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  • Sette vite per Ettore Majorana nel romanzo di Mimmo Gangemi

    Sette vite per Ettore Majorana nel romanzo di Mimmo Gangemi

    Le sette vite di Majorana. Sono quelle che lo scrittore Mimmo Gangemi fa vivere al fisico siciliano misteriosamente scomparso nella notte tra il 26 e 27 marzo 1938. Uno dei cold case italiani più noti, oppure semplicemente un uomo desideroso di far perdere le sue tracce? Lo scopriremo solo leggendo L’atomo inquieto, ultima fatica letteraria del narratore di origini aspromontane. Che ieri ha presentato il suo ultimo libro a Villa Rendano in occasione di “Libri in Villa”, l’iniziativa promossa di concerto con il Comune di Cosenza e le associazioni che lo scorso 24 febbraio hanno sottoscritto, con la Fondazione “Attilio e Elena Giuliani” e lo stesso ente cittadino, il Patto per lo sviluppo culturale del territorio.
    Walter Pellegrini, presidente della Fondazione “Attilio ed Elena Giuliani” ha aperto i lavori: «Sentimenti di amicizia e stima mi legano a Mimmo Gangemi, intellettuale capace di costruire una narrazione stupenda». E poi «Mimmo è stato pure autore della Luigi Pellegrini editore».

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    Da sinistra: Antonietta Cozza, consigliere comunale di Cosenza; Walter Pellegrini, presidente della Fondazione “Attilio e Elena Giuliani”; Mimmo Gangemi, scrittore di Santa Cristina d’Aspromonte

    A stimolare il dibattito e dialogare con lo scrittore aspromontano è stata Antonietta Cozza, consigliere comunale di Cosenza con delega alla Cultura. Secondo lei il libro è un po’ «una via di mezzo tra la spy story e il romanzo psicologico».
    La Calabria compare in questa storia. In primis per la ventilata presenza del fisico catanese nella Certosa di Serra San Bruno. Gangemi chiarisce il senso: «È un omaggio alla “Scomparsa di Majorana” di Leonardo Sciascia». Anche «Sharo Gambino» fece lo stesso.

    A Villa Rendano Mimmo Gangemi sottolinea la stranezza di una lettera. Quella inviata da Majorana a un suo amico dove annunciava il suo suicidio in mare, sul traghetto che lo avrebbe dovuto portare in Sicilia: «Uno che sa nuotare non si toglie la vita in mare e, soprattutto, non porta con sé cinque stipendi e la sua quota di eredità paterna».
    Suggestioni, spunti, riflessioni e indizi disseminati nel ragionamento e nel romanzo. A partire da quella foto che ritrae il criminale nazista Adolf Eichmann sul piroscafo nel porto di Buenos Aires. Insieme a lui un capitano della Wermacht e un tipo che somiglia tanto, troppo, allo scienziato italiano. Gangemi chiarisce: «Non è mai stato filonazista, ma filogermanico».
    “L’atomo inquieto” aggiunge un altro capitolo alla carriera letteraria di Gangemi. Autore di libri come “La signora di Ellis Island”, “Il giudice meschino” e “Marzo per agnelli”.

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    “L’atomo inquieto” di Mimmo Gangemi
  • Eichmann: la banalità del male agli occhi di un calabrese

    Eichmann: la banalità del male agli occhi di un calabrese

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    «Ero stato felice a Gerusalemme, con la mia povertà, come non mai, perché ero stato libero di osservare la vita in silenzio, senza essere distratto dalla molestia delle faccende quotidiane»
    Gerusalemme, la Terra Promessa, città santa tre volte: per gli ebrei, i cristiani e i musulmani. Città contesa, ricca di contrasti, di contraddizioni, da sempre al centro di accese tensioni e sanguinosi scontri.
    Questa città nel 1961 fu teatro del processo ad Adolf Eichmann.

    Processo a Eichmann: La Cava inviato speciale

    Il celeberrimo ufficiale nazista, pianificatore della soluzione finale, colpevole dello sterminio di milioni di ebrei durante la Seconda guerra mondiale, finì a processo proprio in un centro culturale gerosolimitano trasformato per l’occasione in tribunale; un evento che registrò un grandissimo coinvolgimento dei media mondiali.
    Le udienze – che si svolsero dall’11 aprile al 15 dicembre ’61 e terminarono con la condanna a morte, non eccessivamente scontata alla vigilia– furono seguite da giornalisti provenienti da ogni continente.
    Tra questi anche il grande scrittore calabrese Mario La Cava, inviato speciale del quotidiano lucano Corriere Meridionale.

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    Al centro, Mario La Cava

    Il viaggio in Israele 

    La cronaca di quell’esperienza in cui La Cava «intuisce che l’incontro con la banalità del male lo riguarda direttamente come individuo», in una terra molto più lontana e misteriosa – e quindi seducente – di quanto non possa comunque apparire ancora oggi, ritorna in Viaggio in Israele pubblicato, in ultima edizione, da Edicampus.
    In questo prezioso volume – che gode delle attente curatela e introduzione di Milly Curcio e di un saggio di Luigi Tassoni – lo scrittore nato a Bovalino l’11 settembre 1908 tesse un filo che lega due mondi vicini e lontani, divergenti e convergenti.
    Due realtà unite dal Mediterraneo che sciaborda sulle sponde ioniche della Calabria e su quelle israeliane.

    Una civiltà arcaica in abiti moderni

    Il processo Eichmann, infatti, per l’intellettuale assunse presto le fattezze del fortunoso pretesto per raccontare una civiltà arcaica e nuova al contempo, che lo sorprende per l’affinità col popolo della sua Calabria.
    Una civiltà arcaica e nuova. Questa civiltà sorse soltanto nel 1948 con la costituzione dello Stato di Israele nella partizione a tavolino – osteggiata dagli antisionisti e dagli arabi – dell’antichissima Palestina, deliberata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite.
    Non solo: per La Cava il viaggio in Israele divenne l’indagine silenziosa – parola chiave della sua peregrinazione – di un universo fino ad allora appena fantasticato.

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    Immagine d’epoca di Tel Aviv

    Un calabrese in Israele per il processo Eichmann

    Lo scrittore, già noto e apprezzato in quell’epoca – l’autore de I Caratteri negli ultimi anni Cinquanta aveva dato alle stampe Le memorie del vecchio maresciallo e Mimì Cafiero –, affidò a un anonimo protagonista, suo alter-ego, il racconto di quella esperienza illuminante.
    E, come per ogni viaggio di scoperta che si rispetti, gli inconvenienti – magari inconsciamente cercati – non tardarono. Sulla nave diretta ad Atene (scalo verso la Terra Promessa), il protagonista-autore si imbatté in un tale Toto C., pingue ebreo italiano, sedicente chirurgo esperto di procurati aborti, fuggito dal Bel Paese perché la donna che aveva sposato era oramai irrimediabilmente invecchiata e ingrassata. Non era più attratto da lei e perciò aveva pensato bene di rifarsi una vita nel novello Stato di Israele.

    Il fascino della Terra Santa

    La sosta nella capitale greca si protrasse più del dovuto per l’“oscuro scrittore” e il nuovo conosciuto, sicché, perduta la nave, ripartita dal Pireo senza di loro, si trovarono costretti a raggiungere Israele in aereo. A spese dell’ingenuo La Cava, che atterrò in Terra Santa avendo già speso gran parte del denaro portato con sé. Questo contrattempo segnò il suo intero soggiorno. E non per forza in negativo.

    Lo scrittore si trovò beatamente spaesato in Israele, a contatto con una umanità povera ma non misera, ricevuto con l’ospitalità che tanto gli ricordò la sua regione in case di ebrei e di arabi. Si perse in pranzi pantagruelici, contemplò sinagoghe, biblioteche, kibbutz, porti, spiagge e coltivò stupore e malinconia per ogni cosa: il cielo ingombro di uccelli, le distese di eucalipti, il suggestivo “disordine silvestre” intorno alle città, il brulichio delle stradine, le barbe più belle sulla faccia della terra.
    Narratore-viaggiatore, nello Stato ebraico Mario La Cava indagò con lo sguardo curioso le genti, le loro costumanze e il paesaggio tutt’attorno, nel sacro rispetto di ciò che si percepisce né inferiore, né superiore, ma unicamente diverso da sé. E neppure così tanto.

    Soldati israeliani nella Gerusalemme anni ’60

    Tel Aviv, Petah Tikva, Gerusalemme – in cui ammise di avere trascorso i giorni «più ricchi di intime vibrazioni» della sua intera vita –, Rehovot, Nazareth, Haifa, Beer Sheva, capitale del deserto del Neghev; in questo lungo errare l’intellettuale bovalinese tornò sovente col pensiero alla Calabria, ricordatagli non solo dall’accoglienza e dai volti mediterranei, ma anche dal mare, dai colli e dai monti di quella terra che pareva lo volesse riavvicinare alla patria lontana.

    L’incontro con Adolf Eichmann nel processo

    Mario La Cava partecipò ad alcune delle udienze conclusive dell’epocale contraddittorio riservato a Eichmann, tra le pagine più affascinanti dell’opera originata da quei giorni d’estate del ’61.
    «Mi pareva che soltanto con quell’incontro io sarei penetrato negli abissi del male e attendevo quella prova quasi come una rivelazione, nella quale meglio avessi potuto conoscere me stesso».
    In prima fila, in una atmosfera da teatro, in attesa dell’atto finale della tragedia, La Cava cercò con lo sguardo gli occhi Adolf Eichmann, occhi che «nemmeno per un momento si prestarono ad essere guardati». Il volto affilato dell’ufficiale delle SS, le sue labbra sottili, taglienti, «le labbra di chi non aveva mai sorriso ad alcuno».
    Lo scrittore strabiliò dinanzi alla impressionante sicurezza, al manifesto agio di Eichmann, autentica reincarnazione del Diavolo, in quella situazione drammatica. E scrisse: «Sembrava che non avesse fatto altro che prepararsi nella sua vita a quel tipo di dibattimento».

