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  • La Resistenza è (anche) donna: le partigiane di Calabria

    La Resistenza è (anche) donna: le partigiane di Calabria

    Questa storia è iniziata con un messaggio: «Ti va di scrivere qualcosa sulle partigiane calabresi?». Certo che mi andava, ne ero entusiasta: quale occasione migliore per parlare della storia delle donne durante la Liberazione? Sebbene in Italia associamo la partigianeria ai volti di uomini, anche le donne combatterono la lotta antifascista.
    Nel documentario La donna nella Resistenza, diretto da Liliana Cavani nel 1965, possiamo ascoltare alcune delle loro testimonianze e farci un’idea dell’impatto che ebbero nel condurre l’Italia verso la fine del regime fascista e dell’occupazione nazista: 70mila aderirono ai gruppi di difesa, 35mila parteciparono ad azioni di guerra partigiana, 500 ricoprirono ruoli di comando e (solo) 16 furono decorate con medaglie d’oro.

    Donne e Resistenza: il tabù delle armi

    I ruoli di queste donne furono molteplici, ma la loro azione si associa soprattutto a quello della staffetta. E, come possiamo notare, solo per una parte ci fu coinvolgimento nella lotta armata e un’esigua minoranza ricevette dei riconoscimenti ufficiali dopo la fine della guerra.
    Perché? Simona Lunadei, che ha diretto dal 1985 al 2000 l’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla resistenza e fa parte della Società Italiana delle Storiche, spiega che uno dei problemi fu il tabù delle armi per le donne: riconoscere che le donne siano capaci di esercitare azioni violente, esattamente come gli uomini, equivaleva ad accettare un’eguaglianza di genere sostanziale.

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    Carla Capponi decorata con la Medaglia d’oro al valore militare

    Carla Capponi, partigiana decorata con medaglia d’oro al valore militare, nel suo libro Con cuore di donna raccontò che i suoi compagni non volevano darle una pistola e che lei la rubò e loro provarono a sottrargliela. E poi ci fu l’occultamento delle partigiane dopo la Liberazione, come nel caso torinese in cui il PCI impedì alle donne della Brigata Garibaldi di sfilare assieme ai compagni partigiani. Accostarsi alle donne, si pensava, avrebbe fatto sembrare i compagni meno credibili.

    Le donne calabresi nella Resistenza

    Sì, ma le donne calabresi come parteciparono alla Resistenza? Ecco, a questo punto mi sono scontrata con il muro della mia ignoranza. Cosa sapevo delle mie conterranee? Pressoché nulla, ma sarebbe bastato studiare e fare un po’ di ricerca storiografica, giusto?
    Da qui ho avuto l’opportunità di conoscere alcune delle loro storie.

    Anna Cinanni

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    Anna Cinanni

    Nasce a Gerace Superiore nel 1919 in una famiglia di contadini e, tutti insieme, si trasferirono a Torino tra il ’28 e il ’29, Suo fratello, Paolo, è membro del PCI e fa avvicinare Anna al partito. Nel 1935 Anna entra a far parte del Soccorso Rosso, organizzazione fondata nel 1922 durante il IV congresso dell’Internazionale Comunista per offrire supporto materiale e morale alle vittime della lotta antifascista.
    Nel 1943 aderisce ufficialmente al PCI ed entra a far parte della Brigata Garibaldi, col nome di battaglia Cecilia. Poi, nel ’45, la polizia scopre materiale clandestino nel doppio fondo della sua borsa e la arresta a Vercelli. La spostano a Torino per farla giudicare dal Tribunale speciale, ma riesce a scamparla grazie alla liberazione della città.

    Con la fine della guerra continua la sua militanza nel PCI e prosegue nel suo impegno per coinvolgere le donne nella lotta politica. In vista delle elezioni del 1946 in Piemonte organizza l’associazione Ragazze d’Italia; l’anno successivo è eletta responsabile delle donne alla quarta Sezione Luigi Capriolo; nel 1949 partecipa al quinto Corso della scuola nazionale femminile, al termine del quale è nominata funzionaria organizzativa e politica dell’Unione Donne Italiane (Udi).

    Anna Condò

    Nasce a Reggio Calabria e, dopo i bombardamenti degli Alleati, si trasferisce in Piemonte con la famiglia. Qui il fratello, Ruggero, aderisce alla Brigata Garibaldi e anche Anna entra a far parte della Resistenza partigiana come staffetta. Il fratello viene catturato e muore in un campo di concentramento tedesco. Anna, invece, finita la guerra torna a Reggio Calabria. Diventa insegnante e testimone della storia coltivando la memoria di Ruggero e di chi, come lei e suo fratello, fu parte attiva della Liberazione dal nazi-fascismo.

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    Anna Condò

    Caterina Tallarico

    Nasce nel 1918 a Marcedusa, nel catanzarese, e si trasferisce a Roma per studiare Medicina. Nel 1942, sotto consiglio del fratello Federico, decide di spostarsi a Torino, che sarebbe stata una città più sicura della Capitale in caso di bombardamenti. Qui Caterina inizia ad offrire supporto medico ai partigiani e finita la guerra torna in Calabria per esercitare la professione di medico.

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    Federico, Antonio e Caterina Tallarico

    Teresa Tallotta Gullace

    Nasce a Cittanova nel 1907 in una famiglia di braccianti. Sposa Girolamo Gullace, col quale si trasferisce a Roma. L’uomo, nel 1944, viene catturato durante un rastrellamento di civili nella zona di Porta Cavalleggeri. Teresa, al settimo mese di gravidanza, si presenta davanti alla caserma assieme a centinaia di altre donne.

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    Teresa Tallotta Gullace

    Tutte reclamano il diritto di parlare con i propri cari, catturati durante il rastrellamento, e ne pretendono la liberazione. In quell’occasione Teresa muore per mano di un soldato tedesco, che spara contro la donna. La sua vicenda ispirerà il personaggio della Sora Pina, interpretato da Anna Magnani in Roma città aperta di Roberto Rossellini.

    Giuseppina Russo

    Nasce a Roccaforte del Greco, nel reggino, e col marito Marco Perpiglia emigra a La Spezia per lavorare. In Liguria Giuseppina entra a far parte della Brigata Garibaldi e partecipa alla Resistenza.

    Tanti nomi, poche storie

    In questa ricerca ho trovato i nomi di altre donne calabresi coinvolte nella Resistenza e nella Liberazione, ma non le loro storie. Tra le mani avevo poche informazioni e, tra l’altro frammentate. Le partigiane calabresi di cui sapevo qualcosa, inoltre, non avevano combattuto in Calabria. L’entusiasmo iniziale si stava trasformando in delusione.
    Avevo in mente le testimonianze di partigiane emiliane o lombarde o toscane, perché era così difficile trovare quelle delle calabresi?

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    Tiziana Noce

    Se non potevo ricostruire la memoria della partigianeria femminile in Calabria, potevo almeno provare a darmi qualche risposta. Così ho deciso di contattare la professoressa Tiziana Noce, docente di Storia contemporanea all’Università della Calabria. Si è occupata di Resistenza e militanza politica delle donne tra guerra e ricostruzione.
    Certo, le informazioni che abbiamo sono davvero insufficienti e la memoria di quelle donne è andata perduta. Io, però, mi stavo muovendo nella ricerca con una prospettiva inadeguata. «Più che cercare, in questo contesto, ciò in cui la Calabria somiglia a Milano o a Firenze – che non ha senso – perché non riflettere sui termini in cui si può parlare di antifascismo, resistenza e adesioni a questi valori nella regione?»

    Nord e Sud

    Ciò che mancava alla mia ricerca iniziale era una lenta d’analisi meridionalista, capace di riconoscere le peculiarità del Sud e di non rincorrere in cosa il Meridione somigli al Nord. Fare questo significherebbe creare una gerarchia Nord-Sud e ammettere che uno è migliore dell’altro. La Calabria presentava un contesto socioeconomico diverso dalle regioni del Centro e del Nord Italia: come potevo aspettarmi allora di trovare le stesse dinamiche sviluppatesi altrove?

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    1945, partigiane e partigiani a Venezia

    I movimenti che hanno visto la storia del protagonismo femminile si sono sviluppati in realtà urbane e industriali. Quindi, una regione priva di città significative e di quel tessuto industriale patisce la sua marginalità e il suo essere una periferia priva di quel contesto che ha prodotto quei fenomeni sociali. Questo, però, non significa che la Calabria non sia stata coinvolta nei flussi che si stavano generando. Come abbiamo visto, le donne calabresi hanno partecipato alla Resistenza e, se le storie delle partigiane sono poche, possiamo riflettere su ciò che è accaduto nella regione dopo la caduta del regime fascista.

    Donne e politica dopo la Resistenza

    Con le elezioni del 1946 in Calabria, per esempio, furono elette tre sindache: Lydia Toraldo Serra, a Tropea; Caterina Tufarelli Pisani, a San Sosti; Ines Nervi Carratelli, a San Pietro in Amantea. Fu un dato nazionale rilevante: nelle amministrative di quell’anno furono elette 12 sindache in tutta Italia. E un quarto era rappresentato da politiche calabresi, tutte appartenenti alla DC.

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    Caterina Tufarelli Palumbo Pisani, Lydia Toraldo Serra e Ines Nervi Carratelli

    Le donne calabresi partecipavano alla politica e davano corpo allo spirito antifascista su cui si fondava la neonata democrazia italiana. Questo dato ci lascia intuire che, durante la Resistenza, le donne calabresi non furono soggetti passivi ma parteciparono attivamente ai flussi sociali che stavano attraversando la penisola.

    Francesca Pignataro

  • Il Giorno da leoni del partigiano Mannarino

    Il Giorno da leoni del partigiano Mannarino

    Noi che siamo nati e cresciuti nell’Italia repubblicana possiamo fortunatamente solo immaginare cosa pensasse un giovane di appena vent’anni chiamato alle armi per partecipare ad una guerra che doveva essere, secondo il Duce e chi l’aveva voluta, una passeggiata e che già si prefigurava come una tragedia. Quei momenti, quegli stati d’animo, ce li potrebbe raccontare chi, tra migliaia e migliaia di giovani, è sopravvissuto, ma sono rimasti in pochi.
    C’è chi ha lasciato dei ricordi, li ha scritti. Tanti altri hanno preferito mantenerli nell’aneddotica familiare e molte storie sono rimaste sconosciute. Qualcosa per esempio ce l’avrebbe potuto raccontare Giuseppe Mannarino, ma è morto alcuni anni fa.

    Giuseppe Mannarino e la Divisione Piacenza

    Nato a Paola, falegname, abitante a via Fiumicello, nel vecchio rione della Rocchetta, Mannarino era stato richiamato alle armi nel settembre del ‘42.
    Lo avevano assegnato al Battaglione Mortai da 81 della CIII Divisione Piacenza prima in Piemonte e poi in Liguria in territorio dichiarato in stato di guerra. A novembre la Divisione ricevette l’ordine di spostarsi nel Lazio a sud di Roma. Aveva l’incarico di realizzare una seconda linea di contenimento in previsione di uno sbarco nemico.

