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  • Catasti e clientelismi, la Calabria di Gioacchino Murat è adesso

    Catasti e clientelismi, la Calabria di Gioacchino Murat è adesso

    Mezzo secolo fa, Umberto Caldora si spegneva nelle residenze dell’Università della Calabria, l’ateneo che aveva contribuito a fondare e che lo aveva appena nominato ordinario di Storia Moderna. La sua morte interrompeva un percorso intellettuale che, a partire dagli archivi napoletani, aveva saputo trasformare la polvere dei dispacci in una mappa vivente delle società rurali. Il lascito più denso di questo metodo è “La Calabria nel 1811. Le relazioni della statistica murattiana”, (originariamente pubblicato negli anni ’60; ed. definitiva a cura del Centro Editoriale e Librario dell’Università della Calabria, 1995, ISBN 978-8886067232), un volume che è un’operazione di antropologia storica ante litteram.

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    Umberto Caldora, storico meridionalista, tra i primi docenti dell’Unical

    La “Statistica murattiana”

    Nel 1811 Gioacchino Murat, cognato di Napoleone e re di Napoli dal 1808, ordina una “statistique générale” del regno meridionale. Lo strumento con cui l’Impero intende tradurre il territorio in numeri, rendendolo leggibile e quindi riformabile. In Calabria, la circolare del 15 marzo 1811 arriva ai sindaci dei 405 comuni della provincia attraverso i prefetti di Cosenza, Catanzaro e Crotone. Il questionario è lungo 37 punti: popolazione per sesso ed età, bestiame, colture, strade, scuole, ospedali, debiti pubblici, usi civici, consuetudini matrimoniali.

    Caldora non si limita a trascrivere le 1.200 pagine manoscritte conservate nell’Archivio di Stato di Napoli (Fondo Intendenza, buste 1811-1813). Le confronta con i verbali delle sottocommissioni provinciali, le lettere di accompagnamento dei sindaci, le annotazioni marginali dei funzionari francesi. Ne emerge un testo ibrido dove da un lato si nota il linguaggio amministrativo di Parigi, dall’altro la voce filtrata delle comunità, spesso reticente o strategica.

    La “fotografia” della Calabria

    La Calabria del 1811 conta 498.732 abitanti (dato medio tra le tre province), con una densità di 33 ab./km², concentrata lungo le valli del Crati e del Savuto. Caldora evidenzia la struttura piramidale delle famiglie: nuclei di 7-9 persone, con alta natalità (42‰) compensata da mortalità infantile del 28%.

    Un caso paradigmatico è il comune di Acri (Cosenza), dove il sindaco don Giuseppe Salfi dichiara 11.214 anime, ma Caldora scopre che il numero è gonfiato per ottenere più esenzioni dalla leva. Confrontando i registri parrocchiali conservati nella curia vescovile, l’autore riduce la stima a 10.680, rivelando una pratica diffusa di “famiglie fittizie” create per eludere la coscrizione. Qui la statistica diventa etnografia: il censimento non registra solo corpi, ma strategie di sopravvivenza parentale.

    Il 78% della superficie è montagna o collina; solo il 12% è seminativo. La relazione di “Castiglione Cosentino descrive 1.200 ettari di uliveti, ma Caldora nota che i sindaci omettono sistematicamente i terreni demaniali usurpati. Attraverso le denunce al tribunale di Cosenza, ricostruisce la mappa delle “difese” (recinti abusivi) che riducono la transumanza del Pollino.

    Lo studio delle forme di economia

    Un altro dato: la produzione di seta greggia è di 42.000 kg annui, concentrata nelle mani di 180 famiglie di commercianti ebrei a Rossano. Caldora usa le bollette doganali per tracciare la filiera fino ai mercati di Lione, mostrando come l’occupazione francese trasformi una risorsa locale in merce imperiale.

    Le donne sono il 51% della popolazione attiva nei campi, ma compaiono solo nei capitoli “mortalità” e “matrimoni”. Caldora integra le relazioni con i processi per bigamia e abbandono di coniugi: nel 1811 si contano 42 casi a Catanzaro, tutti legati alla leva maschile. Emerge un quadro di “resistenza domestica”: donne che falsificano certificati di vedovanza per riscattare i fratelli, o che gestiscono il contrabbando di sale lungo il Neto. La statistica murattiana, pensata per razionalizzare, diventa involontariamente archivio di pratiche subalterne.

    A Caldora è stata intitolata una delle aule architettonicamente più rappresentative dell’Unical

    E dei mutamenti sociali

    L’edizione del 1995 è arricchita da “cinque appendici”. Una tabella sinottica dei 405 comuni con variazioni demografiche 1806-1811; un indice dei toponimi con varianti dialettali; un glossario di termini amministrativi francesi tradotti in calabrese;  una serie di carte tematiche (riprodotto da Caldora su lucidi negli anni ’70); un repertorio delle fonti secondarie (oltre 120 titoli).

    Ogni relazione è accompagnata da note critiche che confrontano i dati ufficiali con le memorie orali raccolte da Caldora nei mercati di Castrovillari e Spezzano Albanese tra il 1958 e il 1965. È qui che la storia si fa antropologia: il documento non è mai neutro, è sempre negoziato tra potere centrale e comunità periferica.

    A cinquant’anni dalla morte, il volume rimane “l’unico censimento integrale” della Calabria napoleonica. Eppure, è anche un monito, dal momento che le inchieste dall’alto producono conoscenza, ma anche silenzi. I comuni arbëreshë (San Basile, Lungro) dichiarano solo il 30% della popolazione reale per evitare la coscrizione; i pastori del Sila omettono i capi vaccini per non pagare la tassa sul bestiame.

    L’osservazione della storia e della vita quotidiana

    Rileggere Caldora oggi significa riconoscere che la Calabria contemporanea – con i suoi 1,9 milioni di abitanti e un tasso di emigrazione del 2,1% annuo – porta ancora le cicatrici di quelle griglie napoleoniche: catasti incompleti, clientelismi radicati, resistenze silenziose. Il viale di Castrovillari intitolato al suo nome non è solo toponomastica, ma è un invito a continuare a leggere tra le righe dei questionari, dove la storia ufficiale incontra la vita quotidiana.

  • Pasolini e il medico di Paola

    Pasolini e il medico di Paola

    Intellettuale anticonvenzionale, indipendente, unico e ineguagliabile. Cinquant’anni fa moriva Pier Paolo Pasolini, assassinato sul litorale di Ostia nella notte fra il 1° e il 2 novembre 1975. Un poeta, giornalista, regista e letterato che ha lasciato un segno indelebile nella cultura italiana del Ventesimo secolo e che ha scandagliato in profondità i tormenti, le ipocrisie, i vizi e i cambiamenti del popolo italiano.

    Renzo Paris racconta la morte di Pier Paolo Pasolini nel suo ultimo libro - la Repubblica
    Il ritrovamento del corpo di PPP

    Dai campagnoli di Casarsa ai sottoproletari delle borgate romane, fra i popoli umili che più hanno intrecciato le loro sorti al vissuto di Pasolini un posto di rilievo ha la gente di Calabria. Quello fra PPP e la Calabria è stato un rapporto burrascoso ma intenso, sviluppatosi attraverso i reportage, i film, i documentari, anche la poesia, con le parole di Profezia, componimento del ’64 poi diffuso col titolo Alì dagli occhi azzurri, che anticipò il dramma dei migranti nel Mediterraneo e in particolare lungo le coste calabresi.

    “Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,
    a milioni, vestiti di stracci,
    asiatici, e di camicie americane.
    Subito i Calabresi diranno,
    come malandrini a malandrini:
    ‘Ecco i vecchi fratelli,
    coi figli e il pane e formaggio!’”

    Pasolini in Calabria: banditi a Cutro

    La complessità del legame fra Pasolini e la Calabria si fonda sul caso scoppiato lungo il vespro dell’estate del 1959, a seguito della pubblicazione – il 5 settembre – della terza e ultima parte di un reportage in Italia, da Ventimiglia a Pachino, da Reggio Calabria – luogo in cui, scrive, gli piacerebbe «vivere e morirci, non di pace, […] ma di gioia» – a Trieste, che Pier Paolo Pasolini confezionò, con gli scatti del fotografo Paolo di Paolo, per la rivista Successo. La parte conclusiva del documentario dal titolo La lunga strada di sabbia si concentrava sulla risalita della Penisola, dallo Jonio calabrese all’Adriatico, tragitto durante il quale il poeta passò, fugacemente, a bordo della sua Millecento a quattro cilindri, da Cutro, paesino immerso in un paesaggio bucolico di calanchi oggi in territorio di Crotone, al tempo rientrante nella provincia di Catanzaro.

