermino, l’anno successivo le dichiarazioni di Buffone.

    Argo 16 e i documenti distrutti

    Il 29 gennaio scorso si è celebrato in sordina il decimo anniversario di Buffone, spentosi ultranovantenne nella sua Rogliano.
    Il caso Argo 16 è solo uno dei dossier su cui l’ex big ha messo le mani. Di molti altri non si sa nulla perché, una volta ritiratosi a vita privata, Buffone ha distrutto ogni documento.
    Nulla da nascondere a livello personale, ci mancherebbe. Solo il senso dello Stato di cui ha dato prova una persona in guerra perenne col proprio cognome.
    Una guerra vinta.

  • Raffaele De Luca, un calabrese nella tragedia dei Finzi Contini

    Raffaele De Luca, un calabrese nella tragedia dei Finzi Contini

    C’è un po’ di Calabria nelle grandi tragedie. Ad esempio, quella raccontata da Giorgio Bassani ne Il giardino dei Finzi Contini.
    Iniziamo dalla protagonista.
    Morta il primo marzo del 2009 a Milano a 90 anni, Matilde Bassani Finzi, cugina di Giorgio, ispirò Micol, il personaggio femminile del celebre romanzo.
    Questo secondo una tesi accreditata e mai smentita dalla Bassani.
    Secondo un’altra ipotesi, invece, l’ispiratrice di Micol sarebbe la contessa veneziana Teresa Foscolo Foscari.
    In ogni caso, nessuna delle due assomiglia a Dominique Sanda che ha impersonato l’eroina nel celebre film di Vittorio De Sica, il quale nel 1971 vinse l’Oscar come migliore pellicola straniera.

    La Micol del romanzo

    Secondo la critica Micol è una delle figure più tragiche ed enigmatiche della letteratura italiana contemporanea.
    L’amore di lei per lo studente universitario Giampaolo Malnate, amico di suo fratello Alberto, che muore giovanissimo, e l’affettuosa tenerezza per il compagno di infanzia Giorgio, figlio di un commerciante, sono il centro di una vicenda che termina tragicamente con la deportazione della famiglia Finzi Contini nei lager.

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    Vittorio De Sica

    Bassani, De Luca e i Finzi Contini

    Matilde Bassani, la “vera” Micol, è stata una figura romantica e importante della Resistenza, del socialismo e del movimento femminista.
    Veniamo alla calabresità della vicenda. Da partigiana, Matilde Bassani – possibile ispiratrice de Il Giardino dei Finzi Contini aderisce a Bandiera Rossa, gruppo combattente rivoluzionario fondato da Raffaele De Luca, avvocato calabrese vissuto a Paola per molti anni e personaggio di spicco dell’antifascismo romano. La vera storia non risulta meno affascinante di quella vissuta da Micol nel romanzo.

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    Il tesserino da giornalista di Matilde Bassani Finzi

    Le gesta di Matilde iniziano il 23 marzo 1943, mentre si reca in Vaticano per farvi accogliere due rifugiati polacchi. È subito fermata dalle SS, ma riesce a fuggire, sebbene le sparino a un ginocchio.
    Suo padre, professore di tedesco all’Istituto tecnico di Ferrara, viene licenziato nei primi anni ’20, perché anche lui antifascista. Lo zio Ludovico Limentani, fratello della madre Lavinia, fu uno dei firmatari del Manifesto degli intellettuali contro il regime.

    In azione a Firenze

    Matilde nell’agosto ’44 va a Firenze con un gruppo di compagni di Roma, mentre ancora infuriano i combattimenti, per portare armi ai partigiani della brigata Bruno Buozzi.
    Il gruppo giunge a destinazione grazie all’efficace lasciapassare della Central D Section del Psicological Werfare Branch.
    A conferma dell’esoso prezzo pagato dai Bassani, occorre ricordare il sacrificio di suo cugino, Eugenio Curiel, combattente nella Resistenza, ucciso dai fascisti nel ’45. Nonostante le dure condizioni della vita in clandestinità, Matilde conosce l’amore della sua vita, Ulisse Finzi, che sposa il 4 aprile 1945.

    Soldati della Wehrmacht a Roma

    Di ritorno a Roma

    Insieme a lui e ai fratelli Andreoni, Matilde fa parte del Comando superiore partigiano a Roma.
    Di lei scrive Concetto Marchesi, suo professore all’Università: «Il suo nome suonava allora come quello di una intrepida compagna che dava agli anziani l’esempio della fermezza, dell’intelligenza e dell’onore».
    Dopo la liberazione di Roma, il Comando collabora con gli Alleati, fornisce assistenza ai partigiani in cerca di vitto e alloggio, vestiti, denaro, cure mediche, e lavoro.
    Matilde porta notizie alle famiglie dei combattenti che ancora si trovavano nei territori occupati, e fa propaganda tramite volantini, manifesti e il giornale Il partigiano. Scrive anche articoli per Italia Combatte, un foglio che viene paracadutato dall’aviazione nei territori controllati dai tedeschi.