    Aerei alleati sganciano le loro bombe sull’Italia meridionale

    Caduto il fascismo, il 25 luglio, gli anglo americani, ormai sbarcati in Sicilia, bombardavano i vari paesi calabresi e facevano cadere decine di bombe su Paola a pochi metri dalla casa dove abitava Mannarino prima di partire soldato, e liberavano il Sud risalendo verso nord. La Divisione Piacenza venne spostata allora nella zona di Albano-Genzano-Velletri.
    È proprio nei Castelli romani che Giuseppe Mannarino si trova l’8 settembre. Un grappolo di paesi distesi sulle falde dei Colli Albani ricche di vigneti e uliveti, abitati da contadini, operai ed artigiani di antiche tradizioni democratiche e di lotta di classe e che avevano pagato con anni di esilio, confino e carcere la loro opposizione al fascismo.

    Italiani e tedeschi, da alleati a nemici in un giorno

    Con la caduta di Mussolini si pensava che finalmente la guerra sarebbe finita. I partiti antifascisti incominciarono a ricostituirsi, i vecchi dirigenti imprigionati e confinati tornarono a casa e ripresero l’impegno politico. Anche l’annuncio dell’armistizio dava la speranza della fine delle sofferenze. Ma la fuga vergognosa del Re da Roma e il comportamento dei vertici militari e Badoglio colsero l‘esercito completamente impreparato.
    La Divisione Piacenza, schierata con una serie di caposaldi distanti e non collegati tra loro, subì un attacco a sorpresa dei paracadutisti della 2^ Divisione tedesca. I soldati italiani, che fino a quel momento quasi convivevano e condividevano le postazioni con i tedeschi, senza ordini precisi erano disorientati.

    Alcuni di loro si trovavano in mezzo ad uno scontro reale per la prima volta. I tedeschi, ex alleati, chiesero la consegna delle armi, alcuni gruppi si opposero militarmente con l’aiuto della popolazione, come nel caso di Villa Doria ad Albano. Già in quel giorno si presentava un’Italia divisa. Italiani che si univano ai soldati italiani per difendersi e difenderli e italiani che collaboravano con le truppe naziste ad occupare il proprio territorio. Il giorno nove la divisione Piacenza era già solo un ricordo.

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    1943, la disposizione delle truppe

    I tedeschi disarmarono e trattennero soldati, ufficiali e sottoufficali. Alcuni ottennero la libertà; ad altri, caricati sui camion, spettò la deportazione nei campi di lavoro.
    Molti fuggirono dandosi alla macchia, sparsi in nuclei nelle campagne, nascosti ed assistiti dalle famiglie, rivestiti di abiti borghesi. Chi poteva cercava di tornare a casa. Altri, tra questi Giuseppe Mannarino, entrarono in contatto con gli esponenti dell’antifascismo locale. Severino Spaccatrosi, Salvatore Capogrossi, Aurelio del Gobbo, Lorenzo d‘Agostini, per citarne alcuni. Importante fu il ruolo delle donne tra cui Elena Nardi (Nennella) e Laura Quattrini.

    La resistenza nei Castelli Romani

    In contatto diretto con il nascente Comitato di Liberazione ed il Comando Centrale militare, insieme riescono a costruire nella zona una diffusa organizzazione di guerriglia che darà filo da torcere alle truppe tedesche.
    Le bande erano diffuse sul territorio, tra vigne, casolari ed abitazioni. Le sosteneva una vasta rete di legami da cui traevano il fondamentale per vivere, mangiare, vestirsi, alloggiare, per approntare magazzini di approvvigionamento e depositi di armi e munizioni spesso sottratte agli stessi comandi tedeschi. Dopo una prima fase di assestamento, il Comando militare andò a Giuseppe Levi, detto Pino, un ebreo di Genova legato ai fratelli Rosselli, laureato in giurisprudenza. Aveva passato diversi anni al confino, alcuni mesi anche in Calabria, a Fuscaldo.

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    Chiodi a 4 punte utilizzati contro i tedeschi

    Allontanati gli elementi più indisciplinati, si studiarono nuove forme organizzative e metodi di azione più adeguati al territorio, denso di coltivazioni ma con pochi boschi e scarse possibilità di movimento e di nascondiglio. Agli italiani si aggiunse un gruppo di russi liberati da un campo di prigionia vicino a Monterotondo.
    Si muovevano in gruppi di pochi elementi con obiettivi ed ordini precisi, anche a supporto all’aviazione inglese o americana. Niente più scontri frontali, ma una tattica mordi e fuggi. Fu un crescendo continuo di azioni: dal taglio delle linee telefoniche e la disposizione sulle strade dei chiodi a quattro punte che tranciavano le gomme degli automezzi tedeschi, ai mitragliamenti ai soldati e alle truppe nemiche e la posa di mine. Fino, con l’esperienza acquisita giorno per giorno, alle grandi azioni di sabotaggio per ostacolare il traffico sulle grandi linee ferroviarie nazionali.

    Giuseppe Mannarino e il Ponte delle Sette luci

    L’azione più eclatante, sicuramente tra le più importanti della Resistenza, fu compiuta la notte del 20 dicembre: due contemporanei attentati alle linee ferroviarie Roma-Formia e Roma-Cassino che servivano da rifornimento e spostamento delle truppe tedesche al fronte.

    L’azione veniva preparata da tempo. Erano stati prescelti i punti su cui agire. In particolare il Ponte delle Sette Luci al 25° Km. della linea ferroviaria Roma-Formia-Napoli era sotto stretta sorveglianza. Racconterà anni dopo Spaccatrosi: «Ogni mezz’ora passavano su di esso due pattuglie. Per giorni e giorni, notte e giorno i nostri compagni, Ferruccio Trombetti, sostituito ogni tanto da Giuseppe Mannarino, un calabrese della squadra, avevano studiato nei minimi particolari ciò che avveniva sul ponte. Il tempo in cui si vedevano che spuntavano le due pattuglie, quanto tempo impiegavano a percorrere il ponte, quanti minuti impiegavano per allontanarsi e il tempo preciso in cui ricomparivano le altre due pattuglie».

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    Il Ponte delle Sette Luci oggi

    Quella notte, sotto una pioggia che non dava tregua, due squadre arrivarono sotto i piloni del ponte Sette Luci. A comporre la prima sono Ferruccio Trombetti e Alfredo Giorgi, l’altra Enzo D’Amico, Giuseppe Mannarino e Pino Levi Cavaglione. Alcuni vanno a sistemare le mine; gli altri li coprono armati di pistole, mitra e bombe.

    Felici e sconvolti

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    Pino Levi Cavaglione

    Scrive il giorno dopo Pino Levi Cavaglione: «Pochi minuti dopo mezzanotte, finalmente era tutto finito… Ci portammo ad un centinaio di metri dal ponte, sotto un uliveto in pendio. Ad un tratto uno mi ha scosso. Il treno… Siamo tutti balzati in piedi ansando. Il treno proveniente dal sud avanza con snervante lentezza. Il locomotore è già sul ponte. Sento un vuoto allo stomaco che mi toglie ogni forza. Tutto il treno è sul ponte. Ne è già quasi alla fine… All’improvviso un’alta colonna vermiglia si alza dalla testa del treno e il locomotore si impenna e scompare, mentre lungo tutto il convoglio le fiammate rosse delle esplosioni squarciano l’oscurità. Uno schianto terribile e un fragore prolungato si propagano di collina in collina diffondendosi nell’ampia vallata pianeggiante. Vediamo la striscia nera del treno confondersi, contorcersi come una cosa viva nel corpo giallastro delle fiammate». […] «Ci precipitiamo di corsa giù dalla collina, sguazzando, scivolando nel fango viscido e tenace, felici e sconvolti […]».

    Chi c’è dietro?

    L’attentato uccise o ferì quattrocento militari tedeschi in avvicendamento dal fronte.
    Dopo circa mezz’ora da oltre le colline si sentì un forte boato. L’altra squadra aveva fatto brillare, vicino alla stazione di San Cesareo sulla linea Roma-Cassino, una mina d 32 Kg di esplosivo al passaggio di un treno carico di armi e munizioni.
    Le azioni erano riuscite tanto bene che i tedeschi si convinsero che fossero opera di paracadustisti inglesi. Da parte sua il CLN romano, per timore di rappresaglie contro la popolazione locale, ritenne non darne notizia sulla stampa clandestina e di lasciar credere questa versione.

    Anzio

    Lo sbarco degli Alleati ad Anzio, a pochi chilometri dai Castelli, riaprì l’entusiasmo e le speranze. Le azioni partigiane ripresero con vigore, con attacchi alle autocolonne, mitragliamenti e sabotaggi. Ma gli incomprensibili ritardi dell’avanzata americana diedero ai tedeschi il tempo di organizzarsi e capovolgere la situazione militare. Il feldmaresciallo Kesselring potè far affluire ingenti forze e creare quella testa di ponte tra Cassino ed il mare che durò altri quattro lunghissimi mesi.

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    Un ufficiale nazista indica a Kesselring un punto della line difensiva tedesca in Italia

    L’attività delle squadre partigiane dei Castelli divenne quasi impossibile. Fino alla Liberazione di Roma, la città e i paesi della provincia vissero uno dei periodi più tristi ed eroici della loro storia: un’ondata di rastrellamenti, arresti, torture e fucilazioni di partigiani spesso consegnati ai tedeschi da delatori e collaborazionisti fascisti. Come nel caso di Marco Moscato, caposquadra del gruppo di Pino Levi Cavaglione, preso mentre era a Roma a cercare i genitori. Lo riconobbe Celeste di Porto, “la pantera nera” che lo fece arrestare per denaro da una squadra di fascisti a caccia di ebrei.

    Un giorno da leoni di Nanni Loy

    All’azione del Ponte delle Sette luci si è ispirato Nanni Loy per il film Un Giorno da leoni, che ebbe come protagonista anche l’attore calabrese Leopoldo Trieste. Presentato fuori concorso al Festival del Cinema di Venezia del 1961, il film racconta la storia di alcuni giovani comuni che si trovano per caso in zona di guerra e di lotta partigiana. E che di fronte a quanto accadeva trovano il coraggio per fare l’unica cosa possibile: combattere contro i tedeschi ed i fascisti, fino a compiere il loro gesto eroico e vivere il loro giorno da leoni. Perché eroi non ci si nasce ma ci si diventa. E non per sempre.