    Il gelido nazista

    Di fronte alla speciale corte gerosolomitana che gli contestava crimini di guerra, crimini contro l’umanità, nello specifico contro gli ebrei, Eichmann asserì di avere eseguito ordini superiori, fedelissimo a un principio, un ideale, un capo che non esistevano più.
    Agli occhi di La Cava, il criminale nazista apparì interessato esclusivamente a difendere da una parte «il buon nome del popolo tedesco di fronte alla storia» e dall’altra la sua verità suprema, che serbò dentro sé e che non permise a nessuno di scardinare e scoprire, lasciando così non pienamente soddisfatto il popolo di Israele, in cui comunque il narratore non riscontrò alcun furore particolare. Comprese che soltanto il silenzio dei sopravvissuti alle persecuzioni poteva essere «la risposta più confacente» alla sciagura cui la comunità ebraica era andata incontro.

    Una domanda senza risposta

    «Che uomo fu dunque Eichmann?» si domandò Mario La Cava. L’interrogativo rimase irrisolto; la condanna a morte dell’ufficiale, eseguita a Ramla, meno di cinquanta chilometri a nordovest di Gerusalemme, il 31 maggio 1962, mise la parola fine alla parabola di Eichmann fondendo nello stesso tempo l’unica chiave con la quale sarebbe stato possibile aprire il suo forziere di segreti.
    Cos’è Viaggio in Israele?, si domanda invece oggi il lettore. Un saggio? Un romanzo storico? Un reportage?
    Pubblicato per la prima volta nel 1967 da Fazzi, editore di Lucca, e ristampato nel 1985 dall’editore cosentino Brenner – con la speranza di fare ottenere migliore fortuna a quello che lo stesso autore aveva definito uno «strepitoso insuccesso» –, il libro del tentato vis-à-vis di La Cava e Eichmann e dell’avventura israeliana dello scrittore, non è facilmente confinabile dentro un recinto.

    Eichmann in cella in attesa dell’impiccagione

    Una testimonianza importante

    Anche questo interrogativo resta insoluto. Se proprio volessimo arrischiare una definizione, accollandoci tutte le responsabilità del caso, potremmo identificarlo come un diario letterario, che attinge tanto dall’autobiografia quanto dal romanzo.
    Nell’opera, Mario La Cava ci ha fatto dono di una testimonianza originale per comprendere l’inquietudine precedente alla cosiddetta Guerra dei sei giorni – breve ma decisivo conflitto del giugno 1967 che portò Israele a conquistare buona parte dei territori contesi – e che vige tuttora in quell’angolo del pianeta.

    Le contraddizioni di un popolo tollerante e rigido insieme, le prime tensioni sociali, economiche e politiche, la complessità dei rapporti tra ebrei e arabi, paragonati, sotto il punto di vista sentimentale, ancora una volta ai calabresi, costretti a vivere da subordinati per il bene nazionale; aspetti che fanno del diario letterario – ci siamo convinti, sì – di La Cava uno scritto dalla «forte connotazione etica», come afferma Tassoni, da leggere, fedeli alle indicazioni dell’autore, in silenzio, con l’animo lene, spoglio dei pregiudizi e dell’arroganza propri di chi, postero ai fatti che è intento a leggere, crede di avere in mano la verità.

  • RITRATTI DI SANGUE | Pasquale Condello, il “Supremo” della ‘ndrangheta

    RITRATTI DI SANGUE | Pasquale Condello, il “Supremo” della ‘ndrangheta

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    Una volta, in aula, in un procedimento pubblico, un collaboratore di giustizia ammonì il pubblico ministero che lo interrogava: «Dottore, Pasquale Condello non è chiamato “Il Supremo” a caso» disse, in maniera più o meno letterale. No, nella ‘ndrangheta i soprannomi non sono mai casuali. Ed è la storia criminale a parlare per Condello, uno dei capi più carismatici che la ‘ndrangheta abbia mai avuto.

    Pasquale Condello e l’omicidio di don ‘Ntoni Macrì

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    Giacomo Lauro

    C’era anche lui nel gennaio del 1975, quando finisce la vita terrena e il comando mafioso del boss sidernese, don ‘Ntoni Macrì, esponente della vecchia ‘ndrangheta, che sarà spazzata via, nel corso della prima guerra tra cosche degli anni ’70. È il pentito Giacomo Lauro, nel proprio memoriale a ricostruire gli eventi di quel 20 gennaio 1975: «Macrì aveva appena terminato una partita di bocce presso il campo di Siderno e si accingeva in compagnia di Francesco Commisso inteso “u quagghia“, a far rientro presso la sua abitazione, quando nell’atto di salire sulla vettura di quest’ultimo, una Renault 5, venne affrontato, a viso scoperto, da Pasquale Condello e Giovanni Saraceno, i quali esplosero al suo indirizzo più colpi di pistola, uccidendo Macrì e ferendo gravemente il suo braccio destro, Francesco Commisso».

    Sul posto vennero rinvenuti e repertati 32 bossoli di arma da fuoco corta di vario calibro, appartenenti verosimilmente a quattro armi. Stando al racconto di Lauro, i killer sarebbero giunti sul posto a bordo di un’Alfa Romeo Giulia, rubata a Reggio Calabria, nella zona del tribunale e custodita a Locri dal clan Cataldo. Il gruppo dei killer dopo l’omicidio avrebbe proseguito il proprio viaggio verso Gioiosa Marina trovando rifugio presso il clan Mazzaferro, alleato dei De Stefano.

    La riunione del “Fungo”

    Dettagli che, a dire di Lauro, avrebbe appreso dallo stesso Pasquale Condello durante la comune detenzione presso il carcere di Reggio Calabria: «Condello si abbandonò a questa e ad altre confessioni in quanto indignato per l’ingratitudine della famiglia De Stefano, che gli aveva scatenato contro una guerra nonostante la fedeltà da lui dimostratagli in circostanze significative quali quella dell’omicidio Macrì».

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    Gianfranco “Er pantera” Urbani

    Sì, perché per anni Pasquale Condello è stato uno degli uomini più vicini a Paolo De Stefano. C’era anche lui, nell’aprile del 1975, circa tre mesi dopo l’omicidio Macrì, all’ormai celeberrima riunione romana presso il ristorante “Il Fungo”, del quartiere EUR. Lì ci sono pezzi della banda della Magliana, come Giuseppe Nardi e Gianfranco Urbani, detto “Er Pantera”. Ma anche soggetti di primissimo livello (seppur giovanissimi) all’interno della ‘ndrangheta. Da Paolo De Stefano a Giuseppe Piromalli. E poi lui, Pasquale Condello, che in quel periodo non è ancora “Il Supremo”.

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    Pasquale Condello da giovane, prima di diventare “Il Supremo”

    Le forze dell’ordine si appostano per arrestare il latitante Saverio Mammoliti, che avrebbe dovuto partecipare ad una riunione mafiosa. De Stefano, Piromalli, Condello e Nardi erano giunti su un’autovettura Mercedes e sia Condello che Piromalli si erano allontanati dal luogo di soggiorno obbligato rendendosi irreperibili. Il secondo era in possesso di una banconota da 50.000 lire proveniente dal sequestro di Paul Getty.

    L’alleanza si rompe

    Un rapporto duraturo, che, di fatto, si incrina nei mesi antecedenti a quella che sarà la sanguinosissima seconda guerra di ‘ndrangheta, che lascerà sull’asfalto oltre 700 vittime tra il 1985 e il 1991. In quel periodo, infatti, si celebra il matrimonio fra Giuseppina Condello ed Antonino Imerti. La prima è la sorella di Pasquale Condello, il secondo è il boss di Fiumara di Muro. Ciò determina la nascita di un’alleanza tra queste due famiglie delle quali, in special modo, quella di Imerti era estranea al territorio reggino poiché esercitava la propria egemonia esclusivamente a Villa San Giovanni e dintorni.

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    L’arresto di Antonino “Nano feroce” Imerti dopo l’omicidio di Paolo De Stefano

    Paolo De Stefano avverte subito il pericolo di una simile unione matrimoniale che determina nuove alleanze mafiose e la conseguente crescita del gruppo Condello, il cui capo Pasquale già da tempo rivendicava una maggiore autonomia sui “locali” di Mercatello e di Archi Carmine.

    La seconda guerra di ‘ndrangheta

    Il matrimonio che avvicina le famiglie Condello e Imerti segna uno spartiacque fondamentale. Da quel giorno, il malumore di don Paolino De Stefano cresce in maniera veloce e inesorabile. Il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro racconta che De Stefano affermava che «dopo il matrimonio contratto da Nino Imerti con Giuseppina Condello, i medesimi erano diventati arroganti ed irriguardosi nei suoi confronti». Da quel giorno, infatti, Nino Imerti manifesta un’evidente insofferenza rispetto all’autorità di quello che, fino al momento, è stato il capo incontrastato della ‘ndrangheta reggina, Paolo De Stefano, cominciando a gestire autonomamente taluni affari nel territorio di Villa San Giovanni.

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    Una foto recente di Orazio De Stefano

    La famiglia De Stefano risponde a stretto giro con un altro matrimonio” di prestigio”: Orazio De Stefano, fratello di Paolo, sposa Antonietta Benestare, nipote di Giovanni, Giuseppe e Pasquale Tegano. Le alleanze si fanno a suon di matrimoni, come in una realtà arcaica: e quella con i Tegano non è un’alleanza da poco. La frattura tra i due clan, i De Stefano e gli Imerti, con il passare dei giorni si acuisce, senza possibilità di ricongiungimento. D’altra parte, se la famiglia De Stefano, comandata da don Paolino, è una potenza assoluta, quella degli Imerti non è da meno.

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    Giovanni Tegano

    La guerra è quindi alle porte. A contrapporsi, lo schieramento che faceva capo ai De Stefano-Tegano, da un lato e i Condello-Imerti, dall’altro. Sono proprio quelli gli anni in cui Pasquale Condello si guadagna l’appellativo di “Supremo”. A ciò, evidentemente, contribuisce il fatto che, per decenni, rimane uno dei boss liberi e latitanti. Tutto questo crea attorno a lui un’aura di mistero e di invincibilità anche negli anni della pax mafiosa.

    Pasquale Condello, il “Supremo” della ‘ndrangheta

    In quegli anni, Condello diventa il “Supremo”. Ordina omicidi, anche omicidi “eccellenti” e rocamboleschi. Su tutti, quello del figlio naturale di don Mico Libri, Pasquale, alleato dei De Stefano. Il 19 settembre 1988, Pasquale Libri viene ucciso con un colpo di fucile di precisione all’interno del carcere di Reggio Calabria. I sicari si appostano sul terrazzo di uno stabile in costruzione, in un luogo che si affaccia sul cortile del penitenziario. La vittima viene raggiunta in pieno viso, esattamente all’altezza della narice sinistra, da un proiettile, non appena discesi i gradini d’ingresso al cortile esterno.

