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  • Squali di venti metri, balene e giraffe: le (altre) meraviglie di Tropea

    Squali di venti metri, balene e giraffe: le (altre) meraviglie di Tropea

    Tropea è senza dubbio la città turistica calabrese più famosa al mondo. Storica e amata meta del turismo italiano, europeo e globale, Tropea ha legato le sue fortune al mare turchese che la bagna e a una virtuosa tradizione ricettiva, supportati egregiamente dalle sue bellezze artistiche e architettoniche – il Santuario di Santa Maria dell’Isola sull’omonimo promontorio, la cattedrale con l’icona della veneratissima Vergine di Romania, i sontuosi palazzi nobiliari.

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    La Tropea da cartolina

    Una mare di Museo a Tropea

    Tropea ha con il suo mare un legame indissolubile che oggi trova una originale narrazione – con una sfumatura inusuale e, lo capiremo presto, del tutto inaspettata – al Museo civico del Mare.
    Inaugurato nel 2019, il Museo civico del Mare di Tropea (MuMaT) si trova all’interno del complesso di Santa Chiara – già convento e ospedale della cosiddetta perla del Tirreno –, in pieno centro storico, a pochi passi dall’Antico Sedile dei Nobili e dalla celebre balconata sul mare.
    Il MuMaT è gestito dal Gruppo paleontologico tropeano. L’ente, sorto col fine di valorizzare il patrimonio paleontologico della provincia di Vibo Valentia, è composto da Francesco Barritta (direttore del Museo), Giuseppe Carone (direttore scientifico e presidente del Gruppo), Vincenzo Carone (architetto che ha curato il progetto di allestimento), Luigi Cotroneo (curatore della sezione paleontologia), Francesco Florio (curatore della sezione biologia marina) e Tommaso Belvedere (responsabile delle collezioni).

    Undici milioni di anni fa

    Il sito culturale di Tropea espone i reperti recuperati nel corso delle trentennali indagini lungo la Costa degli Dei fino alla valle del fiume Mesima, con aree che hanno riservato eccezionali sorprese come la ricca falesia di Santa Domenica di Ricadi e il sito paleontologico di Cessaniti, un’autentica miniera per i paleontologi. Distante da Tropea circa venti chilometri, il giacimento di Cessaniti presenta sedimenti marini risalenti al Tortoniano, stadio stratigrafico del Miocene, compreso fra sette e undici milioni di anni fa, in cui si registrò un progressivo abbassamento del livello del mare.

    Resti di un cetaceo esposti nel Museo civico del mare a Tropea

    Una balena a Cessaniti

    È proprio nell’area del comune di poco meno di tremila abitanti dell’entroterra vibonese che dagli anni settanta in poi – con gli scavi avvenuti “usufruendo” del massiccio sviluppo edilizio della regione – si sono susseguite stupefacenti scoperte; su tutte, il rinvenimento dei resti di una balena (un esemplare della specie heterocetus guiscardii) risalenti a circa sette milioni di anni fa. Leida – così è stato battezzato il leggendario cetaceo – è riemerso nel 1985 a seguito degli scavi del Gruppo archeologico “Paolo Orsi”.

    La conservazione per questo infinito lasso di tempo è stata possibile grazie alla sabbia dei fondali mediterranei che ha innescato il processo di fossilizzazione dello scheletro e lo ha preservato sino ai nostri giorni. La balena, pezzo pregiato del Museo, si presenta assai più piccola rispetto agli esemplari del nostro tempo e all’epoca, date le ridotte dimensioni, rappresentava ancor di più un cibo prediletto per animali del mare più grossi quali il grande squalo bianco e l’orca.

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    Un Mediterraneo popolato da strane creature nelle sale del Museo civico del mare a Tropea

    Le giraffe di Calafrica

    Fra i reperti più importanti conservati al MuMaT ci sono anche due scheletri di sirenio (metaxytherium serresii), un mammifero acquatico erbivoro progenitore dei lamantini e dei dugonghi – mammiferi tipici degli oceani Atlantico e Pacifico – e probabilmente imparentato, alla lontana, con gli elefanti. E a proposito di mammiferi terrestri, per certo strabilierà il visitatore imbattersi nella vetrina che contiene un dente fossile di stegotetrabelodon syrticus, un elefante nordafricano distinto da quattro zanne lunghissime, e l’astragalo di un esemplare di bohlinia attica, un giraffoide vissuto nel Miocene superiore. Animali che non si penserebbe mai siano stati di passaggio nel nostro territorio. Si tratta di sbalorditivi ritrovamenti che supportano la tesi di un possibile combaciamento, in tempi remoti, fra le coste della Calabria e quelle dell’Africa settentrionale.

    Il riccio di mare dedicato al direttore del museo

    Una esposizione particolarmente ricca è quella dei clypeaster – dal latino clypeus (scudo tondo) e aster (stella) –, antenati miocenici dei ricci di mare che, come sostiene Giuseppe Carone, rappresentano un po’ il simbolo della paleontologia calabrese per la loro capillare diffusione sulla nostra fascia costiera. Assai ben conservati, questi organismi risultano molto utili per la datazione degli strati geologici. E parlandoci dei ricci, Carone, con deliziosa timidezza, ci rivela un dettaglio di cui andare orgogliosi tutti: il direttore scientifico del Museo è il solo paleontologo in vita cui è stato dedicato un fossile di riccio di mare. Il nome del resto animale in questione è amphiope caronei.

    Una conchiglia di grandi dimensioni fra le teche del museo

    Una teca di assoluto fascino, poi, è quella dedicata alla malacofauna. Qui sono esposti circa cento esemplari di conchiglie, talune estremamente rare come il guscio di un argonauta argo, mollusco discendente diretto della celeberrima ammonite, estinta circa 66, 65 milioni di anni fa, a braccetto coi dinosauri.

    Lo squalo di 20 metri 

    Cattureranno l’attenzione del pubblico anche i denti fossili di un megalodonte, squalo scomparso circa 2,6 milioni di anni fa che poteva raggiungere la lunghezza monstre di venti metri, e di uno squalo bianco, il carcharodon carcharias, il più grande pesce predatore del pianeta terracqueo. Beni paleontologici che ci raccontano di un Mediterraneo decisamente diverso da come lo vediamo oggi, di un mare tropicale in cui nuotavano animali i cui discendenti non circolano più nel nostro bacino.
    La meravigliosa biodiversità conservata e in mostra al Museo del Mare di Tropea non può che sorprendere il visitatore, ma allo stesso tempo lo stimola a instaurare un rapporto più consapevole con l’ambiente che lo circonda e, non dimentichiamolo mai, lo ospita. Temporaneamente.
    Presto il MuMaT, luogo straordinario in cui scoprire il Mediterraneo antico, si amplierà con ulteriori tre sale: due dedicate all’esposizione di altri reperti; un’altra, invece, vedrà sorgere una biblioteca dedicata al mare e alla paleontologia e biologia marina, accessibile a curiosi e studiosi da tutto il mondo. Prevista, inoltre, l’apertura di un cortile interno che ospiterà eventi e presentazioni di libri.

  • Frati scienziati: tre grandi dimenticati al servizio di San Francesco di Paola

    Frati scienziati: tre grandi dimenticati al servizio di San Francesco di Paola

    L’Ordine dei Minimi di San Francesco di Paola ha un grande torto storico.
    Infatti, resta quasi sconosciuta l’opera dei suoi tre più eminenti rappresentanti nella Francia del ’600. Ci si riferisce ai padri Emanuel Maignan, Jean Françoise Niceron e Marin Mersenne. Purtroppo questa “dimenticanza” occulta ancor oggi il grande apporto fornito da questi uomini allo sviluppo dell’arte, della matematica e della scienza nel corso di tutti questi secoli.
    I loro lavori, studiati nelle università di tutto il mondo, sono citati in testi e ricerche facilmente consultabili.

    L’Ordine dei minimi: una fabbrica di scienziati 

    Tuttavia, praticamente nessuno, soprattutto in Calabria, sa dire chi siano stati gli esponenti più autorevoli dell’Ordine dei Minimi. Ai tre religiosi nessuno ha dedicato una piazzetta o un vicolo, nemmeno a Paola.
    È il sintomo di una sottovalutazione del ruolo avuto dai Minimi in Francia.
    Eppure San Francesco desiderava che nel suo Ordine vi fossero «huomini letterati e di studi» perché così «sommessamente piace a Dio». I padri Maignan, Niceron e Mersenne hanno un comun denominatore: Descartes. E sulla sua scia crearono una vera e propria “poetica del dubbio”.

    San Francesco di Paola e Luigi IX di Francia

    L’abisso delle scienze: Marin Mersenne

    C’è un soprannome che dà la misura dell’importanza di Marin Mersenne: “Abisso di tutte le scienze”. E questo “abisso” contiene un primato: la scoperta dei numeri primi perfetti.
    Mersenne nacque a La Soultière nel 1588 e morì a Parigi nel 1648.
    Dopo aver studiato Teologia alla Sorbona entrò nei Minimi (1611) per insegnare filosofia. In seguito si stabili nel convento parigino dell’Annunziata, dove restò fino alla morte.
    Fu insegnante a Nevers ed ebbe rapporti stabili con i principali esponenti culturali del tempo: Cartesio, Hobbes, Fermat, Huygens, Torricelli, Gassendi. Fondò l’Accademia delle Scienze che si proponeva di rinnovare il mondo della ricerca nel campo universitario.

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    Marin Mersenne

    Un cervello universale dell’Ordine dei Minimi

    I contributi scientifici di Mersenne sono enormi: vanno dall’esegesi biblica alla filosofia, dalla meccanica alla teorica musicale e all’acustica, dalla geometria all’ottica, dalla pneumatica alla linguistica.
    Da segretario della repubblica delle lettere dell’epoca, partecipò in maniera determinante al dibattito sui problemi del vuoto, soprattutto durante il suo soggiorno in Italia (1644) dove assistette ad alcuni esperimenti barometrici e li discusse con i principali esponenti di questo filone scientifico.
    Nel 1624 pubblicò L’empietà dei deisti ed ebbe un rapporto scientifico forte con Galileo Galilei, che difese nei momenti più difficili e di cui fu traduttore e divulgatore. Inoltre fu precursore della teoria musicale con la pubblicazione de L’armonia universale (1636), in cui affrontò i problemi acustici degli strumenti musicali dal punto di vista fisico e matematico.

    Con Cartesio contro Hobbes

    Infine, Mersenne polemizzo con le sue Meditazioni metafisiche (1636) contro le formulazioni di Hobbes e Gassendi sulle dottrine cartesiane.
    Fede, vissuta con grande indipendenza dai sistemi metafici (compreso quello aristotelico) e scienza, praticata con grande lucidità. Un binomio perfetto con cui il religioso cercò Dio tutta la vita.