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    La locandina del film di Nanni Loy

    Giuseppe Mannarino nel dopoguerra

    Giuseppe Mannarino nel 1948 fu dichiarato Partigiano combattente dalla Commissione Regionale del Lazio. In seguito si trasferì a Genova, dove erano emigrati altri parenti, mettendo su un negozio di materiali edili. Aderì al Partito comunista. È stato un dirigente della Confederazione Nazionale dell’Artigianato (CNA) ed eletto Consigliere comunale di Genova.

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    Il documento che attesta l’impegno da partigiano di Giuseppe Mannarino

    Non sono riuscito a sapere se Giuseppe Mannarino e Pino Levi Cavaglione – anche lui iscritto al PCI, ma uscito nel 1956 dopo l’invasione dell’Ungheria – si siano ancora frequentati e se abbiano potuto riflettere sulla loro esperienza di quei giorni.
    Pino Levi, che aggiunse il cognome Cavaglione in onore della madre deportata insieme al padre Aronne ed uccisi al loro arrivo a Birkenau, nella prefazione della nuova edizione del 1970 del suo Guerriglia nei Castelli romani scriverà: «Oggi tutto ciò è avvolto nelle nebbie del passato. Io stesso, che non avevo mai sparato prima e non ho più sparato dopo il 1944 ad alcun essere vivente, io stesso considero il Pino di allora un uomo diverso, e a me ormai del tutto estraneo. La mia speranza ed il mio impegno sono oggi rivolti a far sì che l’odio dell’uomo verso l’uomo scompaia per sempre».

    Alfonso Perrotta

     

  • Pochi ma buoni: quel 25 aprile della Calabria antifascista ma non troppo

    Pochi ma buoni: quel 25 aprile della Calabria antifascista ma non troppo

    Alla vigilia di questo particolarissimo 25 aprile, in cui si festeggia, dopo ben 78 anni, la liberazione dal fascismo, il mio pensiero corre spontaneamente a Vittorio Foa, illustre padre costituente e personalità tra le più fertili e vive della sinistra italiana.
    Foa nel 1935 – lo stesso anno in cui come giovane militante clandestino di Giustizia e Libertà veniva arrestato e poi condannato dal Tribunale speciale fascista a 16 anni di carcere, scontati senza interruzione fino al ’43 della caduta del fascismo – scriveva che «i luoghi comuni si sono impadroniti di tutta l’intelligenza, dominano incontrastati nella cultura accademica, addormentano i giovani; la loro tirannia assoluta è mille volte più intollerabile delle selve di baionette. Ai luoghi comuni del fascismo si sono contrapposti i luoghi comuni dell’antifascismo».

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    Vittorio Foa

    Pur cospirando spericolatamente contro il fascismo, infatti, Foa e i suoi compagni rifiutarono di definirsi “antifascisti”. Molti anni dopo, ricordando quei tempi giovanili, Foa avrebbe spiegato che «quella espressione di pura negazione ci disturbava, ci definiva solo per negazione e disconosceva in qualche modo la nostra positività. Preferivamo definirci postfascisti per affermare il nostro disegno per il futuro».

    L’antifascismo oltre il fascismo

    Bene, sono passati cent’anni dall’avvento al potere del fascismo e ci ritroviamo in una situazione imprevista. Foa, che appena venticinquenne si accingeva a passare otto anni della sua esistenza nelle carceri fasciste, già guardava oltre il fascismo. Noialtri, malgrado la strategia della tensione, i tentativi di colpo di stato, le tragedie provocate dal neofascismo stragista, pensavamo, alla fine del Novecento, di esserci lasciati alle spalle finalmente il fascismo e con esso l’età dei totalitarismi. Ed ecco invece che ci troviamo a fare oggi i conti con un governo composto in buona parte da “nipotini” del ventennio, che, faticando ovviamente ad adeguarsi alle regole e ai valori della nostra Costituzione antifascista, riesumano armamentari ideologici che si pensava ormai consegnati al passato e depositati nei cassetti della storia.

    Il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni (FdI) posa in occasione del giuramento

    Che fare dunque in un contesto politico per tanti aspetti così “anacronistico”? Intanto, occorre prendere atto che non si tratta di una questione soltanto italiana. Viviamo infatti un tempo in cui tradizionalismi, nazionalismi e razzismi, praticati spesso in modo rozzo e violento, attraversano l’Europa e le Americhe, dalla Polonia, dai paesi baltici e dalla Scandinavia agli Usa di Trump e al Brasile di Bolsonaro.

    Il fascismo oggi

    Io credo che per combattere queste derive politiche e culturali, occorra misurarsi coi problemi del presente e del futuro, senza cadere nella trappola di una contrapposizione ideologica stereotipata, che ci vorrebbe con gli occhi rivolti al passato.
    Neppure è il caso, credo, di scendere sul terreno delle becere esternazioni di alcuni ministri del governo Meloni, che testimoniano la loro miseria culturale. Il “fascismo” di oggi è riconoscibile certamente nella retorica identitaria, nella paura e nel rifiuto dell’altro, nel rigetto dei migranti, nel bellicismo atlantista. Il pericolo per la democrazia, peraltro, è sì nelle vocazioni autoritarie e presidenzialiste, ma è soprattutto nello svuotamento delle istituzioni democratiche, nella distanza ormai abissale che separa il mondo della politica dal mondo reale, nella voragine che allontana chi pretende di decidere da chi si rifiuta anche di andare a votare.

    L’antifascismo in Calabria

    Detto questo, quale può essere il modo più produttivo e fertile per celebrare questo 25 aprile? Piuttosto che lasciarsi andare alla retorica consolatoria delle bandiere al vento, credo che possa essere utile riandare alla storia dell’antifascismo e della resistenza, cercando soprattutto di coglierne la ricchezza e la forza nella sua pluralità e nelle sue varie declinazioni, sulla base delle quali si è via via costruita l’Italia democratica, repubblicana e antifascista. Con questa postura si può ben celebrare il 25 aprile anche in Calabria.

    Ci vollero le ricerche pionieristiche svolte 30 anni fa da Isolo Sangineto (I Calabresi nella guerra di liberazione. 1°. I partigiani della provincia di Cosenza, prefazione di Guido Quazza, Pellegrini 1992), per comprendere che anche questa nostra regione prese parte alla resistenza antifascista attraverso molti suoi figli, anche se la Calabria fu ben presto liberata dagli Alleati. Sangineto, senza alcuna concessione alla retorica celebrativa, con passione civile e pazienza certosina, nella sola provincia di Cosenza individuò più di 800 “resistenti”. Tra questi occorre annoverare naturalmente i militari che dopo l’8 settembre del ‘43 si rifiutarono di collaborare con i tedeschi o di arruolarsi nell’esercito di Salò, oltre che i resistenti veri e propri che agirono nella guerra di liberazione.

    I calabresi nella Resistenza romana (e non solo)

    Isolo Sangineto riuscì a censire centinaia di cosentini che, trovandosi dopo l’8 settembre nell’Italia centro-settentrionale, presero parte attiva alla resistenza armata. Particolarmente numerosi furono i calabresi presenti nella resistenza romana, tra i quali occorre ricordare almeno i quattro martiri delle Fosse Ardeatine: Donato Bendicenti, di Rogliano; Franco Bucciano, di Castrovillari; Paolo Frascà, di Gerace; Giovanni Vercillo, di Catanzaro, le cui vicende ha ricostruito di recente Paolo Palma (in Rivista Calabrese di Storia del 900, 1/2021, consultabile anche on line). Né bisogna dimenticare il raro caso di una giovane donna, Walkiria Vetere, di famiglia cosentina, attiva a Roma nella Banda del Trionfale.

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    Sergio Mattarella in visita alla Fosse Ardeatine nel 75° anniversario dell’eccidio

    Nella circostanza del 25 aprile, non si può non ricordare, naturalmente, anche Dante Castellucci, di Sant’Agata d’Esaro, divenuto un mitico comandante partigiano in Lunigiana e passato alla storia col nome di battaglia di “Facio”. Di Castellucci, ucciso inopinatamente dai suoi stessi compagni al termine di un ingiusto processo sommario nel luglio del ’44, si è occupato per ultimo, in un libro ancora fresco di stampa, lo studioso Pino Ippolito Armino (Indagine sulla morte di un partigiano. La verità sul comandante Facio, Bollati Boringhieri 2023).

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    Una lapide ricorda le gesta del comandante Facio

    I perseguitati e gli oppositori

    Ma è ai perseguitati e agli oppositori del fascismo durante il Ventennio che occorre tornare per non dimenticare il carattere oppressivo del totalitarismo fascista e la variegata partecipazione calabrese alla lotta antifascista. Vale la pena di rammentare che risale addirittura agli anni Settanta del Novecento la prima ricostruzione analitica della persecuzione fascista nella nostra regione (Salvatore Carbone, Il popolo al confino: la persecuzione fascista in Calabria, Lerici 1977), su cui è tornata più di recente Katia Massara (in Regione di confino. La Calabria (1927-1943), a cura di F. Cordova e P. Sergi, Bulzoni 2005).

    Da quel repertorio ricaviamo che i calabresi colpiti dal provvedimento del confino di polizia furono poco più di 400 (dei quali, 149 nati in provincia di Reggio, 145 in provincia di Catanzaro e 98 in provincia di Cosenza, alcuni altri in varie province italiane o nelle Americhe). Quanto al colore politico dei confinati, più di cento sono definiti genericamente “antifascisti”, 77 “comunisti” e 37 “socialisti”. Ma sono ben 48 gli “apolitici”, 12 i “Pentecostali” e 3 i “Testimoni di Geova”. Il che vuol dire che la repressione poliziesca non aveva soltanto carattere politico, ma anche civile e religioso.

    Se consideriamo, inoltre, la condizione sociale dei confinati, i dati più vistosi sono la cospicua presenza degli artigiani, circa 90 (tra i quali si contano 22 calzolai, 22 falegnami, 19 sarti, 8 barbieri e 5 tipografi); ma anche di contadini e braccianti (69). C’è anche un drappello di operai (14 muratori e 5 minatori) e ben 20 avvocati.

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    Pietro Mancini con Pietro Nenni

    L’antifascismo “a bassa intensità”…

    Se non sorprende tra gli antifascisti la numerosità di artigiani politicizzati, quest’ultimo dato degli avvocati rimanda a una componente dell’antifascismo calabrese che ha a che fare con il ceto medio e in particolare con i principali esponenti del notabilato politico democratico e progressista di età liberale. Il riferimento inevitabile è a Pietro Mancini e Fausto Gullo, entrambi assegnati al confino a Nuoro nel 1926.
    Mancini e Gullo, come ho cercato di spiegare in altre occasioni, illustrano con le loro biografie politiche la lunga durata e i percorsi del notabilato calabrese, posto però con essi al servizio di una causa ideale che prometteva un grande rinnovamento sociale.