    Parliamo della famosa polemica dei banditi – così come Pasolini appellò la gente di Cutro –, cavalcata dalla pubblicistica locale e dal governo democristiano di Cutro con a capo il sindaco Vincenzo Mancuso.
    «Lo vedo correndo in macchina: ma è il luogo che più mi impressiona di tutto il lungo viaggio. È, veramente, il paese dei banditi, come si vede in certi westerns. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi. Si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge, o, se non dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, a un altro livello. Nel sorriso dei giovani che tornano dal lavoro atroce, c’è un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia».

    Premi e polemiche

    Alla diffusione di queste pagine, sulla stampa calabrese si scatenò un’isteria collettiva. L’intellettuale corsaro provò, a suo modo, a chiudere la questione con una replica, uscita il 28 ottobre su Paese Sera. Un passaggio della Lettera sulla Calabria sosteneva che «la storia della Calabria implica necessariamente il banditismo: se da due millenni essa è una terra dominata, sottogovernata, depressa». Ma la querelle proseguì, raggiungendo il picco poche settimane dopo, a metà novembre, quando PPP ricevette a Crotone – città in contrasto politico con la vicina Cutro considerata l’amministrazione di colore rosso, retta dal primo cittadino comunista Vincenzo Corigliano – il prestigioso Premio Crotone per il suo romanzo Una vita violenta. «Il Premio Crotone assegnato a chi ha offeso senza alcun ritegno l’onorabilità della cittadina crotonese e di Cutro» metteva nero su bianco, indignato, Il Messaggero della Calabria.

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    Pasolini in Calabria per il Premio Crotone

    Il dottor Pasquale Nicolini

    È una vicenda famosa, di cui si è scritto molto. Poco tramandato è invece uno scambio di lettere, avvenuto a cavallo fra l’uscita del resoconto incriminato e la consegna contestata del Premio Crotone all’autore, fra Pasolini e un medico calabrese.
    È il 26 settembre 1959 quando dalla Calabria parte una raccomandata. A firmarla è un dottore, ufficiale sanitario di Paola, Pasquale Nicolini.
    Vicino agli ultimi, ai più deboli, Nicolini era quello che oggi definiremmo un attivista. L’uomo si impegnava a promuovere il diritto alla salute per le famiglie meno abbienti e per la costruzione di abitazioni moderne, che strappassero le genti più povere della cittadina tirrenica dalle loro casupole malsane e lesionate a seguito dei bombardamenti dell’ultimo conflitto mondiale – lascito di quegli orrori della guerra che il dottor Nicolini aveva sperimentato negli ospedali militari.

    L’uomo possedeva anche una profonda cultura umanistica, amava discettare di filosofia e letteratura e non disdegnava di comporre poesie dedicate alla sua terra. Interessatosi chiaramente alla controversia scoppiata a seguito delle parole di Pasolini sulle pagine di Successo, il dottor Pasquale Nicolini pensò dunque di scrivere, con la cortesia e l’acume che lo distinguevano, una lettera privata al poeta.
    Di seguito, estratti della missiva, pubblicata il 23 luglio 2012 da Roberto Losso, giornalista scomparso nel 2023, sulle colonne del Quotidiano della Calabria:

    Una lettera per confrontarsi

    «Al signor Pier Paolo Pasolini, il suo resoconto La lunga striscia di sabbia, pubblicato nel numero di settembre di Successo, ha suscitato in Calabria un’ondata di risentimento, invero molto giustificato, del quale non so se l’è giunta l’eco. Io preferisco scriverle personalmente, anche perché voglio aver la certezza ch’ella conosca il mio pensiero: sarò franco e sereno, e le sarò molto grato se vorrà rispondermi con uguale franchezza e serenità. Chi sa che non si possa giungere alla comprensione e… alla distensione! Molte volte si grava l’animo di rancori per interpretazioni errate o perché si va più in là delle intenzioni altrui. Non è così?

    Ella, dunque, percorrendo la ‘lunga strada di sabbia’ della nostra Penisola, ha dato un fugacissimo sguardo alla costiera calabra e ne ha tratto delle conclusioni che certamente non ci fanno onore. Che il suo sguardo sia stato fugacissimo è provato dalla celerità con cui ha percorso detta strada».

    Pasolini tra le braccia di Morfeo?

    «Verrebbe addirittura da pensare che da Maratea (che è in Lucania) a Reggio Calabria abbia viaggiato in ‘turboreattore’, se neppure si è accorto delle belle scogliere di Praia e Scalea, del paradiso di Cirella di Diamante piena di sole, di Belvedere e della sua Rosanville, di Cittadella del Capo semplice e romantica, della mia Paola panoramica e mistica, dello sperone di Tropea, di Bagnara, di Scilla. Ovvero – lo confessi! – nel tratto calabro-tirrenico, vinto dalla stanchezza, ha ceduto il volante al suo fotoreporter e si è accoccolato nelle braccia del buon Morfeo?».

    «Così ella ha potuto dare una occhiata di scorcio solo a Reggio ed al resto del litorale jonico. Ma tanto è bastato per farle osservare che Reggio è città estremamente drammatica e originale, di un’angosciosa povertà, dove, sui camion che passano per le lunghe strade parallele al mare, si vedono scritte come “Dio, aiutaci”, che Cutro è veramente il paese dei banditi come si vede in certi westerns (ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi); che ivi si sente che siamo fuori dalla legge o, se non dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, ad un altro livello…» […]

    Povera ma bella

    «E finalmente, uscendo dal Sud, ha sentito di qualificarlo ‘carfaneo sterminato, brulichio di miseri, di ladri, di affamati, di sensuali, pura e oscura riserva di vita’. Ma come ha potuto, signor Pasolini, emettere di tali giudizi sulla base di un rapido colpo d’occhio? Perché, guardi, la Calabria è veramente e dolorosamente povera e depressa, ma che, dai nostri camion gridi la sua invocazione a Dio per non perire, questo no! Anche perché è nella natura di noi calabresi un senso d’orgoglio, direi, smisurato (usi a soffrir tacendo)».

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    Quel che resta del tempio di Hera Lacinia a Capo Colonna (Crotone)

    «Ed ora mi levi una curiosità: da che cosa ha potuto dedurre che Cutro è il paese dei banditi? […] Strano, poi, che proprio ivi, in vicinanza di Crotone, dove ancora splendono i fasti della Scuola Pitagorica, si sia sentito fuori dalla legge e dalla cultura del suo mondo (ch’è pure mondo d’alto livello). Strano davvero, perché c’è chi, nelle notti lunari, vede ancora aggirarsi, nei pressi della colonna di Hera Lacinia, le ombre del grande saggio e dei suo discepoli che vanno irrequiete dietro l’assillo di intendere le leggi, l’ordine e l’armonia totale dell’Universo. Ritorni per davvero, signor Pasolini, nella nostra povera ma bella e generosa Calabria. A Paola sarà mio gradito ospite.»[…]

    «Sono certo che si ricrederà di molte cose e che non dirà più di noi che siamo un brulichio di miseri e di ladri, e che qua tutto è essenza negativa. Abbiamo le nostre miserie e i nostri difetti, ma abbiamo anche il nostro buon cuore, le nostre virtù e soprattutto il grande desiderio di essere considerati figli non demeriti di una madre comune».

    La replica di Pasolini

    Apprezzando il tono e la cultura classica espressa da Nicolini, PPP decise di rispondere. Già il 1° ottobre con la sua Olivetti 22 il poeta replicò al medico calabrese. Riportiamo alcuni lacerti della risposta:
    «Gentile dottor Nicolini, devo dirle anzitutto: i banditi mi sono molto simpatici, ho sempre tenuto, fin da bambino, per i banditi contro i poliziotti e i benpensanti. Quindi, da parte mia, non c’era la minima intenzione di offendere i calabresi e Cutro. Comunque, non so tirare pietosi veli sulla realtà: e anche se i banditi li avessi odiati, non avrei potuto fare a meno di dire che Cutro è una zona pericolosa, ancora in parte fuori legge: tanto è vero che i calabresi stessi, della zona, consigliano di non passare per quelle famose ‘dune giallastre’ durante la notte.» […]

    «E quanto ai ladri, infine: non mi riferivo particolarmente alla Calabria, ma a tutto il Sud. Sono stato derubato tre volte: a Catania, a Taranto e a Brindisi (sempre nelle cabine delle spiagge). In Calabria ho avuto una rapina a mano armata (di coltello): a cui sono sfuggito solo per la mia presenza di spirito. Queste cose ovviamente non le ho scritte, non solo per senso della litote, ma per non mettere nei guai i miei ladri e i miei rapinatori, che continuano ad essermi simpaticissimi (solo a Taranto, per colpa del bagnino, è intervenuta la polizia: ma io non ho voluto fare la denuncia contro il povero ladruncolo subito ritrovato)».

    Manie di persecuzione, lotta e realtà

    «Questi sono dati della vostra realtà: se poi volete fare come gli struzzi, affar vostro. Ma io ve ne sconsiglio. Non è con la retorica che si progredisce. Tutto questo lo dico a lei, perché mi sembra una persona veramente buona e simpatica». […]
    “Mi dispiace dell’equivoco: non si tiene mai abbastanza conto del vostro ‘complesso di inferiorità’, della vostra psicologia patologica (adesso non si offenda un’altra volta!), della vostra collettiva angesi, o mania di persecuzione. Tutto ciò è storicamente e socialmente giustificato.