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    Pasquale “Il Supremo” Condello in una immagine di qualche anno fa

    Le indagini riconducono immediatamente la causale dell’omicidio alla guerra di mafia all’epoca in corso tra le cosche reggine. Autore del delitto, su ordine proprio del “Supremo”, sarebbe stato Giuseppe Lombardo (poi divenuto collaboratore di giustizia), detto “Cavallino” per l’attitudine sinistra di inseguire e finire le proprie vittime. O quello dell’ex presidente delle Ferrovie, il politico democristiano Lodovico Ligato, da sempre ritenuto vicino alla cosca De Stefano, freddato sull’ingresso della propria residenza estiva a Bocale, località balneare alle porte di Reggio Calabria. Al termine di un complesso iter giudiziario verranno condannati Pasquale Condello, “il Supremo”, Santo Araniti e Paolo Serraino come mandanti, mentre Giuseppe Lombardo, “Cavallino”, verrà ritenuto uno degli esecutori materiali dell’agguato.

    https://www.youtube.com/watch?v=AEMy9oT9_kQ

    L’incontro con Totò Riina

    La guerra di ‘ndrangheta termina nel 1991, dopo l’omicidio del sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Antonino Scopelliti, che avrebbe dovuto sostenere l’accusa nell’atto finale del maxiprocesso a Cosa Nostra istruito da Giovanni Falcone. Un omicidio che avrebbe commissionato la mafia in combutta con la ‘ndrangheta, offrendo in cambio il ruolo di garante per la pax mafiosa dopo anni di morti e violenze per le strade di Reggio Calabria e della sua provincia.

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    Giuseppe “Tiradritto” Morabito da giovane

    E appartiene al mito il presunto incontro che Totò Riina avrebbe avuto con i boss calabresi, tra cui, appunto, “Il Supremo”. Per decidere l’esecuzione del giudice Scopelliti si sarebbero scomodati personaggi di livello criminale immenso. Totò Riina, che peraltro in Calabria era già stato, ad Africo, ospite del “Tiradritto” Giuseppe Morabito, avrebbe raggiunto in motoscafo il boss Pasquale Condello per affrontare l’argomento dell’eliminazione del magistrato

    La cattura di Pasquale Condello, “il Supremo”

    Tra leggenda e realtà, è lunga l’epopea criminale di Pasquale Condello. Una carriera di sangue nata praticamente da minorenne, che si conclude il 18 febbraio del 2008, allorquando il Ros dei Carabinieri lo scova in un appartamento nella zona di Pellaro, periferia sud di Reggio Calabria. Non un dettaglio di poco conto, dato che, dopo la pax mafiosa, vi sarà sempre maggiore avvicinamento di cosche in precedenza storicamente contrapposte e ad una fattiva alleanza tra di esse. Proprio grazie alle nuove regole sancite dalla pace tra cosche.

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    Don Mico Libri

    Non è un caso, che il “Supremo” venga scovato nel territorio di Pellaro, storicamente sottoposto al controllo mafioso dello schieramento opposto destefaniano. Sarebbe stato Mico Libri, potente boss oggi defunto, a dettare le regole propedeutiche alla pace, che richiedono una previa approvazione di ogni possibile azione delittuosa eclatante.  In nome degli affari. Perché, abbandonate (solo metaforicamente) le armi, Condello ha nei decenni di latitanza allacciato rapporti inconfessabili, con il mondo dell’imprenditoria e della politica.

  • Cosenza, quattro soldi per gestire il Castello Svevo

    Cosenza, quattro soldi per gestire il Castello Svevo

    Un intero castello svevo in affitto a meno di 500 euro al mese può sembrare roba da Totò Truffa ’62, eppure a Cosenza potrebbe andare davvero così. A Palazzo dei Bruzi, infatti, hanno deciso di cercare nuovi inquilini per il maniero ultrasecolare che domina la città dall’alto di colle Pancrazio. E il prezzo richiesto pare proprio di quelli da non lasciarsi sfuggire.

    Castello Svevo: quante polemiche a Cosenza

    La storia recente del Castello Svevo di Cosenza è costellata di polemiche. Dopo un periodo – erano gli anni ’90 del secolo scorso – in cui si alternano matrimoni a iniziative pubbliche, la struttura resta a lungo abbandonata a se stessa. I ragazzini si intrufolano arrampicandosi lungo una delle torri, a proprio rischio e pericolo, alla ricerca tra le cadenti mura secolari di un riparo da occhi indiscreti. Si va avanti così a lungo, finché – sindaco Salvatore Perugini – il Comune decide di restaurare quello che resta il più importante monumento cittadino insieme al Duomo.

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    Una delle sale del Castello dopo ill restauro

    I lavori cominciano poco prima della fine del mandato del primo cittadino, nel 2008, ma per vederli completati tocca attendere parecchio. L’inaugurazione risale infatti al 2015, col nuovo sindaco Mario Occhiuto. A caratterizzarla, tanto entusiasmo e le immancabili lamentele. Fanno discutere gli infissi metallici utilizzati per le finestre del castello, ultramoderni rispetto alle mura circostanti. Poi, al ricordo degli osceni innesti in cemento armato realizzati negli anni ’80, di infissi non si parla quasi più.

    Il mostro sulla collina

    A tenere banco resta l’abominevole ascensore giallo paglierino realizzato su uno dei lati del cortile interno. Difficile immaginare qualcosa di più antiestetico in un contesto simile, tanto più alla luce delle giustificazioni date all’esplodere delle polemiche sull’impianto elevatore. Secondo il Comune, l’ascensore garantirebbe alle persone con disabilità motorie l’accesso ai piani superiori dell’edificio. Peccato che il tragitto da percorrere per raggiungere l’impianto sia impraticabile per qualcuno in sedia a rotelle. Hanno promesso di modificarlo, ipotizzato di abbatterlo, ma l’ascensore resta lì, come un esame proctologico a storia e panorama.

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    L’ascensore del Castello Svevo visto dall’esterno

    Neanche mille euro al mese

    Alle diatribe architettoniche i giornali di Cosenza aggiungono presto quelle sulla concessione del Castello Svevo. A occuparsi di valorizzare l’immobile dopo il restauro saranno, infatti, tre privati, dopo che la Regione ha messo a gara, cofinanziandola, la gestione della struttura. La Cittadella mette il 60%, circa 175mila euro; altri 155mila li sborsa la Svevo Srl, la società creata dagli imprenditori Sergio Aiello, Pietro Pietramala e Gianpaolo Calabrese per partecipare al bando regionale.
    Per i tre, poi, c’è il canone da versare al Comune di Cosenza, proprietario del Castello Svevo da fine ‘800, per i successivi cinque anni (e ulteriori, eventuali, due in caso di proroghe). Ammonta a circa 960 euro al mese.

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    Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza

    Un intero castello normanno svevo, già dimora dello stupor mundi Federico II, “in affitto” al prezzo di un magazzino in un quartiere popolare di Cosenza non può passare sotto silenzio. Tanto più se a riscuotere l’affitto è un ente indebitato fino al collo. L’accordo sembra a molti fin troppo vantaggioso per la Svevo. Questa, in pratica, versa il canone (e paga le bollette) solo per «l’utilizzo degli spazi posti al piano terra ed al primo piano dell’immobile denominato “Castello Normanno Svevo”, per mq 227,22».

    Castello: gli obblighi della Svevo e quelli del Comune di Cosenza

    Il resto (enorme) resta a carico dello stesso municipio che lo ha fatto andare in malora nei decenni precedenti. E che ora, da contratto, dovrebbe pure scontare dal canone i costi per sorveglianza e pulizia degli altri spazi, apertura e chiusura, guardaroba, personale, attività promozionale in occasione di eventuali iniziative organizzate o autorizzate dal Comune stesso. Gli incassi, invece, vanno tutti alla Svevo, che gestisce le visite e organizza parecchie iniziative con biglietti che vanno dai 2 euro del ridotto per minorenni ai 20 per gli spettacoli teatrali o i concerti. E per i soliti 960 euro ha diritto, sulla carta, ad avere gratis anche la Villa Vecchia e il Cinema Italia qualora voglia organizzare qualcosa anche lì.

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    Il cinema Italia-Tieri

    Sembra un affare, eppure si scopre che di quattrini in municipio ne arrivano ben pochi. Se ne accorge… Gianpaolo Calabrese, che nel frattempo ha lasciato la società con Aiello e Pietramala per accomodarsi sulla poltrona da dirigente del Settore Cultura proprio a Palazzo dei Bruzi. Anche la (si suppone, non troppo difficile) scoperta di Calabrese interessa i cosentini per poco però. Il chiacchiericcio si concentra sulle sue illustri parentele – è nipote del Procuratore capo della città – e quanto abbiano influito sull’incarico ottenuto, più che altro. Del castello svevo si parla soprattutto per mostre, sfilate, concerti e festival, salvo sporadiche diatribe sui social in occasione di eventi con degustazioni enogastronomiche che gli accordi col Comune di Cosenza parrebbero invece vietare.

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    Una degustazione all’interno del Castello

    Un accordo per estinguere il debito

    Nonostante la Svevo presenti un malloppo di fatture da scomputare dal canone che supera di poco i 160mila euro, l’equivalente di 14 anni e mezzo di canone, Palazzo dei Bruzi batte ancora cassa agli “inquilini morosi” però. Si arriva così, con l’attuale amministrazione, a un nuovo accordo: la Svevo, che avrebbe dovuto lasciare a giugno 2022, gestirà ancora il castello fino a marzo 2023; in cambio verserà al municipio 14.400 euro di arretrati, l’equivalente di una quindicina di mensilità.

    Con marzo ormai alle porte, però, è tempo di trovare un nuovo gestore per il maniero tornato a nuova vita dopo il restauro. Così il Comune si è messo ufficialmente alla ricerca di un nuovo concessionario. Sebbene il municipio continui a non navigare nell’oro, questa volta rischia di incassare ogni mese ancora meno di quello che si prevedeva pagasse il vecchio gestore. La base (al rialzo) da cui si partirà per le offerte è meno della metà della cifra stabilita all’epoca per la Svevo. Se prima il canone annuo era di 11.523,60 adesso «l’importo a base di rialzo è il seguente: euro 5.000,00 (tremila,00)» (sic). La concessione, invece, dura sei anni.

