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  • Una villa romana fantasma nel cuore di Rende

    Una villa romana fantasma nel cuore di Rende

    Se nel lontano 1887 le autorità avessero proseguito la ricerca sui resti romani trovati a Rende, forse la storia della città del Campagnano sarebbe stata diversa.
    Quei resti appartenenti a un’antica villa, che risaliva al primo secolo dopo Cristo, si trovano a contrada Molicelle, grosso modo tra il Centro Polifunzionale dell’Università della Calabria e via Settimio Severo.
    Li avessero scavati allora, l’intera zona sarebbe stata musealizzata e forse l’Unical non sarebbe sorta (o sarebbe sorta altrove).
    Di questa villa “fantasma”, scoperta e dimenticata nel classico battito di ciglia, resta un’importante documentazione, conservata negli archivi di Stato di Roma e Cosenza. Vecchi fascicoli che hanno raccolto polvere per decenni, anch’essi a loro modo “rovine” della memoria collettiva.

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    L’archeologa Rossella Schiavonea Scavello

    La riscoperta della villa romana di Rende

    Queste rovine le ha scavate un’archeologa, Rossella Schiavonea Scavello, fresca di dottorato presso l’Unical.
    La studiosa ha dato un primo resoconto della sua particolare ricerca, fatta con macchina fotografica e scanner anziché con pala e piccone, in La scoperta di una villa romana in contrada Molicelle, un saggio pubblicato nel 2015 nella raccolta Note di archeologia calabrese, edito da Pellegrini.
    Ma veniamo al racconto di questa vicenda archeologica a dir poco bizzarra.

    Il cavaliere, i contadini e le oche

    Oggi Magdalone è un toponimo, che indica una zona a cavallo tra Rende e Montalto Uffugo.
    Nel 1887 era un cognome importante: quello del cavalier Giovanni Magdalone.
    Nato nel 1833 e imparentato per parte di madre con Donato Morelli, patriota e supernotabile di Rogliano, il cavaliere possedeva praticamente tutta Arcavacata e una buona fetta del centro storico di Rende.
    I suoi contadini, diretti da un tale Francesco Pellegrini, menzionato come «custode delle oche», fecero la scoperta e la comunicarono a Magdalone, che a sua volta la comunicò al prefetto di Cosenza.

    La planimetria di contrada Molicelle a fine ‘800

    La villa romana fantasma

    Cos’avevano trovato, probabilmente per caso, i contadini di Magdalone? Innanzitutto i resti di un muro esterno, lungo 12 metri e largo 50 centimetri, che doveva essere l’edificio principale di questa struttura.
    Poi, vicinissimi, i residui di un colonnato e dei capitelli in stile jonico, più la prima chicca: un pavimento a mosaico fatto di tanti quadratini bianchi e neri.
    A tre metri di distanza, un trapetum, con due anfore interrate, simili a quelle ritrovate a Pompei. Infine, delle monete con l’effige di Augusto, delle statuine di marmo e un satiro in bronzo.
    Più una seconda chicca, che “apparenta” questa villa fantasma a quella di piazzetta Toscano, nel centro storico di Cosenza: dei tubi in ceramica con un marchio: Clemes Gauri, che probabilmente portavano l’acqua calda in un bagno termale.
    Questo logo d’epoca, secondo Scavello, potrebbe riferirsi a una famiglia importante di San Pietro in Guarano, che gestiva una fabbrica di materiali per l’edilizia. E quindi forniva tutti i ricchi intenzionati a costruire nel Cosentino.

    I resti romani di piazza Toscano prima di essere coperti dall'attuale struttura
    I resti romani di piazza Toscano prima di essere coperti dall’attuale struttura

    Villa o monastero?

    Il tutto, a cinquanta centimetri sotto terra. Per secoli ci si era coltivato sopra e nessuno si era accorto di nulla, o quasi.
    Fatto sta che Giovanni Magdalone, eccitato per la scoperta, si rivolge alle autorità. E queste affidano le ricerche a un big dell’archeologia dell’epoca: Luigi Viola, direttore del Museo di Taranto impegnato nello stesso negli scavi di Torre Mordillo a Spezzano Albanese.

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    L’archeologo Luigi Viola

    Viola visita gli scavi di Molicelle assieme al prefetto il 16 giugno del 1887 e certifica che quei resti sono di età romana. In questo modo, mette la parola fine a un piccolo giallo, scatenato da Fedele Fonte, sacerdote e scrittore dell’epoca.
    Secondo Fonte, quelle rovine sarebbero appartenute al monastero dei Santissimi Pietro e Paolo, andato distrutto nel 1500. Questa notizia, riportata dai giornali dell’epoca, fa un certo scalpore. Soprattutto, attira a Molicelle torme di popolani convinti di assistere a un miracolo.
    In realtà, di questo monastero esistono tracce storiche che indicano una zona diversa: contrada Rocchi. Molto rumore per nulla, quindi.

    Una scoperta minore?

    Partita col botto, la scoperta di Magdalone si arena e, pian piano, perde d’interesse. Forse perché la Calabria di allora ha un altro scoop archeologico che attira tutte le attenzioni (e le risorse). Si tratta di Sibari, di cui in quegli stessi anni entrano nel vivo gli scavi.
    In fin dei conti, quella di Molicelle è “solo” una delle tante villae di cui si sospetta l’esistenza nel Cosentino. Alcune sono state più “fortunate”: ad esempio, quella di Muricelle, a Luzzi, scavata nel 1989, e quella di Squarcio, a Bisignano, scoperta nel 2014.
    Di Rende, invece, nessuna notizia. Tranne quelle trovate da Scavello che ha ricostruito con pazienza tutto il carteggio ottocentesco.
    Viola promette una relazione, almeno per consentire la pubblicazione della scoperta. Tuttavia, sollecitato dalle autorità nel 1894, fa un passo indietro: non ha il personale, si giustifica, che possa scriverla. E la storia finisce qui.

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    La pianta della villa “fantasma”

    I reperti perduti della villa Romana di Rende

    E che fine hanno fatto le monete, i tubi di ceramica e le statue? Persi, o meglio privatizzati: sono finiti agli eredi del cavalier Magdalone.
    E cosa resta degli scavi? Quasi nulla: se li è ripresi la terra. Tutto da rifare.
    «Le uniche tracce provengono dalle riprese aeree dell’aeronautica militare contenute in Google Earth, nelle quali si notano ancora le planimetrie», spiega Rossella Scavello. Inoltre, ci sono «le testimonianze di alcuni anziani del luogo».

    Ma riprendere a scavare è un’altra cosa. Soprattutto, presenta altre difficoltà: «Con la nascita dell’Università, l’area si è parecchio urbanizzata, quindi occorrerebbe sapere dove scavare di preciso». Allo scopo, si dovrebbe iniziare «con metodi non invasivi: le riprese dei droni, il magnetometro e il georadar».
    Nulla di infattibile o di troppo costoso. Certo, servirebbe la classica buona volontà. Ma questa è un’altra storia…

  • Baccalà, l’ex “manzo dei poveri” che fa impazzire i calabresi

    Baccalà, l’ex “manzo dei poveri” che fa impazzire i calabresi

    Per la povera gente delle città e delle campagne il baccalà era un alimento importante e, come i maccheroni, considerato simbolo di benessere e abbondanza. Aveva un gusto gradevole e, se ben cucinato, poteva solleticare il palato dei più raffinati buongustai e stare al pari di qualunque prelibato manicaretto. Preparato in bianco con olio e limone, sotto forma di pasticcio, in tortiera o in casseruola condito con pomodoro, pinoli e uva passa era squisito. Qualcuno scriveva che le stesse divinità dei tempi antichi «lo avrebbero preferito all’eterna ambrosia».

    Il cibo dei semidei

    In una cicalata si legge che era il cibo dei semidei, che solo a vederlo rallegrava il cuore ed era sano perché se i pesci puzzavano dalla testa, era decollatu, ed è giustu, si nnò corrumpiria anchi lu bustu. E in un’elegia dedicata al baccalà si legge che era incantevole a vedersi nel piatto, bianco come il latte, gustoso come nessun altro cibo e ogni giudice lo avrebbe dichiarato il migliore tra tutti. Se Adamo avesse mangiato merluzzo salato non sarebbe stato scacciato da Dio e Giuseppe l’ebreo non sarebbe sfuggito alle voglie della sua padrona se avesse inteso odore di baccalà.

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    Michelangelo: Il peccato originale e la Cacciata dall’Eden nella Cappella Sistina

    Gli esperti raccomandavano che i baccalà da acquistare dovevano essere di grandi dimensioni, avere un colorito bianco e leggermente «paglino» nella faccia interna, la polpa lungo la spina non doveva presentare colorito bruno o rossastro, la pelle doveva essere aderente al corpo e la carne tenera, ben compatta e di buon odore. Gli stoccafissi, a differenza dei merluzzi salati, resistendo ai calori estivi, potevano serbarsi anche per due anni ma accidentalmente bagnati o tenuti ammucchiati in luoghi umidi erano anch’essi soggetti a putrefazione rapida, alla tarlatura e all’impolveramento.

