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  • Dal fango del Morrone alla serie B del Rende: l’epopea del rugby cosentino

    Dal fango del Morrone alla serie B del Rende: l’epopea del rugby cosentino

    È un gioco strano, in cui sembra che la palla voglia andare dalla parte contraria a quella dove corrono gli uomini. I giocatori si lanciano, carichi di fatica e sudore e lei, la palla – sbagliata perché ovale – passa di mano in mano. Ma resta sempre indietro. Però alla fine giunge dove gli uomini volevano portarla: oltre la linea di meta.
    È il rugby, bellezza.
    Alcune decine di anni fa da queste parti, tutti gli altri davano calci a un pallone o al più tentavano di centrare un canestro. Ma qualcuno si incantava a guardare gruppi di omaccioni che sembrano azzuffarsi allegramente. E decideva che quello sarebbe stato il suo gioco, per sempre.

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    Giovani atleti in azione

    Tonino Mazzuca: il pioniere del rugby a Cosenza

    L’avventura comincia agli inizi degli anni Settanta, quando il compianto Tonino Mazzuca, che studiava a Perugia (dove il rugby era già di casa) porta la passione per il  rugby a Cosenza.
    Attorno a lui, lentamente si aggregano ragazzi, richiamati dalla novità, forse anche dalla diversità di questo sport. Per loro anche un modo per andare contro corrente.
    Tra i primissimi, Enzo Paolini, avvocato con un passato di militante radicale, vicino a Giacomo Mancini e oggi tra le altre cose anima del Premio Sila. Tutte vite, le sue, attraversate senza levarsi la maglietta sporca del fango di chissà quanti pacchetti di mischia. Già: se sei stato in una partita di rugby a Cosenza come altrove, se correndo in avanti hai passato la palla all’indietro, quel modo di vivere te lo porti dentro in ogni cosa.

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    Una mischia spettacolare degli atleti cosentini

    Gli esordi al Morrone del rugby cosentino

    Appena dopo arrivano gli altri, fino a che si forma una squadra in grado di partecipare ai tornei.
    Ma niente è facile in quegli anni: il campo dove ci si allena è il vecchio stadio Morrone, sede del Cosenza nel cuore della città, a via Roma.
    I ragazzi della palla ovale sono paria. I calciatori, che gli cedono il campo solo a tarda sera, li guardano con stupore e una certa ironia.
    Tutto questo significa partite quasi al buio e docce fredde negli spogliatoi. Ma a vent’anni a queste cose si bada poco. Magari le si ricorda dopo, in una serata alla Club house della squadra di rugby, dedicato allo storico pilone Ciccio Macrì, «amico straordinario, atleta dalla grande forza fisica molto temuto dagli avversari», racconta Massimo Ferraro.

    Club house: il luogo della memoria

    La Club house è il luogo dell’incontro e della memoria. È un piccolo angolo d’Inghilterra nel cuore del sud Europa, un pub molto british vicino al Marulla. Alle pareti i trofei, le magliette storiche, le foto con le facce da ragazzi di quelli che oggi sorridono in quel luogo, con i capelli e le barbe ingrigite.
    L’occasione dell’incontro è una partita di calcio, ma ogni scusa va bene per stare assieme e mantenere il fuoco della passione. Oggi sono professionisti, ma il fango dei campetti e il furore delle mischie non si scordano. Anzi, si celebrano tutti i giorni come un impegno quasi cavalleresco.
    Non si vedrà mai un rugbista fare quel che accade normalmente nei campi di calcio, dove i giocatori si rotolano per terra dopo un blando scontro e simulano gravi infortuni, salvo riprendere baldanzosamente la partita poco dopo. È, per dirla senza esagerazioni, una questione d’onore più ancora che di correttezza sportiva.

    Tanti anni dopo: la Club house Macrì piena zeppa di persone (e ricordi)

    Uno sport politico

    Infatti il rugby ha un’etica che va oltre il gesto atletico: vincere è ovviamente importantissimo, ma di più lo sono il bel gesto, il sacrificio per la squadra, la lealtà.
    È una visione quasi “politica” dello sport che va oltre la banalità decoubertiana del “partecipare” ed esalta invece l’essere parte di un gruppo mettendo da parte le tentazioni di protagonismo.
    Perché il rugby è uno sport di sacrificio. Passare la palla indietro significa condividere una strategia, aver fiducia nel gruppo, valorizzare i talenti di tutti, partecipare alla fatica e alla vittoria, senza eroi, ma tutti uguali combattenti.

    Il rugby a Cosenza nel ricordo di Civas

    Nella Club House intanto sul maxischermo prosegue la partita di calcio e dalle cucine arriva Pino Falbo, detto Civas.
    Nessun riferimento al whisky: il suo soprannome è quel che resta dello storpiamento del nome di un famoso giocatore straniero particolarmente bravo nella touche, cioè nella rimessa in campo laterale della palla, pratica cui Pino eccelleva.
    «Ho iniziato a giocare a rugby perché piaceva a mia madre», dice ridendo Pino Civas mentre ha appena finito di friggere una padella omerica di patate ‘mpacchiuse per il gran numero di commensali. Pino sarà anche stato bravo con la palla ovale, ma in cucina non scherza per niente.

    Una partita di rugby anni ’70 in città

    Per amore di mammà

    Certo, è difficile immaginare una madre che si appassiona a un gioco così ruvido. Eppure «a lei piacevano le mischie», cioè quel mucchio di uomini tra i cui piedi a un certo punto sgusciava una palla strana e qualcuno la prendeva per cominciare a correre. Insomma Pino Civas Falbo ha cominciato per amore della mamma a «mettere la testa dove altri non avrebbero osato mettere nemmeno i piedi», come disse il rugbista francese Jean-Pierre Rives per descrivere una mischia. E ha proseguito fino all’88, quando ha giocato la sua ultima partita.

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    Giovanni Guzzo

    Il regalo di don Giacomo al rugby di Cosenza

    Intanto sullo schermo la partita prosegue e la rievocazione pure. Anche di chi intanto se n’è andato, come Giovani Guzzo, in memoria del quale ogni anno si gioca un torneo che porta il suo nome.
    Quelli raccolti attorno al tavolo imbandito sono stati i pionieri della palla ovale a queste latitudini, hanno vissuto gli inizi al Morrone, la sua demolizione e la fatica di cercare un altro campo. Poi la possibilità di usare il San Vito, concesso da Giacomo Mancini grazie alle richieste di Paolini.
    Hanno visto i trionfi e oltre trent’anni dopo la storica promozione del Rugby Rende in serie B, restano i testimoni di un’epopea che ancora prosegue.

    Che Guevara rugbista

    Hasta la meta

    Intanto la partita di calcio finisce, se fosse stata di rugby avrebbe avuto un terzo tempo, quello della convivialità. Attorno alla palla ovale ogni cosa è differente, anche il tifo, mai aggressivo o violento Lo spiega Bernardino Scarpino, detto Stecca, il quale racconta dei tifosi gallesi che al Flaminio, nel corso di una partita tra Italia e Galles, avvolgono nelle bandiere i bambini delle famiglie italiane per proteggerli dal vento. Un altro mondo, oppure un altro modo di vedere il mondo. Ma se la palla con cui giochi è fuori dalla norma e invece di calciarla in avanti la si deve passare all’indietro, un poco eretici devono essere anche i giocatori. Eretici e forse un poco romantici rivoluzionari, come il mediano di mischia Ernesto Guevara.