    E io non vi consiglierei di cercare consolazioni in un passato idealizzato e definitivamente remoto: l’unico modo per consolarsi è lottare, e per lottare bisogna guardare in faccia la realtà. Mostri pure questa lettera ai suoi amici, la renda pubblica, magari la faccia anche stampare sui giornali che hanno polemizzato contro di me. Sono certo che sarò capito. Le ripeto: lei è persona degna di ogni rispetto e anche affetto, e, come tale, cordialmente la saluto, suo devotissimo Pier Paolo Pasolini».

    Pasolini torna in Calabria

    Il carteggio non fu divulgato, come esortato dallo stesso Pasolini. «Persona degna di ogni rispetto e anche affetto», il dottor Nicolini lasciò la preziosa corrispondenza nel cassetto, lontana dalle grinfie di cercatori di scoop e fomentatori della diatriba.
    La polemica si affievolì presto e, trascorsi alcuni anni, Pasolini ritornò in Calabria. Il rapporto con la regione, terra genuina, reale, trascurata e anarchica quanto bastava per non essere stata ancora corrotta dalla omologazione e dalle brutture conformistiche imposte dalla modernità, da quel “genocidio culturale” inflitto agli italiani, proseguì raggiungendo l’acme nel ’63-’64 con le riprese del Vangelo secondo Matteo.

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    Pasolini durante le riprese de Il Vangelo secondo Matteo

    Il poeta e regista, deluso dalle trasformazioni del paesaggio avvenute in Medio Oriente, scelse di girare in diversi luoghi rupestri del Meridione, fra cui le calabresi Le Castella e Cutro, panorami «ferocemente antichi», scampati al disastro «economico, ecologico, urbanistico, antropologico» del tempo, che meglio potevano ricordare la Terra Santa di duemila anni prima.
    E il colto dottor Pasquale Nicolini? Voci perpetuate nei decenni vogliono che Pasolini abbia incontrato, negli anni successivi a quella turbolenta seconda metà del 1959, quel medico intellettuale paolano che aveva avuto l’ardire di scrivergli direttamente per metterlo a parte del suo pensiero e per avere un confronto, e che grazie all’educazione e all’accesa passione per le proprie radici si era meritato non soltanto la risposta, ma pure la stima di uno dei massimi pensatori del Novecento.

    Voci, indiscrezioni mai confermate che nulla tolgono a una corrispondenza preziosa, tassello importante per ricostruire il rapporto tormentato e ricco di fascino fra Pasolini e la nostra terra.

  • Cutro, Pasolini e una Calabria fuori dal tempo

    Cutro, Pasolini e una Calabria fuori dal tempo

    Nel 1959 Pier Paolo Pasolini attraversa l’Italia in macchina, una Fiat 1100 prestata da Federico Fellini. Non per un film, come in altre occasioni, ma per un reportage insieme al fotografo Paolo Di Paolo: La lunga strada di sabbia, pubblicato in tre puntate sulla rivista Successo (www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=4179).

    CALABRIA, PASOLINI A CUTRO «PAESE DEI BANDITI»

    L’obiettivo è raccontare un Paese in trasformazione, dove il boom economico sta trasformando contadini in vacanzieri, e il mare in merce. Attraversa anche la Calabria e, tra tutte le tappe, ce n’è una destinata a rimanere nella memoria per le polemiche sollevate: si tratta di Cutro, che Pasolini descrive così: «Ecco, a un distendersi delle dune gialle, in una specie di altopiano, Cutro. Lo vedo correndo in macchina: ma è il luogo che più mi impressiona di tutto il viaggio. È, veramente, il paese dei banditi, come si vede in certi westerns. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi». Non serve molto di più per accendere la miccia. La stampa calabrese esplode di indignazione, il Comune di Cutro chiede scuse formali, e persino un deputato democristiano – un certo La Russa (bizzarri ritorni della storia) – alza il vessillo dell’«offesa al popolo calabrese».

    L’attacco di certa stampa a Pasolini dopo le parole pronunciate dall’intellettuale su Cutro

    IL PREMIO A CROTONE

    La questione, naturalmente, non è solo letteraria: a venti chilometri di distanza, a Crotone, governa il Partito Comunista, mentre Cutro è democristiana fino al midollo. E così, quando a novembre Pasolini riceve il Premio Crotone per Una vita violenta, la polemica diventa scontro politico a cielo aperto.
    Fedele al suo talento per infilarsi nei guai con grazia, Pasolini scrive una lettera aperta a Paese Sera, con il tono che gli riconosciamo, diretto, ironico, spietato: «I banditi mi sono molto simpatici. Quindi da parte mia non c’era la minima intenzione di offendere i calabresi e Cutro. […] Quanto alla miseria, non vedo perché ci sia da vergognarsene. Non è colpa vostra se siete poveri ma dei governi che si sono succeduti da secoli, fino a questo compreso».

    Pier Paolo Pasolini incontra i giovani di Cutro

    PASOLINI, CUTRO E UNA CALABRIA FUORI DAL TEMPO

    Era un tentativo di spiegazione, ma anche un manifesto: Pasolini non accettava l’idea di “mettere il velo” sulla realtà. La Calabria del 1959 era povera, dura, fuori dal tempo, eppure, in un Paese che stava correndo verso la televisione, le vacanze in Riviera e la Fiat 600, dire la verità era già un atto di eresia.

    Per altri versi, quel viaggio è una sorta di Viaggio in Italia al contrario, e se Goethe veniva a cercare la luce, Pasolini trova le ombre: dune ingiallite, coste vuote, volti segnati dalla fatica. Nel frattempo il turismo esplode, con gli italiani in vacanza che raddoppiano tra il 1959 e il 1965, rendendo così il reportage una doppia testimonianza, l’istantanea di un Paese che cambia, e l’addio a un mondo che scompare.
    Quaranta anni dopo è Philippe Séclier a provare a rifare lo stesso viaggio, reportage pubblicato da Contrasto, e ancora nel 2024 ci pensa un tedesco, Michael Ernst, per un volume pubblicato da teNeus con foto di Paul Almasy.

    Anche lui, nel percorrere sessantacinque anni dopo “la lunga strada di sabbia” passa da Cutro, scrivendo sulla Frankfurter Allgemeine: «Anche io mi sento come nella scenografia di un film western. Nessuno per strada, voci di uomini rumorose dietro una porta solo accostata, mentre si sporge il viso di una donna di almeno cento anni che chiude rapidamente la persiana quando mi vede guardare verso di lei. Non resterò un’ora in questo posto, anzi nemmeno mezza!». Come dire, la stessa impressione, sessantacinque anni dopo, di un luogo che non appartiene al presente.

    CUTRO E LA SUA TRAGEDIA

    Nel frattempo, Cutro è tornata sulle pagine dei giornali, e non per una polemica letteraria, ma per una tragedia: la strage di migranti, novantaquattro morti, a Steccato di Cutro, nel febbraio 2023. Le stesse coste dove Pasolini vedeva i “banditi” sono diventate la frontiera del dolore di altri “banditi” del mondo contemporaneo.

    C’è qualcosa di spaventosamente coerente in tutto questo. Se nel 1959 Pasolini veniva accusato di aver insultato la Calabria per averne descritto la povertà, nel 2023 quella stessa costa è teatro di un’altra forma di povertà, non più interna, ma globale.
    Forse aveva ragione lui quando scriveva che «la realtà non si può velare» e che il compito di chi guarda, di chi viaggia, scrive o fotografa non è consolare, ma disturbare.
    Sessantacinque anni dopo, la Calabria continua a essere un luogo che «impressiona», per usare le sue parole, solo che adesso, a impressionarci, non è più la parola “banditi”. È la realtà, nuda e disperata, che ancora ci assedia.

    di Attilio Lauria

  • Fuck gentry: Milano capitale immorale

    Fuck gentry: Milano capitale immorale

    Fuck gentry. La scritta è apparsa di fronte a casa mia, in zona Navigli a Milano, circa un anno fa. Per i pochi che, come me, fanno di mestiere gli storici della prima età moderna, gentry è una parola con un significato tecnico piuttosto preciso: designa la piccola e media nobiltà inglese dell’età dei Tudor e degli Stuart, e a lungo gli studiosi si sono aspramente divisi sul ruolo che il suo presunto declino, o la sua altrettanto presunta ascesa, avrebbe avuto nelle rivoluzioni inglesi e nell’ascesa della Gran Bretagna a potenza egemone.
    L’autore del graffito non era però probabilmente interessato a questo dibattito storiografico oggi dimenticato.