    Sulle ali del gusto

    Per distinguere «anche all’oscuro» un ottimo gadus morhua, bisognava osservare le ali. Sul mercato era possibile vedere tre specie di baccalà: una con le ali al taglio della testa, chiamate orecchie, voltate entrambe verso la coda; un’altra con le ali entrambe rivolte all’insù; la terza con un’ala rovesciata all’insù e l’altra voltata in direzione della coda. I primi erano squisiti e da consumare sempre, i secondi erano scadenti e quindi da non acquistare, i terzi erano mediocri e da mangiare solo in rare occasioni. Le ali voltate verso la coda denotavano che il pesce «non aveva fregato», era grosso e manteneva le sue caratteristiche; quelle voltate in due modi significavano che i pesci presi stavano «fregando» ossia seminando; quelle rovesciate ambedue all’insù erano «il geroglifico che il pesce nella di cui cattura fu trovato», aveva già seminato ed era stanco, magro «esinanito e per conseguenza il peggiore».baccala-shutterstock_428919922-1-1024x501

    Baccalà al posto della carne

    Il baccalà si sostituiva alla carne e, non caso, era chiamato il «manzo dei poveri». I grandi proprietari terrieri, nella stipula dei contratti con i braccianti, oltre al salario prevedevano peperoni all’aceto, formaggio e baccalà. Il merluzzo salato, meno caro del pesce fresco, era alla portata popolino ma non da poter essere consumato frequentemente e, infatti, si cucinava in genere nelle domeniche, nelle feste e a Natale. Un’inchiesta ministeriale confermava che tra le classi povere si consumavano solo aringhe e baccalà ma il loro prezzo, benché basso, non ne permetteva l’uso quotidiano ed era limitato alle ricorrenze.

    Francesco II di Borbone, l’ultimo re delle Due Sicilie

    Il baccalà era venduto specialmente nelle cantine. E qualcuno faceva notare che, pur costando poco, per il volgo non era economico perché, essendo particolarmente salato, spingeva a bere tanto costoso vino. I baccalà offerti dagli osti ai clienti erano spesso piccoli merluzzi di qualità scadente mentre il pregiato baccalà verde, che aveva almeno due piedi di lunghezza, era riservato ai benestanti. Di questo baccalà spesso il volgo acquistava gli orecchiagnoli, alette e spuntature che i signori prenotavano per darle ai gatti. Il merluzzo salato di ottima qualità, era costoso per via dei dazi e i patrioti cosentini, in un manifesto affisso al portone della prefettura, accusavano Francesco II di «scorticare e far morire di fame la popolazione senza pietà» imponendo gabelle sul baccalà.

    Baccalà e religione

    Nell’Ottocento baccalà e stoccafissi erano ormai sulla tavola delle famiglie italiane e in ogni città c’erano decine di botteghe che li vendevano, dissalavano e cucinavano. Nelle feste religiose, soprattutto a Natale, i baccalajoli giravano nei quartieri e nei vicoli con una cesta sulla testa piena di stoccafissi e un secchio in mano con merluzzo ammollato. Quel pesce salato che proveniva da lontano era considerato una prelibatezza. E persino un brigante calabrese come Paolo Zumpano Olivella, gran mangiatore di carne, amava farsi portare alla macchia baccalà fritto dalle sue manutengole.

    Il successo di baccalà e stoccafisso nella dieta alimentare delle popolazioni era dovuto anche alla proibizione della Chiesa di mangiare carne nei giorni di digiuno, che superavano un terzo, e tra i chierici anche la metà dell’anno. I vescovi invitavano i fedeli a nutrirsi durante i digiuni di baccalà e stoccafisso perché sapevano che tanta gente per i loro pranzi utilizzava pesci prelibati che non avevano niente da invidiare alla carne. Il merluzzo salato era il cibo della penitenza e nelle campagne dopo i funerali i parenti cenavano su una tavola senza tovaglia, fiaschi e bicchieri ed era «formalità indispensabile che siasi sempre il baccalà».

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    Stoccafisso e baccalà erano pietanze in uso nella Nicotera studiata da Keys

    In occasione della Pasqua dei morti era uso «in tutto l’orbe rustico» nutrirsi con alimenti semplici e soprattutto merluzzi secchi e salati preparati in vari modi. In alcuni paesi le donne tendevano una corda da una finestra all’altra e facevano penzolare la Quaresima, una pupa di stoffa e di pezza con un fuso in mano e qua e là appesi saracche, sarde e pezzi di baccalà. La Quaresima, che seguiva ai giorni di grandi abbuffate, era rappresentata come una vecchia donna magra che accompagnava il Carnevale morto su un carretto tenendo in mano un baccalà o uno stoccafisso.

    Baccalà o stoccafisso?

    In passato di discuteva molto se era più buono il baccalà o lo stoccafisso. Ancora oggi il baccalà è apprezzato nella provincia di Cosenza e il pesce stocco nella provincia di Reggio Calabria. Nel cosentino in genere era infarinato e fritto o cotto con patate, olive nere, peperoni, pomodoro, alloro, prezzemolo, sale e pepe. Nel reggino il merluzzo secco si mangiava ad insalata con olio, aglio, prezzemolo e limone o cotto con patate, cipolla, peperoni, pomodori e olive in salamoia. Non sappiamo perché in certe province si prediligeva il baccalà e in altre lo stoccafisso. «De gustibus non disputandum est» ammoniva un detto latino e un proverbio popolare aggiungeva: «dei palati uguaglianza non può stare, perciò non s’ha dei gusti disputare».

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    Mammola (RC), una recente edizione della Sagra dello Stocco

    Mangiare stoccafisso invece del baccalà era probabilmente anche un mezzo di coesione, un modo per sancire l’appartenenza al gruppo, per rafforzare i valori comuni e rimarcare l’identità. Per avere un io c’è bisogno di un tu e per avere un noi c’è bisogno di un voi e questa differenziazione passava anche attraverso gli alimenti e la cucina.

    Ricchi e poveri

    La scelta del baccalà o dello stoccafisso era inoltre spesso legata al prezzo più che al gusto. Un medico dell’Ottocento osservava che i labardoni erano acquistati dai benestanti nelle città e il pesce-bastone dai contadini nelle campagne. Il merluzzo secco, detto anche merluccio o merluccia, si conservava meglio di quello salato ma era più difficile da digerire poiché le carni, seccandosi, diventavano coriacee, acquisivano una «durezza offensiva» e, non a caso, bisognava batterlo e macerarlo per lungo tempo nell’acqua prima di cuocerlo.

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    La “puteca” di un baccalajuolo a Napoli

    A volte la preferenza del merluzzo secco o salato dipendeva dai tipi di pesce che i brigantini inglesi, francesi, spagnoli, norvegesi, danesi, olandesi e di altre nazioni scaricavano negli scali italiani. Accadeva che in alcuni porti arrivassero solo aringhe, in altri baccalà e in altri ancora stoccafisso e gli importatori li mettevano all’asta ai negozianti che giungevano da ogni luogo. Il merluzzo conservato che arrivava a Napoli era commercializzato da imprese francesi che trattavano la vendita con i grandi produttori e stipulavano contratti con gli acquirenti partenopei che pagavano i proprietari dei bastimenti e i diritti della dogana. I compratori a loro volta vendevano il prodotto ad altri acquirenti che con bragozzi, brazzere, trabaccoli, peote, feluche, sciabecchi, polacchette e pieleghi lo portavano nei villaggi marini lungo il Tirreno e dell’Adriatico.

    Baccalà alla calabrese

    Imbianchite il Baccalà, spinatelo bene, e disfatelo in scaglie, passate con olio in una cazzarola sul fuoco dell’erbe fine, indi stemperateci due alici, metteteci un pizzico di farina, e bagnatele con un pochino di vino e culì; fate che la salsa stia bene di sale e stretta, poneteci dentro il Baccalà, e fatelo insaporire per mezz’ora fuori del fuoco, indi vuotatene una quarta parte sul piatto, che dovete servire, spolverizzate sopra con pane grattato, mescolato con mostacciolo pesto, e mandole bruscate, e peste finissime, poneteci sopra l’altra terza parte del baccalà, e spolverizzatelo nell’istessa guisa, e così farete del resto; aspergete sopra col resto della salsa, fategli prendere al forno un leggiero colore, e servite subito. Osservate che non bolla nel forno (Ricetta di Vincenzo Agnoletti, 1819)

  • Santa Maria di Corazzo, l’Abbazia tra passato e futuro

    Santa Maria di Corazzo, l’Abbazia tra passato e futuro

    Rispetto è la parola chiave, la stella polare degli interventi di restauro, consolidamento e valorizzazione che partiranno dalle prossime settimane alla Abbazia di Santa Maria di Corazzo, sita nella frazione Castagna di Carlopoli, comune di circa 1.500 anime della Presila catanzarese.
    I lavori avranno un approccio corretto, equilibrato e delicato, nel rispetto dell’immenso valore storico, culturale, religioso, paesaggistico e ambientale di quello che è senza dubbio uno dei monumenti più significativi e suggestivi dell’intera Calabria, terra di mare, certo, ma anche di monti, di storia, di tradizioni, di diversità linguistiche e culturali, di beni mobili e immobili di eccezionale pregio. Un patrimonio di cui essere consapevoli e da riguardare, fedeli alla duplice accezione suggerita dal sociologo e saggista Franco Cassano, vale a dire di avere riguardo, premura dei luoghi e di tornare a guardarli e a viverli davvero.

    L’Abbazia di Santa Maria di Corazzo: dalle origini all’abbandono

    L’Abbazia di Santa Maria di Corazzo – per secoli parte dell’Università di Scigliano – prende il nome dal vicino fiume Corace e la sua fondazione risale all’XI-XII secolo. Una più precisa collocazione temporale e susseguente paternità risultano ancora difficili da definire. È confermata la presenza dei monaci cistercensi e dell’abate Gioacchino da Fiore nell’arco di tempo che va dal 1157 al 1188 circa. Non trova, invece, al momento attestazione l’ipotesi caldeggiata da molti di una precedente edificazione dei monaci benedettini.
    La fine dell’Abbazia coincide con i drammatici terremoti del 1638 e 1783 che sconvolsero la popolazione calabrese e cambiarono per sempre l’aspetto paesaggistico della regione. Dopo un secolo e mezzo di trascuratezza e silenzio, dal 1934 il sito è tutelato dallo Stato italiano (legge di Tutela n. 364 del 1909).abbazia-di-santa-maria-corazzo-cartello

    Rispettoso, conservativo e delineato a seguito di un’attenta analisi conoscitiva, il progetto di restauro e consolidamento punta a valorizzare il bene tenendo fissa in mente la sua funzione originaria. Quindi non condannandolo, tracciando la strada, a una futura trasformazione in una luccicante attrazione turistica e macchina per fare soldi nell’interesse di pochi e a scapito di tutti gli altri.