    L’arte si fa scienza: Jean Françoise Niceron

    Jean Françoise Niceron nacque a Parigi nel 1613. A 19 anni entrò nel convento dell’Ordine dei Minimi di Trinità dei Monti a Roma.
    Lì insegnò matematica e studiò filosofia e teologia. I suoi interessi principali furono l’ottica, la catrottica e la diottrica. Passò la maggior parte della vita nella città dei papi, tranne alcuni periodi in cui visitò le province francesi del suo Ordine su incarico del padre generale Lorenzo da Spezzano.
    Padre Niceron si impegnò nella divulgazione delle opere dei principali uomini di scienza della Francia e sperimentò gli assunti galileani. Miscelò le problematiche della filosofia con quelle dell’ottica in La perspective curieuse au Magie artificielle des effets l’optique, dea la catoptrique, et de la dioptrique, un trattato di grande diffusione. Fece scoperte determinanti per la spiegazione dell’illusione prospettica e della “magia” raffigurativa degli oggetti.ordine-dei-minimi-tre-padri-scienziati-san-francesco-di-paola

    L’anamorfosi e altri trucchi

    Inoltre, fornì gli elementi essenziali per l’anamorfosi e inaugurò un vero e proprio movimento di ricerca che fece scalpore nelle arti figurative, soprattutto la pittura, i cui effetti hanno contribuito allo sviluppo dell’arte, in particolare di quella moderna.
    La morte prematura, avvenuta a soli 33 anni, gli impedì di terminare il suo secondo lavoro, Thaumaturgus Opticus. Lo completò padre Mersenne.
    Niceron non fu solo un teorico: realizzò le sue intuizioni dipingendo due affreschi anamorfici: San Giovanni Evangelista a Pathmos (1642), a Trinità dei Monti e la sua replica a Parigi (1644) nella Casa dei Minimi in Place Royale, che fu ultimata però da padre Emanuel Maignan.

    La prospettiva curiosa

    Queste due opere, e La Maddalena in contemplazione, realizzata con la stessa tecnica, non sono più visibili per l’incuria della conservazione. Altre opere di Niceron sono conservate nella Pinacoteca di Palazzo Barberini a Roma.
    Il trattato La perspective curieuse, si rivolge in prevalenza agli artisti per fornire un indirizzo allo studio delle geometrie raffigurative. È un’opera poderosa, divisa in quattro libri con una prefazione in cui si elogiano la matematica e la fisica. Al di sopra di tutto resta però l’ottica, che tocca l’astronomia, la filosofia, l’architettura e la Pittura.

    L’anamorfosi di San Francesco di Paola nel convento di Trinità dei Monti

    Emmanuel Maignan: un fisico dell’Ordine dei Minimi

    Emmanuel Maignan nacque a Tolosa che nel 1601 ed entrò a diciotto anni nell’Ordine dei Minimi in Francia. Appassionato di matematica, approfondì da autodidatta le sue conoscenze sulla materia.
    Insegnante di filosofia e teologia a Roma presso il convento del Pincio, Maignan frequentò eminenti figure del mondo delle scienze come Gaspare Berti, Raffaele Magiotti e Athanasius Kircher.
    Con loro cominciò alcuni esperimenti per determinare l’esistenza del vuoto, che influenzarono anche Torricelli.

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    Capitole Toulouse – Grand escalier – Buste d’Emmanuel Maignan

    Ancora sull’anamorfismo

    Maignan si interessò anche di pneumatica e ottica. Ma si dedicò principalmente alla fisica, come attesta il trattato Cirsusphilosophica destinato alle scuole del proprio Ordine.
    Nella seconda edizione di questa opera si ritrovano gli scritti relativi alle dissertazioni con Cartesio. Più longevo dei suoi confratelli, Maignan morì a Tolosa all’età di 75 anni. Nel libro Perspective horaria, il religioso studia le deformazioni delle figure, e contribuisce allo sviluppo dell’anamorfismo.
    Questa tecnica consisteva nell’«esporre un meraviglioso e preciso artifizio per deformare, in maniera molto semplice e rapidissima su qualunque superficie murale o voltata, un’immagine rappresentata su una tavoletta, in modo che, vista da un punto si ricomponga otticamente e appaia nitida, chiara e simile al prototipo; vista invece da vicino, o frontalmente sparisca, lasciando apparire qualcos’altro di ben diverso e tuttavia ben rappresentatoۚ».
    Queste alterazioni visive si riscontrano nell’affresco dello stesso Maignan a Trinità dei Monti, che immortala San Francesco di Paola nel miracolo dell’attraversamento dello Stretto di Messina.

  • James Maurice Scott: un esploratore britannico a tu per tu con la ‘ndrangheta

    James Maurice Scott: un esploratore britannico a tu per tu con la ‘ndrangheta

    James Maurice Scott: un suddito di Sua Maestà Britannica in Aspromonte. Oggi non farebbe quasi notizia, come tutte le presenze anglosassoni nell’era del turismo di massa.
    A fine anni ’60 le cose erano diverse.
    La Calabria affrontava una transizione importante e sofferta verso la modernità. E uno come Scott, che ne attraversò a piedi le parti interne, poteva fare strani incontri e vivere qualche avventura ancora più strana.
    Per lui tutto questo non era un problema: infatti, era un esploratore di lunga esperienza.
    Che volete che fosse la ’ndrangheta per uno come Scott?

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    James Maurice Scott

    James Maurice Scott in Calabria prima di Montalto

    «C’erano jeep piene di carabinieri armati dappertutto», racconta l’esploratore nel suo diario.
    E prosegue, con tono divertito: «Era stato allestito quello che appariva a tutti gli effetti un quartier generale con le antenne radio e tutto il resto, mentre un elicottero ci girava letteralmente intorno». Di più: «Ero l’unico uomo disarmato e non in uniforme nel raggio di diverse miglia».
    Qualche tempo dopo, Scott apprende il motivo dello spiegamento di forze: «I carabinieri avevano ricevuto una soffiata sul fatto che la Mafia siciliana e quella locale avrebbero tenuto una specie di meeting sull’Aspromonte».
    Non può mancare, a corredo, un tocco di ironia british: «Non posso fare a meno di confessare che io stesso avrei tanto desiderato d’essere arrestato. Avrei potuto tenere banco per anni con quella storia». Già: «Ero rimasto deluso anche perché ero stato già arrestato un’altra volta sui Pirenei». Evidentemente, le Forze dell’ordine italiane erano di tutt’altra pasta rispetto a quelle della Spagna franchista.

    L’appostamento

    Scott non è un mostro di precisione sulle date e nella descrizione dei luoghi. Ma due elementi di questo racconto sono certi.
    Il primo: James Maurice Scott arrivò sull’Aspromonte nell’estate del ’69. Il secondo: in quell’estate le Forze dell’ordine tentavano in effetti di stringere il cerchio.
    Tutto lascia pensare che l’esploratore britannico si sia imbattuto in uno di quei tentativi di retata, coordinati dal questore Emilio Santillo, che avrebbe fatto il colpo grosso qualche mese dopo, con la retata del summit di Montalto, condotta con meno uomini (solo ventiquattro poliziotti) e mezzi.

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    Il questore Emilio Santillo

    Il summit di Montalto

    Il summit di Montalto è in parte una leggenda metropolitana, perché il processo che seguì al blitz si ridusse a poca cosa.
    E si sgonfiò in appello con assoluzioni importanti.
    Eppure le premesse erano golose, almeno per gli inquirenti e per i cronisti.
    Infatti, al megaraduno avrebbero partecipato i capibastone della ’ndrangheta di tutta la Calabria, ad esempio Antonio Macrì, Mico Tripodo, Giovanni De Stefano e Antonio Arena di Isola Capo Rizzuto.
    Più due big della destra, allora extraparlamentare, ma prossima a importanti conati eversivi: Junio Valerio Borghese e Stefano delle Chiaie.
    Non a caso, nell’ordine del giorno del summit c’era l’ipotesi di allearsi con l’estrema destra, che all’epoca era in prima fila nei moti di Reggio.

    Dal summit alla guerra di ‘ndrangheta

    Giusto due suggestioni per gli amanti dei “Misteri d’Italia” e delle relative dietrologie.
    L’ipotesi di alleanza con l’estrema destra, che in parte si realizzò, fu uno dei punti di rottura degli equilibri mafiosi e portò alla prima, terribile guerra di ’ndrangheta.
    Inoltre, il fremito eversivo destrorso prese corpo per davvero: ci si riferisce all’operazione Tora Tora. Ovvero al tentativo di golpe ideato da Borghese. E sul ruolo di Delle Chiaie e della sua Avanguardia nazionale c’è una letteratura corposissima.
    In tutto questo, resta una domanda: cosa ci faceva Scott in Aspromonte in quello scorcio di fine anni ’60?

    Al centro nella foto, Junio Valerio Borghese

    James Maurice Scott l’esploratore di Sua Maestà

    Tornato in Inghilterra, Scott affidò il suo diario di viaggio all’editore Geoffrey Bles, il quale ne ricavò un volume simpaticissimo, stando agli addetti ai lavori, intitolato A Walk Along the Appennines e uscito nel ’73.
    Il libro non è mai uscito in Italia. Solo di recente, Rubbettino ha tradotto e pubblicato la parte calabrese del viaggio di Scott, col titolo Sull’appennino calabrese.
    Ma chi era James Maurice Scott? Le sue biografie danno l’idea di un folle geniale.
    Figlio di un magistrato coloniale, Scott nasce in Egitto nel 1906, si laurea a Cambridge e poi si dà alla sua vera passione: la vita spericolata.
    Le sue bravate sono epocali: nel’36 si propone di scalare l’Everest, ma è escluso per un soffio dal corpo di esploratori britannici. Ma si rifà in guerra, durante la quale è istruttore dei corpi speciali. E gli resta un primato: l’esplorazione del circolo polare artico, per cercare un collegamento rapido tra Gran Bretagna e Canada.
    Poi, nel ’69, praticamente a fine carriera (sarebbe morto nell’86) decide di attraversare l’Italia a piedi. Ma, dopo questo popò di esperienza, il Belpaese per lui è la classica passeggiata…

    Un’immagine di Reggio Calabria durante i moti

    L’ultimo viaggiatore romantico

    James Maurice Scott, una volta varcato il Pollino diventa l’ultimo dei viaggiatori britannici che hanno girato la Calabria in epoche improbabili, con mezzi di fortuna o addirittura a piedi. È il caso di citarne due assieme a lui: Craufurd Tait Ramage (che ci visitò nel 1828) e Norman Douglas.
    Zaino in spalla, bastone in mano e pipa in bocca, Scott ha attraversato l’Italia dalle Alpi a Reggio.
    E si è divertito non poco, soprattutto nel nostro entroterra, dove allora iniziava lo spopolamento. Infatti, nella parte finale del suo viaggio, l’esploratore di Sua Maestà Britannica, racconta aneddoti gustosi e spara sentenze originali e, a modo loro, “affettuose”. Ne basta una sulla Sila.
    Dopo aver paragonato i paesaggi montani calabresi a quelli norvegesi o britannici, Scott spara un giudizio fulminante sulle montagne che sono diventate sinonimo di Calabria: «La Sila non è intrinsecamente italiana, e se imita altre terre tende a farlo meno bene». Una boutade in linea col personaggio.