    Giorgio Bassani

    Il lungo dopoguerra di Matilde Bassani

    Socialista, di stampo riformista emiliano, Matilde mal sopporta il verticismo dei dirigenti del Pci, con cui ha a che fare che nel secondo dopoguerra quando milita nell’Unione donne italiane e si ritrova accanto alle minoranze comuniste, agli anarchici e ai socialdemocratici.
    Sempre nel dopoguerra, Matilde si impegna nelle lotte “femminili”: partecipa alla fondazione del Cemp (Centro per l’educazione matrimoniale e prematrimoniale) che ha tra i suoi obiettivi la diffusione della contraccezione, anche giovanile, e si attiva poi nei referendum per la difesa del divorzio e dell’aborto.

    Raffaele De Luca, avvocato anarchico e massone

    L’adesione a Bandiera rossa, rimane un fatto singolare da inquadrare nella sua educazione anarchica, libertaria e socialista, in sintonia col suo fondatore. Raffaele De Luca, al contrario di Matilde Bassani, nulla a che vedere con Il giardino dei Finzi Contini.

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    Raffaele De Luca

    A lui qualche anno fa lo storico e scrittore Alfonso Perrotta ha dedicato il libro L’umano divenire. Nato a San Benedetto Ullano nel 1874, il padre era bracciante e la madre filatrice, De Luca si laurea in Giurisprudenza a Napoli.
    Dapprima anarchico, in seguito si iscrive al Psi, candidandosi alle Politiche del 1921. De Luca è anche fondatore delle logge massoniche paolane “Germinal” e “Giuseppe Garibaldi”.

    Alle prese coi fascisti

    Organizzatore delle lotte dei contadini e dei ferrovieri, l’avvocato è aggredito in più occasioni dai fascisti.
    È sorvegliato speciale di Polizia e dalla scheda del suo casellario si apprende che ha rapporti con Pietro Mancini.
    Nel 1941 è costretto a trasferirsi a Roma. Lì fonda il gruppo comunista Scintilla e, nel 1943, il Movimento Comunista d’Italia. È direttore del giornale Bandiera Rossa.

    Vivo per miracolo

    Per la sua propaganda antifascista è arrestato in seguito a una delazione e finisce a Regina Coeli. Il Tribunale militare tedesco lo condanna a morte nel gennaio del 1944. Sollecitato a firmare la domanda di grazia oppone un netto rifiuto.
    Evita comunque la fucilazione per l’intercessione di alcuni antifascisti che operano nel carcere. Esce di prigione all’indomani della liberazione di Roma.

    Palmiro Togliatti

    Partigiani sconosciuti

    In Bandiera Rossa di De Luca militano 1183 partigiani. Di questi, 186 muoibono in azioni di lotta (il numero è tre volte superiore a quello del Pci), e alcuni di loro sono “giustiziati” alle Fosse Ardeatine. Altri 137 finiscono nei campi di concentramento.
    Il loro resta un tributo forte alla Resistenza, ma non così “ufficiale” da essere menzionato nella storia “organica” della Liberazione.
    Alla fine della guerra molti di questi militanti chiedono la tessera del Pci. Al riguardo, si registra una singolarità: una domanda di iscrizione “collettiva”, cosa inusuale per il rigido statuto del partito.
    A De Luca invece, resta un’amarezza: la sua domanda è accolta dalla Federazione romana del Pci, ma subito dopo è rigettata dalla Direzione nazionale e da Palmiro Togliatti in persona.

    L’amarezza finale

    Molto probabilmente, questo rifiuto si collega alla militanza massonica e al “frazionismo” dell’avvocato paolano: due cose incompatibili nell’organizzazione monolitica del Pci. Umiliato da questo diniego, Raffaele de Luca, molla la politica. Muore il 6 aprile 1949.

    Alessandro Pagliaro

  • Don Stilo: Jekyll, Hyde oppure…?

    Don Stilo: Jekyll, Hyde oppure…?

    «La mafia nasce con la questione meridionale che ne è presupposto inscindibile. Non esiste frattura tra vecchia mafia romantica dai nomi misteriosi e romanzeschi che ha solo qualche ambizione di protesta sociale, e nuova mafia delinquenziale aggiornata ai modi del profitto e della rendita dell’economia capitalistica. La mafia ha sempre avuto necessità di surrogarsi ai governi ed alla classe dirigente con responsabilità nella gestione del potere e c’è continuità tra passato e presente, connivenza non interrotta tra mafia e Stato, uomini del Parlamento e del governo, magistratura, polizia e carabinieri. In questi anni abbiamo parlato di ministri, di mammasantissima, di senatori, di picciotti, di onorevoli incappucciati, abbiamo fatto nomi e cognomi ma le nostre interrogazioni sono sempre rimaste senza risposta».