    Malazioni simili vedrebbero l’imponente Abbazia vittima di un altro “terremoto”, non di minore entità – anzi, assai più grave considerato che sarebbe generato da chi è soltanto ospite della Terra e non da chi la governa – rispetto alle calamità naturali che ne determinarono prima la distruzione, poi l’abbandono – seppur documenti ne attestino residenti sino ai primi anni dell’Ottocento – e infine la progressiva espoliazione dei materiali e delle opere che vi erano conservate. Tra questi da citare quello che dovrebbe essere il portale della navata principale, collocato nella chiesa di San Bernardo della vicina Decollatura.

    Ritorno all’antico pensando al futuro

    L’intento è dunque di agire soltanto sulle problematiche in atto – sulle lesioni dannose e la vegetazione deleteria per l’integrità degli elementi delle murature –, lungi dall’alterare l’aspetto dell’antico monumento.
    Nello specifico, l’intervento consterà nella installazione di stampelle di acciaio per sorreggere le creste murarie, di griglie metalliche poste a copertura degli ambienti ipogei, di parapetti e luci gentili, non impattanti, che accompagneranno, giorno e notte, i visitatori. Una serie di operazioni per rendere sicuro e accessibile il rudere medievale, anche per le persone diversamente abili.ruderi-abbazia-santa-maria-corazzo

    Dettaglio importante e che manifesta una lieta sensibilità e lungimiranza: gli interventi di consolidamento e restauro di questa gemma preziosissima del patrimonio artistico e culturale della Calabria, eredità per l’intera regione, saranno potenzialmente reversibili. I componenti impiantati, un domani, potranno essere estratti, non intralceranno l’operato di più avanzate attività che potrebbero avere luogo nei decenni e secoli futuri. Rispetto sia per il bene sia per le generazioni postere, per l’appunto.

    Il progetto per l’Abbazia di Santa Maria di Corazzo

    Il progetto ha ottenuto il via libera – diversamente da un altro, assai più aggressivo e snaturante, che prevedeva l’installazione di pareti in cristallo e di un tetto in legno lamellare, presentato nel 2020 (allora si parlò di «intervento di tipo conservativo ma allo stesso tempo innovativo») – dalla Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio delle province di Catanzaro e Crotone.

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    Rendering del progetto di restauro respinto

    A realizzarlo, il Comune di Carlopoli e i professionisti della Giannantoni Ingegneria srl: gli ingegneri Andrea Giannatoni e Isabella Santeramo, l’architetto Luisa Pandolfi. L’elaborazione ha beneficiato del supporto e della consulenza scientifica dell’archeologo e docente Francesco Cuteri, del soprintendente Belle Arti e Paesaggio di Catanzaro e Crotone Stefania Argenti, del docente e architetto Riccardo dalla Negra, del docente e architetto Giuseppina Pugliano e del geologo Marcello Chiodo.

    La presentazione del progetto

    A presentare gli interventi di restauro, consolidamento e valorizzazione della Abbazia di Santa Maria di Corazzo sono stati invece Wanda Ferro, sottosegretario al Ministero degli Interni, Mario Amedeo Mormile, presidente della Provincia di Catanzaro, Emanuela Talarico, sindaco di Carlopoli, Antonio Chieffallo, presidente dell’associazione Muricello, all’interno del Municipio di Carlopoli lo scorso 19 marzo nell’ambito degli eventi di chiusura del Premio Muricello.

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  • Col pugno chiuso in cielo: l’ultimo saluto di Franco Malanga

    Col pugno chiuso in cielo: l’ultimo saluto di Franco Malanga

    Franco Malanga ha salutato a pugno chiuso e se ne è andato
    Ha concluso una vita intensa, costellata di tante vicende pirotecniche. Sovversivo e comunista.
    Malanga ha fondato sul finire degli anni ’70, quando militava nella sinistra “extraparlamentare”, la prima Casa del Popolo nel cuore dell’antico quartiere del Cancello di Paola.
    Lì allora si tenevano le riunioni dei compagni, che provenivano da piccole formazioni come Potere operaio o il Pcd’I (marxista-leninista).

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    Un primo piano di Franco Malanga

    Malanga: da Radio Bronx alle candidature

    All’interno del locale c’era una piccola biblioteca di testi “alternativi”. Ci si ritrovava lì per organizzare dibatti e mostre con dazebao all’aperto. Franco, inoltre, contribuì a fondare, sempre a Paola, Radio Bronx e partecipò a manifestazioni “contro il sistema”.
    Ironico e sarcastico, lo si ricorda anche a un corteo no global vestito con l’uniforme dell’Armata Rossa per irridere con goliardia l’“autorità costituita”.
    Nel 2012 e nel 2017 Franco si è candidato al Consiglio comunale di Paola da indipendente per Rifondazione comunista, raccogliendo l’appello di chi lo voleva in lista come compagno di battaglia.

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    Malanga sovietico

    Malanga e le sfilate in abiti imperiali

    Franco Malanga, nella sua seconda vita, ha vestito anche i panni di Roberto il Guiscardo, di Carlo V e di Federico II.
    Ha sostenuto l’impero, la monarchia e il Regno delle due Sicilie. Lui, con le sue sfilate in costume medievale, ha mobilitato centinaia di soldati armati di spade e durlindane che hanno attraversato le strade di ogni posto innalzando al cielo i propri stendardi. L’associazione dei Normanni, che ha animato per tantissimi anni, ha organizzato cortei storici in costume che hanno strabiliato le folle di tutta Italia.malanga-addio-rivoluzionario-paola, che-travestiva-re

    Al cospetto della Regina

    Resta memorabile la sfilata a Cosenza vecchia, quando Malanga venne accolto in pompa magna dall’allora sindaco Giacomo Mancini.
    Ancora: fondò l’Ordine degli Amici di San Francesco di Paola, che si è spinto in Francia, precisamente a Frejus, per rendere omaggio alla città che ha consacrato il Taumaturgo come suo protettore.
    Un’altra volta, Franco e i suoi figuranti hanno “osato” competere a Venezia con le maschere del Carnevale, uscendone trionfatori e premiati in Piazza San Marco per la bellezza degli abiti esibiti. Ma il top è stato a Londra, dove rese onore da pari, nientemeno che alla regina Elisabetta, che lo ricambiò con diversi doni e tantissimi elogi.

    Malanga nei panni di San Francesco di Paola

    A tu per tu con De Crescenzo e Piperno

    Animatore di eventi culturali, Franco ha promosso i “Venerdì letterari”, ovvero dei cenacoli, in cui artisti di ogni genere esponevano la propria opera.
    L’iniziativa ha avuto ospiti illustri: ad esempio, Luciano De Crescenzo, che ha ricevuto un premio speciale.
    Rimane nei ricordi di tanti l’incontro con Franco Piperno, una notte d’estate di molti anni fa, quando il fisico espose le sue teorie sul firmamento e l’ordine delle stelle nella suggestiva area del castello diruto dei Normanni.

    Malanga normanno

    Malanga scrittore: di sé e della Paolana

    Franco, infine, ha scritto dei libri, tra i quali una autobiografia e una storia della squadra di calcio della Paolana.
    Queste sono solo alcune caratteristiche di un personaggio poliedrico e coerente allo stesso tempo, che ha arricchito con le proprie “imprese” la vita della sua comunità. E questa omaggia il suo figlio estroso con dispiacere. Ma anche con un certo compiacimento: chissà come sarà l’ultima sfilata di Franco in cielo, dove lo accoglierà con gioia e letizia un illustre concittadino, San Francesco di Paola.

  • De Novellis: senatore cosmopolita e massone

    De Novellis: senatore cosmopolita e massone

    Senatore, calabrese e cosmopolita.
    Potrei fermarmi qui, data l’attuale incompatibilità tra “senatore calabrese” e “cosmopolita”.
    E invece: Fedele Giuseppe De Novellis apparteneva nientemeno alla leva del 1854, e brillò parecchio in cosmopolitismo. Al contrario, i suoi emuli e umili colleghi, nati magari un centinaio d’anni dopo e con molte più possibilità, al massimo sono andati all’estero con la moglie. Magari in qualche banalissima meta creduta intellettualmente originalissima, o a visitare la figlia in quasi-Erasmus. Ma le loro mete preferite restano i lidi estivi assai più vicini. Ad esempio – ironia della sorte – proprio il luogo di nascita di De Novellis: Belvedere Marittimo.

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    Villa De Novellis, a picco su Capo Tirone

    Il Belvedere antico di Fedele De Novellis

    Cosa poteva essere Belvedere nel 1854? Un piccolo paradiso appollaiato sulla rocca tra monti e mare, tra le quinte del Monte La Caccia e la buca del suggeritore – o forse è il caso di dire il golfo mistico – della scogliera di Capo Tirone, in cima alla quale sorge ancora la villa estiva che appartenne alla famiglia del senatore.
    Non è qui però che la nobildonna Adelaide Leo dà alla luce il figlio del galantuomo Gennaro De Novellis, dieci giorni prima di Natale: Fedele nasce nel principale palazzo di famiglia – l’attuale municipio – nel rione Santa Maria del Popolo, dove sorge la chiesa omonima in cui il piccolo viene battezzato appena apre gli occhi.

    De Novellis deputato a vita

    Dopo i classicissimi studi in Giurisprudenza a Napoli – a quel tempo obbligatori per chi poteva – il giovane De Novellis intraprende una carriera lunga e brillante.
    Per cominciare, ricopre ininterrottamente un seggio alla Camera dal 1892 al 1913, grazie ai voti del collegio di Verbicaro per il gruppo parlamentare di Sinistra guidato da Giuseppe Marcora.