  • Le dee di Gallo in trionfo a Cannes

    Le dee di Gallo in trionfo a Cannes

    Un pezzettino di Calabria vola al Cannes World Film Festival. Il regista cosentino Francesco Gallo ha trionfato nella categoria “Miglior film sportivo” con il documentario Le dee di Olimpia, un lavoro dedicato alle lotte di emancipazione femminile nei Giochi olimpici.

    Incuriosita dal tema, non potevo esimermi dal cercare Francesco per conoscere più a fondo la sua opera. Prima, però, avevo bisogno di conoscere meglio l’artista che si cela dietro il documentario. L’intervista, quindi, parte con una domanda banale: chi è Francesco Gallo?

    «Io sono uno storico dello sport, membro della SISS (Società italiana di Storia dello Sport). Ho studiato Cinema a Cinecittà e poi Storia all’università. E così cerco di unire tre passioni: la storia, lo sport ed il cinema. Tutti i miei documentari sono sportivi, ma sono un pretesto per far avvicinare le persone alla storia in maniera più esaltante. Le storie di sport esaltano gli spettatori e alcuni argomenti passano più facilmente al cuore e alla mente delle persone se c’è lo sport di mezzo.
    Poi c’è la passione della scrittura, perché sono principalmente uno sceneggiatore. Scrivo tutti i testi dei documentari e nella struttura narrativa che utilizzo non ci sono interviste perché racconto per lo più storie internazionali. Quello che mi interessa è raccontare le storie degli ultimi, le storie di chi ha bisogno di luce sulle proprie lotte che spesso sono dimenticate».

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    Francesco Gallo

    Prima di realizzare questo documentario, hai scritto un libro dedicato alle battaglie delle donne nella storia dei Giochi. Come ti sei avvicinato a questo tema?

    «L’idea del libro era uscita in occasione delle Olimpiadi del 2016 di Rio de Janeiro. Ero al telefono con l’editrice e le dissi “se pensi a tutte le storie delle donne, ci viene fuori un libro a parte”. Lei mi fa: “Ecco, scrivi quello”. È nata così, quasi come una sfida. Ho dovuto iniziare a studiare da capo e andare a cercare solo fonti che riguardassero le atlete. In realtà, è quasi più corposo il documentario del libro».

    Ma esattamente cosa racconta Le dee di Olimpia?

    «Inizia alla fine dell’Ottocento con le prime Olimpiadi di Atene, dove le donne non ci sono. Proprio in quegli anni c’erano le lotte per ottenere il diritto al voto e queste lotte si sono riversate anche nei giochi. Le donne hanno detto: “non solo vogliamo votare, vogliamo anche gareggiare”. Non tutte le donne potevano accedere allo sport perché era vietato. In epoca vittoriana c’erano degli studi, ai tempi considerati scientifici, che dicevano che le donne non potevano andare in bicicletta perché rischiavano infezioni agli organi genitali, potevano addirittura approfittarne per onanismo e quindi non bisognava dare alle donne le biciclette. Da una parte, quindi, la scienza diceva assolutamente no e dall’altra parte, a livello sociale e culturale, per alcune donne di ricche famiglie era sconveniente. Ma erano proprio, in maniera ambivalente, le donne di ricche famiglie a potersi permettere di essere un po’ più ribelli e di accedere ad alcuni sport. La vela, ad esempio, o l’equitazione, il golf e il tennis sono sport di alta estrazione sociale, soprattutto all’inizio del Novecento e sono queste donne a essere le prime ad andare alle Olimpiadi».

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    Charlotte Cooper, oro olimpico a Parigi nel 1900

    E poi cosa succede?

    «Da qui arriviamo agli anni Venti. C’è questo grande buco che è la Prima guerra mondiale in cui alle donne hanno detto “uscite dalle case o dalle piste di atletica e andate a sostituire gli uomini, che sono al fronte, nelle fabbriche o nei campi”. Sembrava uno stop ma, invece, è stato un grande salto in avanti: gli uomini, tornati dal fronte, si sono trovati queste donne con le gonne più corte, perché dovevano stare nelle fabbriche e serviva facilità di movimento, voglia di libertà, che ovviamente non volevano perdere. Proprio nel decennio tra gli anni Venti e gli anni Trenta c’è stato un grande salto simboleggiato dalla nascita delle Olimpiadi femminili. La dirigente francese Alice Milliat, contro le parole di Pierre de Coubertin che continuava a sostenere che le donne non devono assolutamente partecipare ai Giochi, dice di organizzare delle Olimpiadi per sole donne. Non solo c’erano migliaia e migliaia di spettatori, ma davano a tantissime donne la possibilità di partecipare».

    Numeri paragonabili a quelli degli uomini?

    «Nel documentario, anno dopo anno, ho evidenziato il numero di atleti uomini e di atlete donne. È andato via via aumentando fino a Tokyo 20-21, in cui siamo più o meno in parità.
    Nel periodo in cui il fascismo e il nazismo volevano che le donne tornassero ad essere angeli del focolare, proprio l’Italia con Ondina Valla vince la prima medaglia d’oro. Poi abbiamo questo salto della Seconda guerra mondiale, perché la guerra è drammatica ma molto spesso è una molla per l’avanzamento sociale e culturale».

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    Trebisonda “Ondina” Valla (seconda atleta da sinistra) e le ragazze della squadra italiana alle Olimpiadi del ’36

    Cosa cambia per le donne?

    «Le donne, dopo aver dato il proprio fondamentale contributo nella Resistenza europea, negli anni ’50 iniziano una salita infinita, che culmina con le istanze politiche e sociali degli anni ’60. Vediamo le donne che iniziano a vincere sempre di più nelle piste, ma anche nelle piazze con le lotte per l’aborto, per l’utilizzo della pillola, o della minigonna perché nel documentario c’è anche il costume. Mentre dall’America ancora tentavano di imporre modelli come la Barbie o le pin-up, l’Europa era più avanti. Era scoppiata anche la Guerra fredda e il modello occidentale si contrappone a quello sovietico».

    E questo cosa comportava per le sportive?

    «Nel ’52 Stalin dice “dobbiamo affrontare questa sfida anche in pista” e le donne sovietiche, quasi più degli uomini, accumulano medaglie edizione dopo edizione. Finché gli americani si chiedono perché le comuniste trionfino così tanto e come possa la piccola Germania dell’Est vincere quasi quanto gli Stati Uniti. Si dopano? Effettivamente, purtroppo, la risposta spesso era sì. Ed era un doping di Stato. Per questioni di propaganda politica dovevano per forza vincere, il numero di medaglie serviva a dimostrare che il modello sovietico era, anche dal punto di vista sportivo, superiore a quello dell’Occidente. Ragazze e ragazzine, per la maggior parte minorenni, erano costrette ad assumere anabolizzanti».

    Con quali conseguenze?