    Il riferimento evidente è invece a un termine introdotto dalla sociologia urbana negli anni ’60 del secolo scorso – gentrification – che sta a indicare la trasformazione di quartieri popolari in zone abitate da famiglie benestanti, borghesi. Quindi potremmo tradurre il nostro slogan di apertura con “fotti la borghesia”. Un po’ brutale, poco filologico ma tutto sommato pertinente.

    Beppe Sala, sindaco di Milano

    Rigenerazione è un po’ gentrificazione

    La riqualificazione sociale di aree estese della città ha comportato una mutazione profonda del paesaggio sociale urbano. Quartieri operai o piccolo-borghesi e anche vere e proprie zone industriali, sono diventate aree residenziali ambite, con valori immobiliari crescenti e gli abitanti originari sono stati sostituiti da professionisti e manager.

    Il progetto di rigenerazione, lo slogan delle giunte di centro-sinistra guidate dal sindaco Sala, si è risolto di fatto in una massiccia e brutale gentrificazione. La zona in cui abito, quella della scritta, vicina a università prestigiose come la Bocconi, la Nuova Accademia di Belle Arti, e lo IULM e terra d’elezione della movida, è stata, ed è, particolarmente interessata a questi sviluppi. Quando mi ci sono trasferito, una quindicina di anni fa, il mio condominio di ringhiera “Vecchia Milano” conservava ancora un sentore di Ponte della Ghisolfa: un insediamento prevalentemente popolare, con al centro un cortile nel quale resistevano ancora piccoli laboratori artigianali: una falegnameria, un timbrificio, un carrozziere. Oggi lo stabile è abitato in prevalenza giovani upper-middle class e molti degli alloggi sono affittati a studenti universitari o destinati ai molto remunerativi affitti brevi per i turisti che sempre più numerosi approdano a Milano.

    Vecchio autobus sul ponte della Ghisolfa negli anni Novanta (foto Giorgio Stagni – fonte Wikipedia)

    Nel nostro quartiere molti negozi “di prossimità” hanno nel frattempo chiuso le saracinesche e poco lontano sono sorti nuovi, costosi, complessi residenziali di qualità e appunto, istituzioni come la citata Naba, nell’area dell’ex glorioso istituto sieroterapico, dove vennero messi a punto i vaccini contro la difterite e la “spagnola”. La terziarizzazione e l’imborghesimento – la gentrificazione – sembrano dunque avanzare inarrestabili, in questa come in altre zone della vecchia Milano, dalla Bovisa al Casoretto, ad Affori e così via. Come mostra l’esperienza storica, “fottere la borghesia” non è affatto facile. E, forse nemmeno sempre auspicabile.

    Cara piccola borghesia

    D’altra parte c’è borghesia e borghesia e questo termine, così carico di implicazioni politiche, etiche e perfino estetiche, deve essere sempre maneggiato con prudenza. Dagli anni del boom economico a oggi la borghesia milanese – e quella italiana – è inoltre cambiata profondamente. Innanzitutto ha dilatato le sue dimensioni, e anche per questo ha reclamato sempre più spazio in una città in fondo piccola. Uno spazio che sta andando ben oltre la Cerchia dei Navigli e quella dei Bastioni. Una crescita che oggi è alimentata soprattutto da un flusso di immigrazione “di qualità” proveniente dal resto d’Italia e, in piccola parte, del mondo globale.

    La capacità di cooptazione, di inclusione è stata caratteristica centrale del dinamismo sociale degli anni del boom e anche in stagioni precedenti. Dai tempi, nel caso di Milano, della borghesia “gaddiana”, quella “dei Caviggioni, Perego, Lattuada, Garbagnati, Ghezzi, Corbetta, Trabattoni, Gavirazzi, Santambrogio, Cavenaghi, Freguglia…”. Ma forse si potrebbe risalire anche più indietro, ai tempi in cui la gentry, la classe dominante milanese, aveva effettivamente un carattere nobiliare.

    Carlo Emilio Gadda

    Si trattava però di una nobiltà relativamente aperta, nelle cui fila nel corso dei secoli si erano intrufolati borghesi di successo che erano stati nel complesso ben accolti, dando origine a una élite composita, in parte ancora nobiliare ma sempre più borghese, che nell’ultimo quarto dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento ha saputo tutto sommato gestire piuttosto efficacemente il dinamismo, non solo economico ma anche culturale, di Milano. Lo stesso patriziato milanese aveva dato, ancora nella stagione del secondo dopoguerra, contributi di primissimo piano, basti pensare a un architetto come Alberico Barbiano di Belgiojoso e a un regista come Luchino Visconti.

    La nuova élite

    Ecco qui qualcosa è cambiato. La nuova élite nata con il boom e consolidatasi nei decenni successivi è diversa. Due aspetti mi sembrano meritevoli di particolare attenzione. Innanzitutto questa nuova gentry è meno legata alla città e al territorio, sia per provenienza che per destinazione, rispetto alle vecchie élites, vincolate alla terra prima e poi alla fabbrica, oltre che alle residenze di villeggiatura in Brianza o sui laghi.
    La nuova borghesia che gravita – la parola non è scelta a caso – su Milano, ha “spazi investiti” e “spazi vissuti” molto più ampi ma il suo rapporto con la città è provvisorio, legato per lo più a una fase della vita professionale e famigliare.

    Milano è di frequente solo un tappa di un percorso di mobilità complesso e internazionale. Istituzioni di formazione, pur prestigiose, come la Bocconi o il Politecnico, possono essere un punto di approdo – provvisorio – per molti giovani di altre parti d’Italia, ma per i rampolli della borghesia milanese già consolidata sono solo il punto di partenza verso altri, per più importanti, snodi del network delle città globali: Londra, New York, Amsterdam, Berlino… Milano ha dimostrato di drenare molto efficacemente capitali, anche umani, dal resto d’Italia, ma risente a sua volta della capacità di attrazione esercitata da questi centri sui suoi abitanti più ricchi e dinamici. La nuova élite in una certa misura si limita a transitare per la città, strumentalizzandola.

    Conservatorismo felpato

    A questa nuova apertura globale, fa inoltre riscontro una maggiore chiusura sociale e ambientale di questo universo sociale pur dai contorni sfumati. La componente più affluente della nuova Milano ha più dimestichezza con le realtà europee e mondiali citate che con il mondo al di là delle cerchie che tradizionalmente delimitano la città, il che implica anche una crescente estraneità fra le diverse componenti sociali.

    Finita la grande stagione della mobilità ascendente degli anni 50-70, con l’arruolamento di ampi strati della media e piccola borghesia, la nuova gentry milanese nonostante, o forse proprio in virtù del suo ostentato cosmopolitismo e apertura culturale, presidia in realtà con molta attenzione le frontiere, materiali e immateriali, del suo mondo, allontanando, o quanto meno selezionando attentamente, i nuovi aspiranti. In larga misura la sua autodefinizione è senza dubbio progressista, ma questo progressismo culturale, anche sincero quando si parla di ambiente e diritti della persona, va di pari passo con un conservatorismo felpato ma in sostanza intransigente quando si tratta di diritti sociali.

    Milano e suoi margini

    Tra la gentry e la maggior parte della popolazione – soprattutto quella che è dovuta defluire nelle periferie e nell’hinterland – è cresciuto un sentimento di estraneità, quasi di ostilità, reciproca e profonda. Da un parte un sentimento di superiorità venato di disprezzo e, nel migliore dei casi, di paternalismo, dall’altra, quelli degli sconfitti, allontanati dalla “rigenerazione” promossa dalla speculazione immobiliare, un rancore, o se si vuole un’invidia sociale, alimentata dal senso di declino e dalla mancanza di prospettive. Paradossalmente, la coesione sociale della città appare più fragile oggi che nella turbolenta fase finale dei “trenta gloriosi”, quando pure le contrapposizioni sociali, politiche e ideologiche si erano, anche a Milano, manifestate con molta asprezza.

    Al tempo tuttavia almeno una parte, non piccola, della classe dirigente cittadina, erede di una tradizione illuminista e riformista, ma anche cattolica, sembrava disposta ad ascoltare, e in parte a far proprie, le istanze di rinnovamento ed equità sociale.
    Questo mi sembra, in una sintesi, il panorama che fa da sfondo alle vicende politico-giudiziarie di questi giorni. Al di là del glamour, degli aperitivi, della movida e della moda, e soprattutto al di là della finanza, la vitalità di Milano sembra poggiare su fondamenta piuttosto precarie. La città svolge ancora la sua funzione tradizionale di punto di ancoraggio dell’Italia all’Europa e all’Occidente. Ciò che non riesce più a fare, a differenza del passato, è trasformare questa capacità in una forza propulsiva – economica, ma anche culturale e politica – per il Paese nel suo complesso.