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    Un comizio di Fausto Gullo nell’Italia liberata

    Durante il fascismo, Mancini e Gullo subirono per qualche tempo il confino e altre angherie, ma riuscirono poi a trovare forme di convivenza col regime svolgendo, pur senza rinunciare alle loro idee, la loro professione di avvocato con una certa tranquillità. Per ciò stesso si può dire che il loro antifascismo fu “a bassa intensità”, come accadde ad altri politici calabresi che avranno poi un ruolo nell’Assemblea Costituente, come Enrico Molé, Antonio Priolo, Vito G. Galati e Gaetano Sardiello (I Calabresi all’Assemblea Costituente, 1946-1948, a cura di V. Cappelli e P. Palma, Rubbettino 2020).

    E quello radicale

    L’antifascismo di altri fu, invece, assai più radicale. È questo il caso, ad esempio del comunista reggino Eugenio Musolino, deputato alla Costituente e poi parlamentare fino al 1956, che era stato spedito al confino nel ’26 e poi condannato dal Tribunale Speciale a 13 anni di reclusione. In libertà vigilata dal ’34, fu di nuovo arrestato nel 1940 e rimase carcerato e confinato fino all’estate del ’43.
    Non diversa sorte ebbe il comunista cosentino Natino La Camera, stretto collaboratore e amico personale di Amadeo Bordiga: arrestato una prima volta nel 1923, fu assegnato al confino per cinque anni, dal ’26 al ’32, scontati con continui spostamenti, da Lampedusa a Ustica, a Ponza e a Lipari. Rientrato a Cosenza continuò imperterrito nell’attività cospirativa antifascista. Durante la guerra fu di nuovo arrestato e internato a Muro Lucano fino all’8 settembre.

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    Eugenio Musolino

    Infine, a fianco all’antifascismo politico organizzato in clandestinità, bisogna cogliere anche l’antifascismo occasionale che era espressione più che altro di rabbia e disagio sociale. Non mancano, infatti, le persone spedite al confino per aver urlato frasi offensive nei confronti di Mussolini e del regime, o per aver cantato Bandiera rossa uscendo dall’osteria.

    Pochi ma buoni

    Per concludere, è evidente che sia nel caso dell’antifascismo praticato durante il Ventennio che nel caso della Resistenza si è trattato di minoranze attive, di “pochi” che si opposero a un regime e a una guerra avvertiti come ingiusti e oppressivi. Tuttavia quei “pochi”, come si è visto, sono stati espressione delle varie componenti della società calabrese, dal punto di vista socio-economico e politico, ma anche culturale e religioso. Hanno speso la loro coerenza e il loro coraggio, infine, non per se stessi ma per l’intera collettività e si mostrano ancora a noi come esempi ammirevoli di dignità e di forza morale.

    Vittorio Cappelli
    Storico delle migrazioni, Unical

  • Garum di Sibari, la salsa più cara dell’antichità

    Garum di Sibari, la salsa più cara dell’antichità

    Il garum o gáron, intingolo dal sapore particolarmente aspro, era ottenuto dalla lavorazione di alcuni pesci e utilizzato come condimento in diverse pietanze.
    Lungo le coste del Mediterraneo, soprattutto in Libia e Tunisia, esistevano numerose industrie per la preparazione del garum. In genere erano situate vicino al mare. Avevano ampie vasche per l’essiccazione e la putrefazione, ambienti per lo stoccaggio e depositi per la conservazione. Ateneo ci informa che vicino alle isole di Eracle, presso Nuova Cartagine, si trovava la città chiamata Sgombroaria dal nome dei pesci che si pescavano e con i quali si preparava il garón più pregiato.

    Garum: una salsa, tante ricette

    Plinio scriveva che il garum si produceva facendo macerare nel sale intestini e scarti di alcune specie ittiche. Il più gustoso si otteneva utilizzando lo sgombro. Alcuni, però, lo preparavano anche con un pesciolino poco pregiato che i romani chiamavano acciuga e i greci aphye. Marziale raccontava che per fare il garum si usava un vaso della capienza di tre o quattro moggi e sui pesci si spargeva aneto, coliandro, finocchio, appio, santoreggia, sclareia, ruta, menta, sisimbro, levistico, puleggio, serpillo, origano, betonica e argemonia. I pesci si coprivano con uno strato di sale alto due dita, per venti giorni si rimuoveva l’impasto con un palo di legno a forma di remo. Il liquido che colava, l’oenogarum, era conservato in recipienti di terracotta.

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    Garum sul fondo di un’anfora ripescata di fronte all’isola dell’Asinara

    Un testo greco ci informa che il gáron (chiamato anche liculme) era preparato con interiora di pesci («massimamente atherine, o piccioli muli, o menule, o licostomi, o altri piccioli pesci»). Dopo averle salate abbondantemente, si tenevano a lungo al sole rivoltandole continuamente. “Invecchiato” dal caldo, l’impasto era posto in un cophino dal quale colava il gáron.

    Altri preparavano la salsa mescolando alici (in alternativa lacerti e sgombri) in un vaso in modo da farne un pane e aggiungevano due «sestari italiani» di sale per ogni mozzo di pesce. Lasciavano per una notte il miscuglio nel recipiente, lo esponevano al sole e lo rimuovevano con un mestolo. Una volta fermentato, ad ogni «mozzo» di pesce aggiungevano due «sestari» di vino vecchio.

    Nel Geoponica si legge invece che il gáron era prodotto con intestini di piccoli pesci e soprattutto triglie, sardelle e acciughe. Raccolti e messi in vasche, venivano salati ed esposti al sole. Quindi, una volta pronta la salamoia, si filtrava il prezioso liquido con un setaccio e si conservava in appositi contenitori di creta sigillati col coperchio.

    Sibari e l’invenzione del garum

    Alcuni storici come Lampridio sostenevano che erano stati i corrotti Sibariti a inventare il gáron, salsa schifosa e vomitevole. Ateneo confermava che il liquido, fatto di pesci salati e aceto, era un alimento particolarmente putrido e puzzolente. Per Plinio era una salsa pestilenziale e non poteva essere altrimenti, considerato che era il marcio di materie in decomposizione. Seneca ne condannava l’uso, definendolo preziosa distillazione di pesci corrotti, «salsa melma» che bruciava i ventricoli.

    Marziale sosteneva che odore e sapore erano nauseabondi. E, per diffamare un certo Papilo, scriveva che questi, odorando un unguento profumato contenuto in un vasetto, diventava puzzolente come il garum. Apicio, autore del noto ricettario, annotava che la salsa di pesce mandava un «cattivo odore». Tant’è che indicava una serie di accorgimenti per «correggerla» (aggiungere soprattutto miele e gambi di lavanda).mosaico-garum

    Un cibo per ricchi

    Non siamo in grado di stabilire se il garum fosse un intingolo schifoso o se, come sostenevano alcuni, particolarmente dannoso per la salute. Sappiamo, però, che la salsa di pesce era rara e costosa. Isidoro precisava che il liquamen, prodotto da piccoli pesci messi sotto sale, dal gusto simile a quello dell’acqua marina, era utilizzato dal popolino. Il garum, invece, che richiedeva pesci pregiati e una complessa lavorazione, era accessibile solo ai ricchi. Non a caso, Plinio scriveva che, a parte i profumi, era il liquido più costoso del mondo.

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    Quel che resta dell’antica Sibari

    Il prezioso gáron dei nobili sibariti probabilmente affermava la diversità nei confronti delle altre classi sociali. La loro egemonia e superiorità si manifestava anche attraverso mode culturali che apparivano bizzarre e insensate. Il gáron a molti appariva una salsa vomitevole e contraria al buon senso comune, ma per gli aristocratici era l’autorità indiscussa della loro classe a sancire che era gustosa e amabile. Seneca scriveva che il palato dei romani si svegliava soltanto davanti a cibi costosi e li faceva costare cari non un sapore straordinario o una qualche dolcezza del gusto, ma la rarità e la difficoltà di procurarli.

    Pitagora contro

    La dieta dei nobili sibariti, basata su dismisura e stravaganza, era duramente criticata dai pitagorici che predicavano il limite e la semplicità. Il filosofo di Crotone condannava qualsiasi eccesso e raccomandava di non «passare la misura» nel bere e nel mangiare. Porfirio racconta che il filosofo metteva in guardia dall’eccesso del piacere più di ogni altra cosa, perché nessuna passione portava alla rovina e induceva a peccare come la «smoderatezza dal ventre». Incoraggiava i genitori ad alimentare correttamente i figli e spiegare loro che ordine e misura erano nobili, mentre disordine e smoderatezza, turpi. Pitagora ricordava sempre ai discepoli che la terra offriva ogni ben di dio e li invitava a non contaminare il corpo «con pietanze empie». Giambico ci informa che rimproverava duramente quei ricchi proprietari insaziabili che spingevano i cuochi ad inventare «preparazioni culinarie» ricche di «combinazioni di salse» che rendevano l’animo debole e voluttuoso.

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    I pitagorici rifiutavano nella loro mensa i cibi elaborati o grossolani. Legavano il buono da mangiare non solo al gusto ma anche alle proprietà degli alimenti per conservare il corpo sano. Ripudiavano soprattutto quelle pietanze che favorivano la fermentazione e compromettevano l’armonia del corpo, quei cibi che generavano flatulenza e provocavano disordine all’organismo. Predicavano che non bisognava eccedere nei desideri e soprattutto quelli per i cibi ricercati, vesti e panni lavorati, abitazioni eleganti e sontuose, arredi preziosi e schiere di servi e schiavi. L’uomo aveva due tipi di piacere: quello che si compiaceva del ventre e i sensi, paragonabile al canto omicida delle Sirene, e quello che si provava per ciò che era nobile, giusto e necessario, assimilabile all’armonia delle Muse.

    Garum, la rovina delle poleis

    Una vita sobria e sana e una cucina naturale e ordinata avrebbero sconfitto la tryphé (mollezza) che, insieme alla hybris (tracotanza), stavano portando le poleis alla rovina. I pitagorici attaccavano duramente la perversa cucina sibaritica, di cui il gáron era la massima espressione, per richiamarsi a modelli alimentari che avevano da sempre costituito l’identità greca. Plutarco raccontava che i giovani ateniesi condotti al santuario di Agraulo, nella formula di giuramento di fedeltà, alla domanda a quale patria appartenessero, rispondevano: «La terra in cui crescono il grano, la vite e l’olio».

  • Amori bestiali, eroi e magie: un fiume di leggende chiamato Crati

    Amori bestiali, eroi e magie: un fiume di leggende chiamato Crati

    Nell’antichità il Crati era uno dei corsi d’acqua più citati da poeti, filosofi e storici antichi. Aristotele, Ovidio, Strabone, Vitruvio, Agatostene, Licofrone, Teofrasto, Diodoro, Leonico, Isacio, Plinio, Esigono, Sotione, Timeo, Euripide e altri raccontavano delle sue acque prodigiose che davano ogni ben di dio agli uomini.