    «Molte di loro, una volta cresciute, hanno deciso di cambiare sesso, stavano praticamente diventando a tutti gli effetti degli uomini. C’è il famoso caso di Irina e Tamara Press, che la stampa americana sarcasticamente chiamava i fratelli Press perché sembravano davvero due uomini per la stazza e la muscolatura. Poi abbiamo il crollo del muro di Berlino, che cambia tutto.
    Da allora c’è stata un’evoluzione tuttora in corso perché, malgrado ci sia una parità numerica in pista adesso la sfida è fuori dagli stadi. È nei palazzi del potere e della politica sportiva dove si decidono le leggi e i regolamenti sportivi».

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    Tamara e Irina Press

    Quali sono le sfide dello sport oggi? E in che modo il genere e la razza interagiscono e diventano un limite per le atlete?

    «Il discorso che ho fatto finora vale più che altro per noi, per l’Occidente. Se andiamo nei cosiddetti paesi del Terzo mondo, l’accesso allo sport è paragonabile a cento anni fa. Questo avviene per questioni sociali, culturali e religiose. L’Arabia saudita, per esempio, o la Siria e l’Iran non permettono alle donne di gareggiare perché le divise sportive non aderiscono ai precetti islamici. Ci sono stati casi, come l’alzatrice di pesi Amna Al Haddad, che ha deciso di gareggiare comunque col velo e ovviamente non è facile. Oggi, come abbiamo visto nell’edizione 20-21, le donne hanno capito che possono usare il palcoscenico olimpico per varie forme di protesta, come quella sull’abbigliamento».

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    Amna Al Haddad

    Qualche esempio?

    «Le ginnaste tedesche stanno protestando contro le tutine striminzite che sessualizzano il corpo delle atlete e a Tokyo hanno indossato delle tute che non lasciavano nulla da vedere. Anche nel beach volley ci sono ancora questi pantaloncini davvero minuscoli. Mi vengono in mente le tenniste che devono, per l’etichetta ottocentesca di Wimbledon, giocare vestendo sempre di bianco, così come gli uomini. Ma le tenniste dicono “come facciamo durante il ciclo? È una cosa che ci mette a disagio e condiziona anche le nostre partite”».

    Poi c’è la questione delle violenze, che ha sollevato un polverone anche in Italia negli ultimi tempi…

    «Molte atlete stanno protestando perché sono spesso vittime di abusi piscologici e sessuali o talvolta entrambi. Queste ragazze hanno pressioni psicologiche talvolta ingestibili e persino delle professioniste, come Naomi Osaka nel tennis o la ginnasta Simone Biles, hanno deciso di ritirarsi dalle ultime Olimpiadi perché non riuscivano a gestire questo carico di pressioni, che sono sia sportive che mediatiche. Poi non possiamo parlare delle Olimpiadi e della condizione delle donne in vista di Parigi 2024, senza pensare alla situazione in corso in Ucraina. La guerra sarà un elemento fondamentale che sposterà gli equilibri.

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    La ginnasta Simone Biles con uno dei suoi quattro ori olimpici

    Esiste davvero una correlazione così forte tra politica e sport?

    «Questo accade ed è sempre accaduto, fin dalla nascita delle Olimpiadi. Nell’antica Grecia chi vinceva le Olimpiadi diventava cittadino di Atene. Molto spesso si gareggiava sia per la gloria sportiva che per quella sociale. Perché essere cittadino ateniese era il massimo del vanto che si poteva avere nell’antichità»

    Torniamo al presente e affrontiamo la polemica sulle atlete trans nelle gare sportive…

    «Cambiano le modalità, ma il cuore della questione rimane sempre lo stesso. Da cento anni c’è il problema del test sessuale nelle Olimpiadi. Lo racconto anche nel documentario: tantissime donne travestite da uomini, o viceversa, come il caso tedesco di Heinrich Ratjen che si travestì da donna e gareggiò col nome di Dora Ratjen. Poi c’è stato il caso, come dicevo prima, di medicinali utilizzati per stravolgere le donne e farle diventare più forti e muscolose. Dalla fine degli anni Sessanta è stato introdotto il sex test per non far gareggiare chi si professava di un sesso invece di un altro. In questo caso le donne trans, che volessero partecipare ai giochi, dovrebbero avere la possibilità di partecipare ai giochi nel sesso in cui più si sentono di appartenere. Poi c’è tutta la storia dei regolamenti: un uomo che gareggia contro una donna, o viceversa, può essere più o meno svantaggiato ma, quando c’è una scelta personale, si deve dare alle persone la libertà di scegliere. È una scelta che va oltre la possibilità di vincere più medaglie».

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    Heinrich/Dora Ratjen

    Non ci addentriamo oltre nei contenuti del documentario di Gallo e lasciamo a chi legge la possibilità di godersi la visione di Le dee di Olimpia.
    Con una consapevolezza in più: anche lo sport è politica e lotta.

    Francesca Pignataro

  • Il dio greco di Acri che diede i muscoli agli americani

    Il dio greco di Acri che diede i muscoli agli americani

    Nei sotterranei della Oglethorpe University in Georgia (USA) c’è una camera a tenuta stagna. Sulla porta c’è scritto «Non aprire prima del 28 maggio 8113». È la prima – e più grande finora – capsula del tempo mai realizzata e custodisce per i posteri testimonianze significative di ciò che l’umanità ha prodotto (ed è stata) fino agli anni ’40 del secolo scorso.
    Quando, tra circa sei millenni, la porta si aprirà, gli uomini del futuro – o chi per loro – si troveranno di fronte un po’ di tutto. Dalle voci registrate di Hitler, Stalin, Mussolini alla sceneggiatura di Via col vento, passando per microfilm con dentro la Bibbia e la Divina Commedia, un portasigarette, un rasoio elettrico e dei bigodini.
    Nella stanza ci sono pure la statuetta di un uomo e un foglio. La prima raffigura in scala 1:8 Angelo Siciliano, calabrese di Acri emigrato negli States ai primi del ‘900. Il secondo riporta le misure del paisà: altezza, peso, circonferenza del torace e dei suoi muscoli. Sul foglio c’è anche la foto di Angelo, ma il nome che si legge sotto è un altro: Charles Atlas.

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    L’interno della Crypt of Civilization della Oglethorpe University. La foto risale a poco prima della sua chiusura nel 1940

    Bokonon e la tensione dinamica

    Ma chi era Angelo “Charles Atlas” Siciliano e perché custodirne il ricordo per i prossimi 6.000 anni? Non pensate a roba à la Lombroso (o chi per lui). Un primo indizio si può trovare in quel gioiello della letteratura americana che è Ghiaccio-nove (in originale, Cat’s Cradle) di Kurt Vonnegut.

    Josh, il protagonista, è un giornalista che sta leggendo l’agiografia di Bokonon, immaginario santone venerato sull’altrettanto immaginaria isola caraibica di San Lorenzo su cui si trova in quel momento. È lì ospite di “Papa” Monzano, lo spietato dittatore dell’atollo, e dei figli di uno degli inventori dell’atomica, sul quale vorrebbe scrivere un libro.