    I recenti fatti di cronaca segnati dalla cattura di Messina Denaro, con i relativi effetti collaterali, mi hanno sollecitato una rilettura di questo breve testo. È nella relazione presentata del deputato socialista Salvatore Frasca alla conferenza promossa dal Consiglio regionale della Calabria tra il 10 ed il 12 aprile del 1976. E mi suggerisce l’attualità di un tema mai fuori moda.
    Ripensare ad una serie di letture più o meno recenti mi ha fatto riaffiorare alla mente la figura di Costantino Belluscio, che conobbi ad Altomonte nel lontano 1997. Il ricordo di quell’incontro mi ha spinto a riprendere in mano alcuni testi che non leggevo da tempo analizzando un profilo su cui mi sono soffermato a lungo negli anni. Tento di capire quale fosse la verità, alla ricerca di un perché a tanta divisione di pensiero.

    Don Stilo: icona del male o parafulmine?

    Mi accorgo di come, ancora oggi, parlare di Don Giovanni Stilo significhi scoperchiare un vaso di Pandora che molti hanno preferito interrare, impegnati in un grottesco tentativo di ricostruzione della verginità perduta. Anche a distanza di tanti anni, la figura di Don Stilo rimane tra quelle più discusse in questa parte di Calabria dove Locride e Area grecanica si toccano in una contiguità territoriale che si sostanzia specie attraverso la via di una montagna che incarna stereotipi e contraddizioni.
    Il mondo di Don Stilo è un microcosmo dai contorni quasi mai netti, dove il mare guarda l’entroterra da vicino ma sempre con distacco. C’è un’aura ionica di fascino e mistero che avvolge questa terra brulla, arsa e scoscesa dove la roverella e la macchia mediterranea in un continuum indefinito cedono il passo alla ghiaia delle fiumare, alle scogliere, alle argille colorate ed alla sabbia finissima.

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    Corrado Stajano

    Tornando agli scritti di Belluscio e Stajano, noto, oggi più che in passato, come siano complementari nonostante l’uno sia contraltare dell’altro per filosofia di pensiero e chiavi di lettura. Complementari perché nella loro dicotomia trovi il senso di una terra controversa come poche.
    Il primo, Belluscio, mosso nel giudizio da un personale rapporto di amicizia e forse anche dalla convinzione che un solo uomo non possa essere portatore di tutte le storture della società, possa invece più facilmente essere parafulmine, agnello sacrificale più o meno consapevole.
    L’altro, Stajano sembra invece catalizzare l’attenzione sulla figura del sacerdote di Africo che diventa icona del male. Nel suo Africo (Einaudi, 1979) non si limita a parlare di un prete padrone che suggerisce la via del trasferimento dalla montagna al mare. Va ben oltre Stajano. Lo eleva ad anello di congiunzione tra ndrangheta, chiesa, malaffare, politica e pezzi deviati delle istituzioni.

    Tanta carne al fuoco

    Certo, è vero, è assai chiacchierato il prete di Africo. La sua figura è accostata per quasi mezzo secolo alla massoneria, alla politica, alla magistratura, ai servizi segreti deviati, alle pagine più scure di una Calabria – in generale, e di una Locride più in particolare – che proprio negli anni di Don Stilo cambiano pelle attrezzandosi in vista dei grandi business miliardari. L’abigeato fa spazio alla droga, alla speculazione edilizia ed ai sequestri di persona. Facile intuire come la carne al fuoco, quando si parla, di lui sia talmente tanta che ci sarebbe da discutere per giorni, senza peraltro riuscire mai a mettere tutti d’accordo. Ecco perché ritengo che la “questione Don Stilo” necessiti di una giusta riflessione.

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    Costantino Belluscio

    «Mai, dico mai, ho fatto parte del coro di aguzzini, più o meno ispirati, che hanno invaso la strada della libertà precludendone, anche solo con le parole, la disponibilità ai diretti interessati. Sempre, sottolineo sempre, ho creduto nella presunzione di innocenza, mai mi ha appassionato lo sport, purtroppo molto praticato, della colpevolezza decisa a tavolino e trasmessa a mezzo stampa».
    Questo breve frammento è tratto dal lavoro di Belluscio Il Vangelo secondo Don Stilo(Klipper, 2009). Belluscio, giornalista con una lunga esperienza da parlamentare dal ‘72 all’87, si è spento nella sua casa romana l’11 febbraio del 2010, neanche due mesi dopo la pubblicazione del lavoro su Don Stilo, quello cui teneva tanto.

    Don Stilo e il trasferimento dall’Aspromonte al mare

    Anche di Belluscio si sussurrò tanto. Si disse ad esempio della sua appartenenza alla P2, quasi a suggerire un legame occulto che avrebbe mosso la strenua difesa del prete.
    Ma rileggere le poche righe che ho riproposto tra virgolette è stato come riaccendere la luce su una storia lunga e travagliata, una di quelle a tinte fosche tipiche di un Paese dove le linee di confine sono assai sfumate e spesso facilmente confondibili. Storie tutte italiane cui la Calabria non si sottrae affatto, mettendoci anzi un marchio di fabbrica quasi a volerle rendere originali e riconoscibili nel bailamme del bel Paese.