    I miracoli del Crati

    Metagene scriveva che il Crati trasportava a valle enormi focacce d’orzo che s’impastavano da sole e il Sibari trascinava carni e razze bollite che si rotolavano nelle acque. Nell’uno scorrevano rivoli di calamaretti arrostiti, pagri e aragoste, nell’altro salsicce e carni tritate. Nell’uno bianchetti con frittelle, nell’altro tranci di pesce che già cotti si lanciavano in bocca o finivano davanti ai piedi mentre focacce di farina nuotavano intorno.
    In un idillio di Teocrito, Comata, che pascolava le capre di Eumara sibarita, e Lacone, pastore di pecore, dopo un vivace battibecco fitto di accuse, provocazioni e ripicche, si sfidarono in una gara canora. Il primo immaginava che il Crati rosseggiasse di vino e i giunchi mettessero frutti. Il secondo che nel Sibari scorresse del buon miele per la gioia delle fanciulle.

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    Il Crati nella pianura di Sibari

    Da Troia alla Calabria

    Nelle Troiane, le prigioniere che formavano il coro alleviavano l’angoscia con la visione di lontani paesi felici e, fra gli altri, vagheggiavano la regione «vulcanica etnea» che stava di fronte a Cartagine e la terra vicina allo Jonio, irrigata dal Crati che imbiondiva le chiome e rendeva con le sue mirabili acque i campi rigogliosi.
    Ovidio scrive che, in seguito al dolore per la morte di Didone dopo la partenza di Enea da Cartagine, la sorella Anna fuggì dalla Libia. Al termine di un estenuante peregrinare, alla vista delle splendide terre del Crati, ordinò al nocchiere di approdare su quel lido. Già le vele erano ammainate quando una tempesta respinse la nave nell’ampio mare. Licofrone narra che, allorché i Greci sbarcarono alla foce del Crati per rifornirsi d’acqua, le prigioniere troiane, istigate da Setea, bruciarono le imbarcazioni per costringere i guerrieri a fermarsi in quel luogo meraviglioso dove poi sorse la potente Sibari.

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    La foce del Crati oggi

    Crati vs Sibari

    Alcuni scrittori sostenevano che le acque del Crati erano piene di frammenti d’oro e di pesci. Per questo motivo era chiamato auriferus et piscolentus. Per altri, come Aristotele, aveva la proprietà di imbiondire i capelli di chi si lavava nelle sue acque, mentre il Sibari atterriva i cavalli che vi si abbeveravano. Ovidio riferiva che anche le acque del Sibari, come quelle del Crati, mutavano i capelli simili all’elettro e all’oro. Euripide confermava che il prodigioso Crati accendeva le bionde chiome e nutriva beneficamente col suo corso divino la regione di gente forte.

    Plinio, citando Teofrasto, affermava che Crati e Sibari avessero contrarie virtù. Se il primo conferiva biancore a buoi e pecore che vi si abbeveravano, il secondo generava colore nero. Anche gli uomini risentivano della differenza di effetti provocati dalle acque. Quelli che si dissetavano al Sibari diventavano scuri di carnagione, duri nel carattere e con i capelli ricci. Quelli che si dissetavano al Crati erano chiari, deboli e con la chioma fluente. Strabone assicurava che l’acqua del Sibari rendeva ombrosi i cavalli e i pastori, per proteggerle, tenevano le pecore lontane dal fiume. Il Crati, invece, aveva acque capaci di curare diverse malattie e le persone che vi si bagnavano s’imbiondivano.

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    Ponte di legno a Sibari (Saint-Non, 1778)

    Per Licofrone gli animali feriti guarivano se si lavavano nelle acque del Crati, mentre bevendo quelle del Sibari erano scossi da starnuti, costringendo i pastori a tenere mandrie e greggi distanti dalle sponde. Riguardo al Sibari, Leonico scriveva che bastava spruzzare la sua acqua su una persona per farla diventare casta. Galeno sosteneva che diminuiva gli ardori della carne e rendeva i maschi puri e incapaci di generare.

    Vitruvio asseriva che i pastori portavano le pecore che si preparavano a partorire a bere ogni giorno le acque del Crati. Per questo motivo, sebbene fossero bianche, procreavano figli di colore grigio o nero corvino.

    Paese che vai, leggenda che trovi

    Il viaggiatore Bartels, che arrivò a Cosenza nel 1787, era propenso a pensare che tali leggende non avessero alcun fondamento. Probabilmente, quella del fiume d’oro aveva origine dalla tinta giallognola che le acque assumevano nei pressi della città. Il tempo e la fantasia dei poeti avevano fatto il resto. In realtà, molti racconti mitici sul Crati erano presi in prestito da altre narrazioni.

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    Veduta di Cosenza (Saint-Non, 1778)

    Plinio scriveva che in Estiotide scorrevano le fonti Cerona e Neleo: le pecore che si abbeveravano alla prima diventavano nere, quelle alla seconda bianche, quelle a entrambe chiazzate. In Macedonia, invece, i pastori che desideravano pecore chiare conducevano le mandrie all’Aliacmone e quelli che le volevano scure all’Assio. Sempre Plinio ci informa di fontane e ruscelli che davano memoria o oblio, sensi fini o ottusi, fecondità o sterilità, canto o mutismo, sanità mentale o follia, dolcezza o ferocia, ubriachezza o lucidità, salute o malattie. Fornendo queste notizie, precisava che non si trattava di assurdità ma di fatti veri, poiché il mondo della natura era pieno di cose che suscitavano meraviglia.

    Fantomatiche virtù

    Nel 1599, descrivendo le proprietà miracolose di Crati e Sibari, il medico Tufarello di Morano raccontava di avere constatato che il primo rendeva le trote color oro. Il secondo, invece, convertiva in pietre le foglie e i rami che cadevano nelle sue acque. Negli stessi anni, alcuni eruditi scrivevano corposi saggi in cui elencavano decine di fiumi le cui acque avevano virtù di cui non si poteva «render ragione alcuna».

    In un trattato su venticinque grandi fiumi, Plutarco assicurava che lungo i loro argini crescevano erbe il cui succo proteggeva dalle fiamme, neutralizzava i freddi intensi, faceva cadere in un sonno profondo, impediva alle tigri di uscire dalle grotte e proteggeva la verginità delle donne; piante che mosse dal vento creavano stupende melodie, tenevano lontani fantasmi e divinità malvage, curavano la follia, trasformavano il vino in acqua e sanguinavano se toccate dalle vergini.

    Il biografo greco scriveva inoltre che alcune pietre di notte brillavano come il fuoco, suonavano se si avvicinava un ladro, facevano vaneggiare gli uomini, liberavano le persone dalla sfortuna, lenivano le sofferenze di chi si sottoponeva all’evirazione, guarivano gli indemoniati, si muovevano al suono di tromba, divenivano nere o bianche a seconda se si diceva il vero o il falso, evitavano i dolori del parto, saltavano sui campi come locuste, proteggevano dalle bestie feroci e sanguinavano se intaccate dal ferro sacrificale del sacerdote.

    Amori proibiti

    Anche la storia che il Crati prenda il nome dal pastore omonimo, spinto nelle acque del fiume da un caprone geloso perché l’uomo amoreggiava con la capra più bella del gregge, non era originale. Molti fiumi del mondo antico, come scrive Plutarco, avevano il nome di persone che si erano gettate nelle acque per la vergogna di avere avuto rapporti contrari alla natura.

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    Un busto di Plutarco

    Nel citato saggio, narra di giovani che si erano suicidati nel fiume per avere consumato, senza saperlo, rapporti sessuali con la madre o con la sorella, di padri che avevano amoreggiato con le figlie e madri con i figli, di persone che violentarono fanciulle, di giovani che avevano voluto conservare la purezza, di gente impazzita per avere inveito contro qualche divinità che aveva violentato le loro donne. Altri corsi d’acqua avevano preso il nome da persone affrante dal dolore per la morte di qualche congiunto, per avere ucciso persone innocenti, per avere perso disonorevolmente in battaglia e per avere sacrificato parenti in cambio della vittoria in guerra.

    Il Crati che non c’è più

    Conosco bene il Crati e la pianura di Sibari. Da ragazzo andavo con mio padre e mio fratello a caccia di beccacce, beccaccini e anitre e a pesca di trote, cavedani e anguille. Ricordo che il fiume aveva rive coperte da una folta vegetazione. In inverno s’ingrossava paurosamente travolgendo ogni cosa e in estate diventava un fiumiciattolo che a fatica riusciva a sfociare nel mare. Quella zona coperta da pantani, canne grigie e alti giunchi di giorno era insopportabile per il caldo torrido e i nugoli di moscerini e al tramonto era avvolta da un inquietante silenzio interrotto solo dal rumore delle acque.
    Celebrato da tanti scrittori antichi come il fiume dell’oro e dalle acque irruenti, il Crathis è stato domato e il mondo fantastico che stava intorno a esso è scomparso.

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    Ponte sul Crati a Cosenza (Rilliet 1852), le donne lavano i panni lungo il fiume

    Nessuno immagina di intravedere satiri nascosti tra le canne che insidiano ninfe con capelli color argento o verde sparsi sugli omeri. Nessuno ha paura d’incrociare basilischi neri come la pece, con una corona in testa e fiato e sguardo letali. E nessuno sente più storie di santi che combattono con i diavoli.
    Non si vedono più lungo gli argini lupi, lontre, orsi, cervi, gatti selvaggi e grandi mandrie di capre, pecore e buoi portate dai pastori in inverno dalle montagne. Non s’incontrano lungo le rive donne battere i panni sulle pietre, passatori portare sulle spalle viandanti, contadini pescare col tasso, sanpaolari frugare con i bastoni il terreno per catturare vipere, gente scuotere alberi per raccogliere cantaridi e cacciatori inseguire a cavallo tori selvatici.

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    Cosenza e il Crati

    Gli uomini e la Natura

    Il Crati, fiume che i contadini chiamavano scorzone poiché strisciando lentamente a forma di esse al momento di aggredire era rapido e velenoso, sembra essere stato finalmente reso innocuo. I terreni coperti un tempo da putride acque infestate dalla malaria oggi sono diventati campi di grano e giardini di agrumi. Sotto Tarsia hanno costruito una diga per l’energia elettrica. Lungo le sponde sono sorti decine di cantieri per il calcestruzzo. Il corso d’acqua è sovrastato da numerosi punti, stade e stradelle costeggiano il fiume e nei pressi della foce c’è un attrezzato porto turistico. Grazie alla sua forza e perseveranza il Crati continua a scorrere zigzagando verso il mare, ora rapido ora tranquillo, ora limpido ora torbido. Ma gli uomini non hanno più il tempo di sentire la voce della sua corrente in piena o il dolce mormorio del suo scorrere.