    Quando vidi per la prima volta l’espressione “Tensione dinamica” nel libro di Philip Castle, feci quella che ritenevo una risata di superiorità. Era una delle espressioni preferite di Bokonon, stando al libro del giovane Castle, e io credevo di sapere una cosa che Bokonon ignorava: che quell’espressione era stata divulgata da Charles Atlas, un insegnante di culturismo per corrispondenza.
    Poco dopo, proseguendo nella lettura, appresi che Bokonon sapeva esattamente chi era Charles Atlas. Infatti Bokonon era un ex allievo della scuola di culturismo.
    Era
    ferma convinzione di Charles Atlas che i muscoli si possano costruire senza l’aiuto di pesi o attrezzi a molle, che si possano costruire semplicemente mettendo in competizione una fascia muscolare con l’altra.
    Era
    ferma convinzione di Bokonon che una società sana possa essere costruita solo mettendo in competizione il bene con il male, e mantenendo sempre elevata la tensione tra le due forze.
    E sempre
     nel libro di Castle, lessi la mia prima poesia, o Calipso, bokononista. Faceva così:

    “Papa” Monzano è veramente pessimo
    Senza di lui, però, sarei tristissimo
    Senza il “Papa” cattivo con la sua iniquità
    Funzionerebbe Bokonon
    A esempio di bontà?

    Acri-New York, solo andata

    Se la venerazione per Bokonon si limita all’atollo del romanzo di Vonnegut, quella per «l’insegnante di culturismo per corrispondenza» nella realtà si diffonde invece a macchia d’olio. Per comprenderne la ragione, però, bisogna andare a ritroso nel tempo fino a quando Angelo Siciliano non era ancora Charles Atlas.

    Tutto comincia il 30 ottobre del 1892. Ad Acri, paesone alle pendici della Sila cosentina, nasce il figlio di Nunziato Siciliano e Francesca Fiorelli, giovani contadini del posto. È il giorno della festa del Beato locale e il piccolo si chiamerà in suo onore Angelo. Qui le versioni della storia divergono.

    Secondo alcune, Nunziato undici anni dopo parte per l’America in cerca di fortuna, portando con sé Angelo e un’altra donna. Altre raccontano che Siciliano senior sia fuggito oltreoceano dopo aver ucciso un uomo, abbia trovato una seconda moglie lì e che a New York nel 1904 poi si siano trasferiti anche Francesca ed Angelo, ma a vivere a casa di uno zio.

    Il bullo in spiaggia: da Angelo Siciliano a Charles Atlas

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    Un giovanissimo Angelo Siciliano prima della “trasformazione” in Charles Atlas

    Comunque sia andata, nella Grande Mela Angelo diventa presto per tutti Charlie. È un ragazzo mingherlino che deve fare i conti con la povertà e le angherie come tanti altri emigrati dell’epoca.
    Nell’estate del 1909 convince una ragazza ad andare sulla spiaggia di Coney Island insieme a lui. L’appuntamento, però, va a rotoli.
    Un bagnino, vedendolo magro come uno spillo, inizia a prenderlo in giro e buttargli sabbia in faccia coi piedi (kick sand). Angelo è incapace di replicare al bullo e la ragazza lo molla lì, da solo a piagnucolare.

    Poco tempo dopo visita con la scuola un museo, in una sala c’è una statua di Ercole: il suo fisico è perfetto, a nessun bagnino verrebbe in mente di dar fastidio a uno con muscoli del genere. Angelo decide che si allenerà finché non avrà anche lui un corpo così. A casa Siciliano, però, soldi ne girano pochi, così deve arrangiarsi. Costruisce un bilanciere con un bastone e delle pietre, studia gli esercizi sulle riviste di ginnastica e prova a replicarli. Trova lavoro in una conceria. Ma il fisico di Ercole resta un sogno.

    Per realizzarlo servirà una nuova illuminazione, questa volta allo zoo di Brooklyn.
    Angelo osserva i leoni in gabbia mentre si stiracchiano. Sono così forti – pensa – eppure non hanno avuto bisogno di pesi o panche per diventarlo, com’è possibile? Intuisce che la risposta è proprio in quello stretching dove i muscoli, contrapponendosi l’un l’altro, si allenano a vicenda. Anche se ancora non lo sa, Angelo Siciliano ha appena inventato la Dynamic Tension che farà di Charles Atlas un mito mondiale del fitness e lo renderà milionario.

    Fachiro e modello

    Il ragazzo mette a punto un programma di esercizi che chiunque può svolgere a casa propria senza attrezzature particolari, bastano al massimo un paio di sedie. Oggi la definiremmo un mix tra ginnastica isotonica e isometrica. Si allena in continuazione e quando ritorna in spiaggia per i suoi amici è uno shock. Il Charlie di nemmeno 45 kg bullizzato poco tempo prima adesso sembra la statua di Atlante (Atlas in inglese) che sormonta un palazzo lì vicino. Tutti iniziano a chiamarlo così. E col nuovo fisico arriva anche qualche quattrino in più, che non guasta mai.

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    Il giovane Angelo Siciliano e il suo nuovo fisico

    Angelo “Charles Atlas” Siciliano molla la conceria ed inizia ad esibirsi come fachiro in un circo. Guadagna 5 dollari per stare coi muscoli in tensione sdraiato sopra un letto di chiodi mentre dei volontari tra il pubblico camminano su di lui.
    Gli introiti aumentano quando comincia a posare per gli artisti. La celebre scultrice Gertrude Vanderbilt Whitney, animatrice dei salotti newyorkesi, lo elegge suo modello preferito, adora la sua capacità di restare immobile anche per 30 minuti di fila.
    Ora guadagna anche 100 dollari a settimana.

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    Angelo in posa nello studio di Pietro Montana

    Angelo Siciliano sta per lasciare per sempre spazio a Charles Atlas, ma da modello “assume molte altre identità” nei monumenti. Posa per Pietro Montana e la sua Dawn of Glory dell’Highland Park di Brooklyn, è Alexander Hamilton di fronte al Palazzo del Tesoro, George Washington in Washington Square Park.

    Addio Angelo Siciliano, è arrivato Charles Atlas

    L’ulteriore svolta arriva nel 1921, quando invia una sua foto per partecipare a un concorso organizzato dalla rivista Physical Culture che eleggerà “L’uomo più bello del mondo”. Trionfa. E l’anno dopo concede il bis aggiudicandosi nel Madison Square Garden gremito da migliaia di persone anche il titolo di “Uomo col fisico più perfetto del mondo”.
    Sarà l’ultima edizione del concorso: gli organizzatori decidono che con Charles Atlas in gara per gli avversari non c’è speranza di vincere.

    Il premio in palio nel 1922 è la parte da protagonista nel film The Adventures of Tarzan o, in alternativa, mille dollari. Angelo Siciliano opta per il denaro e cambia definitivamente nome. Ora è Charles Atlas anche per l’anagrafe e col premio apre una palestra per insegnare il suo metodo, che propone anche per corrispondenza in società con lo scrittore Frederick Tinley. Gli affari però non ingranano fino al 1929, quando incontra un altro Charles che cambierà definitivamente la sua vita.

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    Il premio grazie a cui iniziò la carriera imprenditoriale di Charles Atlas

    Quel gran genio di Roman

    Charles Roman è un giovane pubblicitario fresco di laurea, assunto da poco nell’agenzia che in quel momento si occupa di promuovere le attività dell’italoamericano e Tinley con scarsi risultati. Ed è un genio nel suo campo. Un giorno prende coraggio e si rivolge direttamente ad Atlas. Gli dice che se vuole vendere il suo programma di esercizi deve degli un nome più intrigante e conia Dynamic Tension. Poi si fa raccontare la storia del culturista.