  • Pasqua Citeriore: acqua nova, cuculi, cuzzupe e muccellati

    Pasqua Citeriore: acqua nova, cuculi, cuzzupe e muccellati

    Nel 1876, Vincenzo Dorsa, insegnante di latino e greco al liceo Telesio di Cosenza, scriveva sulla Pasqua nella Calabria Citeriore:

    «Ed eccoci alla Pasqua. La precede ed inaugura il sabato santo, col fantoccio di cenci, la vecchia dalle sette penne, che si lacera o brucia, coi pani ornati dell’uovo di rito, con l’acqua nuova che si attinge alle fontane. L’acqua e l’ovo adunque col sole di primavera trionfante dell’inverno, nella occasione della Pasqua, ricordando la origine del mondo che si rinnova mercè l’opera riparatrice di Cristo. Perciò in Calabria ogni famiglia si provvede allora dell’acqua nuova: la ripone in un orciolo nuovo, e questo adorna di nastri e di fiori, munisce di un briciolino di sale appesovi a un filo come rimedio contro le malie, e manda al prete per benedirla.

    Di poi ciascuno della famiglia, cominciando dai genitori, ne saggia un poco; e quando le campane della Chiesa suonano a festa per celebrare la resurrezione di Cristo, di quell’acqua spruzzano la casa, dicendo ad alta voce: esciti fora sùrici uorvi, esciti forza tentaziuni, esca u malu ed entri u bene, e picchiano imposte di porte e di finestre, casse e le altre masserizie, invocando così la buona fortuna e l’abbondanza».

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    Fontana di San Giuseppe a Castrovillari (foto Gianni De Marco)

    Pasqua, Cosenza e la sua provincia

    Il racconto di Dorsa sulla Pasqua a Cosenza e dintorni proseguiva così: «In tali momenti l’affetto da scabbia a Cetraro si getta a bagnarsi nel mare vicino, credendo acquistare con questa purificazione la sua guarigione; a san Pietro in Guarano scende a bagnarsi nel fiume, però di notte, prima dell’alba della domenica e senza proferire parola alcuna. Ed albeggiando la Pasqua le contadine di Aprigliano scendono al loro Crati col cucùlo adorno di uova, rivoltano le pietre che trovano alla riva, si siedono e innanzi a quelle acque mangiano di quel pane e di quelle uova. L’acqua nuova intanto si conserva come cosa sacra, e poiché si crede rimedio contro le malie se ne spruzza anche sul fuoco o sulla lucerna quando la legna o il lucignolo scoppiettano, per iscongiurare tali infauste manifestazioni del fuoco che parla, come dice il Calabrese».

    Oltre all’acqua, poi, c’era l’uovo. «I pani pasquali – prosegue Dorsa – sono rattorti a spire, di forma o lunghi o a corona, con un uovo o più, ma in numero dispari, e in qualche luogo colorate di rosso. Hanno diversi nomi: muccellati (lat. buccellatum), culluri o cudduri, cullacci o cucùli, cucùdi, cannilieri, lunghi circa due palmi, cuzzupe, ecc. Se ne fanno dono alle famiglie in lutto e ai bambini: a questi, se maschi si dà un cucùlo o un canniliere, se femmina uno di forma lunga raffigurante un corpicino, con l’uovo nel viso, che la bambina ravvolge in fasce, e gli copre di cuffietta e nastri il capo. A Castrovillari si chiama ciuciu, in Altomonte ciùcciulu, in Longobardi martiniellu, diminuitivi forse dei corrispondenti nomi propri, come in Roma si chiamavano càjoli, da Cajus, le ciambelle raffiguranti immagini di bambini.

    Il racconto di Dorsa sulle tradizioni locali si faceva più analitico: «Riassumendo le cose esposte; poiché Cristo nel linguaggio simbolico cristiano fu detto il sole della vita dell’anima, in contrapposizione al sole fisico, di cui i pagani celebravano il ritorno primaverile, e risorse in tempo appunto di primavera, è naturale che le genti di allora nel solennizzare la memoria di quel grande avvenimento cristiano gli avessero applicate le mitiche tradizioni immedesimate coi loro costumi, confondendo così in un simbolo la quaresima e la stagione invernale, la resurrezione di Cristo e quella del sole sepolto nel cielo nuvoloso dell’inverno.

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    I germogli di grano portati nei sepolcri a San Giovanni in Fiore

    Pasqua, Cosenza e i sepolcri

    È perciò che a Cosenza dura tuttavia l’uso di offrire ad ornamento dei sacri sepolcri de’ piattellini di grano di fresco seminato e spuntano per efimera germinazione: sono questi i così detti orti di Adone, che offrivano le donne fenicie e le greche, come simbolo della vita che rinasce, nella festa commemorativa della morte e resurrezione del dio Adone, mito solare. È perciò che la pasqua diventava persona mitica nel linguaggio popolare, dice alla quaresima: esci tu vecchia arraggiata, ca trasu iu pasca arricriata; come la quaresima aveva detto già congedando il carnevale: esci tu porcu ‘nzunzatu (lordo di sugna), ca trasu iu netta pulita».

    Alcune tradizioni legate alla Pasqua di Cosenza e della sua provincia si sono perse e altre sono rimaste. Nei paesi era presente una coscienza collettiva, un sostrato culturale tramandato oralmente di padre in figlio, una forza nascosta che dettava norme e regole sociali e faceva sentire gli individui parte di un gruppo. Le comunità erano rette da una serie di modelli indipendenti dalla psicologia dei singoli e che gli uomini accettavano anche se in contrasto con i propri interessi. Si trattava di un complesso inconscio e profondo, radicato nell’esperienza vissuta, stabile e resistente al punto da condizionare la stessa struttura sociale, fatto da istanze sovra-individuali che determinavano il comportamento dei membri della collettività e garantivano legami continuativi con i padri.

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    Processione dei Misteri a Rossano Calabro, oggi Corigliano-Rossano

    La vita sembrava essere governata da regole sociali immutate e immutabili che aiutavano gli individui a sentirsi parte della comunità. Ma gli uomini non sempre si uniformavano alla cultura collettiva fissata nel tempo. Recepivano e assimilavano continuamente novità di pensiero che provenivano dall’esterno. Le montagne e le scarse vie di comunicazione sembravano isolare i paesi dal resto del mondo, ma tutto questo non impediva le relazioni con le altre comunità e il processo di assimilazione di altre culture. Perfino nei borghi più sperduti conoscenze diverse penetravano e finivano per essere ritenute nonostante gli abitanti fossero restii ad accogliere e interiorizzare nuove idee. Le mentalità, all’apparenza immobili, seguivano un loro ritmo evolutivo senza interrompere la continuità che le legava al passato. Pratiche religiose, credenze e miti erano destinati a sotterranee trasformazioni; mutavano di significato di pari passo alla sensibilità comune e si adattavano progressivamente alle nuove realtà.

    Pasqua, Cosenza e la cultura contadina

    Non bisogna confinare le mentalità del mondo popolare nel campo di una storia immobile, in un quadro statico e angusto, considerarle un semplice terreno di coltura e di persistenze arcaiche. È ingenuo pensare che la cultura dei contadini fosse spontanea e si riproducesse di generazione in generazione senza un disegno, che si acquistasse senza sforzo sin dalla nascita, mentre quella dei colti fosse capace di produrre conoscenze perché prodotte dalla ragione e trasmessa da specialisti del sapere. Prese dallo sforzo quotidiano per la sopravvivenza, le classi subalterne sembravano riprodurre meccanicamente abitudini e consuetudini, ma in realtà erano produttrici di culture diffuse con mezzi semplici quali l’oralità.

    Nei villaggi esisteva una complessa dialettica tra gruppi sociali che, di volta in volta e a seconda delle convenienze, si sviluppava sul piano della conservazione o dell’abbandono di pratiche e credenze antiche. Il patrimonio culturale di un territorio nei suoi vari aspetti, rammemorazione compresa, è frutto di una continua lotta. Spesso si considera la memoria di una comunità come un organismo dotato di uno spirito unico, un crogiolo che contiene i ricordi di tutti. In realtà accade spesso che gruppi d’individui non trasmettono le loro esperienze alle generazioni successive, che nel processo di ricostruzione del passato alcuni fatti sopravvivano e di altri si perda ogni traccia.

    Gli uomini non sono in grado di ricordare tutto, ma neanche di dimenticare tutto. Memoria e oblio vanno insieme, l’una non può fare a meno dell’altro. Il tempo, lentamente e inesorabilmente, lavora per fondare certe memorie, per esaurirne il potenziale o, addirittura, per eliminarle. Ricordare e dimenticare è frutto dell’incessante lavoro d’invenzione e reinvenzione della memoria, risultato di continui scontri e patteggiamenti, tanto a livello individuale che collettivo, tra ciò che bisogna ricordare e ciò che bisogna dimenticare.
    Le mentalità si modificano: a volte possono sembrare salde e incontaminate, altre mutano bruscamente per rispondere a nuove sensibilità. In alcuni periodi credenze e valori prima dominanti cessano di esserlo, in altri si avvicendano tra sentimenti opposti, in altri ancora si sovrappongono o s’incastrano tra loro.

    La memoria subisce una continua metamorfosi e una reinvenzione. Gli individui e i gruppi sociali selezionano, reinterpretano e rifondano il passato alla luce di quello che sono diventati, ricordando il passato lo ricreano e gli attribuiscono un senso in relazione alla loro idea del presente. Le credenze si tramandano di generazione in generazione, ma nel processo interpretativo della tradizione subiscono una variazione; le narrazioni sono mutuate da storie che vengono rielaborate e adeguate a nuove realtà, a cui gli individui apportano il proprio personale contributo.

  • I licei del made in (Vin)Italy

    I licei del made in (Vin)Italy

    Idee poche, ma confuse. E patriotticamente autarchiche. Dopo le contorsioni storiche del presidente del Senato, incapace di parlare di antifascismo e la proposta di legge – che sembra uno scherzo ma non lo è – che prevede multe da infliggere a chi osasse pronunciare parole anglofone, ecco spuntare i licei del “Made in Italy”, che con quel nome, se già esistesse, sarebbe a rischio di censura. Di cosa si tratti non è ancora chiaro. Né è da escludere che resti null’altro che una proposta propagandista tra le tante tirate fuori per distogliere l’attenzione dai molti inciampi del governo Meloni sul piano economico ed europeo.

    Licei: made in Italy o Vinitaly?

    Se restiamo alla spiegazione fornita da Carmela Bucalo, senatrice di FdI, dovrebbe essere una scuola in grado di rendere gli studenti «capaci di riconoscere le insidie dei mercati, i prodotti falsi provenienti dalla Cina, gli inganni del cibo sintetico». Praticamente un corso antisofisticazioni. Ma la rappresentante del popolo non sembra avere le idee chiare. Ed ecco che aggiunge: «Vorremmo stimolare i ragazzi del nuovo liceo a proseguire gli studi nelle università di settore o negli Istituti tecnici superiori». Qualche ghost writer spieghi alla povera donna che dopo il liceo, qualunque esso sia, iscriversi a un Istituto tecnico superiore non ha molto senso.
    L’idea del nuovo indirizzo di studi è venuta nel corso di Vinitaly, la fiera del vino che si svolge a Verona e forse la cosa non è del tutto casuale.