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    La diga di Tarsia

    Il paesaggio descritto da tanti viaggiatori e studiosi non c’è più, ci sono però tratti e colori che ancora resistono e provocano una stretta al cuore. L’uomo si sente il padrone del mondo e come tale non deve difendersi dalla natura ostile ma è la Natura che deve difendersi dall’uomo ostile.
    L’antico paesaggio del Crati sembra essersi estinto per sempre, ma la natura che appare sopraffatta e mortificata si è solo nascosta. Aspetta pazientemente di ritornare e, a volte, mostra la sua rabbia.

  • Girolamo De Rada: il papà calabrese della Grande Albania

    Girolamo De Rada: il papà calabrese della Grande Albania

    Forse fu un equivoco della storia. O forse l’effetto di un limite trasformato in forza artistica.
    In ogni caso, Girolamo De Rada resta l’intellettuale italo-albanese di maggiore impatto a livello internazionale. Forse senza volerlo (o senza volerlo del tutto), De Rada è diventato il padre di due patrie, a cui ha fornito un immaginario e una lingua: l’Albania, che nell’Ottocento lottava per l’indipendenza dall’Impero Ottomano, e l’Arbëria, la comunità degli immigrati albanesi, stanziatisi nel Sud Italia a partire dalla metà del Quattrocento.
    Ma perché tanta influenza? E, soprattutto, quali sono questi limiti?

    Il Kossovo anni ’90

    Tre nomi per una terra: i serbi, che l’hanno governata (e dominata) a lungo, la chiamano Kosovo, gli albanesi Kosova e, per non scontentare nessuno, la comunità internazionale la chiama Kossovo, che in tutti i casi significa merlo.
    Questo fazzoletto di terra, a cavallo tra Albania, Serbia e Montenegro, è tuttora l’oggetto di una contesa fortissima tra gli albanesi, che la sentono loro, e i serbi, che la considerano la culla della loro civiltà.
    Il Kossovo è stato il teatro iniziale della crisi che, a partire dagli anni ’90, ha travolto nel sangue la Jugoslavia di Tito ed è stato il territorio in cui si è consumata la fine della Federazione di Jugoslavia di Slobodan Milosevic, sotto le bombe della Nato.

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    Hashim Thaçi, presidente del Kossovo, in visita a Macchia

    La Grande Albania

    In quel frangente tragico di fine millennio, quasi tutta la comunità internazionale ha criminalizzato l’etnonazionalismo serbo. Solo in pochi si sono accorti delle aquile bicipiti nere su sfondo rosso dell’Uck (il movimento di liberazione kossovaro), che riflettono tuttora un orientamento ideologico ben preciso: la Grande Albania, che dovrebbe includere, oltre al Kossovo, un pezzo di Montenegro e un po’ di Macedonia.
    Quasi nessuno, infine, si è accorto che questa ideologia “panalbanese”, altrettanto pericolosa in quel contesto del “panserbismo”, non era autoctona. Ma era un’elaborazione Made in Italy, promossa da Crispi e poi sposata da Mussolini.
    Torniamo a De Rada.

    De Rada: il papà della patria

    Girolamo De Rada non è mai stato in Albania. Ha trascorso tutta la sua vita tra Makj (cioè Macchia di San Demetrio Corone), dove nasce nel 1814, e Napoli, dove si laurea in legge ed è in prima fila nei moti liberali.
    A Niccolò Tommaseo, che lo invita a visitare la madrepatria, risponde: lì non conosco nessuno. Ma, in compenso, nelle classi colte albanesi della seconda metà dell’Ottocento De Rada è un poeta di successo. Già: è il primo poeta a scrivere in albanese e non in greco.
    Di più: per scrivere in albanese, De Rada inventa un alfabeto, che ricava da grafemi greci e latini. Basta questo per consegnarlo alla storia come il Dante degli albanesi (al di qua e al di là dell’Adriatico).rivista-de-rada

    Ma questo primato è, appunto, il prodotto di un limite: De Rada, come racconta lo studioso Domenico Antonio Cassiano (Risorgimento in Calabria, Marco Editore, Lungro 2003), impara tardi l’italiano e lo userà sempre male.
    Cosa ben diversa per l’arbëresh, all’epoca lingua essenzialmente orale (gli albanesi colti usavano il greco) che gli ispira i versi – e il patriottismo – del suo capolavoro: I canti di Milosao.
    Il quale non è solo un poema: è il vagito della letteratura albanese moderna.

    De Rada: il figlio del prete

    Servono quattro “r” per capire Girolamo De Rada: religione, romanticismo, ribellione e retaggio.
    Girolamo De Rada è un esponente tipico della media borghesia rurale. È figlio di Michele, il papàs (ovvero il parroco di rito greco-bizantino) di Macchia. La religiosità greco-bizantina di derivazione ortodossa è un dop dell’identità italo-albanese. Attenzione: solo di quella, perché gli albanesi d’oltre Adriatico sono invece islamizzati da secoli. Ma anche negli arbëreshë l’identità greca subisce smottamenti e tende a occidentalizzarsi.
    La cultura romantica ha una grande influenza non solo su De Rada, ma su tutti gli intellettuali italo-albanesi della sua generazione. Per quel che riguarda la Calabria, questa cultura filtra alla grande, assieme al pensiero liberale, negli insegnamenti del collegio italo-greco di Sant’Adriano, istituito da papa Clemente XII a San Benedetto Ullano e poi trasferito a San Demetrio Corone. Nel caso di De Rada, una delle massime influenze è Byron, almeno secondo alcuni studiosi (Cassiano e Costantino Marco).

    La targa commemorativa sulla casa natia di Girolamo De Rada

    Il collegio di San Adriano, inoltre, è un focolaio di aspiranti rivoluzionari. Non è un caso che molti arbëreshë formatisi nel collegio italo-greco siano stati in prima fila in tutti i moti risorgimentali. Per formazione e anagrafe, De Rada appartiene alla stessa generazione di Agesilao Milano, l’attentatore di Ferdinando II, e, soprattutto, di Domenico Mauro, elemento di punta di quel microcosmo intellettuale e futuro esponente politico di primo piano.
    Girolamo De Rada, infine, pesca a piene mani nella cultura orale e nelle leggende popolari dell’Arbëria, a cui dà per la prima volta dignità letteraria. Soprattutto, elabora un’immagine mitica della terra delle origini, l’Epiro.

    I canti di Milosao

    C’è sempre un poema alla base di una cultura. Ciò vale anche per gli albanesi moderni, che hanno ne I canti di Milosao una specie di Iliade 2.0.
    Come da tradizione balcanica, I canti sono il classico drammone basato sul binomio amore-morte. Per la precisione, l’amore contrastato di Milosao, il figlio del despota di Scutari, per la figlia di un contadino.
    E poi la morte del protagonista, nel frattempo rimasto vedovo, che avviene rigorosamente sul campo di battaglia contro gli Ottomani.

    De Rada reazionario?

    Dopo aver partecipato a più riprese ai moti liberali (e aver rischiato grosso), De Rada ha una conversione religiosa. O meglio, si riavvicina alla tradizione cristiana appresa tra le pareti di casa.
    Il suo è, quindi, un patriottismo sui generis, piuttosto diffidente verso le istituzioni rappresentative e più legato alle tradizioni popolari. Alla Kultur, direbbero oggi quelli davvero bravi. Però è un nazionalismo in linea con il filone romantico (quindi i risorgimenti nazionali) e soprattutto, molto adatto alle culture balcaniche. Che proprio a fine Ottocento guardano all’Italia e alla Germania come modelli.

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    Francobolli albanesi dedicati a Girolamo De Rada

    L’Italia fa scuola

    Il caso italiano ha fatto scuola due volte. La prima in maniera indiretta con la Serbia, che ottiene l’indipendenza dall’Impero Ottomano nel 1878 e inizia a considerarsi come una specie di Piemonte, capace di unire gli slavi del Sud.
    Non è proprio un caso che il quotidiano di riferimento dei nazionalisti serbi tra il 1911 e il 1915 si chiamasse Pijemont.
    Per l’Albania, invece, il rapporto è diretto e voluto e si basa su due elementi: le opere di De Rada e il collegio di San Adriano, che diventa una specie di Università per stranieri dei rampolli dell’Albania bene.
    Il mito della Grande Albania è un’idea poetica che diventa propaganda. E su questa propaganda “grandalbanese” farà leva il fascismo per usare l’Albania in chiave antijugoslava, facendo perno proprio sul problema del Kossovo, come sostiene, tra gli altri, Marco Dogo nel suo Kosovo (Marco Editore, Lungro 1992).

    Fascisti albanesi (dall’archivio dell’Istituto Luce)

    Imperialismo

    Ovviamente De Rada non ha alcuna responsabilità nell’uso politico, diretto e indiretto, della sua poetica. Né queste pratiche sono solo tipiche del fascismo, visto che tutti gli imperialismi le hanno utilizzate ampiamente.
    Il nazionalismo altrui, inventato o adeguatamente stimolato, può far sempre comodo alle potenze imperiali o aspiranti tali. Come l’Italia a cavallo tra le due guerre, che posava a maschio alfa nell’Adriatico, o l’Urss e la Cina, che hanno ispirato – e sfruttato – non poco le rivolte anticoloniali del dopoguerra.
    Con l’Albania, c’è da dire, il gioco italiano ha funzionato alla grande. Al punto che nessuno si scandalizzò né mosse un dito quando le nostre truppe occuparono il piccolo Paese balcanico. Anzi, ci fu chi commentò: è l’uomo che rapisce la moglie.

    Enver Hoxha

    La fine

    È il 28 febbraio 1903. Il corteo funebre che accompagna De Rada per l’ultimo viaggio fa sosta vicino alla casa dell’amico di sempre, Domenico Mauro.
    Al riguardo, c’è una leggenda popolare, mai confermata (me neppure smentita): proprio in quel momento, un mandorlo del giardino dei Mauro perde i petali, che si depositano sul feretro dell’illustre scomparso, il quale ha terminato la propria esistenza povero e solo, dopo aver rinunciato a una cattedra all’Orientale di Napoli.
    Ma l’ispirazione dell’opera deradiana continua. Anche oltre il fascismo. Tra quelli che hanno apprezzato di più l’idea della Grande Albania c’è il dittatore Enver Hoxha, che ci ha giocato alla grande per tutelare il suo stato bunker dalle mire jugoslave.
    Infatti, tra le poche aperture dell’Albania di Hoxha all’Occidente c’è l’invio di un busto commemorativo a San Demetrio Corone, nel 1986.
    E allora nessuna meraviglia che in tutte le città calabresi ci siano quasi più dediche a De Rada che al mitico Skanderberg.