    Vittorio Haijme Beonio Brocchieri

                                                               Docente di Storia Moderna, Dispes Unical

  • Premio a Cagliari per il prof Rossi

    Premio a Cagliari per il prof Rossi

    Sarà il cosentino professore e architetto Armando Rossi a chiudere come ospite principale la rassegna “Neanche gli Dei – Festival Letterario e Incontri d’autore” di Cagliari il 27 luglio prossimo dove il suo Saggio “I Rosoni medievali – significato, simboli, esoterismo e numerologia” (Fontana Editore) è risultato il più apprezzato. Il Festival di Cagliari Neanche gli Dei (il nome è preso in prestito dal titolo di uno dei romanzi di fantascienza di maggior successo di Isaac Asimov, “The Gods Themselves”, del 1972), si prefigge di esplorare e generare definizioni diverse e innovative della realtà e degli strumenti sociali, economici, filosofici, artistici e culturali con particolare attenzione alla sezione “saggistica”.

    Il tema della IV edizione è “Nuovo disordine mondiale” e porterà a Cagliari le opere che possono contribuire a riposizionare sotto una nuova luce i valori esistenziali spaziando dal sociale all’ambiente, dalla pedagogia ai nuovi modelli finanziari, alla psicologia, alla spiritualità, alla geopolitica, riposizionando il pubblico in un ruolo attivo e centrale all’interno del progetto del Festival e delle proprie vite, con l’obbiettivo di consegnare nuovi modelli, nuove visuali e prospettive e strumenti concreti per la rivisitazione dei valori dell’essere.

    Il saggio di Armando Rossi a Cagliari

    Nel saggio di Armando Rossi (che sarà premiato a Cagliari), il rosone diventa una soglia simbolica, un simbolo di pietra che riflette l’ordine cosmico, la perfezione divina e il cammino interiore dell’uomo. Lo scritto accompagna il lettore (non necessariamente tecnico o esperto in medioevo) in un viaggio tra geometrie sacre, numeri carichi di potere simbolico, e tradizioni esoteriche che si intrecciano con l’arte, l’architettura e la spiritualità medievale. Uno degli aspetti più affascinanti del testo, quindi, è proprio l’approccio esoterico: il rosone non è solo un capolavoro architettonico, ma una porta iniziatica. I suoi raggi, le sue suddivisioni, le sue simmetrie parlano il linguaggio degli antichi misteri. Dietro la pietra scolpita si cela una sapienza antica, che unisce elementi della Cabala, dell’ermetismo, della mistica cristiana e della scienza dei numeri. Nel Medioevo non esisteva separazione netta tra scienza, fede e magia.

    I rosoni: un medioevo dove i saperi si incrociano

    Il rosone, allora, diventa specchio del macrocosmo, emblema del tempo ciclico e dello spirito eterno, strumento di contemplazione e veicolo di trasformazione interiore. Ogni capitolo del libro è un tassello che compone un mosaico complesso e suggestivo, capace di parlare al lettore moderno con sorprendente attualità. E forse è proprio questo il cuore dell’opera: la capacità di risvegliare in noi lo sguardo simbolico, di riscoprire l’arte come via per comprendere l’invisibile, e di ritrovare nelle pietre antiche un messaggio per l’uomo contemporaneo. Il saggio sui rosoni non è semplicemente un testo per addetti ai lavori, è uno strumento divulgativo che permette a tutti, appassionati e non di seguire quel percorso iniziatico che ogni autentica opera d’arte ci chiede di compiere.

    Il festival di Cagliari

    Il Festival di Cagliari è una manifestazione unica nel suo genere, che promuove la ricerca e l’approfondimento della percezione del quotidiano, la condivisione del sapere, il valore dell’esperienza umana, elementi che costituiscono un percorso intricato e affascinante, fatto di distopie e fantastico, economia sostenibile e psicologia, medicina, arte e spiritualità. Stabilire nuove interazioni, generare linguaggi innovativi, creare un presidio culturale in grado di sviluppare una comunità, consapevole del potere e del valore della conoscenza. Questi gli obbiettivi e la filosofia del festival, una manifestazione fuori dagli stereotipi, fondata sulla visione di una realtà orientata sul confronto e sulla partecipazione, senza filtri, pregiudizi o discriminazioni.

  • Giannino Losardo: il coraggio, la resistenza e la lezione

    Giannino Losardo: il coraggio, la resistenza e la lezione

    È la sera del 21 giugno 1980, una tiepida notte d’estate sulla costa tirrenica calabrese. Giovanni Losardo, 53 anni, conosciuto da tutti come “Giannino”, guida la sua Fiat 126 azzurra lungo la statale 18, al chilometro 298,8, nei pressi di Cetraro, in provincia di Cosenza. Ha appena lasciato il municipio, dove ha partecipato a una seduta del consiglio comunale. Sono circa le dieci della sera, quando l’oscurità della strada viene squarciata da una raffica di proiettili. Due killer, forse a bordo di una moto di grossa cilindrata o di un’auto, affiancano la sua vettura. Gli spari risuonano nella notte, ferendo gravemente Losardo. In un disperato tentativo di salvarsi, esce dall’auto, ma un colpo di pistola lo colpisce mortalmente. Trasportato d’urgenza all’ospedale di Paola, muore il pomeriggio successivo. Prima di spirare, pronuncia parole che pesano come un macigno: «Tutta Cetraro sa chi mi ha sparato». Queste parole, riferite a un maresciallo dei carabinieri accorso sul posto, sono un’accusa diretta, un grido che implica una verità nota alla comunità, ma soffocata dall’omertà.

    Giannino Losardo

    Chi era Giovanni Losardo, e perché la sua morte rappresenta un capitolo così tragico e significativo nella storia della Calabria? Per rispondere, dobbiamo immergerci nel contesto storico, sociale e culturale della Calabria degli anni ’70 e ’80, un’epoca di profonde trasformazioni e conflitti, in cui la ‘ndrangheta stava consolidando il suo potere, mentre figure come Losardo rappresentavano una resistenza ostinata a un sistema di oppressione e corruzione.

    Giannino Losardo, un uomo contro il sistema

    Giovanni Losardo, nato e cresciuto a Cetraro, era un uomo semplice ma di straordinaria determinazione. Militante del Partito Comunista Italiano (PCI), in un periodo in cui l’appartenenza politica in Calabria non era solo una scelta ideologica, ma spesso un atto di coraggio, Losardo ricopriva due ruoli cruciali: era consigliere comunale a Cetraro e capo della segreteria della Procura di Paola. Non era un politico di facciata: Losardo agiva con coerenza, denunciando le collusioni tra criminalità organizzata e politica locale, opponendosi alle speculazioni edilizie che arricchivano i clan e monitorando, dalla sua posizione in Procura, le fragilità di un sistema giudiziario spesso vulnerabile alle pressioni mafiose.

    La sua figura era scomoda in un contesto dominato dalla paura e dall’omertà. In un’epoca in cui la ‘ndrangheta non si limitava a estorsioni o traffici illeciti, ma si stava trasformando in una potenza economica, Losardo rappresentava una minaccia diretta. La sua azione politica e professionale era un ostacolo per chi voleva mantenere il controllo su Cetraro e sul Tirreno cosentino, un’area strategicamente importante per il commercio ittico, la speculazione edilizia e i traffici di droga.

    La Cetraro del clan Muto

    Gli anni ’70 e ’80 segnano una svolta per la ‘ndrangheta, che da fenomeno rurale si trasforma in un’organizzazione criminale strutturata, capace di infiltrarsi nei tessuti economici e istituzionali. A Cetraro, per esempio, il clan Muto, guidato da Franco Muto, noto come “il re del pesce”, stava consolidando il suo dominio. Il mercato ittico, pilastro dell’economia locale, era sotto il controllo del clan. Parallelamente, la speculazione edilizia, alimentata dalla crescita turistica della costa tirrenica, offriva opportunità di profitto enormi, spesso in sinergia con amministratori locali compiacenti.

    Franco Muto negli anni ottanta

    Questo periodo è caratterizzato da una profonda tensione sociale. La Calabria, e in particolare il Tirreno cosentino, era una terra di contrasti: da un lato, la bellezza naturale e il potenziale economico della costa attiravano investimenti; dall’altro, la povertà endemica, l’arretratezza infrastrutturale e la disoccupazione spingevano molti a piegarsi al potere mafioso, percepito come un’alternativa al vuoto dello Stato. La ‘ndrangheta non si limitava a controllare il territorio con la violenza: costruiva consenso attraverso il clientelismo, offrendo lavoro e protezione in cambio di fedeltà. In questo contesto, l’omertà non era solo paura, ma un meccanismo di sopravvivenza sociale, radicato in una cultura di sfiducia verso le istituzioni.

    Quella sera del 21 Giugno

    La sera del 21 giugno 1980, Losardo diventa vittima di un’esecuzione premeditata. I dettagli dell’agguato restano avvolti nell’incertezza: i killer agiscono con precisione, ma non è chiaro se si muovano su una moto o in macchina. Gli spari, il tentativo di fuga, il colpo finale: tutto si consuma in pochi istanti. Le parole pronunciate da Losardo prima di morire – «Tutta Cetraro sa chi mi ha sparato» – sono un’accusa che va oltre i responsabili materiali. Implicano un sistema di complicità radicato nella comunità, dove i colpevoli non sono estranei, ma figure note, protette dall’omertà.