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    Carmela Bucalo ha parlato a Verona degli ipotetici licei del Made in Italy

    Il compagno Gentile

    Di certo lo scopo dichiarato è quello di costruire un percorso didattico che esalti «una solida preparazione identitaria», ignorando la globalizzazione dei saperi che esige invece una flessibilità di pensiero e di conoscenze necessaria a governare complessità mai sperimentate prima.
    Tuttavia se questo non bastasse a far sorridere, ecco il contorsionismo meloniano che ci spiega che «la sinistra ha distrutto gli istituti tecnici per favorire i licei», mentre gli Albergheri e gli istituti Agrari «sono i veri licei». Eppure questa perversa visione che ancora immagina la separazione tra scuole di serie A e di serie B affonda le sue radici nella “fascistissima” riforma dell’istruzione realizzata da Giovanni Gentile, ministro del regime poi ucciso dai partigiani dei Gap.

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    1932, Mussolini e Gentile all’inaugurazione dell’Istituto italiano di Studi germanici, presieduto dal secondo

    Nel solco della tradizione

    Era lui che aveva guardato con manifesta alterigia verso tutti i corsi di studio che non fossero i licei, i soli destinati a costruire le élite. E per questo aveva costruito una scuola classista, la cui eco ancora si ode distintamente nell’attuale impianto educativo. Oggi, a sentire i suoi maldestri eredi, sarebbe stata la sinistra radical chic ad avere ispirato corsi di studio pieni zeppi di Greco e Latino.
    La nuova scuola sarà italianissima, gli Alberghieri saranno il baluardo contro sushi e kebab e negli istituti Agrari si imparerà ad usare l’aratro per tracciare il solco. Sperando che poi nessuno debba difenderlo con una baionetta.

  • IN FONDO A SUD| Vattienti a Nocera Terinese: se l’ossessione per la sicurezza cancella la storia

    IN FONDO A SUD| Vattienti a Nocera Terinese: se l’ossessione per la sicurezza cancella la storia

    Non mi dilungo su origini e significato del rito dei Vattienti di Nocera Terinese. Faccio l’antropologo di mestiere, la vicenda è nota, ed è già stata accuratamente studiata. Io stesso ho dato nel corso del mio insegnamento di antropologia culturale numerose tesi sull’argomento. C’è di mezzo la «vituperata e primitiva religione dei poveri». E i vattienti altro non sono che «una delle mille forme della religione popolare dei poveri» che caratterizzò – parole di Michel Vovelle – l’Europa di prima della rivoluzione industriale.

    I Vattienti di Nocera come la tribù Chimbu

    Dunque una significativa sopravvivenza. Che già ritroviamo trattata alla stregua di una stranezza pruriginosa, retaggio dei “primitivi di casa nostra”, nel film Mondo Cane, pellicola del 1969 del regista Gualtiero Jacopetti, che impaginava i vattienti di Nocera Terinese in un documentario di carattere senzazionalistico. Il film accoglieva i vattienti come esempio limite delle “superstizioni in Europa”, in mezzo a una sorta di catalogo di immagini forti di riti cruenti e di scene di violenza e sesso riprodotte “dal vero”, arditamente estrapolate da “culture selvagge” che andavano dalla Guinea al Borneo, dalla Malesia al Giappone, fino alle bizzarrie del matriarcato nelle Isole Bismark alle feste della tribù Chimbu, per tornare appunto in Calabria, col rito dei flagellanti di Nocera, documentando così in modo eccentrico tradizioni diffuse “tra i civili e i primitivi”, con scene salienti proposte per soddisfare il guardonismo e le curiosità morbose del pubblico dei cinema popolari.

    Il rito dei vattienti di Nocera Terienese negli ultimi decenni è andato poi soggetto di una forte esposizione mediatica, costretto anche a qualche forzatura, e soffre della tentazione di una sua facile e superficiale spettacolarizzazione, persino a scopi turistici.
    Si è anche trasformato al suo interno, vi partecipano non solo devoti. È una tradizione che si è estesa a giovani, emigrati, persone in difficoltà per ragioni di lavoro, di salute o di dipendenze. Cambiano le figure dei vattienti, ma i riflessi umani del rito fanno sempre capo a un disagio, a sofferenze intime o manifeste. Invariata ne resta la funzione: in una condizione di vita subalterna tipica di popolazioni marginali e della religione dei poveri, il corpo di chi si “batte” viene messo a disposizione di un sacrificio, il sangue offerto ad una richiesta di reintegrazione.

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    Papua Nuova Guinea, gli scheletri danzanti della tribù Chimbu

    Un paese risacralizzato

    È questo che consente ancora di situare nell’ordine del sacro un rito considerato oggi vieppiù un residuo di arretratezza meridionale che fa storcere il naso a molti benpensanti, anche in ambito ecclesiale. Nella realtà della sua celebrazione è tutto il corpo mistico del paese, ogni suo spazio e anfratto, che viene coinvolto e ripercorso, letteralmente ri-sacralizzato in ogni sua estensione materiale e simbolica dal percorso che la processione e il rito dei vattienti conferma e ripete ogni anno.
    I vattienti in giro per il paese nella processione del Venerdì santo sono il pennino rosso che ridà vita a stradine e vicoli deserti, case svuotate dall’emigrazione, luoghi e memorie ormai disabilitate dalla vita contemporanea. Ci si batte davanti alle chiese, alle edicole dei santi, dinanzi alle proprie abitazioni. E ci si prostra dinanzi alla statua della Madonna Addolorata in segno di devozione, ma soprattutto si versa sangue, come nel sacrificio del Cristo flagellato.

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    La Madonna Addolorata di Nocera Terinese (foto Leonardo Perugini, dal reportage “Deliver us from evil”)

    Così il rito dei vattienti di Nocera Terinese commemora un legame con il sacro, e insieme, la comunione necessaria tra luoghi e persone, l’essere cioè iscritti come presenze entro uno stesso circolo vitale, presenti e agenti nello stesso spazio del paese, soggetto come tanti altri alla crisi di una presenza storica e simbolica.
    Come accade alla figura del Cristo, attraverso il sacrificio del sangue versato e asperso, la presentificazione della morte viene sconfitta e riemerge la vita. I vattienti imitando il sacrificio del Cristo, attraversano la morte senza morire, ridando vita così anche allo spazio del paese e alla sua intera comunità. Dunque un passaggio di rilevante importante fondativa, tramandato dal rito che si rinnova nell’orizzonte storico delle pratiche identificative della comunità locale.

    Sicurezza innanzitutto: niente più vattienti a Nocera

    Accade adesso che la Commissione Straordinaria di nomina prefettizia (il comune di Nocera Terinese da un po’ di tempo è privo di un sindaco) abbia deciso di vietare con un provvedimento “di tutela sanitaria” la tradizionale processione e riti del venerdì santo con la presenza dei vattienti, definito sbrigativamente «evento tipico di epoche lontane». Le autorità supplenti non solo hanno vietato il rito con la prevista aspersione del sangue dei vattienti a causa di presunte pericolosità “valutate, nel contesto attuale, dal punto di vista igienico sanitario”, impedendo così il marcamento di impronte su porte e muri oggetto della tradizionale sacralizzazione dello spazio e dei luoghi simbolici del paese, ma hanno persino mutilato la tradizionale celebrazione religiosa, abbreviandone il percorso liturgico.

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    La Madonna portata in processione a Nocera Terinese (foto Leonardo Perugini, dal reportage “Deliver us from evil”)

    Le autorità «hanno accorciato pure il percorso della processione del Sabato Santo. La via della Madonna, in centro storico, non si può più percorrere, sempre per motivi di sicurezza», osserva dal canto suo Angela Sposato, giornalista e scrittrice originaria di Nocera Terinese. Il totem dei tempi nuovi è dunque la Sicurezza, un apriti sesamo della modernità e dell’autorità dello stato, che impone le pratiche securitarie in sostituzione di quelle tramandate dalla comunità e dalla sua secolare cultura storica e identitaria. Le “superiori ragioni” della sicurezza, sempre più invocata e imposta quando più incerto diventa l’orizzonte dei valori, la stabilità economica e sociale, più vacillante l’antidoto di una cultura locale che segna la linea del tramonto dei riferimenti etici e di costume tradizionali.

    Il passato rimosso

    Argomenti molto delicati, ma neppure la autorità ecclesiastiche ufficiali – spesso apertamente ostili a questo tipo di manifestazioni della fede popolare – erano riuscite a fermare la celebrazione di un rito secolare, che nel piccolo centro appenninico affacciato sul Tirreno si celebra almeno da quattro secoli a questa parte. «Neanche la chiesa ufficiale non può essere contraria ad una devozione che viene regolata dalla diocesi», si ricorda adesso da più parti. In casi simili sarebbe certo più rispettoso ascoltare le voci della comunità, le ragioni delle persone che eseguono il rito e che per mezzo del loro corpo, ferendosi, rendono partecipe di questo sacrificio la comunità intera che lo vive per il loro tramite.

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    Un panorama di Nocera Terinese

    Si può discutere all’infinito sul senso di questi riti “ancestrali” che sono sopravvissuti e giunti oggi sino a noi alla stregua di sopravvivenze di un passato rimosso che sempre più difficilmente trova posto in un mondo secolarizzato e dissacrato come il nostro. La realtà del nostro tempo è sempre più attratta dal primato della tecnica, la società oramai è sovradeterminata da un laicismo di facciata che asseconda le nuove superstizioni del denaro e del potere economico che governano tutte le nostre relazioni. Un’ideologia dell’economico che tutto cancella imponendo il primato dell’utile anche nelle scelte simboliche e nella qualità etica delle nostre esistenze individuali e collettive.

    Un sopruso culturale contro la religione dei poveri

    La «religione di poveri» col suo residuo di sacralità e di ritualità «irregolari», un esempio delle innumerevoli «metamorfosi della festa» di cui ci parlava lo storico dell’ideologia francese di ispirazione marxista Michel Vovelle in un suo saggio dallo stesso titolo, in questo panorama pervasivamente sovragovernato dalle istituzioni dello Stato, dalle leggi di un’economia sempre più inflessibile, dalla prepotenza della tecnica e da istanze di regolarizzazione di tipo securitario, ha e avrà sempre meno chance. A questi rituali resta una fragile ragion d’essere nella loro stessa vigenza, in una sopravvivenza che si prolunga nonostante tutto. Finché una comunità è e sarà in grado di decidere autonomamente di riassumerli e di mantenerli in vita, la loro funzione culturale e simbolica sarà giustificata e garantita.

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    Michel Vovelle

    Mettere fine d’autorità e per decreto a questi “atti di autoflagellazione e conseguente spargimento di sangue” tipici della fede popolare, col pretesto che il rito tradizionale, com’è ovvio, “non trova alcun riscontro nelle vigente normativa pubblica in materia sanitaria”, in questo caso, a mio avviso, rappresenta, in termini culturali prima ancora che di diritto, un atto di arbitrio e di sopruso.

    Con l’ordinanza di divieto il potere costituito produce un dispositivo legale il cui scopo – nemmeno tanto recondito – è quello di ricondurre i vattienti a una disciplina dei corpi di tipo sanitario e securitario. Impedendo loro di manifestare e ripetere col rito la libertà scandalosa di disporsi temporaneamente fuori dalle regole, ricreando uno spazio materiale e simbolico locale, alternativo e fondativo di un “altrove” ritualizzato dal sacro per mezzo di un diverso sapere del corpo, l’autorità intende sorvegliare e punire, normalizzando foucaultianamente l’eccezione e lo scandalo del suo retaggio tradizionale, per cancellarne infine il gesto e la memoria tramandata.