    Parlamentare d’assalto

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    Fedele De Novellis

    Da deputato riveste anche la carica di Segretario dell’Ufficio di Presidenza della Camera dal 1906 al 1909. La sua attività legislativa non è proprio frenetica: presenta solo un progetto di legge, nella XXIII legislatura, per costituire in Comune autonomo San Nicola Arcella, All’epoca tempo frazione di Scalea.
    Interviene però, e molto, sul bilancio sugli esteri, sugli affari interni, sui lavori pubblici e sulla giustizia. Ovviamente, non si scorda del suo collegio e lavora tanto sulle comunicazioni stradali e ferroviarie con “le Calabrie”. Inoltre, si interessa dell’amministrazione della provincia di Cosenza, della fillossera nel circondario di Paola e dell’alluvione di Cosenza. Mica acqua fresca, rispetto alla poco frenetica e poco memorabile attività degli imbarazzanti epigoni.

    Un diplomatico col grembiule

    Affiliato alla massoneria, diventa anche Grande Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia, decorato del Gran Cordone.
    Ma la nota più sorprendente è appunto il cosmopolitismo conferitogli, se non altro, dalla sua successiva veste professionale. Ovvero la prestigiosa sequenza di cariche diplomatiche ricoperte.
    Già funzionario della Prefettura di Roma, De Novellis diventa addetto di legazione al Ministero degli affari esteri. Appena trentenne è a Belgrado (1884), poi a Lisbona (1886), a Costantinopoli (1888) e a Berlino (1891).
    Infine viene nominato Segretario onorario di legazione (1892) e poi Inviato straordinario e ministro plenipotenziario di II classe a Christiania (oggi Oslo) nel biennio 1912-1914.

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    Palazzo De Novellis, oggi sede del municipio di Belvedere Marittimo

    De Novellis scrittore geoplitico

    Non posso né voglio dilungarmi sula produzione letteraria di De Novellis. Tuttavia, segnalo qualche titolo per farne capirne lo spessore: Leggi e condizioni economiche della Serbia (1886), Sulla questione cinese (1899), La convenzione anglo-francese. Marocco e Tripolitania (1905), Il Pacifico e le sue lotte (1909), L’Asia centrale e le sue lotte (1910), L’Europa in Africa (1911), Il commercio italiano di esportazione in Norvegia (1914).
    Insomma, quanto di più distante – parrebbe – dall’ombelicale bruzio e dalla fuffa degli scaldapoltrone.

    De Novellis a Palazzo Madama

    Collocato a riposo, De Novellis diventa a cinquant’anni senatore di terza categoria (quella composta dai deputati con sei anni di esercizio o dopo tre legislature) nel gruppo liberale democratico (poi Unione democratica).
    In questa veste si prodiga essenzialmente in questioni finanziarie ed è membro di tre commissioni parlamentari. Cioè la Commissione per il regolamento interno, la Commissione d’inchiesta sulle gestioni per l’assistenza alle popolazioni e per la ricostituzione delle terre liberate (1920-1922) e, infine, la Commissione d’inchiesta sull’ordinamento e funzionamento delle amministrazioni centrali, sui servizi da esse dipendenti e sulle condizioni del relativo personale (1921).

    Un’immagine antica di Palazzo Madama

    Gli ultimi anni

    Nonostante la nomina senatoria fosse all’epoca sempre ad vitam, De Novellis smise di intervenire in Senato già prima dell’avvento del fascismo. Ben sette anni prima di spegnersi, a Roma, nel maggio del 1929, presso la sua residenza nel quattrocentesco Palazzo Orsini, poi Taverna, al prestigioso civico 36 di via Monte Giordano (dove vissero Torquato Tasso e, molto tempo dopo, nomi enormi dello spettacolo e dello sport internazionale).
    De Novellis: una meteora. Di cui la Calabria ha perso lo stampo, senza neppure dolersene.

  • Lorenzo Calogero, il poeta della solitudine

    Lorenzo Calogero, il poeta della solitudine

    Oltre la morte non si può andare.
    Non si dorme, non si ama.
    Si riposa infinitamente.

    Il riposo infinito che giunge soltanto dopo la fine. Sì, perché la vita dell’autore di questi versi fu tutt’altro che serena e sgombra di affanni. Afflitto dall’angoscia di vivere, Lorenzo Calogero fu un poeta solo. E solo un poeta.
    Considerato, post mortem, fra i più alti poeti del Novecento da molti insigni pareri – fra questi anche quello di Carmelo Bene –, Calogero è tuttora poco conosciuto nella sua terra di origine, la Calabria, sempre molto incline a sostenere la liceità della locuzione latina d’evangelica memoria di Nemo propheta in patria.

    Gli studi e le prime poesie

    Nato il 28 maggio 1910 a Melicuccà, paese dell’entroterra Reggino, a breve distanza da Palmi e dalla Costa Viola, Lorenzo Calogero è il terzo dei sei figli – cinque maschi e una femmina – di Michelangelo Calogero e Maria Giuseppa Cardone. Cattolici, abbienti, possidenti terrieri, i Calogero-Cardone sono una delle famiglie melicucchesi più in vista del tempo.
    Dopo i primi anni di studi – dapprima nel paese natio e poi a Bagnara, presso dei parenti della madre –, nel 1922 Lorenzo Calogero si trasferisce con la famiglia a Reggio Calabria, dove il ragazzo consegue la maturità scientifica, e nel 1929 a Napoli per iscriverlo alla facoltà di Ingegneria della prestigiosa Università Federico II. Si tratta di una breve liaison quella con l’ingegneria, sicché dopo poco lo studente passa alla facoltà di Medicina. L’insicurezza sul percorso accademico da intraprendere lascia intravedere la fragilità caratteriale del poeta fin dalla giovinezza.

    Disinteressato alla politica del periodo, agli inizi degli anni Trenta Lorenzo Calogero comincia a soffrire di un arcano disagio che lo accompagnerà fino al termine dei suoi giorni: patofobie, vale a dire il terrore, spesso confuso con la convinzione, di contrarre o già essere affetto da gravi malattie. Nel caso di Calogero, la tubercolosi e il cancro.
    In quel decennio, comunque, il giovane compone i primi versi. Risalenti al triennio 1933-35 sono le liriche poi raccolte in Poco suono, stampato, nel 1936 e a pagamento, da Centauro, editore che l’anno precedente aveva pubblicato sedici sue poesie riconosciute meritevoli dalla giuria del Premio Poeti di Mussolini.

    Nel ’37 Lorenzo Calogero consegue la laurea in Medicina e ottiene a Siena l’abilitazione alla professione che, dopo nuovi tentennamenti, inizia a esercitare in Calabria: prima nella natia Melicuccà, poi, sempre per parentesi brevi o brevissime, in numerosi paesi come Sellia Marina, Gimigliano, Zagarise, Jacurso e San Pietro Apostolo.

    Lorenzo Calogero, dal primo amore alla Val d’Orcia

    Caduto il fascismo e trovato un abbozzo d’indipendenza economica – seppur le patofobie non accennino a svanire, tanto che nel 1942, preso dallo sconforto, si spara un colpo in petto (parlare di tentativo di suicidio ci pare irriguardoso dell’intelligenza del poeta e del lettore, considerato che il nostro era comunque un medico e un medico sa bene come ammazzarsi e come non ammazzarsi) –, nel 1944 Calogero fa la straordinaria scoperta di un altro aspetto della vita: si innamora e fidanza con una studentessa conosciuta anni prima a Reggio Calabria. Purtroppo, le angosce, l’insoddisfazione cronica e le continue manie di cui soffre il giovane medico – in quel periodo è convinto di aver contratto la rabbia da un cane – inveleniscono il rapporto. La ragazza tenta in tutti i modi di tirare fuori Calogero dalle secche in cui sta scivolando, ma ogni tentativo si rivela vano. La complicata relazione si interrompe già con la fine di quell’anno.campiglia-lorenzo-calogero

    Conclusa la guerra, Lorenzo Calogero riprende a comporre poesie e fa ritorno a Melicuccà. Qui resta per un periodo abbastanza lungo, sino al principio del 1954 quando, dopo aver vinto un concorso, viene nominato medico condotto a Siena e spedito nel paesello collinare di Campiglia d’Orcia. La sua esperienza professionale in Val d’Orcia, però, è sì tanto disastrosa che appena un anno dopo è costretto a lasciare l’incarico. Scrive al fratello Paolo: «Come medico non godo alcuna simpatia da parte della popolazione»; la gente di Campiglia, infatti, aveva fatto presto a non fidarsi e a disertare lo studio di quel dottore così introverso e nevrastenico. Di fatti, l’isolamento in Val d’Orcia ha peggiorato il nervosismo e la suscettibilità del medico-poeta e ha acutizzato un’altra sua dannosa tendenza, quella di abusare di barbiturici e tabacco.

    Nessun sostegno dal mondo letterario

    Lasciatasi alle spalle l’esperienza infausta in terra toscana, Lorenzo Calogero si getta totalmente nella poesia cercando un editore che possa pubblicare i componimenti scritti nel dopoguerra e quella montagna di inediti giovanili che si porta appresso da anni. Dopo il rifiuto ricevuto da Einaudi, nel 1955 è costretto ancora una volta a ricorrere alla stampa a pagamento, in questa occasione presso la casa editrice senese Maia. Le due raccolte portano il titolo di Ma questo… e Parole del tempo.

    Uomo dotato di scarsissimo amor proprio, in vita Lorenzo Calogero non ha avuto – e non ha saputo condurre a sé – il sostegno di alcun esponente del mondo letterario, un universo prevenuto e distratto che non riusciva proprio a trovare le ragioni e il tempo per comprendere quel poetuccio venuto fresco fresco dal Sud più misterioso. L’unica eccezione è costituita da un altro poeta meridionale: si tratta di Leonardo Sinisgalli.