    Il Vangelo secondo Don Stilo è un titolo che Belluscio aveva voluto fortemente per il suo valore simbolico, per ricordare la figura del sacerdote di Africo protagonista del trasferimento di quella comunità dall’Aspromonte al mare nel 1951. Il volume, giunto a trent’anni esatti da quello di Stajano, suona quasi come un estremo tentativo di ristabilire un giusto equilibro in un frangente storico dove le analogie si sprecano.

    Un copione che si ripete, ma da rileggere

    Rivisitando in chiave attuale l’essenza dell’uomo e del prete Giovanni Stilo – non solo attraverso le letture, ma anche e soprattutto attraverso i racconti di chi lo ha conosciuto con sentimenti opposti – ad essere sincero non trovo differenze in un copione che si ripete puntuale ogni qualvolta si parla di personaggi che nel bene e nel male hanno segnato un’epoca.
    Sulla sua figura si è detto di tutto, quasi come se sotto il crocefisso avessero trovato spazio anche tante altre cose, dai grembiuli della massoneria, alle pistole della ‘ndrangheta, dai servizi deviati alle agende della politica nazionale. Insomma, più che un prete, un catalizzatore di interessi oscuri, un deus ex machina di disegni complessi, capace di intrattenere rapporti tanto con i vertici di Cosa Nostra, quanto con i salotti buoni della politica romana.

    Africo vecchia ai tempi dell’alluvione

    Oggi di Don Stilo, di Belluscio, di Stajano non si parla quasi più. Gli anni sembrano avere cancellato con le persone anche i ricordi. Ma certe figure meriterebbero invece un’opera di rivisitazione critica ed asettica da estendere ai ragazzi delle scuole della Locride e più in generale della regione, anche e soprattutto perché l’analisi attenta di uomini e fatti restituisce in modo plastico i contorni dello scenario storico sullo sfondo.
    Il tempo che passa ha il pregio di offrire un’occasione di analisi più distaccata ed imparziale sul passato. E spiega di conseguenza anche molto del presente di questa terra, mutata nei volti e in larga parte anche nello spirito della sua gente, rimasta per contro quasi identica nel fascino del suo paesaggio.

  • Fenestrelle, i calabresi nelle prigioni dei Savoia

    Fenestrelle, i calabresi nelle prigioni dei Savoia

    È un episodio minore della grande Storia, di cui i calabresi non sono stati protagonisti. Eppure vari calabresi lo hanno vissuto in prima persona.
    Ci si riferisce alla storia dei reduci dell’Esercito del Regno delle Due Sicilie all’indomani della Seconda Guerra d’Indipendenza.
    Sbandati, prigionieri di guerra, riarruolati dal Regno d’Italia o disertori datisi alla macchia.
    Alle loro spalle troneggia, massiccia e a tratti sinistra, l’ombra di Fenestrelle, il forte che domina la Val Chisone, un angolo suggestivo del Piemonte ai confini con la Francia.
    Molti vi finirono prigionieri, altri vi arrivarono per completarvi la leva, alcuni vi finirono “in punizione” e qualcun altro (pochi per fortuna) vi morì.

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    Soldati borbonici del Sedicesimo battaglione cacciatori

    Due morti di Cosenza

    Prima di entrare nel dettaglio, è importante raccontare la storia di due prigionieri cosentini. Sono il contadino Domenico Visconti, nato nel 1837 a Belvedere Marittimo, e il tessitore Antonio Veltri, nato a San Pietro in Amantea nel 1835. Le loro storie sono tragicamente simili.
    Visconti (che nei ruoli matricolari è iscritto come “Viscondi”, probabilmente per un errore di pronuncia), arriva a Fenestrelle il 3 febbraio 1862 e vi muore di tifo il 16 aprile successivo.
    Veltri, invece, arriva a Fenestrelle l’8 luglio 1862 e vi muore il 7 novembre successivo di febbre reumatica.

    Ladri e disertori

    Ma come mai i due cosentini finiscono a Fenestrelle? “Viscondi” entra nell’Esercito borbonico nel 1858 come soldato di leva ed è arruolato in un battaglione di Cacciatori. Diventa quindi prigioniero di guerra a Caserta l’otto settembre 1860. Torna a casa, ma si riarruola a Napoli il 7 giugno del 1861 ed entra nei Bersaglieri. Il 17 settembre successivo lo arrestano per furto: sconta quattro mesi di carcere e poi lo mandano a Fenestrelle.

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    Una commemorazione neborbonica in divise d’epoca

    Veltri, invece, viene sorteggiato alla leva borbonica nel 1859 e finisce nel Secondo reggimento di linea. Alle fine delle ostilità tra Regno di Sardegna e Due Sicilie si riarruola nel Quarantatreesimo di fanteria il 5 giugno 1861. Tenta la diserzione e… finisce a Fenestrelle.