    Losardo chiede di parlare con l’amico avvocato Francesco Granata, ma, secondo alcune versioni, non riesce a dire nulla di significativo. Questo dettaglio, mai chiarito, alimenta sospetti: cosa voleva comunicare Losardo? E perché le sue parole non hanno trovato riscontro? La risposta potrebbe trovarsi nel clima di sfiducia che permeava le istituzioni locali, dove la ‘ndrangheta esercitava pressioni dirette e indirette.

    Peppino Valarioti, esponente del Pci che pochi giorni prima di Losardo venne ucciso dalla ‘ndrangheta a Rosarno per la sua militanza politica

    Pochi giorni prima veniva ucciso a Rosarno Peppino Valarioti, anche lui esponente del Pci

    L’omicidio di Losardo non è un caso isolato. Pochi giorni prima, l’11 giugno 1980, un altro esponente del PCI, Peppino Valarioti, era stato ucciso a Rosarno, in un altro comune calabrese. Entrambi i delitti, rimasti impuniti, segnano un periodo di estrema violenza, in cui la ‘ndrangheta colpiva chi rappresentava una minaccia al suo potere. Losardo e Valarioti erano simboli di una Calabria che sognava giustizia e trasparenza, e la loro eliminazione era un messaggio chiaro: nessuno poteva sfidare l’egemonia mafiosa.

    Il funerale di Losardo a Cetraro

    Le indagini: un percorso minato

    Le indagini sull’omicidio di Losardo iniziano immediatamente, ma si scontrano con ostacoli insormontabili. Il sospetto principale ricade sul clan Muto. Sono indagati presunti esecutori materiali – Francesco Roveto, Antonio Pignataro, Franco Ruggiero e Leopoldo Pagano – ma il processo, trasferito a Bari per “legittima suspicione”, si conclude nel 1986 con l’assoluzione di tutti gli imputati per mancanza di prove. Le indagini sono segnate da gravi lacune: nessuna perizia balistica viene effettuata sui bossoli e i proiettili ritrovati, un errore denunciato anni dopo dal figlio di Losardo, Raffaele. Nel 1991, un’ispezione del magistrato Francantonio Granero presso la Procura di Paola rivela un quadro inquietante: sfiducia nella magistratura locale, sospetti di collusioni, omissioni. La relazione di Granero, un documento di oltre 300 pagine, denuncia le fragilità di un sistema giudiziario permeabile alle pressioni mafiose, ma non porta a sviluppi concreti. Questo fallimento investigativo riflette il contesto sociologico dell’epoca.

    Franco Muto oggi. L’immagine è tratta dall’inchiesta-documentario della giornalista Giulia Zanfino

    L’eredità di Giannino Losardo e la lotta per la verità

    La morte di Giovanni Losardo ha segnato profondamente la comunità di Cetraro e la Calabria intera. La sua eliminazione non è stata solo un omicidio, ma un atto di intimidazione collettiva, volto a soffocare ogni voce di dissenso. Tuttavia, la sua eredità non è svanita. Nel 2024, il docufilm “Chi ha ucciso Giovanni Losardo?” di Giulia Zanfino ha riportato l’attenzione su questa storia, denunciando l’omertà e i presunti insabbiamenti che hanno impedito di fare luce sul caso. Il film non è solo un tributo alla memoria di Losardo, ma un invito a riflettere sul prezzo della resistenza in un contesto mafioso.

    Nel luglio 2025, una svolta dà nuova speranza. La Procura di Paola, guidata dal procuratore Domenico Fiordalisi, annuncia la riapertura delle indagini, spinta da una testimonianza del figlio di Losardo, Raffaele, rilasciata durante “Chi l’ha visto?” su Rai 3, e dalle pressioni della società civile. Un fascicolo contro ignoti viene aperto, con l’obiettivo di esplorare nuove piste.

    Il macigno dell’omertà come rappresentazione culturale

    Un’analisi socio-antropologica: il peso dell’omertà e la resistenza

    L’omicidio di Losardo è emblematico di una Calabria schiacciata dal potere mafioso, ma anche di una resistenza che, pur pagando un prezzo altissimo, ha lasciato un segno. Il caso riflette la complessità di una società in cui la ‘ndrangheta non era solo un’organizzazione criminale, ma un sistema culturale e sociale che permeava la vita quotidiana. L’omertà, spesso vista come semplice paura, era in realtà un meccanismo di controllo sociale, radicato in una sfiducia storica verso lo Stato e le sue istituzioni. In questo contesto, figure come Losardo rappresentavano un’eccezione: la loro azione era una sfida non solo alla ‘ndrangheta, ma a un intero sistema di valori basato sul compromesso e sulla rassegnazione. La riapertura delle indagini nel 2025 è un segnale di cambiamento. La società civile, sostenuta da media e documentari, sta rompendo il muro dell’omertà, chiedendo giustizia non solo per Losardo, ma per tutte le vittime della ‘ndrangheta. Tuttavia, la strada è ancora lunga. La Calabria di oggi, pur diversa da quella degli anni ’80, porta ancora le cicatrici di quel passato: la criminalità organizzata resta una presenza insidiosa, e la fiducia nelle istituzioni è fragile.

    Il murales che ricorda Giannino Losardo

    Giannino Losardo, una storia di coraggio e speranza

    La storia di Giovanni Losardo è quella di un uomo che ha scelto di non piegarsi, pagando con la vita il suo impegno per una Calabria libera dalla paura e dalla corruzione. Il suo omicidio, rimasto senza colpevoli, è un monito sulla fragilità della giustizia in contesti dominati dalla criminalità organizzata. Ma è anche una storia di resistenza, che continua a ispirare chi lotta per la verità. La riapertura delle indagini rappresenta una speranza, non solo per trovare i responsabili, ma per chiarire il contesto storico e politico di quel delitto: chi proteggeva chi? Quali connivenze hanno permesso che la verità restasse sepolta per oltre 40 anni? La memoria di Losardo è un invito a non arrendersi, a costruire una società in cui il coraggio non sia un’eccezione, ma la regola.

  • Quando un Mig cadde sulla Sila

    Quando un Mig cadde sulla Sila

    Quei boschi non sono solo un posto per le vacanze. Oltre alle storie antiche, legate ai luoghi e alle genti che li abitano, c’è pure un fatto di cronaca rimasto in parte misterioso e annodato a una delle grandi tragedie di questo Paese: la strage di Ustica. È la vicenda del Mig libico precipitato in Sila, sulla Timpa delle Magare, che oggi raccontiamo in un podcast

  • Una generazione cancellata dalla Calabria

    Una generazione cancellata dalla Calabria

    La piccola borghesia da cui provengo, che è quella che Brunori Sas ha ben descritto in una sua canzone, è la borghesia che non ce l’ha fatta. Non è riuscita a fare il salto di qualità che le aveva promesso la falsa ideologia di uno sviluppo infrangibile verso le praterie dell’abbaglio capitalista. È quella che ha edificato in centro, sì, ma appena fuori dal centro che conta. La borghesia che continua a fare della Calabria il regno dei “vorrei, ma non posso”, tradita ed orfana di certe velleità che ha comunque riversato, di generazione in generazione, sui figli come un imprinting.

    Quale Eldorado?

    La generazione di quelli come me, educati a questo inganno, è cresciuta nel velleitarismo di essere attesa dall’Eldorado vagheggiato dai propri genitori. Ma quell’Eldorado lo avremmo dovuto cercare ovunque tranne che in Calabria. Perché qui, dove oggi sono tornato, niente c’era e niente ci sarebbe stato.
    Avremmo dovuto emigrare al Nord in sella a destrieri di risentimento e disprezzo. Tutti figli di quel senso di vergogna ereditato e interiorizzato da genitori che si sono arresi – se non accomodati – al processo di abdicazione delle proprie radici e di quella cultura contadina da cui tutti proveniamo. Qualcosa che il Boom economico degli anni Sessanta era chiamato a spazzare via.

    Radici nella plastica

    Un abbraccio mortale a pattern culturali, antropologici e sociali estranei che, in enclavi come Cardeto, o Pentedattilo o Roccaforte del Greco, avevano condotto alla sistematica sostituzione del rame e della terracotta con la plastica. Una nuova deificazione del benessere legato a un modernismo che solleticava i più sordidi istinti di invidia sociale. L’erba – o la plastica – del vicino era sempre più verde e sarebbe toccata anche a noi. Così mi ha raccontato un mastro zampognaro aspromontano descrivendo lo spasimo di sua madre verso i nuovi utensili sfoggiati dalla vicina modernista.