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    Leonardo Sinisgalli

    Lucano di origini – era nato nel 1908 a Montemurro – Sinisgalli è stato il solo a dimostrare amicizia e interesse per Calogero e le sue poesie. I due condividono pure la passione per l’ingegneria e il critico e poeta lucano non si tira indietro quando il collega calabrese gli chiede, durante il loro primo incontro a Roma, di firmare la prefazione per il suo prossimo scritto. È Come in dittici, raccolta di centosettantasei liriche scritte tra il ’54 e il ’56 e edite sempre da Maia.

    Il tentativo di suicidio e il ricovero a Villa Nuccia

    Il 1956 e il 1957 rappresentano due anni decisivi, in senso negativo, per l’esistenza di Calogero. Alla scomparsa della madre, cui era profondamente legato, il poeta tenta il suicidio. L’esaurimento nervoso oramai manifesto a tutti, porta i famigliari alla decisione di ricoverarlo nella clinica per malattie nervose di Villa Nuccia, a Gagliano di Catanzaro. Questo periodo di internamento – durante il quale verga gran parte dei versi che finiranno ne I quaderni di Villa Nuccia, volume postumo, nominato dal poeta melicucchese Canti della morte – non giova affatto alla psiche di Calogero. Imprigionato entro le alte mura della casa di cura, egli si sente tradito dalla famiglia, capisce di non potere più contare su di loro.

    È così che chiede nuovamente aiuto a Leonardo Sinisgalli, sempre più unico legame col mondo fuori da sé, solo faro visibile dalla sua bagnarola in preda alla tempesta.
    Il Poeta ingegnere non gli volta le spalle e il 3 marzo 1957 firma la presentazione di alcune liriche calogeriane pubblicate sulla Fiera letteraria. Nell’estate del medesimo anno giunge la prima e unica gioia letteraria – effimera – dell’autore calabrese con la vittoria del Premio Villa San Giovanni.

    La drammatica premiazione di Villa San Giovanni

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    Premio Villa S Giovanni, Lorenzo Calogero alla destra di Leonida Repaci; dietro di lui Enrico Falqui, Leonardo Sinisgalli, Franco Saccà

    Oramai divorato dai suoi demoni, in un primo momento Calogero non accetta l’invito ed è soltanto grazie all’intervento dell’amico Sinisgalli che decide di presentarsi alla cerimonia. La serata, però, è un colpo allo stomaco per chi vi assiste. Minato nella salute e incapace financo di camminare con fluidità, Lorenzo Calogero viene praticamente trascinato sul palco e ritira senza un sorriso il riconoscimento.
    L’episodio ricalca i contorni della premiazione di Cesare Pavese al Premio Strega 1950, consegnatogli sessantaquattro giorni prima del suicidio nella notte tra il 26 e il 27 agosto.
    “Tornato da Roma, da un pezzo. A Roma, apoteosi. E con questo? Ci siamo. Tutto crolla.” Queste le meste parole dello scrittore langhetto qualche giorno dopo la vittoria.
    «Mi cugghjuniàru». Questa la colorita ma tetra risposta, in dialetto calabrese, di Lorenzo Calogero a un compaesano che gli aveva chiesto come fosse andata al Premio Villa San Giovanni.

    La morte di Lorenzo Calogero

    Morte mi chiama

    col suo peso leggero

    come in un sogno.

    Gli ultimi anni del poeta sono segnati dai continui ricoveri e susseguenti fughe da Villa Nuccia. Abbandonato da tutti, al termine del 1960 si ritira in solitudine nella dimora di Melicuccà riempendo le sue giornate di innumerevoli cuccume di caffè, manate di sigarette e boccette di sonniferi.
    Qui l’inquietudine di una vita cessa, quando il 25 marzo 1961 è trovato morto. Le circostanze del decesso di Lorenzo Calogero non sono state mai chiarite. Con buone probabilità si era tolto la vita da almeno tre giorni con un sovradosaggio di barbiturici, altro episodio che ne paragona la parabola esistenziale a quella di Pavese. Un ultimo punto in comune con lo scrittore de La luna e i falò è il biglietto d’addio che, all’apparenza semplice ma pregno di delirio, arrendevolezza, distacco, apprensione, terrore, Lorenzo Calogero lascia accanto al suo corpo: «Vi prego di non essere sotterrato vivo».lorenzo-calogero-seppellito-vivo

    La poesia

    E quel che mi rimane

    è un poco di turbine lento di ossa

    in questo orribile viavai

    dove è alzato anche

    un palco alla morte.

    Da voracissimo lettore, Lorenzo Calogero accolse nella sua opera, come sostiene Luigi Tassoni ne Il gioco infinito della poesia (Giulio Perrone, 2021), “detriti, tessere, parole chiave, scie ritmiche” di tutti gli autori letti, rimodellati perché potessero aderire con coerenza alla sua poesia, ché questa non ne uscisse come una scialba parodia. Come abbiamo visto, però, i suoi versi ostinatamente tormentosi, scevri di speranza con cui consolarsi, anche antistorici rispetto alla poesia del tempo, non trovarono né lettori né editori interessati a pubblicarli.
    Il poeta morì in quell’alba di primavera del ’61, ma la sua poesia risorse, o, per meglio dire, sorse, facendo vedere quanto essa sia inconsumabile, prendendo in prestito le parole di Pier Paolo Pasolini.

    Estate ’62: Lorenzo Calogero diventa un caso letterario

    La diffidenza verso l’opera di Lorenzo Calogero crolla dopo la morte, come sovente accade e come era accaduto poche stagioni prima a un altro gigante della letteratura italiana del Novecento: Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Nell’estate del ’62 non si parla di altro che di quel poeta calabrese morto poco più di un anno prima in circostanze tragiche. Ne scrivono nomi illustri della cultura: Eugenio Montale, Giorgio Caproni, Alberto Bevilacqua, Mario Luzi, Leonida Repaci, Sharo Gambino, Carlo Bo, Franco Antonicelli. Addirittura Giuseppe Ungaretti si lascia andare a una frase divenuta celebre: «Questo Lorenzo Calogero ci ha diminuiti tutti».

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    Giuseppe Ungaretti

    Il nome di Calogero compare su tutte le testate nazionali, La Stampa consiglia i suoi libri tra quelli da portare sotto l’ombrellone, qualcuno avanza paragoni con i Poètes maudits. L’ultimo poeta dell’ermetismo, il nuovo Rimbaud, l’ultimo dei poeti maledetti. I titoloni si sprecano. Poi, passata l’ondata emotiva e modaiola, sul nome di Lorenzo Calogero cala di nuovo il silenzio.

    Nel 1966 l’editore Lerici, che aveva pubblicato in due volumi le Opere Poetiche di Calogero e che aveva in cantiere una terza pubblicazione, chiude l’attività lasciando inedita un’altissima catasta di manoscritti.

    Gli inediti all’Unical

    In centinaia, infatti, sono i quaderni zeppi di poesie del melicucchese oggi conservati all’Università della Calabria – dipartimento di Studi Umanistici, laboratorio Archivi letterari novecenteschi – in pazientissima attesa che qualche anima volenterosa decida finalmente di pubblicarli.
    Di e su Lorenzo Calogero, poeta consumato dal suo mal di vivere e dimenticato dal mondo culturale italiano, possiamo leggere:

    • Opere Poetiche I, a cura di Roberto Lerici e Giuseppe Tedeschi (Lerici, 1962);
    • Opere Poetiche II, a cura di Roberto Lerici e Giuseppe Tedeschi (Lerici, 1966);
    • Poesie, a cura di Luigi Tassoni (Rubbettino, 1986);
    • Lorenzo Calogero, di Giuseppe Tedeschi (Parallelo 38, 1996);
    • Itinerario poetico di Lorenzo Calogero, di Giuseppe Antonio Martino (Qualecultura/Jaca Book, 2003);
    • Parole del tempo, di Lorenzo Calogero a cura di Mario Sechi con una introduzione di Vito Teti (Donzelli, 2010);
    • Avaro nel tuo pensiero, di Lorenzo Calogero a cura di Mario Sechi e Caterina Verbaro (Donzelli, 2014).

    Melicuccà oggi ricorda il suo insigne figlio con una via e un monumento, sito lungo la principale via Roma, dell’artista scillese Carmine Pirrotta. L’opera (datata 1966) è stata finanziata con fondi degli emigrati d’Australia e commissionata dal Circolo culturale Lorenzo Calogero.

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    Melicuccà, il monumento a Lorenzo Calogero (foto Antonio Pagliuso)

     

     

  • STRADE PERDUTE | Cavalli, cavalieri e magia ad Amendolara

    STRADE PERDUTE | Cavalli, cavalieri e magia ad Amendolara

    Che Pomponio Leto fosse nato ad Amendolara e non a Teggiano – come ancora si legge da troppe parti – è ormai abbastanza assodato.
    La paternità dianese dello stesso, se pure filologicamente plausibile, è però anche tarda: chi per primo parla di Leto amendolarese è il coetaneo Pietro Ranzano – mica uno qualunque –, e poi Sabellico, il Volaterrano e il calabrese Gauderino.
    Soltanto una generazione più tardi, con Pietro Marso, avrà inizio la corrente dei “dianisti”. Ma lasciamo da parte l’improbabile quanto scottante certificato di stato civile di Pomponio (era pur sempre figlio illegittimo del conte Giovanni Sanseverino, che diamine!)…

    Un maniscalco illustre di Amendolara

    C’è un altro amendolarese al quale è stata attribuita spesso un’altra provenienza. È il meno noto Bonifacio Patarino, esperto maniscalco e autore nel Cinquecento del Receptario de mascalzia composto da mastro Facio Patarino da Lamigdolara a Bernabò da San Severino conte de Lauria et signore de Lamigdolara.
    E rieccoci con i Sanseverino… (se non vado troppo errato, Patarino dovrebbe essere fratellastro del destinatario).