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    I Bocs Art all’epoca in cui venivano ancora utilizzati come residenze artistiche temporanee

    Cosenza, punto e a capo: il castello svevo a metà prezzo

    C’è di nuovo che stavolta bollette e pulizie (anche degli spazi esterni) toccherà pagarle a chi si aggiudicherà la gestione della struttura. E niente Villa Vecchia o Cinema Italia per il vincitore: in compenso, potrà realizzare «almeno due eventi annuali, dalla durata di due giorni l’uno» ai Bocs Art sul Lungofiume, oggi moribondi a pochi anni dalla loro nascita. Basterà tenere aperto il castello almeno 250 giorni l’anno per un minimo di 6 ore al giorno e blindare l’accordo col Comune, in caso di vittoria, con una fideiussione pari al 10% dell’importo contrattuale. Che, salvo poco probabili rialzi monstre dei contendenti, potrebbe essere pari a poche centinaia di euro al mese. E poi dicono che i prezzi degli immobili sono alle stelle…

  • Ruffo: lo sterminatore rosso che vien dalla Calabria

    Ruffo: lo sterminatore rosso che vien dalla Calabria

    Condottiero, politico, economista e… massacratore. Nel lontano ’84 la controversa figura di Fabrizio Ruffo, il cardinale che soffocò nel sangue la Repubblica partenopea, fu ricordata a San Lucido, paese natale dell’aristocratico, in un convegno, a cui partecipò anche Giacomo Mancini.
    In quell’occasione si presentò il romanzo storico Rosso cardinale, del giornalista inglese Peter Nichols, che ritraeva a tinte fosche il porporato.

    Mancini contro il cardinale Ruffo

    Giacomo Mancini fece un intervento accalorato, in cui evidenziò le nefandezze della spedizione di Ruffo e lo definì «un macellaio».
    Tra gli ospiti c’era Gerardo Marotta, presidente dell’Istituto per gli studi filosofici di Napoli che non fu da meno del politico: «L’esortazione che io faccio è che mai sorga un monumento al cardinale Ruffo in questa piazza. Se mai, un monumento ai martiri del ’99».

    La lapide della discordia per il cardinale Ruffo

    L’appello di Marotta cadde nel vuoto: dopo quindici anni, nel dicembre del 1999, a San Lucido venne scoperta una lapide in memoria di Ruffo.
    Fu un piccolo, paradossale primato: il primo tentativo di riabilitazione pubblica del “cardinale rosso”, per di più mentre si svolgevano le celebrazioni internazionali del bicentenario della Repubblica napoletana.
    Anche il Corriere della Sera riportò quella “provocazione” in terza pagina, con un titolo significativo: Il cardinale Ruffo, un galantuomo dopotutto.

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    Gerardo Marotta, il presidente dell’Istituto per gli studi filosofici di Napoli

    L’anatema di Maciocchi

    Non basta rileggere il passato più o meno “illuminato” di Ruffo per farne una figura degna di qualunque interesse. Neanche oggi, che va di moda un certo revisionismo.
    «Siano maledetti, per sempre, non solo i Borboni, ma tutti i Ruffo, e i loro eserciti della Fede! Essi hanno orribilmente rallentato la democrazia in Italia». È l’anatema scagliato dalla scrittrice Maria Antonietta Maciocchi nel suo libro Cara Eleonora (Milano, Rizzoli 1993), dedicato a Eleonora Fonseca Pimentel, l’eroina della Repubblica partenopea impiccata a Napoli senza mutande in mezzo alla piazza festante.

    La responsabilità del cardinale Ruffo

    Il cardinale Ruffo ha una grande responsabilità, storica e morale: al servizio di Ferdinando IV di Borbone, fu l’artefice della spedizione che partì da Palermo e si estese in tutto il Sud.
    A tale scopo, Ruffo organizzò le bande armate per radere al suolo le città che avevano innalzato l’albero della libertà. Quindi caddero sotto i colpi dei Sanfedisti, che si muovevano sotto le insegne di Sant’Antonio (che aveva spodestato San Gennaro accusato di essere giacobino) popolazioni inermi.

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    Peter Nichols, biografo britannico del cardinale Ruffo

    I volenterosi macellai del cardinale Ruffo

    Una fonte anonima dell’epoca racconta tutta l’efferatezza dei massacri dei masnadieri di Ruffo, definito «un vero bandito», a cui si erano uniti i briganti di Fra’ Diavolo.
    Tra i ricordi più forti c’è la Vandea di Altamura. La città pugliese, che aveva aderito alla Repubblica, si difese dall’assedio per quarantacinque giorni e capitolò solo in seguito a uno stratagemma.
    Una volta entrate, le truppe diedero luogo all’eccidio: stuprarono donne e suore e fecero esecuzioni sommarie. Lo stesso Fabrizio Ruffo ordinò la fucilazione in piazza di suor Maria Sabina accusata di simpatie per i giacobini.

    Cannibali a Napoli

    Capitolarono, in Calabria, Crotone, Catanzaro, Cosenza, Paola e Amantea.
    A Napoli si narra che i corpi dei giacobini venivano fatti a brandelli dai lazzari, quindi arrostiti e mangiati. I loro teschi diventavano bocce.
    Leggere per credere: «I cadaveri che uscivano dalle mani del carnefice li gettavano sui roghi; poi quando erano cotti a loro gusto, ne rosicchiavano il fegato e il cuore, mentre altri soldati, si fabbricavano fischietti con le ossa delle gambe».

    Maria de Medeiros è Eleonora Fonseca Piementel ne “Il resto di niente”

    Pogrom partenopeo

    Il cardinale non risparmiò neanche i prelati. Finirono al patibolo un vecchio sacerdote, Nicola Pacifico, e il vescovo di Vico Equense, Michele Natale, autore di un catechismo repubblicano. Tutta la meglio gioventù napoletana, cresciuta col pensiero di Vico e Filangieri e con gli ardori della Rivoluzione francese, fu sterminata.
    Francesco Caracciolo, comandante della flotta napoletana finì appeso al pennone più alto della nave dell’ammiraglio inglese Orazio Nelson.
    Per non parlare della fine di un’altra madre della patria: Luisa Sanfelice, protagonista dell’omonimo romanzo di Alexandre Dumas.

    Ferdinando I di Borbone, ‘o Re Nasone

    Il voltafaccia di re Ferdinando

    Anche i massoni pagarono cara l’adesione alla Repubblica: tra i perseguitati spicca l’abate Antonio Jerocades, a cui sono tuttora dedicate molte logge, che fu costretto all’esilio. Il fragile esperimento rivoluzionario finì in tragedia. E a nulla valse la “onorevole” capitolazione che Ruffo offrì a Castel Sant’Elmo agli insorti: finirono tutti giustiziati. Infatti, dopo la vittoria re Ferdinando voltò le spalle al cardinale e calpestò gli accordi di resa da lui siglati con i giacobini. E da allora per il cardinale carnefice cominciò il lento declino.

  • Vincenzo Morello, il giornalista senatore

    Vincenzo Morello, il giornalista senatore

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    Nella Bagnara del 1860, splendida come poteva essere allora, nasce Vincenzo Morello, unico maschio in una ricca famiglia di commercianti. Rampollo baciato già solo per questo dalla fortuna, non evita tuttavia gli studi. Finisce così dapprima al Collegio Donati di Messina, poi – percorso classico per quei tempi – a Napoli per laurearsi in Giurisprudenza. In verità, però, a Morello – avvocato tanto a Napoli quanto in Calabria – il diritto interessa ben poco, mentre è molto più attratto dal giornalismo.

    Rastignac, D’Annunzio e signora

    Nel 1881 fonda a Pisa la rivista Il Marchese Colombi e nel 1887 diventa collaboratore fisso del quotidiano La Tribuna. È tra queste colonne che incomincia ad utilizzare lo pseudonimo Rastignac, ispirato all’Eugène de Rastignac ideato dalla penna di Balzac.
    Lo definiscono «articolista principe del giornalismo italiano» e il suo nome comincia a svettare: è amico di Gabriele D’Annunzio e con lui condivide un profondo scetticismo nei riguardi della politica giolittiana e del parlamentarismo, inteso come «grande scuola di delinquenza nazionale». A dire il vero, con D’Annunzio condivide anche altro, ovvero l’amore per la stessa donna: quella Maria Hardouin di Gallese, moglie del Vate, la quale si toglierà la vita nel 1890.

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    Maria Hardouin di Gallese, moglie di D’Annunzio e amante di Morello

    Vincenzo Morello e il giornalismo

    Morello si lancia totalmente nel giornalismo e diventa redattore del Piccolo, su invito del direttore Rocco de Zerbi, dove intraprende una polemica contro il repubblicano Giovanni Bovio. È così feroce da procurargli in realtà una collaborazione ancora più prestigiosa, ovvero quella con Il Corriere di Roma, guidato all’epoca dalla vulcanica coppia Matilde SeraoEdoardo Scarfoglio, che di Morello fu in qualche modo il mentore.
    Sulle orme della vecchia Tribuna, nel 1890 fonda – assieme a Giulio Aristide Sartorio – la più celebre e popolare Tribuna Illustrata, il primo periodico illustrato italiano.
    Infine, nel 1894 (stesso anno in cui pubblica il volume Politica e bancarotta) fonda Il Giornale, assieme a Bobbi e Bellodi, posizionandolo politicamente intorno alle figure di Zanardelli e Crispi.

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    Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao

    Trombato alle elezioni

    Allora come oggi, raggiunte le vette del giornalismo niente è più semplice che fare anche politica. Nel 1895 Morello si candida alle elezioni per la XIX legislatura nel collegio di Bagnara, ma lo sconfigge il notabile locale Antonino De Leo. Questi – dicono le biografie – «alla forza delle idee aveva anteposto il potere del denaro. Morello ottenne 950 voti contro i 1420 di De Leo: accusato di essersi venduto all’avversario, uscì dalla vicenda profondamente amareggiato e, dall’indignazione provata nei confronti dei suoi concittadini, ebbe origine il vulnus che scavò una distanza insanabile con la sua città natale».