    Capisce che la migliore pubblicità per la Dynamic Tension è Atlas stesso. Il ragazzo qualunque che con la sola forza di volontà ha cambiato il suo destino partendo dal nulla; l’emblema di quel sogno americano di cui gli Usa, nel pieno della Grande Depressione, hanno più bisogno che mai per risollevarsi; l’emigrato che si è trasformato in dio greco, sempre in forma e sicuro di sé, bello come un Apollo e le stelle di Hollywood sempre più idolatrate dalle masse.
    Se salutismo, forma fisica e culto dell’estetica diventeranno le nuove religioni, Roman ha già in mente chi sarà il loro profeta. Compra le quote di Tinley, lascia l’agenzia e insieme al paisà fonda la Charles Atlas Ltd.

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    Roman e Atlas nel loro ufficio a New York

    Roman, poi, disegna una striscia a fumetti: The insult that made a Man out of Mac, “L’affronto che ha fatto di Mac (alter ego di Angelo, nda) un Uomo”. Farà la storia della pubblicità americana. Sono poche vignette che ripercorrono l’appuntamento di Coney Island andato male anni prima: il bagnino che riempie di sabbia Mac, la ragazza delusa che se ne va, il mingherlino di 45 kg che torna a casa e decide di mettere su muscoli, il ritorno a Coney Island con annessa rivincita sul bullo, le altre ragazze ad acclamare il nuovo «eroe della spiaggia». Sotto i disegni, una foto dell’erculeo Charles Atlas che promette: «In soli sette giorni posso fare di te un vero uomo» e cose simili.

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    Il fumetto che ha fatto di Atlas un personaggio di culto

    Muscoli e cervello

    Le pubblicità invadono i giornali sportivi e la stampa per ragazzi. Diventano virali decenni prima che internet ci abitui ad usare questo termine. Dynamic Tension va a ruba, il culto del fisico arriva a oltre un milione di fedeli pronti a spendere 35 dollari per fare come Mac. La Charles Atlas Ltd assume decine di impiegati solo per leggere le loro lettere in cui raccontano i progressi fisici ottenuti grazie alle lezioni. L’azienda è ormai un impero internazionale.

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    1969, Charles Atlas, alle soglie degli 80 anni, in uno scatto di Diane Arbus

    I due Charles si dividono i compiti: Atlas ci mette i muscoli, che continuerà a curare ogni giorno finché campa; Roman il cervello, ideando sempre nuove dimostrazioni di forza del suo socio per accrescerne la fama. Se il primo ha “inventato” il fitness per tutti, il secondo è il padre del marketing applicato.
    Atlas in pubblico trascina locomotive per decine di metri, solleva auto e gruppi di ballerine, strappa elenchi telefonici a mani nude. Una volta si esibisce in uno dei penitenziari più famosi d’America. Roman detta il titolo ai cinegiornali: «Un uomo piega una sbarra di ferro a Sing-Sing: i prigionieri esultano, nessuno scappa».

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    1939, Charles Atlas solleva le Rockettes sul tetto del Radio City Hall

    E chi sei, Charles Atlas?

    Ormai negli States quando qualcuno compie o dice di aver compiuto qualcosa di eccezionale è facile che gli rispondano: «E chi sei, Charles Atlas?». L’emigrato di Acri che le prendeva dai bagnini adesso partecipa al compleanno del presidente Roosevelt.
    Anche i “giornaloni” sono pazzi di lui: Forbes lo mette tra i venti migliori venditori della storia; Life gli dedica un servizio fotografico; il New Yorker lo fa intervistare da Robert Lewis Taylor, un Pulitzer. Lui gli racconta di aver perfino dato dei consigli gratuiti a Gandhi: «L’ho visto tutto pelle e ossa».

    Pazienza se il Mahatma, dopo averlo saputo, liquiderà la storia con un sorriso e una battuta sulla tendenza degli americani, «Mr Atlas in particolare», a spararle grosse per farsi belli. Il programma di esercizi funziona lo stesso se hai costanza – ancora di più se il Dna ti dà una mano – ed è quello che conta. E se poi l’ex ragazzino di 45 kg trasformatosi in Atlante non bastasse come testimonial di se stesso, non mancano altri esempi di successo tra i suoi allievi.

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    Il grande Joe Louis, The Brown Bomber, dà una controllata ai bicipiti di Charles Atlas

    Sei fissato col body building? Thomas Manfre è diventato Mister Mondo nel 1953 dando retta a Charles. Sogni di poter stendere con un pugno qualcuno che ti ha maltrattato? Grazie a Dynamic Tension pugili come Max Baer e l’immenso Joe Louis sono saliti sul ring per il titolo mondiale dei pesi massimi. Vuoi conquistare la donna dei tuoi sogni? Anche il mito Joe DiMaggio ha forgiato i suoi muscoli seguendo Atlas. E chi ha sposato poi? Marilyn Monroe. Se poi vuoi far paura a qualcuno… beh, dietro la maschera di quel cattivone di Darth Vader nella trilogia originale di Guerre Stellari c’è un altro atlasiano doc come David Prowse.

    Culturisti di culto

    Angelo “Charles Atlas” Siciliano, insomma, non è stato solo un culturista. È parte della cultura popolare americana (e non solo). La sabbia in faccia, per esempio, è un’espressione entrata nel vocabolario comune. La trovi in We are the Champions dei Queen come nei testi di Roger Waters (Sunset Strip) e Bob Dylan (She’s Your Lover Now).
    Gli Who hanno inserito una pubblicità di Charles all’inizio di I can’t reach you, nel disco The Who Sell Out in cui il bassista John Entwistle appare in copertina travestito proprio da Atlas in versione Tarzan.

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    John Entwistle prende in giro Atlas sul retro di The Who Sell Out

    Robin Williams ne L’attimo fuggente si paragona al Mac/Angelo indifeso della spiaggia quando racconta agli studenti i suoi primi approcci alla poesia. Tim Burton lo cita nel suo film d’esordio Pee-wee’s Big Adventure, Terry Gilliam nel Monty Python’s Flying Circus.
    La parodia del fumetto su Mac è finita in una puntata di Futurama e su National Lampoon: qui un topolino bullizzato in spiaggia da un carnivoro più grosso di lui manda una lettera a Charles Darwin, Isole Galapagos, «e dopo pochi milioni di anni di esercizi evolutivi» si ripresenta con ali e artigli per vendicarsi azzannando il rivale mentre tutte le femmine intorno inneggiano al nuovo «eroe dell’habitat».

    Tensione dinamica

    L’elenco (parziale) dei riferimenti al culturista calabrese comprende anche i videogame: il Little Mac del classico della giapponese Nintendo Mike Tyson’s Punch-Out è un chiaro omaggio al mingherlino di 97 libbre (97-pound weakling) del fumetto di Roman. E nella prima versione del cult The Secret of Monkey Island c’era una statua che secondo il protagonista «sembrava la versione deperita di Charles Atlas».