    Sbandati, prigionieri e disertori

    Un po’ di chiarezza è doverosa. Iniziamo dalla cosa più banale: gli obblighi di leva.
    Il Regno delle Due Sicilie aveva una leva militare in parte più leggera rispetto a quello dei Savoia: non venivano arruolati tutti gli appartenenti a uno scaglione, ma si procedeva con sorteggio.
    Per il resto era più pesante: chi ci incappava, doveva prestare servizio per quattro anni, contro i due e mezzo-tre dei “savoiardi”. Ma la scappatoia c’era: pagare una tassa oppure trovare un sostituto.
    Ancora: secondo il Diritto internazionale bellico, se uno Stato ne assorbiva un altro, ne ereditava anche gli obblighi. Quindi, il Regno di Sardegna doveva far finire la leva ai soldati borbonici. Questo spiega le vicende di Visconti e Veltri.

    Due parole su Fenestrelle

    E Fenestrelle, in tutto questo? Si può subito chiarire una cosa: non era un campo di concentramento. Nato come fortezza di confine, il forte fu adibito a carcere per un breve periodo subito dopo la Restaurazione. Poi divenne sede dei Cacciatori Franchi, un corpo “punitivo” (cioè caratterizzato dalla disciplina durissima) e, subito dopo la Seconda Guerra d’Indipendenza, fu usato come “deposito” per prigionieri di guerra in attesa di essere riassegnati o rispediti a casa.
    Il Forte, c’è da dire, non era un ambiente salubre: i suoi 1.600 e rotti metri di altezza lo rendevano proibitivo per molti meridionali. Ma nessuno vi fu torturato o passato per le armi.
    Per ricapitolare: si finiva a Fenestrelle come prigionieri di guerra, fino alla proclamazione del Regno d’Italia. Oppure, subito dopo, perché riottosi alla disciplina dell’Esercito e quindi da “correggere”.

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    Una manifestazione in costume nel forte di Fenestrelle (foto di Roberto Cagnina)

    Conforti, il folle di Catanzaro

    La storia più singolare è quella di Giuseppe Conforti, nato a Paterniti, nel Catanzarese, il 1830.
    Conforti, autore di un memoriale simpaticissimo, è un personaggio esuberante. Si dichiara, infatti, di famiglia nobile ma decaduta e perciò costretto a fare il falegname. Nel 1856 il Nostro incappa nel sorteggio e parte soldato. E passa subito i primi guai.
    Parrebbe che la moglie, giovane e bella, di un suo superiore «inservibbile a cortivare la sua…» lo corteggi spudoratamente. Così finisce in gattabuia.
    Lo liberano, ma solo per partecipare alla sfortunata campagna militare del 1860. Ripara col suo reparto nello Stato Pontificio, quindi torna a casa. E lì ricominciano i suoi guai.

    Le disavventure di un reduce

    La Guardia Nazionale di Cosenza, su indicazione del prefetto, inizia le sue retate tra i reduci sbandati. Conforti viene preso prima di arrivare a Catanzaro ed è spedito a Milano.
    Detenuto nel Castello Sforzesco, sulle prime dichiara fedeltà a Francesco II di Borbone, poi cambia idea e si riarruola a modo suo: dà un nome falso e scappa.
    Torna in Calabria e si rimette a fare il falegname, ma «quelli giudei» della Guardia Nazionale lo ribeccano e lo rispediscono al Nord. Non a Fenestrelle, ma a Genova.
    Lì accetta il riarruolamento, parrebbe per davvero, ma prima tenta un ricorso. In attesa del risultato entra nel reparto del Genio nel 1862.

    Francesco II di Borbone, l’ultimo re delle Due Sicile

    Ma la vita militare non fa per lui: dopo un anno di punizioni disciplinari, diserta e si rifugia presso la Corte borbonica in esilio a Roma. Francesco II lo riarruola tra i briganti, non in Calabria ma a Benevento. Le tracce di Giuseppe Conforti si perdono qui. E la durezza delle repressioni nel Beneventano non fa sperare bene per lui.

    Undici fuggiaschi

    Cosa succede a chi si riarruola? Quel che capita sempre: i più si si adeguano, qualcuno no. E magari diserta. Al riguardo, finiscono sotto processo a Milano cinque soldati cosentini, originari di Luzzi e Rose. I cinque marmittoni, scappano il 25 maggio 1861 dal Ventinovesimo e dal Trentesimo fanteria di Savigliano nel Cuneense, a causa dell’eccessivo rigore della disciplina.
    Discorso simile per altri sei calabresi che il 6 luglio successivo disertano dal Quarantaduesimo fanteria di Racconigi, sempre nel Cuneense.