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    Nanni di Banco: Miracolo di Sant’Eligio, 1420, Firenze, Orsanmichele

    Il trattato di Patarino

    Una copia del manoscritto, precedente all’ottobre 1545, è consultabile presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna e forse è proprio di mano di Patarino.
    Gli scettici sulle origini amendolaresi di Patarino potrebbero non contentarsi dell’indicazione del luogo nel titolo dell’opera.
    Li serviamo con due o tre indizi sparsi qua e là: tra un «citrangolo» e il «butiro de bufalo o de vacha», troviamo i più tipici «zafarani», l’«assogna», la «riquilitia» e il «fiore de cardoni che fanno le cocozze».

    Veterinaria e magia ad Amendolara

    Ma bando, anche stavolta, ai dubbi anagrafici.
    La cosa interessante di questo manoscritto di mascalcia è ben altra, ovvero l’espressione palese del connubio tra tecnica artigiana, pratica veterinaria e contesto magico.
    Dopo aver spiegato come si debbano fare i ‘bagnoli’ ai garretti gonfi, mediante vino cotto con pece, incenso e cera, Patarino mescola la scienza – o quel che era – alla superstizione religiosa.

    L’incantesimo santo ai chiodi del cavallo

    Infatti, l’autore racconta un «incanto sanctissimo» da farsi «alla inchiodatura del cavallo»:
    «Come hai trovato la inchiodatura cazerai lo chiodo e ficcalo sotto terra che non se veda e dirai sopra la inchiodatura queste parole…
    Nicodemo cazzò li chiodi de la mano e da li piedi del nostro Signore senza dolore. Cossì sana questo cavallo da questa inchiodatura con lo padre con lo figliolo et con lo spirito santo. Como le pieghe del nostro Signore non colsero ne dolserà cossì questa inchiodatura non doglia con lo patre con lo figliolo e con lo spirito santo…
    Fa una croce in ante, et una poi con le parole».

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    Bottega del maniscalco, sec. XIV, seconda metà, Fabriano (Ancona), Palazzo del Vescovo

    Due magie di Amendolara per guarire i cavalli

    • Il margine tra medicina e magia è labile fino al Cinquecento e anche oltre. Eppure, in pieno Novecento, Patarino s’è attirato le feroci critiche di uno storico della veterinaria, Valentino Chiodi (forse punto sul vivo dell’omonimia). Ancora, altri due brevi esempi… il vostro cavallo ha “il verme”? Oppure ha il “nervo attinto”? Ecco altre due formule:
    • «Incanto da verme de Cavallo
      Scrivite in carta +x pater noster +x alabia +x pater noster +x barco +x pater noster x acrai +x pater noster + ligato con un filo sotto lo collo del cavallo et serà sano.
    • Incanto de nervo attinto
      Imprimis dirai 3 paternoster cum 3 Avemarie con 3 croci sopra lo nerbo actinto et poi fate una cartocella de le parole sequente et ligalo sopra lo nerbo con una pezza nova. Le parole sono queste molto perfette
      + Ante parte + parte ante
      + Ante parte + parte ante
      + Ante parte + parte ante
      + Gion Grison + Tigris Eufrates».
    La botttega di un maniscalco

    Magno, Ruffo e Rusio: i precursori della magia equina

    Nessuna fandonia: Patarino raccoglie l’eredità culturale dei più celebri Giordano Ruffo e Lorenzo Rusio, autori di altri trattati di mascalcia, stavolta duecenteschi, e forse forse addirittura dei trattati di Alberto Magno.
    Perciò rischia d’essere pretestuosa una separazione troppo netta fra i contesti della magia colta e della magia popolare. L’analfabetismo connaturato alla seconda non impediva che il “mago” istruito, il cultore o l’esoterista erudito, potessero frequentarla con pari interesse.

    Ci si mettono anche i preti

    Guarda caso Giuseppe Battifarano, un prete, nella vicina Nova Siri di fine Ottocento, raccoglieva tra i propri manoscritti alcune formule magiche da utilizzare in ambito ippico:
    «Per far ferrare un cavallo per quanto difficile possa essere, si gira tre volte intorno al cavallo percotendolo legermente con una coda di volpe femina, e si dica Io ti scongiuro in nome di Dio, e ti comando che tu ti facci ferrare, per portare uomini come Gesù fu portato in Egitto dalla Vergine. Un Pater ed Ave Maria».
    (Copio dai Secreti di natura con l’ajuto divino, la sezione esoterica dei manoscritti dell’Archivio Battifarano, sui quali ora non posso dilungarmi…).

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    “Secreti di natura con l’ajuto divino”, compilati dal parroco Giuseppe Battifarano.

    Una scuola di equitazione

    Cavalli, magia, Alto Jonio, Cinque e Ottocento… ho detto tutto? Ora che ci penso, no. Infatti, il 19 maggio 1596 fu istituita una vera e propria scuola di equitazione a pochi chilometri da queste terre. Più esattamente a Senise, con tanto di ufficialissimo atto notarile. In quest’atto cui – oltre al futuro istruttore, tale Hectore Mazza di Taranto – si nominano anche tale Mutio, forgiere, e un immancabile Sanseverino (stavolta Scipione).
    Mai più sentito tanto scalpitio in quel circondario.

    I cavalli secondo il ministero

    Il Censimento generale dei cavalli e dei muli eseguito alla Mezzanotte dal 9 al 10 Gennaio 1876 per conto dell’allora Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio, spiegava: «In questa Provincia [di Cosenza] per la difficoltà delle vie e per la conseguente necessità di servirsi di animali equini piccoli ed adatti a praticare luoghi anfrattuosi e valichi dirupati si sono sempre ricercate le specie dei muli detti bardotti e dei cavalli piccoli detti levatori, l’uso dei quali corrispondeva bene alle condizioni dei luoghi. Questo sistema accreditò le razze cavalline antiche degli Abenanti, del De Mundo, dei Coppola ed altri che oramai più non esistono, ed induceva i fittajuoli di terreni ad allevare chi una e chi due asine per produrre bardotti».

    Cavalli amendolaresi davanti al palazzo Coppola, poi Andreassi

    Il ricordo di Vincenzo Padula

    Forse, l’ultimo a sentire tutto quello scalpitio è stato il patriota e storico Vincenzo Padula, quando da quelle parti registrava i nobili allevatori di mandrie equine: «Giumentieri: Andreassi d’Amendolara, Pucci d’Amendolara, Gallerano d’Amendolara, Mazario [sic] di Roseto, Chidichimo di Albidona hanno buone razze. Ottime le mule di Mazario, ottimi i cavalli di Andreassi, della razza di Coppola, piccoli, ben fatti, e forti, non sono però molto agili al moto, mancano di padre».
    Non di padre mancò invece la progenie “umana” dei nobili di Coppola. Questi si imparentarono con gli Andreassi di Montegiordano e quindi si stabilirono Amendolara abbandonando Altomonte.
    Da un “sanseverinato” all’altro e da un cavallo all’altro, tutto diventa più chiaro (del resto, non appartenevano ad altri Sanseverino i cavalli utilizzati come modelli da Leonardo da Vinci?…). Tutto torna.

  • Non solo miracoli: vita segreta di San Francesco di Paola

    Non solo miracoli: vita segreta di San Francesco di Paola

    Rozzo, ignorante, burbero. E analfabeta. Così, per molti secoli, è stato tramandato San Francesco di Paola.
    Nulla di più falso: l’enorme mole di documentazione storica della sua vita dimostra l’esatto contrario, a dispetto delle tante agiografie che hanno quasi offuscato i lati essenziali dell’uomo. Non ci sono solo i miracoli, che comunque restano il filo conduttore delle narrazioni sul santo calabrese.

    San Francesco di Paola medico e filosofo

    C’è un’altra storia, ancora tutta da scrivere: San Francesco di Paola fu anche uomo di scienze e filosofo. Guariva gli ammalati con le erbe e riusciva dove i medici fallivano.
    Per questo, i dottori dell’epoca lo consideravano quasi uno stregone. San Francesco conosceva tutti i segreti delle piante e ne sapeva dosare le quantità per lenire le sofferenze.
    Erano solo pozioni “magiche”, le sue, come pensavano i detrattori? San Francesco appare nei dipinti con in mano un sottile bastone, che certo non usava per sorreggersi, specie da giovane e nel pieno delle sue forze. Quando, per capirci, si spostava in lungo e in largo per la Calabria.

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    La statua sommersa di San Francesco di Paola

    Anche rabdomante

    Il santo era una figura imponente, dall’alta statura. Gli ultimi studi ci dicono che era gioviale con gli uomini e le donne che incontrava sul suo cammino.
    Tutto il contrario di quanto finora ci è stato raccontato. Quel bastone, da cui non si staccava mai, doveva quasi sicuramente servirgli per la ricerca dell’acqua nei luoghi più impervi dove dimorava.
    San Francesco “sensitivo” sarebbe riuscito ad individuare anche nel “deserto” i siti da dove far sgorgare il prezioso liquido, e quindi installarvi le comunità che poi dovevano popolare quei posti. Così nacquero i conventi che lui costruì.

    San Francesco ingegnere e costruttore

    Da solo e con l’aiuto dei “segreti” delle scienze, ingegneristica e idraulica, di cui era senz’altro in possesso. Questo è un altro lato della polivalente attività del frate.
    A Paola, Paterno, Corigliano, Spezzano, in Sicilia a Milazzo, ma anche in Francia e in tanti altri posti San Francesco costruì opere che solo una persona che conosceva le complicate formule matematiche della statica, poteva realizzare.
    La perfezione dei manufatti, l’equilibrio delle murature, la geometria degli archi e delle navate, rimandano all’ingegno di chi non poteva fare leva solo su empiriche conoscenze da manovale. Era proprio lui l’autore dei suoi progetti.
    Non si sa fino a che punto usasse gli squadri e gli inchiostri, anche se, coadiuvato da maestranze esperte, di sicuro era egli stesso che dava forma a quelle imponenti strutture.