    Paesi e radici chiusi come reliquie nei musei

    Identità in estinzione

    Rame e terracotta, però, non erano simboli di un passato straccione da dimenticare. Erano elementi distintivi del nostro genoma di popolo che lentamente – e manco troppo – venivano relegati in teche da museo etnografico, col loro numero di serie da esemplare in estinzione. Fin quando turismo esperienziale e marketing territoriale li avevano elevati allo status di “marcatori identitari”, una sorta di olio crismale con cui consacrare miracolose strategie di sviluppo territoriale. Più supposte che reali, tanto per rimanere in tema di quote WWF.

    C’è una generazione, con competenze sofisticate, che ha lasciato la Calabria

    Calabria: una generazione non c’è più

    Eradicazioni, perdite, sostituzioni culturali unite a fenomeni come la carenza di lavoro, l’ineducazione alla sua cultura, deficit infrastrutturali tramutatisi in mutilazioni di competitività, narrazioni ideologizzate e criminalizzanti hanno provocato la perdita della mia generazione.
    Invece di origini e radici, ci hanno trasmesso un senso di colpa e arrendevolezza già appartenuto ai  nostri genitori: per loro si è manifestato con la violenza dello stigma; per noi si è annacquato nel grottesco, se non nel folkloristico, da ritrovare una o due volte l’anno. Il tempo dedicato al ritorno del fuorisede da su.

    Trenta e quarantenni in Calabria non ci sono più e, se ci sono, si tratta di appartenenti a due categorie: quelli che non sono potuti partire e i romantici che hanno fatto della vocazione al riscatto della propria terra una missione impossibile. Una vocazione al martirio.

    Eterna nostalgia e mezze verità

    Un fenomeno speculare a quello verificatosi nella Calabria greca, con esiti ancora più disastrosi, quando gli anziani, apostrofati come stupidi, parpatuli e paddhechi, di fronte al tramonto del greco di Calabria come lingua veicolare, decisero di smettere di parlarlo per dare una nuova chance di vita ai propri figli, che non sarebbero così stati condannati a un destino da caprari.

    Il biennio di insegnamento al liceo classico della mia città mi ha reso evidente questo sradicamento poi trasmesso alle generazioni successive. Davanti a me c’erano ragazzi privi di memoria e coscienza storica. Poco o nulla conoscevano del passato del proprio popolo o territorio, convinti anche loro di essere capitati per errore in una terra di mezzo che presto avrebbero abbandonato per sempre.
    Una terra da dimenticare, senza opportunità, per cui non vale la pena di combattere, ma per la quale tenere vivo un senso di eterna nostalgia, straziati tra il dover andare e l’eco del bisogno di tornare.
    In tutto questo nessuno si è reso conto che le mezze verità a furia di raccontarle, sostituiscono le vere verità.

  • Genocidio: la parola vietata

    Genocidio: la parola vietata

    Nel frastuono assordante della guerra e nel pianto silente di chi ha perso tutto, un dibattito tormentato scuote le coscienze all’interno di Israele. Dalle aule universitarie e dai centri di ricerca, voci accademiche si levano per confrontarsi con una delle questioni più angoscianti del nostro tempo: l’ipotesi di genocidio nei confronti del popolo palestinese. È una discussione che lacera, che costringe a guardare in faccia verità scomode, avvolta nel pesante sudario del dolore per le vittime innocenti, sia israeliane che palestinesi. Gli eventi del 7 ottobre 2023 hanno inferto una ferita profonda, riaccendendo antiche paure e inaugurando nuovi orrori, rendendo ancora più urgente la necessità di comprendere e analizzare.

    Anche dentro Israele si comincia a parlare di “genocidio” in Palestina

    All’interno del mondo accademico israeliano, le posizioni divergono radicalmente. Un numero significativo di studiosi, inclusi noti “Nuovi Storici”, non esita a parlare di “genocidio”, “pulizia etnica” o di “aspetti genocidari” nelle azioni di Israele in Palestina. Tra questi, Ilan Pappé sostiene da tempo che nel 1948 sia avvenuta una “pulizia etnica” della Palestina, introducendo già nel 2006 il concetto di “genocidio incrementale” per descrivere le politiche successive di Israele. Vede negli eventi attuali la continuazione di una logica eliminazionista. Anche Avi Shlaim, altro influente Nuovo Storico, definisce le azioni israeliane a Gaza “pulizia etnica e genocidio”, inquadrandole in decenni di occupazione e nelle ripercussioni della Nakba del 1948. Per Shlaim, il blocco degli aiuti umanitari a Gaza, unitamente alle “dichiarazioni genocidarie di leader israeliani e alla vastità delle vittime”, ha rappresentato un punto di svolta.

    I bombardamenti di Israele hanno causato migliaia di morti tra i bambini

    Studiosi israeliani lanciano l’allarme

    Omer Bartov, stimato studioso dell’Olocausto, si è espresso a favore dell’applicazione del termine “genocidio” a Gaza), citando “la scala delle uccisioni e mutilazioni, e l’imposizione deliberata di condizioni di vita calcolate per provocarne la distruzione fisica”. Bartov critica l’uso “perverso” della memoria dell’Olocausto per giustificare tali azioni, affermando che la mentalità osservata in alcuni soldati israeliani a Gaza gli ricordava quella dei soldati della Wehrmacht in Russia. Presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, Amos Goldberg, anch’egli studioso dell’Olocausto, ha dichiarato esplicitamente: Sì, questo è genocidio” riguardo a Gaza. Sostiene che non sia necessario un paragone con Auschwitz per parlare di genocidio, indicando come prove “la completa distruzione di Gaza, le uccisioni indiscriminate, la carestia deliberata e l’annientamento delle élite” ed evidenziando “un’atmosfera radicale di disumanizzazione dei palestinesi” nella società israeliana.

    Il suo collega, lo storico dell’Olocausto Daniel Blatman, rincara la dose, affermando che Israele  sta “bombardando a morte bambini affamati” a Gaza e definendo il “Piano dei Generali” israeliano “un terribile crimine di guerra che spazia dalla pulizia etnica al genocidio”. Raz Segal, studioso di genocidio, è stato tra i primi a etichettare la guerra di Israele a Gaza come un “caso da manuale di genocidio“, basandosi sulle dichiarazioni di funzionari israeliani e su atti come uccisioni di massa e politiche di affamamento.

    Negare il genocidio di Israele in Palestina

    Diametralmente opposta è la posizione di un altro gruppo di accademici, che contesta fermamente l’etichetta di genocidio. La loro analisi si fonda spesso su un’interpretazione legale restrittiva della Convenzione sul Genocidio del 1948, la quale richiede la prova di un “intento specifico” (dolus specialis) di distruggere un gruppo in quanto tale. Molti sostengono che, per quanto distruttive, le azioni di Israele manchino di questo intento specifico e che le dichiarazioni ufficiali possano essere interpretate diversamente. Un argomento frequente è che la campagna militare israeliana miri ad Hamas, e non al popolo palestinese nel suo complesso, e vengono citati gli sforzi per minimizzare i danni ai civili come prova contraria a un intento distruttivo.

    Alcuni, pur ammettendo la possibilità di crimini di guerra, li distinguono nettamente dal genocidio. Israel W. Charny, ad esempio, considera le azioni di Hamas del 7 ottobre come “genocidio” e la risposta di Israele come “guerra” con molte vittime civili, suggerendo che Israele debba evitare un “picco genocidario”. Il professore di diritto internazionale Amichai Cohen, pur riconoscendo la “retorica odiosa proveniente da Israele” come un “punto debole”, ritiene problematica l’accusa di genocidio, suggerendo che le azioni di Israele possano essere spiegate da ragioni tattiche o strategiche.

    Lo sterminio della popolazione palestinese evoca la tragedia dell’Olocausto

    Lo spettro dell’Olocausto incombe sul dibattito

    L’ombra dell’Olocausto si proietta in modo complesso e doloroso su questo dibattito. Per studiosi come Bartov e Goldberg, la sua memoria è un monito universale: il “mai più” deve applicarsi a tutti, e le atrocità subite non possono giustificare l’inflizione di nuove sofferenze. Essi vedono nell’orrore del passato un imperativo etico a denunciare la disumanizzazione. Altri, invece, e più diffusamente nel discorso pubblico israeliano, invocano l’unicità dell’Olocausto per sostenere che le azioni di Israele non possono essere genocidarie, una prospettiva contestata da chi, come Goldberg, ribadisce che “Gaza non ha bisogno di essere Auschwitz per essere genocidio“.

    Le voci critiche vengono censurate

    Il contesto istituzionale in cui questo dibattito si svolge è tutt’altro che sereno. Pesanti accuse di “complicità istituzionale” delle università israeliane con le politiche statali e militari emergono da più fronti. Si descrive un ambiente in cui il “nazionalismo” sarebbe diventato l’”unico punto di riferimento”, limitando il pensiero critico e la discussione sulla sofferenza palestinese, spesso liquidata come “danno collaterale inevitabile”. La libertà accademica appare sotto forte pressione, con numerosi casi documentati di docenti e studenti, soprattutto palestinesi, sottoposti a procedimenti disciplinari, sospensioni e persino arresti per aver espresso posizioni critiche. Figure come la professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian, sospesa dall’Università Ebraica per aver definito la guerra a Gaza un genocidio, e la professoressa Nurit Peled-Elhanan, sospesa per aver fatto riferimenti alla violenza coloniale, sono diventate emblematiche di un clima che scoraggia il dissenso. Nonostante ciò, voci critiche continuano a farsi sentire, sia individualmente sia attraverso iniziative collettive.