    Conforti il camorrista

    Nel 1861 la parola mafia non è ancora entrata nel linguaggio pubblico.
    Al suo posto si parla di “camorra”, come sinonimo di “criminalità organizzata”. E certi episodi si verificano anche a Fenestrelle, a partire dalle estorsioni.
    Al riguardo, finisce sotto processo Giovanni Coppola, un soldato originario di Rossano finito tra i Cacciatori Franchi di Fenestrelle. L’accusa è di aver tentato, il 26 luglio 1862, di ottenere un “pizzo” da un commilitone, che aveva vinto al gioco.
    Coppola, classe 1829, è un veterano dell’Esercito borbonico: ha finito la leva nel 1857 ed è richiamato subito dopo. Le nuove autorità non si fidano di lui. Infatti, lo spediscono a Fenestrelle come “disarmato”, cioè furiere. Un ruolo che si dava agli indesiderabili. Per lui il forte non basta e finisce in galera a Torino.

    La piazza d’armi del forte di Fenestrelle

    Un’altra estorsione

    Un altro episodio grave si verifica nel Forte di Exilles, sempre nel Torinese e sempre sede dei Cacciatori Franchi.
    I protagonisti sono tre meridionali, tutti pregiudicati, finiti nei Cacciatori per i soliti motivi “disciplinari”. Tra loro spicca un altro Conforti, Ferdinando, che ha una storia triste alle spalle.
    Orfano di Reggio Calabria, il Nostro è prigioniero di guerra a Capua. Ed è la sua prigionia più lieve, perché finisce in manette più volte per furto, ingiuria e minacce.
    Il 23 aprile 1862 viene spedito ad Exilles.
    Il 9 giugno successivo, assieme ai suoi due compari (un avellinese e un napoletano) chiede il pizzo a tre commilitoni piemontesi. Le vittime si rifiutano e vengono aggredite a colpi di baionetta. Anche per questo Conforti il carcere è una meta obbligata.

    Il dramma degli sconfitti

    I dati su questi ex soldati duosiciliani provengono da due testi documentatissimi: I Prigionieri dei Savoia di Alessandro Barbero (Laterza, Bari 2014) e Le Catene dei Savoia di Juri Bossuto e Luca Costanzo (Il Punto, Torino 2012).

    Lo storico Alessandro Barbero

    I tre autori hanno compulsato una mole impressionante di documenti d’archivio per raccontare le vicende di tanti soldati, soprattutto di quelli degli Stati preunitari sconfitti, subito dopo il Risorgimento.
    Queste ricerche rivelano uno spaccato sociale e umano impressionante e interessante allo stesso tempo. È il dramma dei reduci sospesi tra due mondi: quello che hanno perso e quello che non sentono ancora loro. Ciò vale anche per i calabresi.

  • Ferramonti, la storia dei libri in internamento

    Ferramonti, la storia dei libri in internamento

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    Un campo di internamento può diventare, oltre a un luogo dell’abominio, anche un casuale crocevia di cultura. Quello di Ferramonti di Tarsia è stato, almeno in parte, anche un luogo di questo tipo.
    C’è un filo che insospettatamente lega la Calabria a Theodor Mommsen e persino alla storia dell’editoria anastatica e del collezionismo.
    Già noto per esser stato un campo sui generis, ricordato soprattutto per la provvidenziale forma di solidarietà che si venne a creare tra i prigionieri, i civili e le autorità locali, Ferramonti fu occasione di prigionia condivisa per almeno quattro particolarissime personalità della cultura, note e meno note. Quattro uomini che la storia ha condotto dapprima nel lager, poi a riemergere in maniera singolare: Ernst Bernhard, Gustav Brenner, Michel Fingesten e Werner Prager. Vi si aggiunge la figura di Israel Kalk, il quale pure varcò le soglie del campo, benché non da prigioniero.

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    Internati a Ferramonti

    E c’è intanto una piccola storia conosciuta a pochi, più che altro nel giro dei bibliofili più consumati: Oliviero Diliberto, che appartiene a questo novero, l’ha scoperchiata, ricostruita e divulgata con passione nel suo La biblioteca stregata (Roma, 2003). È, appunto, la storia tormentata della biblioteca privata di Theodor Mommsen, un corpus librario scampato parzialmente a due incendi, poi a divisioni ereditarie, ancora parzialmente a donazioni, a dismissioni da parte di biblioteche pubbliche (scarsamente accorte di fronte alla presenza degli ex libris mommseniani su alcuni doppioni), a trasferimenti transoceanici e, infine, alla vendita incontrollata sulle bancarelle. Uno degli ultimi luoghi di passaggio di alcuni volumi provenienti dalla biblioteca Mommsen fu una libreria antiquaria romana, dalla quale questi riemersero dopo le interminabili peripezie: la libreria Prager.

    Werner Prager, da Amsterdam a Ferramonti

    prager-ferramontiWerner Prager, protagonista – forse inconsapevole – di questa storia libresca, nacque nel 1888 a Berlino, dal libraio Robert Ludwig (1844-1914) la cui bottega aprì nel 1872. Assieme alla moglie Gertrud, continuò a gestire la società R. L. Prager e, pensando poi di scampare ai provvedimenti antisemiti, trasferì ingenuamente l’attività da Amsterdam a Roma nel 1937, ovvero solo un anno prima della promulgazione delle leggi razziali che intanto gli impedirono il commercio librario, e in secondo luogo lo costrinsero alla prigionia a Ferramonti.