    L’Ora… di tornare al Sud

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    Torna dunque al giornalismo, pur continuando a sostenere Crispi e a opporre Giolitti. Stavolta nelle vesti di primo direttore del nuovo quotidiano palermitano L’Ora, che si presenta come giornale di opposizione al regime autoritario del generale Pelloux. A chiamarlo per tale ruolo, nel 1900, è l’industriale Ignazio Florio in persona. Qui Morello fa confluire le più note penne del giornalismo italiano e riesce a far diventare L’Ora un giornale moderno, capace di competere con i più grandi quotidiani nazionali.

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    Ignazio Florio junior

    Il ritorno in politica di Vincenzo Morello

    Ma Morello fu anche poeta, drammaturgo e critico teatrale. Se nel 1881 aveva pubblicato a Napoli le sue Strofe, più avanti dava alle stampe anche i volumi Leggendo (1886), Nell’arte e nella vita (1900), L’albero del male (1914), Il roveto ardente (1926), Dante, Farinata, Cavalcanti: lettura nella Casa di Dante in Roma (1927) e Germinal, in quel 1909 in cui comincia a dirigere le Cronache letterarie di Firenze.

    E poi ritenta la via politica: si avvicina così alle prime posizioni fasciste e nel 1923 viene nominato senatore nella XXVI legislatura del Regno, per la 20ª categoria: coloro che con servizi o meriti illustrano la Patria. Nel caso specifico, come «solenne riconoscimento delle singolarissime qualità dello scrittore e, più ancora, dell’opera da lui svolta, durante trent’anni di strenua attività nella stampa quotidiana, per la rivendicazione delle più alte idealità italiane».

    Troppo laico per la camicia nera

    Molto vicino al Duce, nella cui politica vede realizzate le proprie aspettative, Morello scrive sul mussoliniano Gerarchia. Il 16 dicembre 1925 lo nominano commissario della Società Italiana degli Autori ed Editori, di cui diventa presidente per il biennio 1928-1929. Dal 1926 è direttore del quotidiano milanese Il Secolo.

    Benché avesse osteggiato per una vita intera il parlamentarismo e benché fosse stato anche ben poco partecipe in Senato, Vincenzo Morello era ispirato da forti sentimenti patriottici. Intorno alla questione del Concordato tra Stato e Chiesa cattolica pubblica nel 1932 il volume Il Conflitto dopo la Conciliazione, nel quale condanna le concessioni concordatarie alla politica ecclesiale. Coerentemente al proprio spirito anticlericale e ai propri trascorsi massonici, aveva infatti dato le dimissioni dal Partito Nazionale Fascista già nel 1930, proprio all’indomani del Concordato e delle scelte del regime in materia di istruzione, matrimonio e proprietà.

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    Benito Mussolini, e il cardinale Pietro Gasparri al momento della firma del Concordato

    Essendo egli scettico in merito alla propria eventuale iscrizione all’Unione nazionale Fascista del Senato, i senatori De Vecchi e Vicini, per conto del Direttorio, lo invitavano ancora nel 1932 a partecipare alla successiva seduta di Palazzo Madama con la camicia nera d’ordinanza. Invano.

     

  • Pietro Maiellaro: Messico, nuvole e lampi di genio

    Pietro Maiellaro: Messico, nuvole e lampi di genio

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    Molto prima che ci facessero sognare i vari Giggs, Gerrard e Lampard, Rui Costa, Leonardo, Ronaldinho o in parte Redondo (molto più tecnico, ma col baricentro molto più giù), il centrocampista che va sistematicamente in goal è una invenzione italiana. Tipica di squadre chiuse, dove il fantasista scardina e il 9 puro fa più la boa che il bomberone. Mario Corso Mario, come dice Ligabue. Mazzola che avanza due palloni d’oro, uno di Cruijff e uno dell’altro dieci con la rete e la sigaretta facile, Gianni Rivera.

    Nella Cosenza Ottanta/Novanta, e nel suo Cosenza, qualche giocatore tecnico che piace alla curva e ogni tanto sciorina in saccoccia delle perle gemmate si vede. Urban, ad esempio, tanta classe ma anche tanti sacrifici sui campi off della pedata minore. Molto più tardi Tatti, che però gioca seconda punta. Nel ‘93/’94, l’anno del primo mondiale tototruffa e tutto marketing, a Cosenza abbiamo Pietro Maiellaro.

    Pietro Maiellaro, lo Zar di Bari

    Irsuto d’approccio, abulico quando di luna storta, ma dispensatore di gioia quando lo squarcio si accende e rivela. Si era fatto le ossa a Bari, divenendo una sorta di Lider Maximo, idolo di quartiere, tipo da murales, da maglia autografata, da tanti calci e ancora più calcio. Lì, il primo frame dei suoi flash da Messi ante litteram. Lui coi galletti pugliesi, tutti gli altri un Bologna piccolo piccolo.

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    Pietro Maiellaro affronta Diego Armando Maradona in una sfida tra Bari e Napoli

    Era del resto un Bologna un po’ straccione e un po’ decaduto insieme, molto diverso dalla squadra di fine anni Novanta che, grazie ai goal di Beppe Signori alla seconda giovinezza da fantasista, farà nella stessa stagione semifinale in Coppa Italia e UEFA.
    La palla è una saponaccia poco oltre i quaranta metri: rimbalzata, strappata, sporca, lercia e anonima. Maiellaro ci vede dietro la sceneggiatura del goal della domenica, la giocata da loop in cineteca. Buona acrobazia per acciuffarla piena e scarica robusta: una sassata balistica che uccella l’estremo difensore felsineo andato a caccia di farfalle.

    Dopo quelle quattro stagioni da urlo, si fanno avanti in tante. Una volta è la Fiorentina: la Fiorentina che, come in modo suicida faceva il Cecchi Gori di inizio Duemila, comprava attaccanti su attaccanti. E segnava e prendeva. Maiellaro, in realtà, c’è: ma gioca poco, la continuità non esiste. E Maiellaro a Bari ha insegnato che per prendersi la scena deve avere la piazza, la stagione, la tenacia del tempo contro l’euforia dell’attimo. Altrimenti, quei suoi istanti di cristallo non hanno giusto ambiente di maturazione.

    La seconda chance

    La seconda chance si chiama Ternana: neopromossa in B che fa una campagna acquisti grandi firme e zero contratti. Sulla carta Pino “Saracinesca” Taglialatela, pararigori nel Napoli che rimpiangeva Maradona e troppo presto aveva dimenticato Giuliani, e Sandro “Cobra” Tovalieri: velenoso bomber bassino che poteva fare anche il tornante. Tanto i suoi golletti stagionali li refertava. Si dissolse presto e le curve di Terni subirono l’ennesimo declassamento sul campo. Alcuni amici e maestri conosciuti tra i Freak Brothers della Est ricordano ancora quella estate di illusioni di oltre trent’anni fa: come un bacio non dato, che non si dimentica per il male che ti ha fatto.

    Ho visto Maiellaro

    E così Pietro Maiellaro a Cosenza. Annata realizzativa buona. Il Cosenza della B ogni anno, e ogni anno l’aritmia in pieno petto di non sapere se lotterai per la A o dovrai romperti la schiena ad evitar la C (un coro ancora cantato in Bergamini nasce da questa schizofrenia).

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    La Curva Sud del San Vito negli anni ’90

    Cosenza-Fiorentina. Presente stretto, passato prossimo a metà. Maiellaro prende una palla ancora una volta anonima, di risulta, una fesseria sotto il Sole che squarcia in diagonale il rettangolo al San Vito quasi fossero i Campi Elisi di Marassi. Se li beve tutti, indistintamente tutti. Cinque, sei gli vanno dietro. Lui semina e cammina. L’attempato cronista della Rai dirà che Maiellaro si ferma solo quando la palla va in rete: è vero. San Vito in delirio permanente, io lì ragazzetto con lo zio Tonino, fratello di mia nonna, tutta sera ancora a parlare, a una cena di famiglia con nonni e bisnonni, del goal di Maiellaro, del contratto al Milan di Baresi, di quel calcio grande che si sentiva anche in piccola città (non) bastardo posto.

    Maiellaro si perderà un po’ negli anni a seguire. Nel ’96 in Messico, quando gli italiani all’estero erano roba occasionale da folklore. Mica oggi, che il Messico ha visto gli ultimi ruggiti della Tigre André Gignac, che avrei voluto a Roma. E infine un solidissimo fine carriera con microparentesi da giocatore-allenatore in campo in quel di Campobasso. Dicono che ci manchi quel calcio perché abbiamo perduto l’innocenza. E invece no: ci manca ché abbiam perduto la bellezza.

    Domenico Bilotti

  • Francesco Jerace, il re degli scultori calabresi

    Francesco Jerace, il re degli scultori calabresi

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    È considerato tra i maggiori artisti del panorama italiano tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo; le sue opere hanno valicato i confini sia nazionali che continentali. Francesco Jerace è senza dubbio tra i figli più illustri della Calabria degli ultimi duecento anni.

    Francesco Jerace, da Polistena a Napoli

    Nato il 26 luglio 1853 a Polistena – popoloso paese del Reggino, stretto tra la Piana di Gioia e le pendici settentrionali del massiccio dell’Aspromonte –, Francesco Jerace era figlio di Fortunato e Mariarosa. Quest’ultima era discendente dei Morani, famiglia di scultori in legno originaria del Catanzarese che, al principio dell’Ottocento, si era trasferita verso i declivi del “Monte Bianco” calabrese per sfuggire alla prepotenza dei francesi.
    Ed è proprio nella bottega famigliare di Polistena – centro ricostruito da pochi decenni dopo il devastante terremoto del 1783 – che il giovane Jerace viene iniziato all’arte del disegno, dell’intaglio e della scultura. Emerso il suo talento naturale, non passa troppo tempo che il rampollo si trasferisce a Napoli, presso la Real Accademia di Belle Arti. Sono i primi anni settanta dell’Ottocento.

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    Un ritratto di Domenico Morelli

    A Napoli – città dove lo raggiungeranno presto i fratelli Vincenzo, anch’egli scultore, Gaetano, pittore paesaggista, e Michelangelo, poi insegnante – Francesco Jerace frequenta Andrea Cefaly, calabrese di Cortale e già patriota e pittore affermato. I suoi maestri sono Saverio Altamura, Tito Angelini, Tommaso Solari e Domenico Morelli. Dopo una prima passione per la pittura, fase non scevra da incomprensioni con maestri e pubblico, è proprio Morelli, insigne pittore e anima dell’Accademia, che indirizza il giovane alla scultura.