    Cultura, salute, autodeterminazione

    Una spia accesa, dunque, sulla temperatura inospitale dei nostri tempi privi di finalità e di autentici scopi di umanizzazione della realtà. Oltre che una prova dello spazio reale sempre più ristretto e residuale riservato alla libertà culturale e di autodeterminazione delle comunità locali, dato che «la violazione dell’ordinanza è punita ai sensi dell’art. 650 del Codice Penale, nonché delle ulteriori sanzioni di legge», con il compito di far rispettare la norma assegnato a Carabinieri, Polizia e Polizia Locale, come ricordato in calce dal documento prefettizio.

    Le autorità prefettizie non a caso ribadiscono a giustificazione del divieto della celebrazione del rito «le primarie esigenze di tutela della salute pubblica e dell’ambiente»; quindi un’offesa all’igiene e pericoli per la salute, troppo sangue per strada, troppo sangue asperso; o non si tratta forse di impedire uno spettacolo considerato ormai troppo osceno e incomprensibile per le sensibilità correnti nei nostri tempi sanificati dalle fobie di contagio e turbate dalla lunga degenza del Covid?

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    Un carabiniere nella processione degli anni scorsi (foto Leonardo Perugini, dal reportage “Deliver us from evil”)

    Ma che cos’è cultura?

    Un’obiezione si leva ancora per voce della scrittrice Angela Sposato: «La grave censura contro i riti della Settimana Santa a Nocera Terinese da parte delle istituzioni, svela tutto il disastro culturale della nostra contemporaneità, l’ignoranza assoluta in ambiti complessi come il senso della nostra “Festa”: un convito intimo di amici (paesani) che riconnettono l’identità in una fraterna agàpe (ἀγάπη), l’amore più disinteressato; svela pure il neo-oscurantismo culturale in cui è cultura oggi solo ciò che rimanda al politicamente corretto, mondato da “cattive” prassi e affidato alla mediazione di qualunquisti e retori umanisti ciarlieri scelti dal sistema che ci vuole assoggettati alle regole della burocrazia. I magistrati del gusto e del giusto, non sono e non saranno mai cultura, né progresso. Il rito per noi noceresi è elemento vitale, è incontro col Sacro. Sacro, ancor prima che Santo».

    I Vattienti a Nocera nel passato

    Dal canto suo anche lo studioso locale Franco Ferlaino, difendendo la pratica secolare di questo rito della fede popolare, ribadisce come «a memoria d’uomo, la Settimana Santa nocerese non ha mai creato problemi di ordine pubblico (semmai li hanno creati alcuni vescovi del secolo scorso), né di ordine sanitario, né di ordine giuridico (e abbiamo testimonianze demologiche fin dalla seconda metà del secolo XIX). Ogni altra supposizione è arbitraria e infondata». Riguardo ai protagonisti del rito, i vattienti poi: «nessun “fratello” si mai è fatto male. Nessuno li ha mai obbligati; anzi lo hanno sempre fatto con trasporto e sentimento… la gente di paese non ha un solo punto di vista su queste cose… è molto più aperta, democratica e tollerante, anche se in genere la si descrive addebitandole un oscurantismo d’altri tempi. Credetemi, si tratta solo di sapersi porre nella condizione di intenderlo il nostro rito».

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    Gli strumenti utilizzati dai Vattienti a Nocera per flagellarsi (foto Leonardo Perugini, dal reportage “Deliver us from evil”)

    Priorità

    Che dire infine, da un punto di vista etico, se appena allarghiamo lo sguardo oltre il contesto? Ogni giorno respingiamo brutalmente il salvataggio in mare di vite umane di gente inerme, che fugge dalla guerra e cerca di sopravvivere a fame e conflitti. Viviamo sotto la minaccia costante di violenze, caos e pericoli di ogni sorta. Avveleniamo la natura. Produciamo armi e le vendiamo senza troppi scrupoli. Inviamo con autorizzazione parlamentare ordigni letali e armamenti pesanti che serviranno ad alimentare la distruzione sistematica di vite umane, pur sapendo di procurare – altrove – morte a domicilio in un conflitto sanguinosissimo che si svolge alle porte dell’Europa.

    E però diventa un problema di sicurezza se in un paesino della Calabria, mezzo spopolato e in crisi di identità e di futuro, un gruppetto di paesani e di emigrati di ritorno devoti al Cristo flagellato e alla Madonna Addolorata, per ripeterne simbolicamente il sacrificio e la parabola di morte e rinascita, si procura, volontariamente, per scopi religiosi e rituali e senza causare violenza alcuna, la fuoruscita di sangue da ferite superficiali che si rimargineranno dopo una settimana.

    I vattienti di Nocera e il corpo come feticcio

    Viviamo decisamente in tempi post-umani in cui il corpo di esseri umani di ogni età e genere viene ovunque esibito e dissacrato, offerto sull’altare della più volgare banalizzazione pornografica della sua integrità e dignità, e quindi venduto, scoperto, indagato, spiato, alterato a piacimento, e come oggetto smembrato, narcotizzato, proposto come quotidiano pasto nudo da consumare, imposto come prodotto da pubblicità e media che lo espongono sugli scaffali reali e immaginari dei nostri empori commerciali. Insomma il corpo umano è, sotto i nostri occhi e senza disagio alcuno per le nostre coscienze stordite, sempre più ridotto a dominio e feticcio di ogni potere, soggetto ad ogni prepotenza e commercio che lo scambia come merce tra le merci.

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    Mario, uno dei vattienti di Nocera Terinese, in processione (foto Leonardo Perugini, dal reportage “Deliver us from evil”)

    Dissanguati sì, ma da povertà ed emigrazione

    E davvero farebbe scandalo e pericolo il sangue asperso al mattino del Venerdì Santo, offerto silenziosamente come voto e in preghiera dagli ultimi vattienti di Nocera Terinese? Sono questi testimoni sparuti di una fede umile che sopravvive sui margini violati della storia, il pericolo incontrollabile che si aggira tra i vicoli di un paesino dissanguato sì, ma da povertà ed emigrazione; loro che in un convegno religioso di poche anime che si rinnova da secoli non cercano e non chiedono altro che trovare un appiglio e un conforto grazie ad un rito collettivo e all’oltraggiosa resistenza di una pratica di fede popolare?
    Sono loro il difetto, la minaccia all’ordine, l’infezione sociale, quelli da sorvegliare e punire, la realtà da rimuovere dall’inflessibile dispositivo di potere che controlla le nostre vite e il nostro mondo?
    Siamo diventati, mi chiedo, davvero tutti così ammalati di intransigenza, così mediocremente, conformisticamente e ipocritamente “civili”?

    Quasi tutte le immagini all’interno dell’articolo fanno parte del reportage “Deliver us from evil” del fotografo Leonardo Perugini sui Vattienti di Nocera Terinese. Si ringrazia l’autore per averne concesso l’utilizzo sulle pagine de I Calabresi. Riproduzione vietata.

  • STRADE PERDUTE | Sila: spiriti, filosofi e tamarri tra boschi infiniti

    STRADE PERDUTE | Sila: spiriti, filosofi e tamarri tra boschi infiniti

    La Sila è gotica. Meglio: i boschi silani sono gotici. Sì, se il Pollino è un borgo arroccato, e i suoi alberi più barocchi, di quel barocco “appestato” caro a Enzo Moscato, allora la Sila è un po’ una grande capitale piena di cattedrali gotiche. Se ne ha questa sensazione stando fermi a testa in su in uno dei suoi boschi. La ebbi una notte, sul terrazzo di una casa immersa nel buio. Colonne, colonnette, costoloni, guglie e pinnacoli convergenti verso l’infinito. Peccato però che al sottoscritto il gotico non piaccia per niente. E che il sottoscritto preferisca appunto lo straziante, lirico barocco pollinare.

    Il turismo in Sila

    La Sila non fa che deludermi, ogni volta. È fatta per un turista per modo di dire. Il turista cosentino che si sveglia, si infila le Hogan e sogna di arrivare prima possibile per mangiarsi un panino con la salsiccia e fare struscio sul corso di Camigliatello, fumando una decina di sigarette rigorosamente buttate per terra. Gli animali stanno nei recinti per poter essere guardati da bambini e genitori che ne sbagliano i nomi fotografandoli. Alla riserva dei Giganti di Fallistro, bella ma piccolissima, tempo fa chiedevano un biglietto non esoso di per sé ma assolutamente sproporzionato rispetto all’offerta. Ma allora, ripeto, perché non andarsene su un qualsiasi sentiero del Pollino, dove si trovano alberi ben più monumentali, e gratis?

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    Il corso principale di Camigliatello Silano

    La Sila, più che un parco nazionale sembra il suo plastico. Il massimo lo si raggiunge generalmente durante una sosta al lago Cecita. Comitive di famiglie che urlano, dai bambini agli anziani; buste di plastica e bottiglie di birra ovunque. Una cinquantenne in tenuta da estetista in vacanza non riesce a chiamare i figli al cellulare, li intravede da lontano. E come potevano chiamarsi se non – uno dei due nomi è di fantasia – Kevin e Jessica? Ma in fondo è meglio così: a ognuno le sue montagne.

    Fascisti, democristiani e comunisti

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    La piana dell’Ampollino prima del lago

    E poi i laghi artificiali della Sila: vanto del fascismo i primi due (Arvo e Ampollino), vanto dell’Italia democristiana il Cecita. Molto più divertente è studiarsi le mappe silane precedenti alla creazione dei laghi: e vattici a orientare…
    La Sila, primo dei tre polmoni della Calabria; la Sila carica di storia del latifondo e delle enormi ricchezze di pochi (ve lo ricordate il detto “gliene importa quanto di una pecora a Barracco”?); della riforma agraria d’ispirazione massonica – questo lo sanno in pochi – e dello spezzan-catanzarese Fausto Gullo, comunista e proprietario, costituente e, appunto, massone; di quell’atto notarile del 1604 in cui trovai già riferimenti ai possedimenti dell’opulenta famiglia Monaco nei territori di Muchunj, Fossiyata, Carolus Magnus, Cupone, Zagaria e Frisuni (la stessa antica famiglia di giuristi di cui oggi il visitatore ignora l’enorme villa di impianto cinquecentesco presso le Forgitelle e l’antico casino padronale presso il fondo Neto di Monaco, appunto).

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    Sila, primi del Novecento: lavori per un ponte sul Neto

    Sila horror

    Ma dove comincia la Sila? A Cavallo Morto? A Rovella, per chi non si accoltella? Oppure in uno dei Casali del Manco, spesso architettonicamente disastrati per le velleità e il cattivo gusto “de’ particolari”, come si sarebbe detto nel Seicento? Fatevi un giro: non è raro trovare da queste parti la tettoia pseudo-tirolese con pareti pitturate a spatoletta, tipo sala ricevimenti tamarra, infissi in alluminio anodizzato, ringhierina che Dario Argento avrebbe fatto meglio, e vasi in plastica finto-terracotta. Muri esterni del pianterreno con fintissimo pietrame facciavista e insertini in vetrocemento e intonaco bianco alla come viene viene. Li ho visti, una volta, tutti insieme sulla stessa casa. Brividi.