    Dopo la liberazione, Prager riaprì la sua libreria, che chiuse poi i battenti nell’anno della sua morte, 1966. Possiamo immaginare conversazioni dotte, a rinfrancare parzialmente la prigionia, tra Prager e i prossimi personaggi che ci vengono incontro. Perché intanto c’è un altro libraio eccellente nella storia di Ferramonti, un uomo che come Prager ha fatto riemergere libri dall’oblio: Gustav Brenner.

    Gustavo Brenner, da Ferramonti alla Casa del libro

    Brenner, ebreo austriaco, è forse una delle figure più dimenticate della storia dell’editoria italiana. E, al tempo stesso, una delle poche davvero ascrivibili a un’intellettualità autentica, almeno nel panorama culturale della Calabria che lo accolse. La sua storia si lega prima al commercio librario, poi all’esperienza dell’internamento, e poi all’editoria tout court. Gustav Brenner nacque a Vienna nel 1915 da Joseph, libraio in Praterstrasse, e intraprese il mestiere paterno fin quando non lo arrestarono per condurlo dapprima a Buchenwald e poi a Dachau.

    Fuggito, maturò in lui l’idea di rifugiarsi a Trieste e poi a Milano. Proprio qui, mentre lavorava presso una casa editrice, lo arrestarono e deportarono nel campo di Tarsia. Lasciò il campo il 31 ottobre 1942: sposatosi nel 1947, aprì a Cosenza la “Casa del libro” in piazza Crispi, ovvero una libreria e casa editrice il cui catalogo offriva già dall’inizio una scelta incentrata sulla storia del Mezzogiorno nonché sull’esoterismo, molto spesso d’impronta massonica (Gustav era affiliato al Grande Oriente d’Italia).

    Le ristampe anastatiche

    Fu allora che si fece strada anche la sua prima idea di “biblioteca circolante”, in qualche modo antesignana del bookcrossing oggi in voga. A Brenner si dovrebbe riconoscere, tra l’altro, un primato che di solito si attribuisce ad altri, ovvero quello di aver introdotto in maniera sistematica, in Italia, la ristampa anastatica (riedizione, conforme agli originali, di opere difficilmente reperibili). Prima di lui, in maniera sporadica, a mettere in commercio delle ristampe anastatiche era stata certamente la Görlich di Milano, mentre all’estero era stata già messa in atto dal celebre antiquario Kraus, cresciuto nella stessa Praterstrasse (proprio al civico 16 in cui visse Arthur Schnitzler).

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    Gustavo Brenner sull’ingresso della sua prima libreria a Cosenza

    Ma la paternità dell’introduzione sistematica della ristampa anastatica in Italia viene di solito erroneamente attribuita ad Arnaldo Forni: in realtà le primissime pubblicazioni di Forni vedono, sì, la luce nel 1959 ma le sue prime ristampe anastatiche nascono soltanto nel 1966. A voler esser magnanimi, un primo isolato tentativo di anastatica fu messo in atto da Forni nel 1961, mentre Brenner aveva pubblicato già nel 1958 l’anastatica in tre volumi della Storia dei Cosentini di Davide Andreotti (l’edizione, sotto l’insegna della Casa del libro in Cosenza, riporta l’acerba dicitura “ristampa elettro meccanica dell’edizione di Napoli, S. Marchese, 1869”).

    Una sfida impari

    Detto ciò, resta inconfutabile che Brenner sia stato il primo in Italia e tra i primi in Europa a riprodurre rare opere che, soprattutto tra il Sei e il Settecento, gli autori meridionali avevano fatto stampare presso tipografie perlopiù estere. Certo, l’indirizzo prettamente meridionalistico ed esoterico delle edizioni Brenner non poté competere col respiro più ampio del catalogo Forni e con la più acuta capacità commerciale del bolognese il quale, se pur non aveva nemmeno lontanamente la levatura culturale di un Brenner, poteva dal canto suo avvalersi, nella città universitaria, della collaborazione di un intellettuale di notevolissimo spessore quale Albano Sorbelli, figura con la quale nessuno, in Cosenza, avrebbe potuto misurarsi.

    Il Picasso degli ex libris

    E Michel Fingesten (già Finkelstein) cosa c’entra con i libri, vi starete chiedendo? Presto detto: è stato, tra l’altro, il più grande ideatore e incisore di ex libris del Novecento. Anzi, qualcuno disse che Fingesten sta all’ex libris come Picasso sta alla pittura. Nato nel 1884 a Butzkowitz, studiò all’Accademia di Vienna, laddove ebbe come compagno di studi nientemeno Oskar Kokoschka. Membro della corrente della “Nuova Secessione”, testimoniò nelle sue acqueforti le atrocità della Grande Guerra.