    La prima commissione di rilievo

    A Napoli, Jerace conduce una vita tutt’altro che agiata fin quando nel 1873 non giunge la prima importante commissione della carriera. Marta Somerville lo incarica di scolpire il monumento funebre della madre, la astronoma e autrice scozzese Mary Somerville. Scrive Alfonso Frangipane, biografo dell’artista, che al termine del pesante lavoro – oggi sito al cimitero inglese di Napoli –, la nobildonna, nel retribuirlo per il servigio, gli consigliò di procurarsi un luogo più salubre in cui svolgere il suo mestiere, ché lo vedeva “tanto malandato in salute” (A. Frangipane, Francesco Jerace, in Studii e ritratti calabresi, Casa editrice “La Sicilia”, Messina 1924).

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    Napoli, cimitero degli inglesi: il monumento funerario a Mary Somerville

    Francesco Jerace, lo scultore dell’eleganza e della gagliardia

    Il riconoscimento internazionale, comunque, non tarda a venire. Grande fortuna ha il gesso del Guappetiello, il fanciullo del popolo napoletano, riprodotto in molteplici repliche, tra le quali una in bronzo sarà portata all’Esposizione universale di Parigi del 1878. In quell’occasione tutti si accorsero della straordinaria grazia dell’arte di Jerace; la maestria jeraciana, infatti, segnò un progresso nella scultura italiana della seconda metà dell’Ottocento, per la luce che sembrano sprigionare i suoi busti, per il realismo, per il bello ideale che raggiunge, per la libertà e l’armonia delle forme, lievi nel marmo in cui sono incise.
    Camillo Boito, architetto e teorico di spicco dell’architettura, esaltò l’artista calabrese definendolo «lo scultore dell’eleganza e della gagliardia».

    Un tocco di Calabria nella capitale

    Addentriamoci adesso nell’opera di Jerace. Partiamo da Roma, dove è possibile trovare lavori del grande scultore polistenese a Palazzo Madama, a Palazzo di Montecitorio e alla Banca d’Italia – luoghi che conservano tre busti di Francesco Crispi. Alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea si trova, invece, il marmo del Trionfo di Germanico. Al Vittoriano, l’Altare della Patria, al lato destro della cancellata artistica di Manfredo Manfredi è collocato il gruppo bronzeo dell’Azione, capolavoro realizzato appositamente per l’apertura del Monumento nazionale a Vittorio Emanuele II. Di queste due ultime opere monumentali esistono altrettanti bozzetti, conservati all’interno della Gipsoteca Francesco Jerace di Catanzaro, ospitata al MARCA, Museo delle Arti della città capoluogo della Calabria.

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    Roma, complesso del Vittoriano: l’Azione, opera di Francesco Jerace

    La Napoli di Francesco Jerace

    La città che però conserva il maggior numero di opere del Maestro calabrese è certamente Napoli, dove Jerace visse per lunghi periodi della sua vita. Alle pendici del Vesuvio si possono ammirare le decorazioni del giardino e dei salotti della settecentesca Villa La Fiorita, nell’abitazione sui Colli Aminei l’artista soggiornò, ospite della famiglia del banchiere svizzero Oscar Meuricoffre. Oppure apprezzare l’altorilievo bronzeo sul frontone dell’Università degli studi, in cui, fra le diciotto figure – delle quali una è un ritratto del nonno Francesco Morani –, spicca Federico II, lo Stupor Mundi, fondatore dell’ateneo nell’anno di grazia 1224.

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    La statua di Beethoven nel cortile del Conservatorio di San Pietro a Majella

    Ancora nella già capitale del Regnum Siciliae citra Pharum è possibile imbattersi nella statua jeraciana di Vittorio Emanuele II sulla facciata di Palazzo Reale, nei monumenti a Nicola Amore e a Giovanni Nicotera in Piazza della Vittoria, nelle sculture sul frontone del Duomo, nel busto della boccaccesca Carmosina al Museo e Real Bosco di Capodimonte, nella statua di Antonio Toscano, l’Eroe di Vigliena, al Maschio Angioino, nella drammatica Mater dolorosa del monumento Cocchia al cimitero di Poggioreale e nella statua di Ludwig van Beethoven, presentata nel 1895 alla edizione inaugurale della Biennale di Venezia e oggi collocata nel cortile del Conservatorio di San Pietro a Majella. Piccola parentesi: alla kermesse della città lagunare, inoltre, Jerace partecipò con altre opere tra le quali il busto di Hadria, poi acquistato da Guglielmo II, imperatore di Germania e re di Prussia.

    In giro per l’Italia

    Intorno all’area campana e meridionale sono da citare i monumenti in memoria dei caduti della Grande guerra a Sorrento e ad Aversa, il monumento a Giuseppe Martucci a Capua, la statua di Gabriele Pepe a Campobasso e un bronzo raffigurante Nino Cesarini, compagno del barone francese Jacques d’Adelswärd-Fersen, che il nobiluomo – personaggio da romanzo – fece collocare nel giardino di Villa Lysis a Capri, suo “tempio bianco” sacro all’amore e al dolore. La scultura purtroppo è andata perduta successivamente al suicidio del Fersen nel 1923 e all’abbandono in cui precipitò la Villa.

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    Il barone Fersen

    Menzionando il gruppo dedicato a Gaetano Donizetti a Bergamo – onere che Jerace ottenne a seguito di un concorso in cui trionfò contro una schiera di rivali in buona parte provenienti dal Nord –, proseguiamo l’itinerario artistico dello scultore calabrese giungendo nella sua terra d’origine.

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    Bergamo, il monumento a Donizetti realizzato da Jerace

    Le opere a Polistena

    All’interno del Duomo della natia Polistena – dove Jerace ricevette il battesimo – si trova un suo altare marmoreo, quello della cappella del Santissimo Sacramento, su cui campeggia la grande tela dell’Eucarestia, chiaramente firmata Jerace. All’interno del luogo di culto è conservato anche un quadro dell’Ultima Cena (dipinto nel 1904 per volontà del padre), fatica bastevole a ricordare l’altro campo artistico in cui eccelleva il Maestro. L’esterno della chiesa dedicata a Santa Marina Vergine presenta inoltre un frontone realizzato su disegni dell’illustre concittadino.

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    L’Ultima Cena, dipinto realizzato da Jerace su richiesta del padre

    Oltre a ciò, Francesco Jerace ha voluto ricordare il sacrificio dei polistenesi nel corso della Prima guerra mondiale con un monumento ai caduti situato in Piazza del Popolo. A sua volta Polistena ricorda il suo indimenticabile figlio con un’opera bronzea di Fortunato Longo, inaugurata nel 1997 e posta nella piazza da cui parte la via dedicatagli, e con la Casa museo Jerace, aperta nel 2018, nelle cui sale sono esposte numerose opere d’arte eseguite dall’artista e dal fratello Vincenzo. Nel Municipio della “perla della Piana”, in ultimo, si trova un bassorilievo di gesso con una testa barbuta – una delle primissime realizzazioni del giovane Jerace – e altri lavori donati in tempi recenti dagli eredi.

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    Polistena, Monumento ai caduti

    Francesco Jerace in Calabria

    A proposito di donazioni: abbiamo citato in precedenza la Gipsoteca Francesco Jerace di Catanzaro. Lo spazio offre una nutrita collezione di marmi e gessi dello scultore, donati nel 1966 dalla figlia Maria Rosa, come una riproduzione della Victa – busto marmoreo col quale nel 1880 partecipò all’Esposizione nazionale di Torino – e i busti ideali dell’Ercolanea e della principessa Evelina Colonna di Galatro.

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    Reggio Calabria, il monumento a Giuseppe De Nava

    In Calabria la mano di Jerace è rintracciabile in diverse città. A Reggio Calabria il Maestro realizzò le statue di San Paolo e Santo Stefano di Nicea per il sagrato del Duomo: il primo secondo tradizione convertì la popolazione reggina al Cristianesimo, il secondo fu invece il primo vescovo della città. All’interno del Duomo di Reggio si trova pure un suo monumentale pergamo. Per la città sullo Stretto il Genio di Polistena ha scolpito, inoltre, il monumento ai caduti con la Vittoria Alata, il marmo Eroica, il monumento a Giuseppe de Nava e un busto della poetessa locridea Nosside. Da segnalare anche un originale autoritratto a sanguigna custodito all’interno del Museo diocesano della città metropolitana.

    Un museo a cielo aperto

    Proseguiamo la carrellata citando i lavori di Francesco Jerace accolti alla Gipsoteca Michele Guerrisi, presso la Casa della cultura Leonida Repaci di Palmi, il busto di nobildonna conservato al MAON, Museo d’arte dell’Otto e Novecento di Rende, e l’Angelo della tomba Compagna al sacrario della Schiavonea di Corigliano.
    Non soltanto gallerie al chiuso: la Calabria rappresenta, infatti, un autentico museo a cielo aperto per quel che riguarda l’opera di Jerace. Per le strade di Crotone si incontrano le statue di Armando Lucifero e Raffaele Lucente; a Cosenza gli Angeli della cappella Greco; a Pizzo, prossimo all’incantevole belvedere di Piazza della Repubblica, il busto di Umberto I di Savoia scolpito nel 1902 per ricordare il sovrano d’Italia assassinato due anni prima per mano di un anarchico; a Stefanaconi il monumento ai caduti; a Scilla la possente statua di bronzo della Sirena; ancora a Catanzaro i marmi dei viali di Villa Margherita, raffiguranti illustri calabresi del XIX secolo tra cui Andrea Cefaly, Francesco Fiorentino e Bernardino Grimaldi.

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    Cosenza, gli Angeli della cappella Greco

    Sul tetto dell’Aspromonte

    Impossibile dimenticare, infine, la statua bronzea del Cristo Redentore, realizzata per il Giubileo del 1900 e rientrante nel “grandioso omaggio a Dio” concepito da papa Leone XIII, progetto che prevedeva la collocazione di venti statue su altrettanti monti italiani.
    Posto nel 1901 sulla cima dell’Aspromonte, ai 1956 metri di Montalto, comune di San Luca, il Cristo Redentore di Francesco Jerace ha in mano una grande croce e con l’altra benedice l’intero popolo calabrese, perché possa vivere nella fede in Dio e non dimentichi i grandi uomini – religiosi e artisti su tutti – che lo hanno rappresentato nel mondo.