    Diverso tipo di brividi offre invece un documento cinquecentesco redatto dal notaio Giovambattista Fiorita di Rovito: nel 1591 donna Medea di Napoli, residente nel casale Corno – tra Lappano e San Pietro in Guarano – fu trasportata dai figli “dinanzi all’altare maggiore della chiesa. La stessa era vessata da uno spirito maligno (…) a tal punto che si asteneva dal bere e prendere cibo, dal partecipare ai sacramenti (…) dal proferire le preghiere. Don Paolo Costantino leggeva i rituali scongiuri contro gli spiriti maligni avendo premesso in fronte della detta Medea il segno della santa Croce interrogando la stessa se lo spirito volesse uscire, quale nome avesse e quale segno desse. Rispose dinanzi a tutti che avea nome Gaspare, era sua intenzione uscire subito e nell’abbandonare Medea avrebbe dato tre segni (…). Lo spirito uscì di bocca della stessa Medea, vomitando un chiodo di ferro e di piombo, tutta raggomitolata in sé con i capelli rossastri Medea rimase alquanto attonita”. L’Esorcista, oppure Benigni e Matthau, in dialetto silano.

    Dove finisce la Sila?

    E dove finisce la Sila? Si intreccia con la zona del Savuto o gli volta la faccia? Saliano, ad esempio, sta quasi alle sorgenti del Savuto ma non definirla Sila sarebbe coraggioso. Fino a qualche tempo fa si potevano trovare online alcune fotografie scattate nel 1955 su iniziativa del Comune per registrare i danni causati da una frana verificatasi negli abitati di Cicchelli, Fuochi e Ruga Rocca. Non le trovo più online, ma ne avevo salvate alcune: senza volerlo – o forse sì – il fotografo aveva creato un album di grandissimo valore artistico.
    Se qualcuno di voi ha avuto la fortuna di poter ammirare l’ormai storico libro fotografico di Paul Strand, Un paese, potrà capire meglio di cosa parlo. Saliano, a conti fatti, è il nostro esempio artistico di Un paese, in cui volti, espressioni, momenti di vita quotidiana, mostrano un lato di grande valore, per non usare quell’altra parola abusatissima.

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    1955, Saliano di Rogliano

    Saliano ai piedi della Sila, dunque, e in cima al Savuto. E non lontano da toponimi curiosi come Pino Collito e Cappello di Paglia. Potremmo seguire quest’altro fiume ma finiremmo per sfiorare la meraviglia di Cleto – si perdoni un inevitabile pensiero volante a Cletus Awreetus Awrightus – e saremmo tremendamente fuori strada.
    Possiamo al massimo raggiungere il Ponte di Annibale, che scavalca magistralmente il fiume, e ritornare poi su verso i boschi. Ma sarebbe bello poterlo fare percorrendo davvero tutta l’antica via Popilia, e non si può più. E allora scendiamo da Saliano e andiamo a sbirciare in quella cappelletta-porcile in contrada Cortici, poi passiamo da Carpanzano e ammiriamo, chiusa dentro un recinto fuori da un tornante, un discreto relitto di Renault Dauphine.

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    La cappelletta-porcile di Cortici

    La bambina con due anime

    Ancora documenti antichi e stranezze silane: Carpanzano, 1665, l’arcivescovo di Cosenza Gennaro Sanfelice (nel cui stemma in pietra inciampai anni fa, in un corridoio del duomo; il cui stemma medesimo non si sa poi che fine abbia fatto…) descrive un ‘mostro’ nato proprio lì: “Antonia Parise moglie di Antonio Cristiano, gentiluomini di quel luogo, ha dato in luce un parto di femina di due mesi con due teste uguali, ben fatte, due braccia, un busto e dall’ombelico in già tutto duplicato che a capo d’un hora in circa si morì doppo essere state battezzate ambedue le teste, col supposto che fossero due anime”.

    Immediata la superstiziosa reazione del clero locale, che avrà tribolato per scegliere una soluzione pacifica in merito alla modalità – singola o doppia – del battesimo. Melius abundare e l’officiante optò per il duplice rito, dimenticando che per il dettato cattolico la sede dell’anima (‘obiettivo’ del sacramento) è il cuore e giammai il più razionale cervello. Vero è che il sacerdote impone il segno della croce sulla fronte e che la neonata in questione aveva due fronti: quale, dunque, sarebbe stata da scegliere? Quella appartenente al capo nascente più a sinistra, ovvero più in prossimità del cuore? Sofisticherie liturgiche di discutibile respiro. Fatto sta che la bambina bicefala aveva una sola anima, anche per il dettato cattolico, e fu battezzata due volte.

    La Sila dei pensatori

    Siamo ormai alle porte di Scigliano, patria di un pensatore ben più libero, il filosofo Aurelio Gauderino, al secolo Gualtieri, morto nel 1523. Professore di filosofia a Bologna, letterato e scrittore, scrisse alcuni testi a stampa ormai rari. Le Duae orationes sulla filosofia e sulla virtù; la raccolta di epistole familiari – “molti nascosti nel monte Reventino”, gli scriveva il padre nel 1518 – e soprattutto, campione dei campanilisti, il De laudibus Calabriae contro i “Calabriae maledicentes”.
    Restando ai pensatori, dall’altro lato della Sila, anzi nella presila ionica di Cirò, visse invece a quel tempo Giano Lacinio – al secolo Giano Terapo – teologo francescano e soprattutto alchimista. E anche Gian Teseo Casopero, allievo di Antonio Telesio, maestro dell’astronomo Luigi Lilio e docente presso il celebre Ginnasio di Santa Severina. Mica male.

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    Ariamacina, 1910. Alfabetizzazione rurale

    Tra gli uni e gli altri, invece, in epoca più recente, a Petilia Policastro nacque l’avvocato Giambattista “Titta” Madia, figlio del notaio locale e bisnonno della ex ministra di centrosinistra Marianna, ma soprattutto eminenza nera, più che grigia: deputato fascista per l’intero Ventennio, Consigliere Nazionale del Regno d’Italia e poi deputato missino negli anni Cinquanta, nonché autore di un’imponente biografia di Rodolfo Graziani, il Maresciallo d’Italia (o il Macellaio del Fezzan). Punti di vista. Prospettive.

     

  • Questo rito non s’ha da fare? Il Comune, la Chiesa e il sangue del popolo

    Questo rito non s’ha da fare? Il Comune, la Chiesa e il sangue del popolo

    Quello che mai nessuna amministrazione eletta dai cittadini di Nocera Terinese aveva mai osato fare, è stato compiuto da una Commissione straordinaria.
    I commissari insediatisi dopo lo scioglimento del Consiglio comunale nel 2021, in un sussulto tardo illuminista hanno posto fine a una tradizione antichissima, quella dei Vattienti, le cui radici affondano nel ribollente calderone dei tempi, dove culture subalterne, fede religiosa e ritualità arcaiche si intrecciano e si sovrappongono in modo inestricabile. Prevedibilmente il malumore tra i noceresi è cresciuto rapidamente e a sostenere il disappunto popolare è Fernanda Gigliotti, ex sindaco di Nocera e avvocato.

    I Vattienti fuori da ogni giurisdizione?

    «Il rito dei Vattienti è da considerarsi fuori da ogni potere laico, sia amministrativo che giuridico, la disposizione del proprio corpo resta al di fuori della giurisdizione dei tribunali e degli enti di governo», sostiene l’ex sindachessa. Da legale, ha sconsigliato i Vattienti di ricorrere al Tar nel tentativo di annullare la decisione dei commissari amministrativi. «Ho spiegato loro che non conviene perché è nei poteri dei commissari assumere decisioni di questa natura, ma soprattutto perché rivolgersi al Tar avrebbe implicato riconoscere che il rito di cui sono protagonisti è subordinato all’autorità giudiziaria».

    In effetti la Gigliotti crede che i Vattienti non debbano dare conto nemmeno alla Chiesa, cui appunto non fanno parte. «Loro si autodeterminano e non hanno bisogno di autorizzazioni, anzi da cittadina io credo che debbano custodire il rito». L’invito dell’avvocato è quello di praticare la mortificazione della carne in forma privata, «esattamente come è avvenuto negli anni della pandemia, quando rispettando l’ordine di non uscire si sono flagellati in casa».

    «Nelle manifestazioni pasquali ancora oggi, nel Sud, si attuano una serie di modalità folkloriche che testimoniano la presenza di un cattolicesimo popolare con caratteristiche diverse dal cattolicesimo “ufficiale”», scriveva Luigi Maria Lombardi Satriani, spiegando come fede e tradizioni popolari trovassero una tacita coniugazione.

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    Particolare dei Vattienti, i flagellanti di Nocera Terinese (foto Alfonso Bombini 2019)

    La Chiesa non ha una posizione ufficiale

    Eppure sul tema non pare esistere una posizione ufficiale della Chiesa, il cui sguardo su questi fenomeni è sempre stato paziente, senza però rinunciare all’impegno educativo. Un riscontro di questa posizione lo troviamo nelle parole di monsignor Francesco Savino, vicepresidente della Cei e vescovo di Cassano, che spiega come pur mancando una posizione dogmatica, «non sono mai venuti meno attenzione e rispetto verso le tradizioni popolari e il loro modo di interpretare il rapporto tra uomo e Dio e specificatamente con la Passione di Cristo». Tuttavia subito dopo il vescovo azzarda una domanda che nella sua retoricità disvela quale deve essere la natura della relazione tra umanità e trascendenza. «Ma davvero Dio vuole che ci facciamo male nel rapporto con Lui? Davvero le mie gambe, il mio petto, devono sanguinare perché io possa mostrare la mia devozione?».

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    Monsignor Francesco Savino, vicepresidente della Cei (foto Alfonso Bombini 2019)

    Monsignor Savino: il senso del dolore

    Va da sé che un cattolicesimo maturo risponderebbe di no a queste domande, che tuttavia meritano un approfondimento, perché come spiega don Savino esse pongono «il problema del senso del dolore, della fatica ineludibile del vivere, della fragilità del nostro corpo, cui non siamo chiamati ad aggiungere altra sofferenza».
    Si trasformino dunque i pezzi di sughero dentro cui i Vattienti piantano cocci di vetro per flagellarsi il corpo in consapevolezze capaci di esigere giustizia e solidarietà per tutti. «Dobbiamo convertire il nostro sguardo versi gli ultimi, le persone che soffrono, verso le vittime delle mafie, del lavoro nero, dello sfruttamento».

    È sempre Lombardi Satriani a rammentarci come i «rituali della flagellazione evochino un retroterra in cui lo spargimento di sangue proprio o altrui, è considerato un atto utile a placare lo sdegno divino e a suscitare un intervento misericordioso». Mentre è sempre monsignor Savino che con le parole del Papa Francesco sottolinea come si «debba restare coerenti col Vangelo». Come dire che il primo atto misericordioso deve partire da qui, tra gli uomini.