    Il principale (e più irriverente) omaggio al bambino arrivato a Ellis Island dalle montagne di Acri, però, resta quello del Rocky Horror Picture Show. Nel musical più libertino della storia lo scienziato pazzo alieno Frank’N’Furter dà vita alla sua creatura, l’amante perfetto dal corpo scolpito, intonando la Charles Atlas’ Song/I can make you a man. E se la porta a letto poco dopo, spiegando in I can make you a man (Reprise) che quei muscoli gli fanno venire voglia di prendere per mano Charles Atlas e di “tensione dinamica”.

    Nemo propheta in patria

    Angelo Siciliano non ha mai ascoltato le due canzoni. Il RHPS è uscito a teatro nel 1973 e al cinema nel ’75, lui è morto di infarto la vigilia di Natale del ’72. Nei successivi 50 anni e mezzo ad Acri pare non gli abbiano ancora dedicato una piazza, una strada, un vicoletto. Nemmeno una targa o una palestra qualsiasi.
    Sarà perché non ci è mai tornato. Sarà perché in Calabria dimenticano i campioni olimpici, figuriamoci un culturista. O, forse, aspettano anche lì il 28 maggio 8113.

  • Il fascismo nel pallone: le oscure vittorie azzurre negli anni ’30

    Il fascismo nel pallone: le oscure vittorie azzurre negli anni ’30

    Calcio e fascismo. Ne parla un libro coraggioso di Giovanni Mari edito da Storie di People.
    Già il titolo, Mondiali senza gloria, emette un giudizio senza attenuanti sulle vittorie della nazionale italiana di calcio ai Mondiali del ’34 e del ’38. È un argomento delicato, il Calcio nel nostro Paese. E lo è, in particolare, a proposito degli Azzurri, e se si avanzano, più che dubbi, certezze sulla bontà delle loro vittorie. L’assenza di gloria è un’affermazione secca, non è seguita da un punto interrogativo per mitigarla.

    Calcio e fascismo: un affare di propaganda

    D’altra parte Giovanni Mari – giornalista del Secolo XIX definito «appassionato di propaganda politica» – nella quarta di copertina, riempie molte delle 184 pagine del libro di informazioni in grado di dissolvere la nebbia che ha avvolto quelle vicende per tanto tempo.
    Mari usa una documentazione vasta e “terza” rispetto a quella disponibile in Italia. Lo ha spiegato lui stesso rispondendo alle sollecitazioni di Ernesto Romeo, dell’Arci–Circolo Samarcanda, e di Giuliana Mangiola, presidente della Sezione Carlo Smuraglia dell’Anpi, organizzatori dell’incontro tenutosi a Reggio Calabria nei giorni scorsi.
    L’autore ha consultato organi di stampa stranieri del tempo, proprio per non incappare nell’informazione pilotata dal regime fascista e da Mussolini in prima persona.

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    La nazionale in nero ai Mondiali del ’38

    La destra e il passato che non passa

    Il libro prende spunto dal calcio per parlare di storia, di politica, di passato ma anche di presente. Infatti, è uscito prima della vittoria della Destra alle elezioni del 25 settembre.
    Questa data segna l’inizio di una serie di atteggiamenti, dichiarazioni e i posizioni che hanno messo in luce il rifiuto di questo schieramento di fare finalmente i conti col passato. Al riguardo, l’ultima perla della premier è la dichiarazione della presidente del Consiglio sull’eccidio delle Fosse ardeatine, quando l’ineffabile Giorgia ha letteralmente riscritto la Storia catalogando semplicemente come Italiani, e non come antifascisti, ebrei, oppositori del regime, le 335 vittime della rappresaglia nazifascista.

    Fascismo e calcio: tutto pur di vincere

    Mari, d’altra parte, non fa sconti a nessuno. E in maniera senz’altro condivisibile denuncia come ascrivibile all’intero popolo italiano – con note e significative eccezioni – l’atteggiamento ambiguo, autoassolutorio, superficiale mostrato nei confronti del fascismo e dei suoi crimini a danno degli stessi italiani e dei Paesi che esso ha trovato sulla sua strada.


    Grazie a una poderosa ricerca, l’autore ha verificato come per la manifestazione del ’34, tenutasi in Italia, sia stato attivato ogni strumento per obbedire al diktat del duce per ottenere prima l’organizzazione del torneo e dopo la vittoria azzurra:

    • Garanzia di tolleranza zero sul fronte dell’ordine pubblico, dopo i problemi in Uruguay nel ’30, in continuità, d’altra parte, con quanto il regime aveva fatto fin dal suo avvento:
    pressioni sugli altri contendenti;
    • utilizzo di ingentissimi fondi pubblici, in una situazione pesante dal punto di vista economico, per ingraziarsi la Fifa e le altre federazioni;
    corruzione dei designatori degli arbitri e degli arbitri stessi, che consentì ai calciatori italiani di praticare un gioco violento per eliminare gli avversari e di ottenere decisioni smaccatamente favorevoli durante le partite;
    minacce ai giocatori maggiormente rappresentativi delle altre nazionali per non farli partecipare ad incontri decisivi;
    • utilizzo di giocatori stranieri naturalizzati italiani in spregio alle regole fissate dalla Fifa.

    Il duce e il pallone: un matrimonio d’interesse

    Il trionfo del duce fu totale, e la stampa, sportiva e non, agì da megafono per lo strombazzamento che ne seguì, con i consueti cori a sostegno della tesi della superiorità dell’italica stirpe.
    Inutile dire che questa tesi si trasferì presto dai campi di gioco a quelli di battaglia per essere clamorosamente smentita.

    Mussolini in posa tra gli azzurri

    Il duce, tra l’altro, non amava per niente il calcio. Semmai, era affascinato dagli sport olimpici e da quelli che riteneva nobili: boxe, scherma, tiro, ippica. E infatti il regime non inserì il pallone tra le pratiche obbligatorie.
    Tuttavia, ne aveva intuito le potenzialità per dare ulteriore impulso all’irreggimentazione delle masse, loro sì malate di calcio, allora come ora.

    Non solo calcio: il fascismo alle Olimpiadi

    Mari racconta altre vicende oscure sono legate alle Olimpiadi del ’36, quelle di Berlino e delle vittorie in serie di Jesse Owens che ferirono Hitler.
    L’Italia, che aveva aggirato il divieto di portare in Germania i professionisti facendo iscrivere all’università i giocatori più forti, vinse in finale contro l’Austria.
    Quello stesso anno, Mussolini, oramai succube del suo vecchio seguace, subì senza fiatare l’Anschluss, dopo aver fatto per anni a paladino del Paese annesso. La scomparsa dal panorama calcistico del Wunderteam, la super squadra austriaca, fu digerita dal condottiero italiano nello stesso modo. Quindi l’Anschluss aveva eliminato anche una temibile concorrente per il ’38. Perciò il sogno di uno storico bis in Francia diventava verosimile.

    Jesse Owens trionfa alle Olimpiadi di Berlino (1936)

    «Vincere o morire»: i Mondiali del ’38

    L’Italia, precisa Mari, a quel punto era una delle favorite perché oggettivamente ben attrezzata. Il clima però, era profondamente diverso: gli esuli italiani contestavano la loro stessa nazionale, che si presentava con una maglia nera col fascio littorio che, per visibilità, aveva soppiantato lo stemma sabaudo.
    Era la nazionale del fascismo, fautore delle disgrazie loro e delle loro famiglie. Mussolini inviò, per la finale con l’Ungheria, un telegramma nel suo stile: «Vincere o morire».