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    Montalto (San Luca), il Cristo redentore

    Francesco Jerace, sculture in tutto il mondo

    Membro della commissione permanente di Belle Arti, l’eminente artista fu professore onorario delle accademie di Belle Arti a Napoli, Milano e Bologna e alla VIII Biennale del 1909 gli fu riservata una mostra personale.
    Francesco Jerace fu invitato alle rassegne internazionali più importanti del suo tempo, partecipando a varie Esposizioni universali, all’Esposizione italiana di San Pietroburgo dell’anno 1902 e a manifestazioni anche oltreoceano (fu a Saint Louis, Buenos Aires e Santiago del Cile) prima di spegnersi a Napoli il 18 gennaio 1937. Sue opere si trovano oggi in tutto il globo: da Londra a Berlino, da Dublino a Monaco di Baviera, da Varsavia, a L’Aia, Madrid, Atene, Odessa e Bombay.

  • Perché Sanremo è… San Lucido

    Perché Sanremo è… San Lucido

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    Il Festival di Sanremo sta per iniziare, si sa, e interrogarsi su cosa significhi per questo nostro paese la sua puntuale, amplificatissima e superimposta celebrazione, nella disputa canonica tra elitarismo di massa e disprezzo intellettualistico per il pop, nella liturgica lotta tra apocalittici e integrati della canzonetta, è diventato oramai pericoloso come affrontare un dogma di fede, un tabù, un totem da scomunicare o idolatrare senza discussione.

    Festival per tutti (e tutto)

    Certo è che il Festival per antonomasia, quello di Sanremo, da settant’anni a questa parte è diventato il modello di spettacolo popolare che questo paese si è costruito per significare la categoria di un «evento di spettacolo popolare che ha luogo periodicamente in determinate località, con rappresentazioni di particolare rilievo e con programmi aventi di solito un loro carattere costante» (Treccani). La logica dell’evento, la festivalizzazione, ha colpito nel frattempo in ogni settore. Ormai un festival incombe per ogni cosa, dalla letteratura alla filosofia, dal porno all’edilizia, dalla cucina bio ai materiali high-tech. Un carattere di crescente enfatizzazione spettacolare e di ripetitività che, a partire dall’originale, ha generato sin dalle prime edizioni sanremesi anche curiose imitazioni e stravaganti repliche locali. Anche con sviluppi istituzionali.

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    La storica sede del Festival di Sanremo

    La Regione Calabria, per esempio, alcuni fa nella rincorsa ai “grandi eventi” spettacolar-turistico-culturali da celebrare in regione, si inventò un bando pubblico intitolato non a caso “Calabria Terra di Festival”. Ma anche uno dei primi tentativi di clonazione della rassegna canora sanremese, incredibilmente, prese in passato le mosse proprio in Calabria. E per similitudine con l’evento originario, proprio in un piccolo centro rivierasco del Tirreno cosentino, solo qualche anno dopo la celebrazione dal primo Sanremo canzonettistico.

    Il Lucival: San Lucido come Sanremo

    Accadeva a San Lucido negli anni ’50 del Novecento. Il festival appena gemmato sulle sponde calabre, magra e provinciale imitazione del primo, non poteva fare a meno di echeggiarne almeno la desinenza. E fu così che si chiamò Lucival. Dato che “sentirsi Sanremo”, sognare le luci della ribalta canora con contorno di personaggi noti ed esibizioni di arti varie, con musiche, balli e luminarie – potenza primordiale dei primi organismi staminali dell’odierna società dello spettacolo – pare sia stata la molla di un’aspirazione agonistica per uscire dal grigio anonimato locale della vita di provincia, quando quella Calabria del secondo dopoguerra ancora neanche intravedeva il boom.

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    1954, un’esibizione durante la prima edizione del Lucival

    La prima edizione del Lucival, «grande evento locale» celebrato nella “perla del Tirreno” calabrese, è datata 1954. Per chi ne divenne artefice «era il momento giusto per inventarsi qualcosa di simile» a Sanremo anche in un paesino di mare della lontana Calabria tirrenica, che dall’altro capo dell’Italia sognava di uscire con la musica, le canzoni e i cantanti dalle ombre lunghe della guerra. Alcuni giovani del luogo «al passo con i tempi capiscono che qualcosa sta cambiando nel mondo dello spettacolo». E così pensano bene di organizzare a casa loro “una kermesse canora-culturale, alla quale danno il nome di Lucival – abbreviazione originale di Festival San Lucidano”.

    Nilla Pizzi in Calabria

    Il Festival di Sanremo era iniziato appena qualche anno prima, nel 1951, quando le canzoni si potevano ascoltare solo alla radio, dato che la televisione non c’era ancora. Il 1954, l’anno del primo Lucival, fu pure l’anno di un avvenimento che cambio la vita dell’Italia popolare: il 3 gennaio la RAI, radiotelevisione italiana, aveva avviato la trasmissione dei primi programmi televisivi in bianco e nero. Nel 1951 il Festival di Sanremo lo vinse l’allora giovanissima Nilla Pizzi, che aveva spopolato con Grazie dei fiori, considerata all’epoca, con Papaveri e papere una sorta di manifesto in musica dell’Italietta di buoni sentimenti post bellica prudentemente guidata dalla Democrazia Cristiana di De Gasperi.

    https://www.youtube.com/watch?v=4fuyGhGZOlA

    Proprio la Pizzi, «con la sua voce melodiosa e la sua avvenente presenza», diventata personaggio familiare con il successo radiofonico del primo Sanremo, fu “ospite d’onore negli anni successivi proprio a San Lucido, conquistando tutti con le sue esibizioni canore”.
    C’era chi intravedeva anche in Calabria in quelle presenze musicali amplificate dalla crescente risonanza del festival ligure, «l’avvento di un periodo di ottimismo, di incredibili trasformazioni sociali e di crescente entusiasmo culturale». Furono dei sognatori da pro-loco e filodrammatica di paese e far nascere il Lucival nel 1954. Ingenuità culturale e illusioni visionarie fecero il resto.

    I premi per i bambini

    «Il Lucival sanlucidano aveva l’impronta di una manifestazione di arte e di cultura varia che ambiva a valicare i confini locali per raggiungere tutta la Calabria; infatti, scrittori, poeti, giornalisti e artisti di varie specialità potevano concorrere per premi quali Il Giornale d’Italia e La Calabria Letteraria». Un mix popolare di musica, cantanti e buoni sentimenti, dato che «la manifestazione era organizzata a scopo benefico, tant’è che gli stessi vincitori devolvevano i premi in denaro a favore dei bambini poveri della scuola».

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    1966, un bambino sul palco del Lucival

    Il Lucival non era infatti destinato solo ad una platea «di artisti locali e ad un pubblico di adulti», “ma si rivolgeva anche ai più piccini, con concorsi a premi come La Palestra dei Piccoli, L’Ugola d’Oro, Lo Zibaldone». Di fronte a queste auliche e ingenue dichiarazioni artistiche impossibile non provare sfogliando il folto album ingiallito del festivalino sanlucidano, una sorta di Amarcord per un mondo di sentimenti, emozioni e personaggi paesani ormai trapassato.

    L’inventore del Lucival e l’inno cittadino

    L’idea della manifestazione canora sanlucidana «era maturata grazie alla passione di un insegnante di musica», Giovanni Ciorlia,. Per anni fu animatore e «direttore artistico del festival sanlucidano» (ma anche primo presidente della Pro Loco e a lungo assessore comunale ed esponente della DC locale). Al suo fianco, il «Prof. Dalmazio Chiappetta, il Prof. Antonio Calomino, Sindaco di San Lucido, e il Prof. Giacomoantonio Napolitano (direttore didattico)». L’orchestra Primavera diretta dal maestro Franco Perri e il quartetto Aurora, diretto da Davide Iorio, costituivano, invece, il supporto orchestrale del festival, «il cuore pulsante dell’evento». Dopo aver «trionfato nell’edizione del Lucival del 1955», la canzone A ritmo di beguine, Notte Sanlucidana, «scritta dal maestro Clemente Selvaggio e musicata dal maestro Matteo Puzzello», composta e cantata in quell’occasione, “è divenuta nel tempo l’inno musicale della cittadina”.

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    Giovanni Ciorlia sul palco del Lucival insieme all’Orchestra Fenati

    Il Lucival fu così nel giro di qualche anno un vero happening indigeno, un «evento musicale di grande richiamo» locale che raccolse nelle sue serate al clou del successo «un pubblico pagante» che, sostengono le cronache, giunse «fino a 7.000 persone». Il Lucival fu ripetuto con successo in diverse edizioni, ma senza mai valicare «i confini della provincia».
    Si teneva in estate in uno spazio all’aperto, e tutto durò sino allo scoccare del fatidico 1968. Poi, cambiati i tempi, la musica e le mode, solo qualche replica minore e grandi nostalgie attestate da reduci e gruppi facebook locali, che oggi del “mitico Lucival” sanlucidano conservano a futura memoria reliquie e icone del bel tempo che fu.

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    Magari non come a Sanremo, ma anche gli spettatori del Lucival a San Lucido erano numerosi

    San Lucido (quasi) come Sanremo: i big del Lucival

    Si ricorda così qualche memorabile comparsata di alcuni volti noti del bel mondo dello spettacolo nazionale. Quella dell’attrice Sandra Milo o, nel 1968, quella di «Nuccio Costa, mattatore dell’ultimo Cantagiro». Persino un memorabile passaggio di Enzo Tortora, che “accolto calorosamente” presentò il Lucival del 1967. Poi una galleria minore di artisti di passo a cui arrise in quel periodo anche una qualche sporadica notorietà. Qualche esempio? La cantante Anna Identici e il più classico Achille Togliani. O, ancora, «Franco Tozzi e il suo complesso», che al Lucival del 1968 cantò I tuoi occhi verdi, unica hit che si ricordi di colui che altri non è che il fratello del più noto e fortunato Umberto Tozzi.