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    Anche dentro Israele cominciano a crescere le proteste

    In questo scenario straziato, è fondamentale ribadire che ogni vita spezzata, ogni sogno infranto, ogni lacrima versata, da qualunque parte provenga, rappresenta una tragedia immane. L’empatia non può conoscere confini. La sofferenza dei civili palestinesi a Gaza, sotto i bombardamenti, privati di beni essenziali, è un grido che interpella la coscienza del mondo, così come il dolore delle famiglie israeliane colpite dagli attacchi del 7 ottobre e l’angoscia per gli ostaggi meritano ascolto e profondo rispetto.

    La pace giusta necessaria ma lontana

    Il cammino verso una pace giusta appare oggi più impervio che mai. Tuttavia, nel coraggio di chi, anche all’interno della società israeliana, osa interrogarsi, criticare e sfidare le narrazioni dominanti, si può forse scorgere un barlume di speranza. Ascoltare queste voci, comprendere la complessità delle loro argomentazioni e riconoscere il peso del loro tormento è un passo necessario per chiunque voglia tentare di navigare questo doloroso abisso, nella speranza che un giorno si possa spezzare la spirale di violenza e costruire un futuro in cui il “mai più” sia davvero una promessa universale.

                                                                                                     Tommaso Scicchitano

  • Cecilia Faragò, l’ultima strega del Regno di Napoli

    Cecilia Faragò, l’ultima strega del Regno di Napoli

    Quella di Cecilia Faragò è una storia in cui si intrecciano pregiudizi, credenze popolari, timore del soprannaturale, manipolazione della verità e ignoranza. È la storia di una di quelle donne che, ieri come oggi, fanno paura per la volontà di affrancarsi dal ruolo imposto loro dalla società e di uscire dalle gabbie in cui sono state confinate.
    Calabria, seconda metà del Settecento. Nell’entità amministrativa borbonica della Calabria Ultra, precisamente nel piccolo centro di Soveria Simeri – in un territorio che doveva rientrare in quello dell’antica (e storicamente dai contorni leggendari) Trischene – si svolse un processo destinato a imprimere un cambiamento nelle sorti del Regno di Napoli, e con esso dell’Europa intera.

    Mentre altrove si viveva il Secolo dei Lumi – per dirne una, nel 1763 usciva il Trattato sulla tolleranza di Voltaire, scritto fondamentale sulla libertà di credo e di opinione in cui una buona volta veniva definito “barbaro” il diritto all’intolleranza –, a Soveria Simeri una donna, esperta di erbe officinali, veniva accusata di essere una magara, una strega, una di quelle figure che da sempre suggestionano l’immaginario collettivo dei popoli preda della superstizione.

    Le bramosie del clero locale

    Nata fra il 1710 e il 1712 a Soveria Simeri o nella vicina Zagarise, entrambi comuni della Sila Catanzarese, Cecilia Faragò intorno ai vent’anni era andata in sposa a Lorenzo Gareri, piccolo proprietario terriero di Soveria. I due ebbero due figli: Sebastiano, indirizzato presto alla vita conventuale, e Andrea, cagionevole di salute e morto prematuramente per una malattia che i mezzi e, ancor di più, i saperi del tempo non riuscirono a curare. Proprio dalla scomparsa del secondogenito principiarono le vicissitudini della Faragò, già vedova, e la strada che la portò a ricorrere prima alla Regia udienza provinciale di Catanzaro e poi alla Gran Corte della Vicaria di Napoli per reclamare i suoi diritti.

    Questo è quanto accadde. Nelle penose ore del lutto, Cecilia Faragò fu indotta con l’inganno a siglare un contratto col quale il figliolo appena estinto disponeva che tutte le sue proprietà – un cospicuo patrimonio di terreni lasciatogli in precedenza dal padre – andassero a un prete del posto.
    Non intenzionata a soccombere alla truffa che la avrebbe condannata a una vita di stenti, la Faragò si recò al Palazzo di Giustizia, riuscendo in un primo momento ad avere la meglio. Ma i due prelati, bramosi di non mollare gli averi della vedova, non si diedero per vinti. Facendo leva sul loro ruolo e potere sociale, presero a far circolare delle voci per macchiare la reputazione della donna e mettere in dubbio la sua credibilità, colpendola sul lato morale quanto su quello economico.

    «È alleata del diavolo dagli oscuri poteri. […] È stata iddha, è andata alla stregheria e ha fatto la magarìa, quella della polvere della morte: Purbara ’e mortu ti veni a pigghiara, ti vegnu a jettara e fin’a ra morta ti vogghiu levara».

    Le accuse a Cecilia Faragò e il suo storico processo

    In buona sostanza, i preti diffusero la voce che Cecilia Faragò non fosse una banale erborista, ma una magara, una lucifera, una pericolosa fattucchiera. Insinuarono che, a causa dei suoi dissapori con l’avido clero locale, avesse già cagionato il malore e poi il decesso di un sacerdote, Antonio Ferrajolo – morto per cause non accertate –, ricorrendo ai suoi misteriosi intrugli e incantesimi. Un castello di accuse costruito sulle fondamenta del pregiudizio e della superstizione, ma tutt’altro che fragili in certi contesti sociali, lontani dai luccichii della ragione. E così nessuno più si recò dalla Faragò, tacciata di essere capace di produrre filtri d’amore e magarìe d’ogni sorta. Nessuno acquistò più i suoi oli profumati, i suoi infusi e unguenti di erbe, per paura di fare la fine del Ferrajolo.

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    Una statua in memoria di Cecilia Faragò

    Presto incarcerata, la presunta strega dimostrò un coraggio e una tenacia invidiabili. Conscia dell’ingiustizia riservatale e dei propri diritti nonostante la totale assenza di studi, affidò la sua difesa a un giovanissimo avvocato, il ventenne Giuseppe Raffaelli, che con una brillante arringa dimostrò l’inesistenza della stregoneria (la perorazione è raccolta da Mario Casaburi nel libro La fattucchiera Cecilia Faragò. L’ultimo processo di stregoneria e l’appassionata difensiva di Giuseppe Raffaelli). Il legale convinse la corte della innocenza della sua assistita e, allo stesso tempo, della cupidigia dei due reverendi artefici di quelle ignobili calunnie.

    La stregoneria non è reato

    L’affaire Faragò valicò presto i confini del paesello del Catanzarese e conquistò una notevole eco. Diede così occasione al re di Napoli Ferdinando di Borbone di abolire per sempre il reato di stregoneria e fattucchieria, una scelta sapiente che presto adottarono altri Paesi del Vecchio Continente.
    Il finale della vicenda di Cecilia Faragò ha un sapore agrodolce. Prosciolta pienamente dall’accusa di maleficium, la donna non riuscì comunque a rimettere le mani su tutto il suo legittimo patrimonio e si spense in povertà. Innalzò però se stessa a icona di resistenza contro le violenze e le sopraffazioni, emblema di indipendenza e di emancipazione femminile, paladina di ogni donna costretta a nascondersi dietro una posizione non scelta ma assegnatole forzatamente dalla società.

    Cecilia Faragò: quando l’arte vince l’oblio

    La sua storia di coraggio e di difesa della propria libertà ha ispirato libri e monologhi teatrali, riscoperta dalle arti dopo secoli di oblio. Per lunghissimo tempo, infatti, la faccenda Faragò è stata un tabù, «una ferita irrisolta per la comunità» scrive Emanuela Bianchi, attrice, fondatrice nel 2004 della compagnia teatrale Confine incerto e autrice dello spettacolo teatrale LaMagara e del libro L’ultima strega (Oligo, da cui sono tratte le citazioni del presente testo), anche nel luogo in cui si svolsero gli avvenimenti, Soveria Simeri.

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    Uno scatto dallo spettacolo “LaMagara”

    Finalmente riemersa, la storia di Cecilia Faragò è stata anche oggetto di tesi di laurea, in specie di studenti delle facoltà di Giurisprudenza e di Scienze della comunicazione.
    Di Cecilia Faragò, infine, dal 2001 porta il nome un parco pubblico a Soveria Simeri, comune in cui da qualche anno si svolge una rievocazione storica che coinvolge molti giovani volontari del paese, artigiani, musicisti e ballerini folk e un po’ l’intera popolazione. La storia di una comunità illuminata che si riappropria di un pezzo della propria memoria, che restituisce la voce a una sua figura storica: «la voce di un passato che bussa alle nostre mura, fino a sgretolarle».