    Il c.t. ungherese interpretò queste parole affermando che, perdendo, avevano salvato la vita agli italiani e, probabilmente, anche a loro stessi.
    «La vittoria mondiale dichiarava, secondo la comunicazione di regime, una indiscutibile e assoluta superiorità italiana, non tanto nel talento, ma nella costruzione stessa del successo e del genio umano», scrive Giovanni Mari.
    E prosegue: «era la chiave che avrebbe portato l’Italia a occupare il posto che meritava nel consesso mondiale: se era stata capace nel pallone, poteva essere capace in qualsiasi campo».

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    Arpad Weisz, l’allenatore del Bologna epurato in seguito alle leggi razziali

    L’epurazione razziale colpisce il pallone

    Il disastro era ormai dietro l’angolo, preceduto dalle leggi razziste che anche nel mondo del calcio fecero il loro sporco lavoro. Ne fece le spese, tra gli altri, l’allenatore ebreo ungherese Arpad Weisz, artefice di due scudetti del Bologna, deportato e morto ad Auschwitz insieme alla moglie e ai figli.
    Il clima era quello che traspare da un brano de Il Calcio illustrato, secondo cui «che (gli allenatori israeliti stranieri danubiani) debbano fare le valigie entro sei mesi non ci rincresce: finiranno di vendere fumo con la loro arte imbonitoria propria della razza (…) La bonifica della razza avrà più che salutari conseguenze calcistiche».

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    Il ct Vittorio Pozzo alza la Coppa Rimet dopo la vittoria ai Mondiali di Francia (1938)

    La stampa supina

    Chi sa di calcio, tuttavia, sa anche che proprio tali personaggi portarono la sapienza tattica e tecnica danubiana in Italia, con benefici ed innegabili effetti su tutto il movimento calcistico.
    Il libro di Giovanni Mari è un’opera densa, non riassumibile in poche cartelle. Meritano attenzione le tante considerazioni di ordine generale che contiene. Ad esempio, sulla politica fascista (non solo) nello sport. Oppure sull’atteggiamento prono della stampa e di alcuni protagonisti per troppo tempo idolatrati (il c.t. Vittorio Pozzo e il telecronista Niccolò Carosio, in testa alla lista). E sulla continuità che ignobilmente contrassegnò il dopoguerra nel calcio e non solo.

    Dittature e calcio dopo il fascismo

    Il fascismo divenne, nella percezione collettiva, una parentesi sventurata, un cancro sviluppatosi in un corpo sostanzialmente sano.
    La svolta fu determinata dall’alleanza con la Germania. Gli italiani erano “brava gente”, che non collaborò coi nazisti, o lo fece obtorto collo, nel progetto della Soluzione finale.

    Il generale Videla premia la “sua” Argentina nei Mondiali del ’78

    Non manca qualche interessante riflessione sull’utilizzo dello sport nei regimi autoritari in generale. Ad esempio, quelli comunisti, o di altri Paesi come l’Argentina di Videla o, da ultimo, il Qatar.
    Un’opera importante, soprattutto in un periodo in cui il tema è tornato di stretta attualità, in cui il Governo e importanti pezzi dello Stato sono nelle mani di chi un giorno sì e l’altro pure alimenta, con parole e atti, una narrazione tesa a manipolare la Storia, o a negarla del tutto.

  • Pietro Maiellaro: Messico, nuvole e lampi di genio

    Pietro Maiellaro: Messico, nuvole e lampi di genio

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    Molto prima che ci facessero sognare i vari Giggs, Gerrard e Lampard, Rui Costa, Leonardo, Ronaldinho o in parte Redondo (molto più tecnico, ma col baricentro molto più giù), il centrocampista che va sistematicamente in goal è una invenzione italiana. Tipica di squadre chiuse, dove il fantasista scardina e il 9 puro fa più la boa che il bomberone. Mario Corso Mario, come dice Ligabue. Mazzola che avanza due palloni d’oro, uno di Cruijff e uno dell’altro dieci con la rete e la sigaretta facile, Gianni Rivera.

    Nella Cosenza Ottanta/Novanta, e nel suo Cosenza, qualche giocatore tecnico che piace alla curva e ogni tanto sciorina in saccoccia delle perle gemmate si vede. Urban, ad esempio, tanta classe ma anche tanti sacrifici sui campi off della pedata minore. Molto più tardi Tatti, che però gioca seconda punta. Nel ‘93/’94, l’anno del primo mondiale tototruffa e tutto marketing, a Cosenza abbiamo Pietro Maiellaro.

    Pietro Maiellaro, lo Zar di Bari

    Irsuto d’approccio, abulico quando di luna storta, ma dispensatore di gioia quando lo squarcio si accende e rivela. Si era fatto le ossa a Bari, divenendo una sorta di Lider Maximo, idolo di quartiere, tipo da murales, da maglia autografata, da tanti calci e ancora più calcio. Lì, il primo frame dei suoi flash da Messi ante litteram. Lui coi galletti pugliesi, tutti gli altri un Bologna piccolo piccolo.

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    Pietro Maiellaro affronta Diego Armando Maradona in una sfida tra Bari e Napoli

    Era del resto un Bologna un po’ straccione e un po’ decaduto insieme, molto diverso dalla squadra di fine anni Novanta che, grazie ai goal di Beppe Signori alla seconda giovinezza da fantasista, farà nella stessa stagione semifinale in Coppa Italia e UEFA.
    La palla è una saponaccia poco oltre i quaranta metri: rimbalzata, strappata, sporca, lercia e anonima. Maiellaro ci vede dietro la sceneggiatura del goal della domenica, la giocata da loop in cineteca. Buona acrobazia per acciuffarla piena e scarica robusta: una sassata balistica che uccella l’estremo difensore felsineo andato a caccia di farfalle.

    Dopo quelle quattro stagioni da urlo, si fanno avanti in tante. Una volta è la Fiorentina: la Fiorentina che, come in modo suicida faceva il Cecchi Gori di inizio Duemila, comprava attaccanti su attaccanti. E segnava e prendeva. Maiellaro, in realtà, c’è: ma gioca poco, la continuità non esiste. E Maiellaro a Bari ha insegnato che per prendersi la scena deve avere la piazza, la stagione, la tenacia del tempo contro l’euforia dell’attimo. Altrimenti, quei suoi istanti di cristallo non hanno giusto ambiente di maturazione.

    La seconda chance

    La seconda chance si chiama Ternana: neopromossa in B che fa una campagna acquisti grandi firme e zero contratti. Sulla carta Pino “Saracinesca” Taglialatela, pararigori nel Napoli che rimpiangeva Maradona e troppo presto aveva dimenticato Giuliani, e Sandro “Cobra” Tovalieri: velenoso bomber bassino che poteva fare anche il tornante. Tanto i suoi golletti stagionali li refertava. Si dissolse presto e le curve di Terni subirono l’ennesimo declassamento sul campo. Alcuni amici e maestri conosciuti tra i Freak Brothers della Est ricordano ancora quella estate di illusioni di oltre trent’anni fa: come un bacio non dato, che non si dimentica per il male che ti ha fatto.