    Insieme a questi, una carrellata di dilettanti locali calcarono il palco delle “voci nuove” del Lucival restando per sempre “promesse locali”. Come “il complesso The Seamen”, o «l’orchestrina sanlucidana degli Aurora». Ma resta, forse unica impronta di vite e carriere artistiche avvolte nel buio della dimenticanza, una folta processione di illustri carneade e di figurine appena tangenti quel mondo fatuo e fatato «della Rai-TV». Epifanie forestiere in mezzo a quelle calde estati di fervore paesano di cui non resta altra traccia che queste fugaci apparizioni artistiche sanlucidane da rotonda sul mare. Evocazioni di nome d’arte quasi circensi e di silhouette teneramente fellinane, fantasmi del palcoscenico rimasti malinconicamente ai margini delle luci della grande spettacolo.

    Fantasisti, imitatori e ragazzi di strada

    Un appello a cui rispondono nomi da leggenda strapaesana come «il cantante Franco Giangallo», «gli illusionisti del duo Naldys», «la cantante Niky», «l’attrice Nuri Neva», «Rino, il ragazzo di strada», «la cantante della Rai-TV Myriam del Mare», seguita in altre edizioni dalle «applaudite apparizioni delle cantanti Rita Monaco, Germana Caroli, Anna Maria Maresca, Valeria Foroni». Con un contorno fiorito di interpreti e artisti di arti varie, come il «celebre Maestro direttore d’orchestra Giovanni Fenati», «il magnifico trombettista Tony Spada», o «il grande fantasista Riccardo Vitali».
    Al cast nostrano dei Lucival di quei tempi non poteva mancare una specie di Noschese dei poveri, il mai più rivisto Mario Di Giglio. Era lui «il bravo imitatore» cui spettava l’arduo compito, in mancanza dei più noti e blasonati personaggi originali, di portare al Lucival tutte «le altre voci delle celebrità mancanti».
    Erano pur sempre luci del palcoscenico, Lucival della ribalta.

    Le immagini a corredo dell’articolo sono state raccolte negli anni dalle pagine FB “Giovanni Ciorlia – Un pezzo della nostra storia”; C’era una volta Santu Lucidu”; “Tavernetta letteraria”

  • STRADE PERDUTE | Fuga da Policastro

    STRADE PERDUTE | Fuga da Policastro

    Anche le cartoline hanno un recto e un verso. Il recto del Golfo di Policastro è quel panorama mozzafiato a cavallo di tre regioni, da Scalea a Camerota o giù di lì (volendo includere Palinuro o fermarsi agli Infreschi). E di questo, come al solito, parlerò molto poco. Il verso include, in ordine sparso:

    • la Marlane,
    • l’isola di Dino,
    • il Cristo di Maratea,
    • il disastro edilizio intensivo di Scalea,
    • il disastro edilizio “distensivo” di San Nicola Arcella.

    Il conte, il monte e il Cristo

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    La strada che conduce al Cristo di Maratea, che sovrasta il Golfo di Policastro

    Avviciniamoci un po’ alla volta: il Cristo di Maratea sembra fare spallucce e dirti a braccia aperte «dotto’, io quello che potevo fare l’ho fatto»… ma è un bluff: la pacchianata, a imitazione di Rio de Janeiro, non sorge sul Pan di Zucchero ma sul monte S. Biagio, spodestando perciò anche il vecchio titolare aureolato.
    L’ottovolante per arrivare lassù è opera di un progettista che meriterebbe l’anatema per diverse ragioni (è brutto, sta cadendo a pezzi, ha deturpato il panorama, fa venire le vertigini non solo ai più inclini ad averle). Eppure i ruderi di Maratea antica stanno praticamente lì. e nessuno si chiede mai in che modo un tempo ci si arrivasse. Ah, se si fosse un minimo curiosi…

    Il viso del Cristo, pacchianata delle pacchianate, pare non fosse altro che il ritratto del committente da giovane, ovvero il conte Stefano Rivetti di Val di Cervo, quell’imprenditore piemontese che dagli anni Cinquanta si fece finanziare diverse opere quaggiù grazie alla Cassa per il Mezzogiorno e ai buoni uffici del ministro Emilio Colombo, buoni uffici che gli portarono in tasca più di 4 miliardi di lire di quegli anni.

    Un fallimento dopo l’altro, il pioniere piemontese lasciò in terra calabra ricordini non esemplari e scelse di farsi seppellire in una grotta praticamente inavvicinabile, in un anfratto dello sperone sotto al Cristo, mentre l’ENI acquistava il poco che era rimasto, con buona pace delle velleità del conte discendente in verità da agricoltori-fabbri-addetti ai telai. I ricordini di cui sopra sono i lanifici Rivetti poi passati sotto il nome di Marlane, a Tortora e Praia a Mare, ovvero quella fabbrica di veleni che ha regalato nel golfo di Policastro patologie incurabili, mortali, a decine di operai.

    Vestivamo alla marinara

    E qui comincia l’avventura nel paesaggio post-atomico distopico (e anche un po’ dispotico) di certi angoli di Calabria costiera nordoccidentale. Il grande scempio di Policastro prosegue sull’Isola di Dino. Da qualche parte si legge la fantasiosissima fandonia in base alla quale si chiamerebbe così in memoria del figlio di Enzo Ferrari, deceduto nel 1956. Bene, l’Isola si chiama come si chiama già dall’antichità, e per fortuna esiste la cartografia storica che lo conferma.

    Apparentemente amena e lussureggiante, in realtà è ben altro: acquistata da altro imprenditore piemontese un po’ più noto del precedente (tale avv. Gianni Agnelli) per farne un polo turistico, anche qui il savoiardo se ne lavò le mani. Costruiti alcuni tucul, un mezzo bar-ristorante e qualche villetta, tutto cadde in abbandono nel giro di pochi anni. Dopo ulteriori passaggi di proprietà, solo pochissimo tempo fa il Comune di Praia a Mare ha riottenuto, riperso e riottenuto ancora la proprietà dell’isola.

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    Anni ’70, clienti al ristorante (oggi semidistrutto) dell’hotel Totem sull’Isola di Dino

    Nel frattempo? Parecchia immondizia. Reale e… reality. Fatevi un giro su Google Maps, ad ammirare legittimamente gli edifici sventrati, i rottami e gli orrori dell’incuria (persino automobili abbandonate…). Era un paradiso, poteva continuare ad esserlo. E invece no.

    La sfida degli ecomostri

    E poi ci si lagnava, nei decenni passati di quanto fosse inopportuno il villaggio del Bridge, sul monte sopra San Nicola Arcella… che a ben vedere sarà troppo esteso, troppo colorato, ma è pur sempre più caratteristico e accettabile rispetto alle vergogne edilizie che hanno riempito la zona più costiera, tra calette in cui fare il bagno in mezzo ai liquami, non-luoghi dei più “classici”, e piccoli ecomostri: orrende villette a schiera dei parvenu che per voler imitare ingenuamente le villone dei papaveri democristiani o dei più altolocati professionisti napoletani, si schiacciano l’una all’altra sgomitando tra l’immondizia quasi fino alla Torre Crawford e al magnifico Palazzo del principe Spinelli di Scalea, poi Lanza di Trabia, ora restaurato, passato nelle proprietà del Comune di San Nicola Arcella e nuovamente abbandonato nella sua interezza.

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    Il villaggio del Bridge, sulle colline di San Nicola Arcella

    Oceano mare (Tirreno)

    Il brutto e il bello, come al solito. Il buon gusto e quello cattivo, pessimo, inguaribile.
    E qui nel Golfo di Policastro ricomincia quel ciclico degrado antropologico, in quelle che d’inverno diventano terre di nessuno dove – puntualmente – torna ad essere assente pure il minimo segnale stradale, anche solo quello che malauguratamente riporti sulla Strada Statale. Gli unici segnali sono quelli dei lidi, dei ristoranti, dei discopub, tutti rigorosamente muniti di nomi esotici. Ma che bisogno c’è di essere esotici nel mezzo del Mediterraneo, nel cuore del Tirreno? Cosa abbiamo da invidiare?
    E allora ecco i vari Copacabana, Martinica, Tequila, e via dicendo. Come se alle Maldive avessero bisogno di intitolare un bar ad Anacapri, a Portofino, al Gargano, alla Scala dei Turchi o alla Chianalea.

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    Ecomostri piccoli e grandi, barche e ombrelloni a due passi dalla Torre Crawford

    Esoterismo e presepi viventi

    Il cattivo gusto, dicevo, inguaribile come il destino tristissimo dell’altra torre lì vicino, la torre Talao, passata dall’essere un leggendario luogo di ritrovo di esoteristi di calibro non indifferente – tra cui Aleister Crowley, Arturo Reghini, Giulio Parise e Giovanni Amendola in veste di teosofo – all’ospitare, quando va bene, i presepi viventi organizzati dal Comune di Scalea. Dalle stelle alle stalle, mai come in questo caso. Dal neopaganesimo sotto le volte stellate… alle mangiatoie. E pensare che proprio durante un soggiorno presso la Torre Talao, nel ’22, Reghini scrisse Le parole sacre e di passo. Studio critico ed iniziatico. E pazienza, anche qui.

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    Torre Talao, primi del Novecento

    Erre come Livorno

    Tutto in linea con gli abusi edilizi e lo sfruttamento del territorio nel Golfo di Policastro in termini di edificabilità. Fate un confronto tra due mappe di Scalea pre e post anni ’60 del Novecento e resterete piuttosto sorpresi per la quasi assoluta irriconoscibilità della forma urbana. Eppure non doveva essere male neppure Scalea, un tempo, molti molti decenni prima di essere definita – non a torto – Napoli Lido. Quando magari vi passeggiava tranquillamente il suo cittadino più illustre, quel Gregorio Caroprese che tutti si ostinano ancora a chiamare Caloprese, secondo il vezzo umanistico che portò Parisio a trasformarsi in Parrasio, Gualtieri in Gauderino, Terapo in Lacinio, Rosselli in Russilliano e finanche un mio omonimo nel canonico Frugali.

    Niente da fare: Caroprese era e Caroprese resta, così come del resto tale cognome sopravvive nel circondario di Scalea e da lì in tutta Italia, a differenza dell’inesistente Caloprese. E state tranquilli, lo dice persino la lapide settecentesca in sua memoria: “heic sunt Gregorii Caropresii italorum philosophorum maximi viri omnigena eruditione praestantis virtutibus pietate morbus praeclarissimi Iani Vincentii Gravinae i. c. Petrique Metastasio magistri sita ossa. Viator tametsi properas siste. Da sacro cineri flore set ne sit tibi dicere grave molliter Caropresii ossa cubent”…

    caloprese