     

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Franco Costabile e la Calabria che non cambia mai

    Franco Costabile e la Calabria che non cambia mai

    Via del Casale Giuliani è una strada di Roma tutta in salita e la prima volta che ci andai fu quasi un pellegrinaggio laico. Volevo vedere la via dove abitava Franco Costabile e dove aveva deciso che la vita era una cosa tropo faticosa per essere affrontata.
    Restai lì a guardare i palazzoni tutti uguali, cercando di indovinare quale fosse la casa del poeta calabrese i cui versi non si insegnano nelle scuole, anzi sono proprio dimenticati, pur se ad amarli quei versi furono Ungaretti e Caproni che a Costabile dedicarono parole cariche d’amore.

     

    lapide-franco-costabile
    I versi che Giuseppe Ungaretti dedicò a Franco Costabile dopo la sua morte sulla lapide del poeta calabrese

     

    Oggi ricorre l’anniversario della sua morte e con tutta evidenza ogni cosa è cambiata.
    Il quartiere romano dove Costabile abitava si è trasformato negli anni da triste periferia in una zona residenziale abitata da una borghesia benestante. E la Calabria che lui raccontava nelle sue poesie non c’è più, trascinata da una modernità che non l’ha emancipata dalle sue disgrazie, ma solo imbruttita.

    La Calabria di Franco Costabile

    Eppure sembra restare intatta una potente attualità in quei versi, nella descrizione di una terra senza redenzione, che pare condannata alla rinuncia. Diversa e nonostante tutto ancora drammaticamente uguale la dinamica del consenso elettorale, come nella poesia in cui Costabile elenca ripetutamente i nomi dei notabili della vecchia Dc che durante lo spoglio elettorale si ripetevano senza fine: “Cassiani, Cassiani, Antoniozzi, Antoniozzi, i nomi segnati e pronunciati per trentasei ore”.

    Erano le famiglie che decidevano il destino della Calabria, il cui voto era suggerito dalla Chiesa influente e vicina al potere. Adesso sono cambiati i nomi, ma non troppo. Basti pensare che ancora oggi un Antoniozzi è arrivato in parlamento con i voti dei calabresi. E se in passato “L’onorevole tornava calabrese” in occasione di “processioni ed elezioni”, adesso non deve nemmeno fare questa fatica, i voti se li prende e basta.

    Ma se volete la misura di come Costabile e i suoi versi siano attuali, leggetevi la poesia Il taccuino dell’onorevole, perché è impressionante per come quelle parole sembrino uscite dalla bocca di un qualunque politico attuale.

    Il taccuino dell’onorevole

    L’Occidente,
    Pensarci su

    Insistere
    sul termine
    salvezza ecc.

    Ricordarsi
    l’enciclica.

    Statistiche
    Molte scarpe nel sud
    molti cucchiai

    Avvolgere col tricolore
    dieci minatori morti

    Calcolare
    50” di applausi

    Qualcosa
    sull’uomo

    Tornare
    all’enciclica

    La polizia
    le piazze calme
    Cura del paesaggio
    molta alberatura verde

    Per il contadino
    dire anche 2 foglie

    Bontà delle suore.

    Bambini a scuola
    con molte medaglie

    Undici arcate
    I Cavalieri del lavoro

    Citare
    il cammello
    e la cruna dell’ago

    L’area democratica
    citare più volte

    Diverse e paradossalmente ancora uguali le dinamiche economiche rivolte alla nostra regione. Una volta c’era la Cassa per il Mezzogiorno, oggi i mille provvedimenti per il sud, fino al Pnrr. Ma come scriveva Costabile nella raccolta di poesie La rosa nel bicchiere, “l’occhio del mitra è più preciso del filo a piombo della Rinascita”, perché magari la ‘ndrangheta di oggi spara di meno rispetto al passato, ma è pervasivamente dentro gli affari di qualunque progetto di ricostruzione. Ora come allora vale la supplica di Costabile rivolta ai governanti: Non venite a bussare con cinque anni di pesante menzogna.

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    Una poesia di Franco Costabile su un muro del centro storico di Sambiase

    Perché studiare Franco Costabile

    Né nei versi di Costabile manca la consapevolezza delle opportunità perdute, della distorsione culturale che per anni ci ha portati a “chiamare onore una coltellata e disgrazia non avere un padrone, troppo tempo a stare zitti quando bisognava parlare”. Restano uguali gli stereotipi che vogliono la Calabria un paradiso, una terra meravigliosa, fatta “Di limoni e salti di pescespada”. Oggi quell’inganno si è trasformato nei cortometraggi pagati a milioni e che hanno fatto ridere il mondo.
    Franco Costabile andrebbe letto nelle aule dei licei perché, a saperli leggere, si colgono i mutamenti e l’immobilismo della Calabria più nelle sue poesie che negli aridi report dell’Istat.

  • I ragazzini terribili del Crai: una rivoluzione tra via Bernini 5 e la villetta di via Modigliani

    I ragazzini terribili del Crai: una rivoluzione tra via Bernini 5 e la villetta di via Modigliani

    Già da diverso tempo l’Università della Calabria figura nelle posizioni di vertice della graduatoria mondiale della computer science e dell’intelligenza artificiale.
    Un risultato straordinario. Ancora di più se si pensi, solo per un attimo, che in Calabria per avere un’Università abbiamo dovuto attendere sino al 1970. Giusto per avere un’idea: ben 9 secoli di ritardo rispetto a Bologna (1088), più di 7 secoli rispetto a Napoli (1224), più di 5 secoli rispetto a Catania (1434).
    Un’eternità sul piano dello sviluppo sociale ed economico.

    Un record inaspettato

    La domanda è intrigante: com’è stato possibile scalare in soli 50 anni la classifica mondiale in settori così strutturati e trasversali come la computer science e l’intelligenza artificiale?
    A dispetto della sempiterna narrazione della Calabria miserabile e dei soldi pubblici sprecati in opere e attività inutili, l’eccellenza calabrese nella computer science e nell’intelligenza artificiale ha invece una storia bellissima di visione strategica e di creazione di capitale umano in aree fortemente svantaggiate.

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    Intelligenza artificiale e Computer science: i due primati dell’Unical

    Sergio De Julio: un pioniere a via Bernini

    Tutto iniziò in un luminoso appartamento di via Bernini 5, a Rende. Lì uno scienziato visionario e certamente un po’ folle, date le condizioni di partenza e l’assoluta inconsistenza del tessuto formativo, il prof Sergio De Julio, decise di creare il Crai (Consorzio per la Ricerca e le Applicazioni in Informatica), insieme a partner istituzionali e privati altrettanto visionari.
    Fu uno dei primi casi di virtuosa collaborazione pubblico-privato sostenuta da finanziamento pubblico (il famigerato intervento straordinario) che investì sulla formazione di qualità (oggi si dice d’eccellenza, ma la sostanza non cambia) nell’informatica, che stava mostrando già allora i segni della sua implacabile trasversalità nel futuro delle tecnologie di produzione e in quelle della società nella sua più ampia accezione. De Julio ha avuto il merito di intuire 50 anni fa questa transizione digitale (altro che Pnrr) e di investire sulla formazione di giovani calabresi.

    Un miracolo calabrese

    Io, che ho avuto la fortuna di frequentare (in verità per pochi mesi, prima di partire per gli Stati Uniti) via Bernini e poi la villetta di via Modigliani, sono stato testimone di questo miracolo calabrese.
    Se provo oggi con la mente a ripercorrere quegli ambienti e quel clima di serietà, di rigore scientifico ma anche di straordinaria amicizia e umanità, rivedo in quelle stanze piene di computer tanti giovanissimi ricercatori dalle barbe incolte e dagli occhi pieni di entusiasmo e di lucida follia. Tanti ricercatori esteri.
    Chi partiva per la California, chi tornava da Vienna, chi pianificava il suo Phd a Berkley: insomma. era un ambiente esplosivo, assolutamente inedito per una Calabria abituata alle sonnolente domeniche in tv con Pippo Baudo e la guantiera di dolci da portare a casa della fidanzata. Ben altri ritmi e rituali.

    L’area di ingegneria dell’Unical

    I ragazzini terribili di Sergio De Julio

    Erano loro, i ragazzini terribili di Sergio De Julio, quelli che avrebbero segnato indelebilmente il successo mondiale dell’Unical nei settori dell’informatica e dell’intelligenza artificiale.
    Provate a leggere i curricula di autorità scientifiche mondiali del calibro di Nicola Leone (attuale rettore dell’Università della Calabria), Manlio Gaudioso, Domenico Saccà, Domenico Talia, Pasquale Rullo, Sergio Greco, Giuseppe Paletta e chiedo scusa ai tantissimi altri che, colpevolmente, dimentico in questa sede.
    Troverete orgogliosamente citate, nelle righe dei loro esordi professionali, le esperienze maturate nel Crai insieme al professor De Julio, lucido e folle visionario.
    Un primato da difendere

    Perché quest’amarcord, vi chiederete. Domanda legittima. Perché è bene che le nuove generazioni di studenti che affollano le aule di informatica dell’Unical conoscano e apprezzino il capolavoro che è stato realizzato in Calabria. Che difendano il Dna di questo miracolo calabrese. Perché non ci si abitui al titolo di campioni del mondo e che continuino ad onorare la storia di questi, ormai ex, ragazzini terribili che hanno fatto la differenza in un’unità di tempo assolutamente breve e incredibile.
    Nella speranza, magari, di creare un nuovo nucleo di ragazzini terribili pronti a cogliere, affrontare e vincere le sfide del prossimo secolo.
    In Calabria, sissignore. Proprio dall’Università della Calabria. La nostra Università.

  • Vittorio De Seta: sinistra e nobiltà di un nipote di Calabria

    Vittorio De Seta: sinistra e nobiltà di un nipote di Calabria

    Sono passati 11 anni e mezzo dalla sua morte. E circa 15 da quando conversai con lui nel foyer di un albergo di Parma, dopo uno scambio epistolare che durava da un po’. Non mi pare che Vittorio De Seta, nel frattempo, sia stato sufficientemente celebrato da chi avrebbe dovuto e potuto. Del resto, cos’è “sufficiente” per un artista di quel calibro? E poi, visto che era stato poco celebrato in vita (come succede solo ai più grandi), figuriamoci una volta scomparso. Le scrivo io, due parole in suo ricordo: Vittorio De Seta era innanzitutto un gentilissimo signore, pacato e misurato, forse immerso fin troppo nel suo ideale di un mondo buono da poter recuperare, innocente testa tra le nuvole.

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    Un giovane Vittorio De Seta accanto a una cinepresa

    Sinistra e nobiltà

    Aveva natali pesanti, Vittorio De Seta. Il nonno paterno (prefetto un po’ ovunque e poi sindaco di Catanzaro a fine Ottocento) e suo fratello erano i marchesi Francesco ed Enrico, deputati, poi senatori all’inizio del Novecento, nati a Belvedere Marittimo. Il nonno materno era invece il conte piemontese Giovanni Emanuele Elia, inventore in ambito militare.