  • Cesare Battisti e quel perdono mai chiesto

    Cesare Battisti e quel perdono mai chiesto

    Cesare Battisti, 69 anni, ex terrorista protagonista degli anni di piombo, condannato all’ergastolo per quattro omicidi ed altri gravi reati, catturato in Bolivia nel 2019 dopo una latitanza durata ben 37 anni, si è fatto risentire nei giorni scorsi. Aveva chiesto del vino da consumare in cella, negato. Poi alcuni agenti della polizia penitenziaria nel carcere di Parma, dove è detenuto, si sarebbero resi responsabili del «danneggiamento di alcuni suoi oggetti personali, tra cui il computer», il tutto «nel disegno di un’accanita persecuzione» nei suoi confronti: così reclama le sue ragioni il detenuto “politico” – definizione alla quale non rinuncia – Cesare Battisti: «Aggredito da agenti in carcere, hanno rotto il mio pc».

    Cesare Battisti e il perdono agli ex terroristi

    Il computer è diventato per lui una compagnia inseparabile. Battisti scrive, fa lo scrittore, mestiere appreso nella lunga latitanza trascorsa da fuggiasco; identità multiple e vita sotto copertura per decenni in giro per il mondo. «Un trauma» per lui che considera il computer «strumento di lavoro come scrittore ed editor di Artisti dentro», una rivista che documenta le attività dei detenuti impegnati in attività artistiche e creative nei luoghi detenzione. Ma il PC in carcere per Battisti è diventato anche «l’unico mezzo per mantenere un equilibrio psichico in circostanze tanto avverse». Responsabilità e fatti ai danni di un detenuto in un carcere della Repubblica che se accertate andrebbero sanzionate.

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    Marco Pannella manifesta per la liberalizzazione delle droghe leggere, 6 ottobre 1979

    “Nessuno tocchi Caino”, come ci ha insegnato Marco Pannella, precetto sacrosanto di una giustizia giusta. In questi giorni il nome e il profilo di Battisti è tornato in ballo non solo per questo episodio. Si riparla di perdono agli ex terroristi. La storia, si dice da più parti, deve poter chiudere definitivamente i conti con un gruppetto di reduci della lotta armata, ormai vecchi, malati e male in arnese, anche se molti di loro circolano comunque liberi altrove e godono dello stato di rifugiati politici – certuni niente affatto pentiti – in Francia e in altri paesi che hanno offerto loro rifugio. Non è il caso di Cesare Battisti. Ormai assicurato dalla giustizia italiana alla sua pena, lunga e definitiva.

    Un ragazzo di Calabria

    Ma se per ipotesi Battisti dovesse ritornare in libertà e uscire per qualche motivo dalla galera, potrebbe benissimo passare un giorno o l’altro da queste parti, in Calabria, magari per scriverci sopra una delle sue storie noir. Potrebbero invitarlo a trascorrere qualche giorno di relax diplomatico sulle belle spiagge dello Ionio. Magari a Sant’Andrea Apostolo sullo Ionio, un comunello in provincia di Catanzaro che oggi conta non più di 2.161 abitanti.

    Un posto che a parte il mare e le spiagge, gli ulivi e gli aranci piantati sulle colline di creta divorate del vento di scirocco, non ha altro da dichiarare al mondo oltre al fatto che dal 1931, quando faceva quasi 6.000 abitanti, ha visto sparire due terzi della sua popolazione nella diaspora infinita dell’emigrazione che ancora oggi continua a svuotare i paesi della Calabria. Oggi ci sono “androeolesi” emigrati sparsi in tutti i continenti e ai quattro angoli del mondo.

    Forse Cesare Battisti a questo punto si chiederebbe il perché di quest’invito improvvido in un posto così strambo e fuori mano. Che pure di tempo ne è passato tanto. Ma il paesello di Sant’Andrea Apostolo dello Ionio qualcosa a che fare con l’ex rivoluzionario (non proprio una sagoma di eroe della rivoluzione à la Che Guevara) ce l’ha. Una piccola cosa, un’emozione da poco nell’economia generale della Storia.

    Qui era nato un ragazzo di Calabria, uno di quelli che per stare al mondo un giorno prendono il treno e vanno via da paesi sfiniti e inariditi come Sant’Andrea per andare a cercarsi “fortuna” dove se ne trova. Il lavoro, quello che tocca in sorte a chi emigra e ne trova uno, quello che è, qui di chiama ancora così, è “la fortuna”.

    Andrea Campagna e i poliziotti di Pasolini

    Di quel ragazzo partito come tanti altri dal suo paese, oggi resta solo qualche foto sorridente, i baffi e l’espressione impettita. Una di quelle foto sta al cimitero, e ingiallisce al sole sopra la lapide della sua tomba. Si chiamava Andrea Campagna, emigrò a Milano con la famiglia, trovò un lavoro, e per sua sfortuna diventò poliziotto. Uno di quei ragazzi figli degli emigrati poveri del Sud ai quali Pier Paolo Pasolini dedicò la poesia che lo scrittore, dispiacendo molto a certa sinistra radicale, pubblico su L’Espresso il 16 giugno del 1968.

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    Andrea Campagna

    Tra quei versi asciutti Pasolini dichiarava la sua distanza antropologica e sentimentale dalla rivolta degli studenti, rappresentanti della borghesia. Quella per lui non era una vera rivoluzione, non aveva a che fare con la vita dei poveri, con i figli della classe operaia e contadina. I poliziotti invece, quei ragazzini in divisa che parlavano un dialetto sporco, coscritti per fame, rappresentavano invece la classe operaia, quella che all’epoca manifestava contro la borghesia.

    Una rivolta di facciata

    Quelle erano manifestazioni alle quali anche gli studenti contestatori, diceva Pasolini, quasi tutti figli della borghesia urbana partecipavano sì, ma come figuranti. Per Pasolini la rivoluzione degli studenti era una rivolta di facciata, era falsa, ipocrita. Non era quella la vera rivoluzione che avrebbe realmente cambiato la società italiana: «Siete in ritardo, figli. E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati». Pasolini era già allora controcorrente, una voce dissonante in un periodo storico che sfociò poi apertamente in tensioni e violenze terroristiche, negli anni di piombo. Anche quel suo breve scritto, come il resto della sua vita e delle sue opere, fece scandalo. Ebbe effetti spiazzanti e creò talmente tanto scalpore da trascinare controcorrente l’attenzione critica del mondo culturale italiano di sinistra sui movimenti politici di quella fase storica.

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    1968, gli scontri a Valle Giulia

    «Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. Quanto a me, conosco assai bene il loro modo di esser stati bambini e ragazzi, le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, a causa della miseria, che non dà autorità». È questo il gruppo di versi di quella poesia di Pasolini, che da allora è rimasto nella storia, di cui si continuò e si continuerà a parlare ancora per molti anni.

    Con le labbra, non con il cuore

    Poi successe che una mattina del 1979, la faccia di Andrea Campagna, ragazzo calabrese figlio di paese e di emigranti a Milano, partito al mondo come poliziotto, finì con una foto formato tessera sulle prime pagine dei giornali. Andrea era stato ucciso “in azione” da Cesare Battisti, a quel tempo militante dei PAC e oggi rubricato nella ricca biografia di Wikipedia come “ex terrorista e scrittore italiano”. Uno che, già, approfittando dell’omonimia fa ombra alla memoria di quell’altro Cesare Battisti, il patriota trentino che con ben altra fine fu eroe dell’indipendenza italiana.

    Tra gli amici di gioventù di Andrea Campagna, originario anch’egli del paese di Sant’Andrea Apostolo dello Ionio, c’è Salvatore Mongiardo, da cui ho raccolto il racconto di questa storia. Nel 2009 Mongiardo, emigrato anche lui a Milano, torna a Sant’Andrea e incontra Antonietta, la madre di Andrea Campagna. «Fu più forte di me, e mi misi a parlare di Andrea, della sua uccisione, di come lei, la madre, lo venne a sapere».

    Il perdono con le labbra, non con il cuore

    «Antonietta ricordava con estrema lucidità quel giorno terribile, e concluse: “Dicono che bisogna perdonare, ma io potrei dirlo solo con le labbra, ma non con il cuore, con il cuore no, mai”, e alzò ripetutamente la testa per sottolineare il diniego. Quando torno al cimitero del paese, rivedo la tomba e quella foto di Andrea e penso che il mondo va male perché governato da quelli che affamano i miseri e proteggono pure i delinquenti. Un mondo così, prima finisce meglio è», conclude amaro Salvatore Mongiardo, oggi uomo di successo, filantropo e filosofo pacifista ispirato dal pensiero pitagorico. Un punto di vista sul mondo che uno che sparava e uccideva per la Rivoluzione comunista come Battisti magari farebbe ancora in tempo ad apprezzare.

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    Sant’Andrea Apostolo dello Jonio (CZ)

    Caro Battisti se mai verrà un giorno da uomo libero a Sant’Andrea, in Calabria, stia certo che nessuno le rimprovererà nulla o le torcerà un capello. Potrà camminare tranquillo per le strade del paesino ionico spogliato dall’emigrazione. Magari le offriranno anche un bicchiere di vino di quelle campagne. E poi potrà andare a dare uno sguardo al piccolo cimitero del paese. Lì c’è la misera tomba di questo Andrea ammazzato da lei, Cesare Battisti, a 25 anni. Poi magari potrebbe passare anche da casa di sua madre, che se fosse viva, davanti a lei alzerà ancora una volta la testa, e ancora una volta, finché le resterà fiato, le chiederà perché, «perché, cosa ti aveva fatto mio figlio?», e le dirà ancora che per lei, dopo quello che le ha fatto, «perdonare è mai!».

    Cinque colpi alle spalle

    Altri lo hanno fatto, legittimamente, per dare pace e darsene, per chiudere finalmente quel capitolo della storia. Chi è morto però resta per sempre dalla parte dei vinti, dei sopraffatti dalla storia. Il perdono è un diritto, un dono, appunto, mai un dovere. Chissà che incontro sarebbe quello tra lei e quella vecchia donna che non ha mai sciolto il lutto del figlio morto ammazzato per le ragioni dei padroni e per una rivoluzione, la sua Battisti, che non c’è mai stata. Tra i vinti di questa terra disertata resta lui, Andrea, tornato qui da morto, ragazzo di Calabria che si era fatto poliziotto a Milano, ammazzato con 5 colpi di revolver dietro le spalle, a 25 anni.

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    L’agente Campagna, ricordano freddamente le cronache fu «ucciso al termine del suo turno di servizio, intorno alle 14 del 19 aprile 1979, in un agguato teso in via Modica, alla Barona», periferia operaia di Milano. Freddato «di fronte al portone dell’abitazione della sua fidanzata». Ad attenderlo c’era «un gruppo terroristico». A capeggiarlo era proprio Cesare Battisti, che eseguì personalmente la sentenza di morte.

    Campagna «fu raggiunto e colpito alle spalle, mentre si accingeva ad entrare in auto, da cinque colpi di rivoltella» che la stampa riferì essere quelli «di una 357 Magnum calibro 38 corazzato». La successiva rivendicazione dell’omicidio fu siglata dai Proletari Armati per il Comunismo (PAC), di cui Battisti era esponente di punta. Nella rivendicazione si parlò di Campagna come “torturatore di proletari”. In realtà il giovane agente calabrese svolgeva mansioni da autista presso la Digos di Milano.