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    Il santuario di San Francesco di Paola

    Un mistero da chiarire

    Aveva studiato e frequentato dotti? Certamente, tutti gli indizi portano a tali conclusioni. Ma di queste “tracce”, nessuna è stata ripercorsa e indagata nella giusta considerazione. L’uomo di scienze arriva anche ad essere un tutt’uno con l’uomo filosofo della vita.
    Al di là della fede, che professava nei comportamenti concreti, San Francesco ha pieno rispetto del corpo, oltre che dell’anima.
    I suoi lunghi digiuni e le privazioni, tramandati fino ad oggi, rappresentano la consapevolezza della coniugazione del benessere fisico con quello dello spirito.

    San Francesco vegetariano

    D’altronde i suoi 92 anni vissuti quasi tutti in salute, sono il risultato di questo perfetto equilibrio. San Francesco non partecipava ai bagordi e ai succulenti pranzi di corte. Tuttavia, non per questo le sue privazioni erano la mortificazione della carne e il decadimento dell’organismo.
    Il suo era uno stile di vita sobrio, grazie anche alla pratica vegetariana. La sua era una “dieta” salutare per il corpo e la mente, motori infaticabili di una ricca esistenza.
    Da qui anche la meditazione e la preghiera, per la materializzazione delle azioni quotidiane. Tutte rivolte alla diffusione dei messaggi di pace, carità e giustizia che hanno rappresentato il perno del suo pensiero “filosofico”.

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    Victor Hugo

    San Francesco di Paola filosofo umanitario

    Una filosofia, forse spicciola, ma messa in pratica in ogni circostanza: dall’incontro, con i sovrani e coi papi a quelli con le persone più umili.
    Solo un uomo in possesso delle moderne conoscenze del mondo poteva stare alla pari, nelle corti d’Europa, in una fase così piena di grandi mutamenti. E qui arriva un’altra confutazione: San Francesco è descritto il più delle volte come fustigatore di costumi, accigliato, con lo sguardo severo e di rimprovero.
    Un conservatore e un moralizzatore in un mondo pervaso dagli eccessi e dal peccato.

    A tu per tu con Torquemada

    Tuttavia, alla base del pensiero “filosofico” del santo calabrese c’era la predicazione della misericordia e del perdono: i sentimenti tra i più alti della religione cristiana. Tutto questo, quindi, mal si concilia con la visione manichea del santo tutto d’un pezzo. Lo ha compreso, nientemeno, Victor Hugo.
    Nel testo della sua opera teatrale, Torquemada, il grande scrittore francese accosta l’inquisitore al santo calabrese. E proprio quest’ultimo tiene testa nel dialogo a colui che con la tortura si era macchiato di efferati crimini contro gli “eretici” del tempo. Mondi contrapposti confliggono nello scambio tra i due. Ne esce magnificata la tolleranza di San Francesco.

    L’inquisitore Torquemada

    L’arrivo in Francia

    In Francia il frate visse l’ultima parte della sua vita: quella della saggezza.
    Chiamato da Luigi XI a corte per guarirlo dai suoi mali, san Francesco vi dimorò per ben venticinque anni. Nonostante l’intervento del santo, per il re non ci fu nulla da fare. Morì subito dopo.
    Questo evento, comunque, aprì le porte del castello di Amboise al mistico, che costruì un nuovo convento.

    Venticinque anni ad Amboise

    Amboise a quell’epoca era il centro propulsore della modernità in Europa a tutti i livelli. In quel luogo, per volere degli “illuminati” regnanti, andavano e venivano filosofi, letterati, musicisti, artisti, consiglieri politici.

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    San Francesco di Paola e Luigi XI di Francia

    Da lì prese corpo un nuovo pensiero.
    La politica della guerra, veniva soppiantata da quella della pace, mentre il vecchio mondo si lasciava dietro le spalle tutte le sue contraddizioni.
    Dai simposi ai cenacoli e le feste di corte Amboise, diventò meta ambita per chi voleva stare al centro delle trasformazioni. San Francesco fu tra le figure eminenti che determinarono questa svolta.
    Aperto alle nuove conoscenze, visse anche gli anni della scoperta dell’America di Cristoforo Colombo, e per una parte della sua esistenza quasi incrociò Leonardo Da Vinci.

    San Francesco e Leonardo: vite parallele

    Il grande uomo di scienze e artista, visse anche egli ad Amboise , per tre anni fino al giorno della morte. Le sue spoglie sono ancora seppellite in quel luogo.
    Una coincidenza non del tutto casuale, accomuna San Francesco e Leonardo. Entrambi furono i protagonisti della costruzione di un nuovo orizzonte.
    I due non si incontrarono mai, ma una intermediazione fatta di singolari correlazioni, porta a pensare ad una comunanza di aperture mentali che entrambi possedevano.

    Il castello di Amboise

    Una conclusione

    Venticinque anni di una esistenza sono tanti. Rappresentano un arco temporale di mutamento per ognuno. San Francesco visse il periodo francese in maniera intensa, ma ben poco si conosce di questa permanenza.
    Certamente si compenetrò nelle vicende del tempo. Sarebbe bene approfondire questi aspetti della sua maturazione, alla luce del contributo che diede allo sviluppo dell’Europa. Finora queste zone d’ombra non sono state scandagliate. Sicuramente, studi e ricerche approfonditi potrebbero dare molte sorprese.

  • Filoxenìa: nella Calabria dei greci dove lo straniero si sente a casa

    Filoxenìa: nella Calabria dei greci dove lo straniero si sente a casa

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    Filoxenìa è il titolo di un lavoro di ricerca documentale e fotografica sulla Calabria greca curato da Patrizia Giancotti. Antropologa, fotografa, giornalista, autrice e conduttrice radiofonica, che ultimamente ho riscoperto con maggiore attenzione cogliendone aspetti nuovi. Una rilettura attenta, meno veloce, più consapevole mi ha consentito di riprendere i temi principali di un lavoro che l’ha vista impegnata ad approfondire la conoscenza dei nostri luoghi, di cose e persone da leggere nel profondo.

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    Patrizia Giancotti, antropologa e giornalista

    L’amore per il forestiero nella Calabria grecanica

    Filoxenìa, suona bene questo termine greco, con quella sua inflessione morbida e accomodante che vuole significare amore per il forestiero, senso vivo di accoglienza. Sono stati mesi intensi i suoi, vissuti tra Bova e Roccaforte del Greco, passando per Gallicianò e Roghudi nel cuore della grecità calabrese, un tempo valso a partorire un’opera preziosa, ben al di là della già importante cifra stilistica, non fosse altro che per il merito di aver cristallizzato quanto ancora rimane di un piccolo mondo antico offrendo al lettore una chiave interpretativa antropologica e prima ancora umana di una realtà apparentemente semplice ed invece assai complessa, difficilissima da decodificare.

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    Roghudi vecchio

    Il titolo completo di questo lavoro edito da Rubbettino è: Filoxenia, l’accoglienza tra i Greci di Calabria, una ricerca che prende in esame aspetti geografici e culturali attraverso l’analisi di singoli profili, come nel caso di Pasquale, uno dei personaggi certamente più interessanti su cui la Giancotti ha posto la sua lente.

    Il senso omerico

    Pasquale Romeo è un ragazzo di Bova con alle spalle anche una breve ed estemporanea esperienza cinematografica. È importante l’analisi della figura di Pasquale perché incarna l’evoluzione di una terra dove vecchio e nuovo, tradizione e modernità sembrano convivere, dove uomo e natura si amano e si odiano in un continuum scandito dall’alternarsi delle stagioni. Patrizia Giancotti lo descrive così.

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    Pasquale Romeo ha recitato nel film “Anime nere” di Francesco Munzi, tratto dal libro omonimo di Gioacchino Criaco

    «La Calabria greca – dice – è terra di uomini ospitali, nella pienezza del senso omerico. Per mesi ho percorso quei territori, impegnata in una ricerca sul campo dove ho visto medici, professori, fabbri, massaie, suonatori di lira, zampogna e organetto, pastori. Pasquale ad esempio è un giovane di Bova poco più che trentenne, che dopo un’esperienza come attore nel Film Anime Nere di Francesco Munzi (tratto dal romanzo omonimo di Gioacchino Criaco), girato proprio tra Bova ed Africo, è tornato alla sua quotidianità».

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    Lira calabrese (foto Alfonso Bombini)

    Dal red carpet alle salite di Bova

    Le parole della Giancotti evocano il senso del luogo e di chi ci vive: «Il suo stazzo è molto in alto, in verticale lo strapiombo diventa precipizio fiorito che porta al fiume, la vista da capogiro arriva fino al mare.

    Non c’è niente in piano, è difficile persino camminare eppure lo vedo come da un aereo in volo, correre giù dietro le capre col bastone dei padri e i piedi alati. Al red carpet calpestato a Venezia ha continuato a preferire la verticalità di questi scoscendimenti, dove il suono delle capre si fonde con quello della natura risvegliata e dove anche il profumo del vento, il fiume, il lupo, la pietra, il fiore, l’uomo e il mare laggiù sono uniti nella stessa partitura».