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    Michel Fingesten dipinge a Ferramonti

    Internato nel 1940, continuò a creare opere d’arte persino a Ferramonti, come quel Martirio di San Bartolomeo commissionatogli dall’allora parroco di Bisignano. Ma è l’ex libris la sua specialità  e per gli ex libris verrà richiesto il suo talento dai collezionisti di tutta Europa (tra i committenti celebri, addirittura Roosvelt, Stravinsky, Richard Strauss, Rainer Maria Rilke, Bernard Shaw e Paul Valery o, in Italia, Pirandello, D’Annunzio e addirittura Mussolini!).

    Israel Kalk e la Mensa dei Bambini

    L’altra figura legata a Ferramonti e ai libri, è quella di Israel Kalk. Ebreo lettone, trasferitosi a Milano si dedica a iniziative filantropiche come la Mensa dei Bambini, che accoglie i figli dei profughi ebrei giunti in Italia intorno al 1938-39. Assicura loro una dimora, un pasto quotidiano, l’assistenza medica e il doposcuola. L’attività della Mensa si estende presto all’assistenza per i profughi ebrei anziani e per i deportati nei campi di concentramento dell’Italia meridionale.

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    Israel Kalk

    È così che Kalk riesce a recarsi ripetutamente presso il campo di Ferramonti: all’organizzazione del campo dona materiale scolastico, vestiario, medicinali e sussidi, istituendo persino una borsa di studio a tutti gli scolari. Dal 1939 Kalk incomincia a raccogliere un fondo archivistico, costituito non soltanto dai documenti della Mensa ma pure dal ricchissimo materiale inerente all’attività di assistenza presso Ferramonti e dalla sua collezione libraria: 416 volumi, prevalentemente in lingua yiddish, pubblicati tra il 1907 ed il 1977 (narrativa, poesia e teatro, raccolte di proverbi, leggende e fiabe ebraiche, testi sacri e canti liturgici), oggi custodito dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano.

    Ernst Bernhard, lo psicanalista delle star

    L’ultimo personaggio, Ernst Bernhard, nacque invece a Berlino, da genitori ebrei, nel 1896. Socialista, partecipò alle rivoluzioni bavarese e austriaca. Dopo la laurea in medicina indirizzò i propri interessi verso la psicanalisi, e collaborò con Jung tra il 1935 e il 1936, anno in cui si trasferì a Roma, marcando ancor più del suo maestro l’interesse per l’esoterismo, nonché per la teosofia, la chirologia e l’astrologia. Non è propriamente un bibliofilo, ma ai patrimoni librari e alla stessa storia del libro, ha contribuito con la sua opera di saggista.

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    Ernst Bernhard

    Prigioniero anch’egli, nel 1941 Bernhard poté finalmente lasciare Ferramonti, dove era entrato «col suo I Ching e il suo diario, deciso a vivere in modo consapevole e significativo ciò che il destino gli avrebbe portato». Riprese poi la professione nella capitale e a Bracciano, laddove fondò l’Associazione Italiana di Psicologia Analitica, che portò avanti fino seguendo illustri pazienti quali Natalia Ginzburg, Giorgio Manganelli, Cristina Campo, Roberto Bazlen, Vittorio de Seta e, tramite quest’ultimo, persino Federico Fellini.

    Ferramonti e il paesaggio palestinese

    Dai suoi diari di autoanalisi emerge pure un sogno fatto e annotato durante la prigionia (che, a dire il vero, starebbe benissimo sulla bocca del miglior Woody Allen):

    «Dal campo in Calabria vengo deportato verso Oriente e arrivo in un campo dove sono completamente isolato e solo.
    Penso che mi peserà molto il non avere nessuno di cui prendermi cura e da far progredire. Ma a mio conforto mi viene in mente che là ci sarà pure un corpo di guardia nazista. Potrei prendermi cura di questo».

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    Soldati all’esterno del campo

    Ancora, negli anni più maturi della sua professione non mancò di ricordare sporadicamente l’esperienza calabrese:

    «Nel 1941, quando ero internato in Calabria, passai il Venerdì Santo solo, sotto un fico, leggendo e digiunando, davanti a me il paesaggio del Mediterraneo, che mi ricordava il paesaggio palestinese. Quando la sera mi avvicinai al campo d’internamento, mi venne incontro il brigadiere della polizia e mi disse: “Dottore, è arrivato il telegramma”. Ero libero. Comprai vino rosso e dolci per i miei compagni di prigionia e nuovi amici, festeggiai con loro l’addio e il giorno seguente partii in tassì, con fichi e cioccolata, per Amantea e la notte seguente per Roma. La domenica di Pasqua arrivai in via Gregoriana, con una completa amnesia di tutto ciò che prima della mia prigionia era avvenuto nella mia abitazione, tanto per quel che riguardava me che i miei pazienti».