    Padre e madre? Separatisi prestissimo. Erano il marchese Giuseppe De Seta, scomparso assai prematuramente, e la ben più nota Maria Elia, meglio conosciuta come la marchesa De Seta Pignatelli, per aver sposato in seconde nozze il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara. Non aggiunse, invece, un terzo cognome per non aver mai sposato il suo terzo storico compagno, il quadrumviro Michele Bianchi col quale, appena poteva, fuggiva nella sua torre silana.

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    La torre della marchesa in Sila

    Ma stavamo parlando di Vittorio De Seta: bene, al maestro tutto ciò stava in realtà molto molto stretto. Uno dei suoi film – il più intimo, il più tormentato – racconta proprio del rapporto difficilissimo con una madre d’acciaio che lo ritiene solo un sognatore inetto, disumana, dura, insensibile. Con un padre impalpabile e denigrato dalla vedova. Con un fratello maggiore a lui preferito e poi scomparso anzitempo. E, soprattutto, con un milieu aristocratico che cozzava non poco con la visione antropologica sincera di un artista vicino al popolo – e non a parole –, alla semplicità e persino al sacrificio.

    La “colpa” di Vittorio De Seta

    Come conciliare il fatto di essere nato nel sontuoso e arabeggiante Palazzo Forcella, poi De Seta, alla Kalsa di Palermo, con quello di essere vicino di casa di quella cultura di sinistra più intransigente – quella degli anni ’60 del Novecento – senza scadere nella parodia da gauche caviar?
    Si concilia così: vai in analisi da Ernst Bernhard (e ci porti pure Fellini), e non perché ci stiano già andando Manganelli, Bazlen, la Campo e la Ginzburg ma perché credi di non avere altra via d’uscita.

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    Palazzo De Seta, a Palermo, dove il regista venne alla luce

    Così mi scriveva nell’autunno del 2008 e riporto fedelmente queste poche frasi ancora inedite: “C’è stato all’origine della mia esistenza (…) un evento – al quale ovviamente ero estraneo – che mi ha segnato con un marchio d’infamia e di vergogna. La mia vita, il mio lavoro, sono stati segnati dalla necessità del riscatto di questa ‘colpa’ e, nello stesso tempo, dall’identificazione con le classi umili, diseredate per eccellenza. Dal ’58 ho fatto analisi psicologica junghiana con Bernhard, fino al ’65 (…). Avevo problemi: mai visto mio padre, nessun rapporto con mia madre, famiglia ricca, aristocratica ed infine due anni di deportazione in Austria (‘43/’45) (…). Non si faceva molta cultura a casa mia (…). Ricordo che tornato dalla prigionia restai in casa mesi a leggere Benedetto Croce. Poi fui attratto dal marxismo, avevo bisogno di una fede, di un’appartenenza, uno schieramento. Ma intimamente non ero convinto, tanto che restai iscritto al partito comunista un solo anno (‘47/’48)”.

    Dieci piccoli capolavori

    La mia corrispondenza con De Seta aveva avuto inizio quando ad una finale dei Mondiali di calcio (Europei? Mai fatta troppa attenzione) preferii la proiezione al cinema dei suoi cortometraggi appena restaurati dalla Cineteca di Bologna. Si trattava dei suoi primi dieci brevissimi capolavori, girati tra il 1954 e il 1959 tra Sicilia, Calabria e Sardegna (e rieccoci con la Calabria come terza isola).
    Servirebbero pagine e pagine per commentarli a dovere tutti e dieci (uno di essi, Isole di Fuoco, vinse a Cannes nel ’55). Mi limito a segnalare i soli due girati in Calabria:

    • Lu tempu de li pisci spata

    • I dimenticati

    Il primo è girato nelle acque al largo di Scilla e documenta una battuta di pesca, appunto, al pesce spada, compiuta con metodo più che tradizionale (l’unico, del resto, ancora praticato all’epoca in quella zona).
    Il secondo racconta del giorno di festa per antonomasia nell’ultraperiferico paese di Alessandria Del Carretto, che ancora nel ’59 si poteva raggiungere solo a dorso di mulo: il giorno della paganissima festa della pita.
    Poi arrivò il cinema vero, i film ‘canonici’, i lungometraggi. E poi anche alcuni prodotti per la televisione: mirabile, e insuperata, la serie Diario di un maestro, del 1973, con l’eccezionale Bruno Cirino.

    La Calabria di Vittorio De Seta

    Ma Vittorio De Seta non dimenticò la Calabria. Anzi, svernava tutti gli anni nella sua antica masseria di Sellìa Marina, in contrada – noblesse oblige – Feudo De Seta, dove il regista chiuse poi gli occhi. Tornerà infatti a filmare la Calabria in altre due opere, ovvero nel documentario In Calabria (del 1993) e nel tardo (e più dimenticabile) Pentedattilo – Articolo 23 (2008), episodio del film Human Rights for All.
    Il secondo è una breve metafora del ripopolamento del paese, abbandonato da tempo, da parte di una comunità di migranti. Il primo è un capolavoro vero, e ne consiglio assolutamente la visione.

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    L’ingresso alla masseria di Feudo De Seta, a Sellia Marina

    È la testimonianza di una Calabria – a 360° dal Pollino a Polsi – svenduta, di una Calabria fallita, che ha barattato una sua propria identità col baratro del progresso sperato, inattuato, neppure col miraggio dell’Università, delle fabbriche abbandonate e delle cattedrali nel deserto. E con uno sguardo malinconico a chi nel 1993 allestiva ancora carbonaie, faceva la ricotta con le mani rovinate, cantava in greco antico nelle chiese di rito bizantino e si riuniva più serenamente attorno a un maiale da sublimare. Altrettanto meravigliose, per inciso, alcune tracce liturgiche inserite nella colonna sonora, ed eseguite dalla Corale greco-albanese di Lungro.

    Vittorio De Seta era un figlio, anzi, un nipote di Calabria che con i suoi occhi e con la sua sensibilità ne ha disegnato un ritratto delicato e rassegnato.
    Cosa ne resterà? E chi avrà scrupoli e talento tali, dopo di lui?

     

  • La morte dal cielo: gli 80 anni delle bombe su Cosenza

    La morte dal cielo: gli 80 anni delle bombe su Cosenza

    Il 12 aprile 1943 la città di Cosenza subì un bombardamento in pieno giorno, con le conseguenze che ancora oggi accompagnano queste azioni militari: distruzioni di case e infrastrutture, decine di morti tra la popolazione civile. Nel centro storico viene distrutto il seminario arcivescovile e subisce danni anche il Duomo.
    Dopo il bombardamento chi può abbandona la città e cerca rifugio nei paesi vicini, già invasi di sfollati provenienti anche da altre regioni. Seguiranno altre incursioni, altri morti e distruzioni.

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    La bomba a via Popilia

    Complessivamente la Calabria fu oggetto di circa duecento incursioni aeree, fino al settembre 1943, quando in soli dieci giorni gli anglo-americani occuparono la regione. Limitandoci a Cosenza, riportarono gravi danni anche la Biblioteca Civica, il teatro Rendano, la chiesa della Riforma. E tante abitazioni. Alcuni ordigni inesplosi sono ricomparsi nei decenni successivi, ancora nel 2015 a via Popilia fu necessario disinnescarne uno, con l’intervento del Genio militare. Progressivamente sono stati cancellati o rimossi i resti degli edifici colpiti, che per molto tempo hanno caratterizzato alcune zone della città. Fino a quella tragica primavera la Calabria non era mai stata un obiettivo importante. Ma in quei mesi le truppe alleate, dopo la conquista della Libia italiana, stavano organizzando lo sbarco in Sicilia, per dare un colpo definitivo al regime fascista e portare la guerra in Europa, aprire un altro fronte, attaccare da sud la Germania nazista.

    Il bombardamento del 1943 su Cosenza in un libro

    Roberta Fortino, autrice del volume 1943 Cosenza bombardata …e la morte arrivò dal cielo, ricorda nella dedica suo zio che la salvò quando, da bambina, la vide giocare con un ordigno nei pressi di casa. Come accade ancora oggi ai bambini che vivono in zone di guerra. Perché le guerre lasciano tracce lunghe e dolorose. A distanza di ottant’anni la pubblicazione di 1943 Cosenza bombardata…e la morte arrivò dal cielo (editoriale progetto 2000) è quanto mai opportuna. La memoria collettiva non disponeva finora, infatti, di una narrazione adeguata agli eventi.

    Il volume offre molti documenti, alcuni tratti da pubblicazioni estemporanee e difficili da reperire, altri pubblicati per la prima volta e di particolare interesse. Come le testimonianze, tradotte per la prima volta in italiano, dei piloti americani alla guida dei bombardieri, che offrono una prospettiva nuova alla ricostruzione dei fatti.
    Altre carte inedite provengono dall’archivio dell’Associazione nazionale vittime civili di guerra. Ciò conferma che le strade della ricerca storica sono molteplici e tortuose. E, per quanto riguarda la storia recente di Cosenza e della Calabria, decisamente poco battute ed esplorate.

    Storia e sentimenti

    Sui libri di storia difficilmente si trova narrata la fatica della ricostruzione, della vita tra le macerie, dell’attesa di notizie dai campo di prigionia o dal fronte, che intanto si era spostato sempre più a nord, tagliando fuori migliaia di soldati calabresi dalle proprie famiglie. Nemmeno l’allegria assurda dei superstiti e il desiderio di ricominciare a vivere trovano spazio nelle pagine degli studiosi, che non considerano i sentimenti degni di attenzione.

    Elsa Morante ha dedicato una delle sue ultime fatiche, La Storia, proprio alla vita delle persone più umili, in quei drammatici anni. E ha immaginato la prima parte del romanzo proprio a Cosenza, collocandovi la vita ordinaria di una famiglia modesta.
    La memoria ufficiale, invece, si affida alle commemorazioni periodiche, alle targhe, alle lapidi, di cui in questo libro si raccontano con molti particolari le tappe, fino alla realizzazione nei luoghi dove sono ancora oggi visibili.

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    La scultura di Baccelli in onore di cinque bambini uccisi dalle bombe in piazza Spirito Santo (oggi piazza Cribari) è scomparsa

    Una scheda particolareggiata ricostruisce anche la storia paradossale, tipicamente calabrese, del monumento alle vittime di Cesare Baccelli, andato “perduto” durante uno spostamento all’interno di un cantiere. Una pagina di valore simbolico, non isolata, dato che sono note gustose analoghe vicende, relative ad altri monumenti smarriti, evaporati nel cielo azzurro. Lo stesso cielo in cui si allontanavano gli aerei americani, dopo aver seminato morte e distruzione.