    Greci di Calabria

    È una terra bella, affascinante, a tratti misteriosa e ancora arcaica quella dei Greci di Calabria, un caleidoscopio in cui rintracci tante cose, montagne che si tuffano a mare, il grigio quarzo delle pietre che lascia spazio al rosso dei tramonti, ma soprattutto quell’antico idioma unico al mondo, primo riferimento ad una cultura che si perde nei secoli. Il continuo richiamo all’elemento greco lo si ritrova anche nella musica, nelle occasioni corali come i lutti o le feste, nel senso di ospitalità ancora vivo. Mi ha molto colpito il viaggio di Patrizia Giancotti, forse per la necessità di leggere la mia terra da una prospettiva differente. Perché spesso per leggere i luoghi, le persone e gli eventi a te più vicini è necessario osservarli da altre prospettive. Per questo ho sempre creduto nel valore del viaggio che ti libera da vincoli e legami che offuscano una capacità di lettura imparziale.

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    Roccaforte del Greco

    Terra madre

    Filoxenìa regala al forestiero uno spaccato fedele di una realtà che ancora resiste. Regala allo stesso tempo anche ai Greci di Calabria un’occasione di guardarsi allo specchio, una visione altra ed imparziale. È ricco di una straordinaria carica emozionale Filoxenìa che fa cogliere il suo senso più vero forse proprio in quella dicotomia regalata dalla descrizione di Pasquale, dei suoi piedi alati, del bastone dei padri e di quel tappeto rosso che nulla ha potuto dinnanzi al richiamo della terra madre.

    Certo nella scelta più o meno consapevole di Pasquale gioca un ruolo fondamentale la presenza permeante di un corredo genetico ben preciso che spinge al di là del calcolo, della logica, al di là del richiamo di sirene più o meno lontane. In quella scelta, non sappiamo quanto consapevole, ci piace leggere la metafora di un piccolo mondo antico che rimane aggrappato alle rocce della sua montagna, guardando con rispetto ma sempre con bonario distacco un mare oggi forse solo idealmente più vicino.

  • Piombo e sangue in Iraq: Calipari, la tragedia eroica di uno 007

    Piombo e sangue in Iraq: Calipari, la tragedia eroica di uno 007

    Nicola Calipari. Un eroico funzionario dello Stato. Oppure la persona giusta nel luogo e momento sbagliati.
    Morto nel compimento del proprio dovere oppure vittima di una tragica fatalità.
    Il calendario scorre e segna, oggi, diciotto anni dalla morte dello 007 originario di Reggio e cosentino adottivo. Ma anche poliziotto cosmopolita, con esperienze all’estero, iniziate nel 1988 in Australia presso la National Crime Authority alla quale fornì la propria collaborazione su un argomento che ogni sbirro calabrese sa a menadito: la ’ndrangheta.
    Ma riavvolgiamo il nastro.

    Il rapimento

    L’Iraq non è una zona sicura. Non lo è, soprattutto, nei primi mesi del 2005, un anno e mezzo dopo la fine della fase principale della Seconda guerra del Golfo, che ha cancellato il regime di Saddam Hussein e destabilizzato il Paese.
    L’Iraq di quegli anni, insicuro per i militari, è addirittura pericolosissimo per i civili.
    Funzionari, volontari o giornalisti.
    Di questa pericolosità fa le spese Giuliana Sgrena, firma storica de Il Manifesto e collaboratrice di Die Zeit.
    La giornalista piemontese, nel febbraio 2005 è a Baghdad, per scrivere dei reportage sulla guerra. Il 7 febbraio 2005 viene rapita vicino alla zona universitaria.
    Poco meno di un mese prima, il 5 gennaio 2005, viene rapita un’altra giornalista: la francese Florence Aubenas, inviata e firma di primo piano di Liberation.

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    La giornalista Giuliana Sgrena

    Terra pericolosa

    Calipari è l’uomo giusto al momento e nel posto sbagliati.
    Lo 007 calabrese si trova in Iraq alle dipendenze del Sismi, il Servizio per le informazioni e la sicurezza militare, di cui fa parte dal 2002, dopo una brillante carriera in Polizia.
    E c’è da dire che opera bene: gestisce alla grande le trattative per la liberazione di Simona Parri e Simona Torretta, due giovani cooperanti italiane. Fa altrettanto bene nei casi di Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio, tre vigilanti italiani, anch’essi sequestrati da sedicenti jihadisti.
    Le cose, invece, vanno meno bene per il vigilante Fabrizio Quattrocchi, rapito il 13 aprile 2004 e ucciso in favore di telecamera il giorno successivo. E per il giornalista e blogger Enzo Baldoni, rapito il 21 agosto 2004 e ucciso presumibilmente cinque giorni dopo.

    A tu per tu con la Jihad

    Per Calipari l’affaire Sgrena è praticamente routine.
    Con una variante: di tutti i rapiti, la giornalista piemontese è la figura più nota. Per lei, infatti, si mobilita una buona parte dell’Italia “che conta”, a partire dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi.
    Non solo: anche una fetta dell’Islam sunnita scende in campo.
    Ma cos’hanno in comune tutti questi rapimenti?

    Un’immagine dell’Iraq post Saddam

    Terroristi farlocchi

    C’è un sospetto pesantissimo: tutte le sigle, più o meno “integraliste”, sarebbero in realtà gruppi criminali comuni.
    Le richieste, dopo i rapimenti, sono praticamente simili: via le truppe italiane. Ma tutto si sarebbe risolto col classico pagamento di un riscatto. Anche, secondo alcune fonti, per la Sgrena. Il problema si complica: come fa un Paese occupante a trattare senza perderci la faccia? Per questo la parola passa ai Servizi segreti.
    E non si sarebbe saputo niente, se Nicola Calipari non ci avesse rimesso la pelle.
    Ma riavvolgiamo ancora il nastro.

    Il supersbirro odiato dalla ’ndrangheta

    Classe ’53, formazione cattolica e laurea in Giurisprudenza, Nicola Calipari entra in Polizia nel 1979, dove fa una carriera fulminante, prima a Genova poi a Cosenza, dov’è capo della Squadra mobile negli anni terribili della guerra di mafia.
    Di lui ha parlato il pentito Dario Notargiacomo, già “notabile” della cosca Perna-Pranno. A suo dire, proprio Franco Perna lo avrebbe voluto morto.
    E forse la trasferta in Australia è dovuta alla necessità di sottrarre Calipari ai killer, che avevano fatto già fuori Sergio Cosmai, il direttore del carcere di Cosenza.
    Tornato in Italia, il superpoliziotto riprende la carriera a Roma, dove scala di nuovo i gradini fino a lambire incarichi governativi. Resta un interrogativo: come mai un poliziotto diventa uno 007 per il Sismi anziché per il Sisde (i Servizi segreti civili)?
    Mistero. O forse no. Forse aveva ragione Federico Umberto d’Amato, l’ex capo dell’Ufficio affari riservati a dire che i militari sono pessimi agenti segreti. Ed ecco che i Calipari prestano aiuto. Anche a prezzo della vita.

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    Federico Umberto d’Amato, l’ex capo dell’Ufficio affari riservati

    L’epilogo

    La sera del 4 marzo 2005 Nicola Calipari è in auto. Siede sul sedile posteriore, vicino a Giuliana Sgrena, appena liberata. Alla guida c’è Andrea Carpani, maggiore dei carabinieri, anche lui in forza al Sismi.
    L’auto è diretta all’aeroporto di Baghdad e, per arrivarci, passa per la Route Irish, dove c’è un check point statunitense.
    L’autista e i due passeggeri non hanno il tempo di capire cosa sta succedendo: prima li abbaglia un potente fascio di luce, poi diventano bersaglio di raffiche di proiettili.
    Sgrena e Carpano restano feriti. A Calipari, che si getta addosso alla giornalista, va peggio: un proiettile lo colpisce alla nuca e muore sul colpo.

    Il mistero della Seconda repubblica

    La morte dello 007 apre un braccio di ferro militar-diplomatico tra Italia e Usa.
    L’inchiesta appura che a sparare le pallottole fatali è Mario Lozano, un mitragliere dei marines, che finisce sotto processo nel suo Paese e in Italia.
    Americani e italiani litigano come possono, cioè nei limiti consentiti dal comune impegno militare che costa tante vite a entrambi.
    Secondo gli americani, l’auto su cui viaggiano Calipari e Sgrena era in eccesso di velocità e non si sarebbe fermata all’alt. Secondo gli italiani, invece, il veicolo viaggiava a velocità contenuta (circa 50 chilometri orari) e, ha aggiunto Sgrena, non ci sarebbe stato alcun check point visibile.

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    Mario Lozano, il marine che uccise Calipari

    Il sospetto atroce

    Tra le due versioni si insinua un sospetto: gli americani non gradiscono la facilità con cui l’Italia paga i riscatti alle sedicenti sigle jihadiste autrici dei rapimenti e dei relativi ricatti.
    E non a caso si è ipotizzato il pagamento di 5 milioni di euro per la liberazione della giornalista.
    La vicenda giudiziaria, iniziata tra mille polemiche e coi riflettori puntati, si è risolta in nulla: gli Usa assolvono Lozano dall’accusa di omicidio, ma l’Italia non può procedere, perché la competenza giudiziaria sulla vicenda, verificatasi in Iraq, è americana.

    Cosa resta dell’eroe

    Il ruolo e l’attività di Nicola Calipari sarebbero dovute restare anonimi, come da tradizione dei Servizi segreti, non solo italiani.
    E invece no: Calipari muore da eroe e, col suo sacrificio, riabilita i Servizi, bersaglio fino ad allora di una letteratura giornalistica a dir poco avversa e spesso a ragione.
    Secondo Giuseppe De Lutiis, uno dei massimi esperti italiani di intelligence, la morte di Calipari segna uno spartiacque. E probabilmente accelera la riforma dei nostri Servizi. Ma questa è un’altra storia.
    Calipari ha lasciato due figli e una vedova, Rosa Villecco Calipari, diventata poi senatrice del Pd, cioè in quell’ambiente postcomunista che, tranne poche eccezioni, aveva preso di mira i Servizi. Anche questa è un’altra storia.