    Fantasmi

    In questa storia dalla parte dei vinti, dei senza storia, resta lui Andrea Campagna. La stessa parte di quei padri e di quelle madri povere e diseredate di una Calabria contadina ormai estinta, costretta ma ancora dolente. La madre di Andrea, figura tragica piegata dal crepacuore, lei che sembra intravista, con intorno il suo piccolo mondo di affetti violato dalla sofferenza che si sconta da vivi, era già dentro quei versi di Pasolini del 1968: «la madre incallita come un facchino, o tenera, per qualche malattia, come un uccellino; i tanti fratelli, la casupola tra gli orti con la salvia rossa, in terreni altrui, lottizzati».

    Chissà, magari trovasse un giorno un modo, con la voglia e il coraggio di venire fin quaggiù ad affrontare, lei, Battisti, gli occhi o il fantasma di quella donna, madre di una vittima povera, dimenticata e senza giustizia. Andrea Campagna, uno che non ha avuto la sua stessa fortuna, Battisti, questo è certo. Ci provi. Magari anche solo col pensiero, anche da dove si trova adesso, in quella cella del carcere di Parma dove sconta i suoi ergastoli. Lei che è uno scrittore. Provi a scrivere una storia così. Per venire a vedere tra le pagine, fin qui, di persona, lei, Battisti, che oggi non è libero, ma è famoso e scrive noir di successo come Travestito da uomo, pubblicato da Gallimard, che ha amici influenti nel bel mondo come Bernard-Henri Lévy, Fred Vargas, Pennac e Carla Bruni.

    Un perdono che non conta più

    Provi a immaginare che faccia ha la vecchia mamma calabrese di Andrea Campagna, il ragazzo di Sant’Andrea Apostolo dello Ionio, emigrato per fare il poliziotto (un mestiere da “servo di quello Stato”, che da “comunista armato” lei voleva sovvertire, e ai cui codici e leggi adesso si appella a sua personale tutela), per morire un giorno ammazzato da lei. Tu Battisti, come quegli altri, «eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, amici».
    Furono pallottole e non fiori per Andrea, e gli occhi di quella madre continuano a piangerlo, per sempre. Quegli occhi velati da un dolore che non passa, le ricorderebbero Battisti che si vive o si muore sempre per un sì o per un no. E quel no per Andrea lo ha detto lei.

    Lei, Battisti, credo, se la vedrebbe ogni giorno davanti agli occhi, quella vecchia madre, mentre alza la testa per negargli il perdono (che lei neanche le ha mai chiesto); con il cuore che diceva no per il poco di tempo che le restava da vivere, e quel no era tutto quello le restava da dire. E così anche dopo. Finché il silenzio non si porterà nel buio del tempo anche quel suo ultimo, inutile e irrimediato diniego di madre. Un perdono che tanto ormai, se pure ci fosse, non conta più niente.

  • Lettere dal Sud, l’epistolario inedito di Vittorio de Seta

    Lettere dal Sud, l’epistolario inedito di Vittorio de Seta

    Lettere dal Sud/ Vittorio De Seta è il titolo del libro, curato da Eugenio Attanasio, edito dalla Cineteca della Calabria nella ricorrenza del decennale della scomparsa (2011-2021). Una pubblicazione che raccoglie lettere inedite, diari, articoli, conversazioni e testimonianze ripercorrendo alcuni momenti più significativi, del regista e dell’uomo, valendosi di contributi autentici e qualificati di intellettuali, giornalisti e persone che lo hanno conosciuto realmente, nella ricorrenza del centenario della nascita, 1923/2023 alla Libreria Mondadori di Cosenza venerdì 31 marzo alle 18.

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    Il libro su De Seta a cura di Attanasio

    È un prodotto editoriale importante che giunge al termine di un lungo lavoro effettuato dalla Cineteca della Calabria sul regista, del quale la Cineteca custodisce l’opera omnia, ed iniziato vent’anni fa con la prima ristampa dei documentari 1954-59, proseguito nelle scuole con i progetti di alfabetizzazione e di divulgazione del cinema antropologico, e che oggi storicizza l’impegno della Cineteca nel tenere viva la memoria e indirizzare nuovi cammini di studio e ricerca. Non solo un percorso culturale ed una eredità intellettuale della Cineteca della Calabria ma anche una grande amicizia tra Vittorio De Seta e Eugenio Attanasio che ha incluso anche ricordi personali della figlia Francesca e della nipote Vera Dragone, attrice e cantante, esponente di una famiglia che si divideva tra il cinema del nonno Vittorio e il teatro della nonna Vera Gherarducci.

    Gli esordi in Calabria di Vittorio De Seta

    Nell’opera si racconta dei viaggi e dei lunghi ritorni nel meridione di un maestro del cinema che ha saputo raccontare cinquant’anni di società italiana con lo sguardo dell’antropologo e la sensibilità dell’artista. La sua avventura comincia nel 1954 tra Calabria e Sicilia, quando il giovane Vittorio De Seta inizia la sua prestigiosa carriera di documentarista, in trasferta da Roma dove ha lasciato la giovane moglie, Vera, alla quale racconta, in un piccolo epistolario qui raccolto, le cose che gli succedono davanti agli occhi. Incontri epocali, come quello con Alan Lomax e Diego Carpitella, che ha suscitato dibattiti tra gli etnomusicologi, per le collaborazioni e l’utilizzo delle musiche. Il regista e i due ricercatori compiono un percorso parallelo di ricerca, tra musica e documentazione antropologica, che viene citato ancora oggi per la ricchezza dei materiali.

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    Alan Lomax

    Qui gli si rivela di una realtà, quella del meridione, fatta di contadini, pastori, pescatori, minatori, affascinante, misteriosa, dove si lotta contro la natura per sopravvivere, a lui, studente di architettura che ha provato, senza restarne particolarmente coinvolto, il mondo del cinema di fiction con Jean Paul Le Chanois. Vittorio De Seta organizza riprese con le tecniche del cinema americano dell’epoca: il grande formato cinepanoramico, il cinemascope il 35 mm colore, l’assenza della voce fuori campo, laddove per il documentario si utilizzava al tempo il bianco e nero, il formato quadrato, il voice over che spesso appesantiva la visione.

    Ma soprattutto capisce con straordinaria intuizione che di lì a qualche anno quella vita ancora arcaica si sarebbe trasformata, che i pescatori dello stretto si sarebbero motorizzati per cacciare il pescespada, che nelle campagne sarebbero arrivati i trattori, anzi il deserto, perché l’industrializzazione avrebbe richiamato le masse bracciantili per farli diventare operai.

    L’altra faccia del boom economico

    Questo mutamento nella società italiana viene accuratamente studiato oggi grazie al lavoro di Vittorio De Seta e altri documentaristi che scelgono questa porzione di paese dimenticata. Il viaggio tra Sicilia, Sardegna, Calabria dura cinque anni per girare dieci preziosi documentari, autoprodotti, che segnano la carriera e lo preparano al passaggio al lungometraggio. Banditi ad Orgosolo è salutato come il ritorno del cinema neorealista nell’Italia del primo boom economico. Debutta infatti insieme a Ermanno Olmi con Il Posto e Pier Paolo Pasolini con Accattone, contrassegnando un momento felice del cinema che racconta la realtà dei primi anni ’60, l’altra faccia del boom economico. iI tre resteranno amici e sodali culturalmente per tutta la vita a dimostrazione di una visione comune della società e dei problemi legati alla crescita esponenziale del benessere economico.

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    Una scena di Accattone

    Chi era Vittorio De Seta

    Ma chi era veramente Vittorio De Seta, rampollo di una nobile e ricca famiglia del Sud, intellettuale comunista e figlio di una madre dichiaratamente e convintamente fascista con la quale avrà un rapporto conflittuale, tanto da girare un film Un uomo a metà come tentativo di autoanalisi (sarà lui stesso a presentare lo psicanalista Barnard a Fellini). Nella pubblicazione lo stesso Vittorio De Seta parla di «cinema come metodo per capire delle cose», lui che era cosi fuori dagli schemi della produzione cinematografica da vendersi un palazzo a S. Giovanni in Laterano per fare un film che spacca il mondo della cultura italiana; chi lo accusa di decadentismo, chi di individualismo, ma Moravia e Pasolini escono per difenderlo con due bellissimi pezzi.

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    La locandina di Diario di un maestro

    È questo un momento di grande crisi per Vittorio De Seta, che emigra in Francia per girare L’Invitata con Michel Piccoli e l’amico Jacques Perrin, un film su commissione ma elegante, raffinato, intimista. Il ritorno in Italia alla regia con il Diario di un maestro è prepotente (anche questo raccontato in un diario di lavorazione giornaliero). Una preparazione meticolosa, due anni di lavoro per realizzare la sua opera eterna sul mondo della scuola, dei ragazzi di borgata, sull’utopia di insegnare in una maniera nuova. Quando la Tv lo trasmette realizza un indice di ascolto fuori da ogni previsione: per la prima volta infatti una produzione televisiva di grande successo arriva nelle sale, per le quali monta una versione apposita dalle tre puntate originali.

    Il ritiro a Sellia Marina

    Infine, il suo buen retiro in Calabria, dove si dedica all’agricoltura, nell’uliveto di famiglia a Sellia Marina, rompendo completamente con la vita precedente. Vittorio De Seta vuole mettere in pratica quello che ha appreso negli anni diventando imprenditore agricolo e coltivatore diretto. Ma la sua presenza, in quel lembo di penisola, non può passare inosservata e inizia ad accogliere, alla fine degli anni ottanta, giovani cinefili desiderosi di scoprire il suo cinema, essenziale, rigoroso, intransigente. Così dopo anni di completa eclissi viene riscoperto e stimolato a ritornare al cinema, in fondo, il suo mestiere di vivere, con il documentario In Calabria e poi con il suo testamento, Lettere dal Sahara, una commovente riflessione sulle nuove immigrazioni.

    Vittorio De Seta, il faro del nuovo cinema del reale

    Vivendo in Calabria, una regione ricca di contraddizioni, povera e marginalizzata ancora oggi, ritorna l’autore ispirato, diventa il faro del nuovo cinema del reale, dei giovani che si ispirano a lui, come Agostino Ferrente, Jonas Carpignano, Paolo Pisanelli. Torna a girare per l’Italia e per tutto il mondo: famosa la sua partecipazione al Tribeca film Festival nel 2005 e gli elogi di Martin Scorsese tra Bologna e New York. C’è chi ha paragonato il suo passaggio alla cometa di Halley, chi all’avvento di un nuovo Messia per le sue visioni profetiche, Vittorio De Seta resta una figura di riferimento per il cinema e la cultura italiana del ‘900. Questo libro, a differenza di altri, porge il ritratto dell’uomo oltre che del regista, con il bagaglio di intuizioni, ricchezze, spigolosità, che lo rendevano geniale e difficile, scontroso e tenerissimo allo stesso tempo.

    Mariarosaria Donato