    Ho visto Maiellaro

    E così Pietro Maiellaro a Cosenza. Annata realizzativa buona. Il Cosenza della B ogni anno, e ogni anno l’aritmia in pieno petto di non sapere se lotterai per la A o dovrai romperti la schiena ad evitar la C (un coro ancora cantato in Bergamini nasce da questa schizofrenia).

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    La Curva Sud del San Vito negli anni ’90

    Cosenza-Fiorentina. Presente stretto, passato prossimo a metà. Maiellaro prende una palla ancora una volta anonima, di risulta, una fesseria sotto il Sole che squarcia in diagonale il rettangolo al San Vito quasi fossero i Campi Elisi di Marassi. Se li beve tutti, indistintamente tutti. Cinque, sei gli vanno dietro. Lui semina e cammina. L’attempato cronista della Rai dirà che Maiellaro si ferma solo quando la palla va in rete: è vero. San Vito in delirio permanente, io lì ragazzetto con lo zio Tonino, fratello di mia nonna, tutta sera ancora a parlare, a una cena di famiglia con nonni e bisnonni, del goal di Maiellaro, del contratto al Milan di Baresi, di quel calcio grande che si sentiva anche in piccola città (non) bastardo posto.

    Maiellaro si perderà un po’ negli anni a seguire. Nel ’96 in Messico, quando gli italiani all’estero erano roba occasionale da folklore. Mica oggi, che il Messico ha visto gli ultimi ruggiti della Tigre André Gignac, che avrei voluto a Roma. E infine un solidissimo fine carriera con microparentesi da giocatore-allenatore in campo in quel di Campobasso. Dicono che ci manchi quel calcio perché abbiamo perduto l’innocenza. E invece no: ci manca ché abbiam perduto la bellezza.

    Domenico Bilotti

  • Un Tedesco di Calabria sulla panchina del Belgio?

    Un Tedesco di Calabria sulla panchina del Belgio?

    Si chiama Tedesco, Domenico Tedesco, ma è calabrese ed è in pole per diventare il nuovo ct della nazionale di calcio del Belgio. Tra i favoriti dell’ultimo Mondiale, i Diavoli rossi hanno rimediato una mezza figuraccia in Qatar. Troppo deludente la squadra, nonostante i tanti campioni, per non rispettare una delle regole principali del mondo del pallone: il primo a pagare è sempre l’allenatore.

    E così il Belgio ha virato su Domenico Tedesco, astro nascente della panchina grazie ai risultati degli ultimi anni tra Gelsenkirchen (Schalke 04), Mosca (Spartak) e Lipsia (Redbull). Perché lo avranno anche esonerato l’estate scorsa, ma il tecnico nato a Rossano nel 1985 ha già ottenuto due secondi e un quarto posto, una coppa di Germania e una semifinale di Eurolega in soli 5 anni di carriera ad alti livelli.

    Domenico Tedesco, dalla Calabria al Belgio

    Domenico Tedesco ha lasciato la Calabria quando aveva solo due anni. I genitori scelsero di emigrare nel Land del Baden-Wurttemberg, uno dei due Stati del Sud della Germania. Suo padre trovò lavoro come stampatore della Esslinger Zeitung, il quotidiano locale di Esslingen, a 15 chilometri dalla capitale Stoccarda. E nello stesso quotidiano il piccolo Domenico mosse i primi passi da giornalista sportivo da adolescente con uno stage in redazione. Niente carriera sui campi da gioco, però. Domenico Tedesco si laurea in ingegneria gestionale, prende anche un master in Innovation management.

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    Tedesco dirige un allenamento del Redbull Leipzig

    La passione per il calcio però lo porta presto in quel mondo. Inizia da vice allenatore nelle giovanili dell’Aichwald, paesino nei dintorini di Stoccarda, nel 2011 e quattro anni dopo e già alla guida dell’U-16 dell’Hoffenheim. L’U-19 è nelle mani, invece, di un altro enfant prodige: Julian Nagelsmann. I due spiccano presto il volo. Domenico Tedesco subentra sulla panchina dell’Aue a primavera del 2017 , dato per spacciato nella serie B tedesca, e lo porta a un’inaspettata salvezza a suon di vittorie. Da lì arriveranno il passaggio in Bundesliga allo Schalke e i risultati elencati qualche riga più su.
    Ora per questo figlio di calabresi che parla quattro lingue e ha il culto del gioco veloce potrebbe arrivare il turno del Belgio, terra di emigrati come lui.

  • Il miracolo di Guarascio: ultras di nuovo uniti, ma contro di lui

    Il miracolo di Guarascio: ultras di nuovo uniti, ma contro di lui

    Il miracolo di Natale quest’anno non arriva dalla 34° strada di New York ma da via degli Stadi a Cosenza. Niente Jingle Bells di sottofondo, però: solo silenzio. Né tantomeno regali, ché quelli costano. Eugenio Guarascio, presidente con la passione per il risparmio, è riuscito dove tutti gli altri hanno fallito, compiendo una vera e propria impresa: mettere d’accordo gli ultras della squadra che ha acquistato nell’ormai lontano 2011.

    Separati in casa

    La parte più calda della tifoseria rossoblu, infatti, si è divisa in due tronconi tra il 2014 e il 2015 e da allora ognuna delle due “fazioni” ha seguito le partite in casa da settori diversi dello stadio. E il divorzio, apparentemente pacifico, è perfino degenerato in scontro in occasione di alcune trasferte del recente passato. Emblematica in tal senso, la battaglia a Matera del 2017, con le due anime del tifo cosentino a darsele di santa ragione nel settore ospiti tra gli sguardi attoniti degli spettatori di casa e del telecronista.

    Oggi gli animi sono più pacati e la convivenza in trasferta fila liscia. Di tifare davvero insieme dentro il San Vito-Marulla, però, non se ne parla proprio. La Curva Sud fa i suoi cori, la Nord altri.
    Nel match di domenica 18 contro l’Ascoli, invece, si tornerà ai vecchi tempi. Tutti uniti, anche se a distanza. In silenzio, però, per protesta contro l’ultima mossa di Guarascio e del club.

    Ultras: il miracolo di Guarascio

    Nella mattinata, infatti, il gruppo Anni Ottanta, anima della Nord, ha rilasciato un comunicato per annunciare l’accoglienza che riserverà alla squadra all’ingresso in campo: 15 minuti di silenzio. Il motivo? «Adesso il presidentissimo Guarascio ha deciso anche di chiudere la bocca ai tifosi e agli ultras che lo contestano. Una multa – si legge nella nota degli ultras – è stata notificata ad uno dei nostri lanciacori per aver osato intonare un coro offensivo, accompagnata da minacce di Daspo».

    Che l’imprenditore lametino non brilli per tolleranza di fronte a chi ne critica l’operato è cosa nota in città. Sono ancora gli Anni Ottanta a ricordarlo: «Già qualche anno fa aveva applicato il cosiddetto “daspo societario” ad un tifoso ultrasessantenne che aveva osato contestarlo nella tribuna centrale». La novità però, si diceva, è un’altra. E cioè che l’astio verso Guarascio – dopo l’ennesimo inizio di stagione fallimentare – è cresciuto al punto tale che alla protesta della Nord si unirà anche la Sud.

    «Indipendentemente dal settore in cui vengono applicati, questi provvedimenti assurdi rappresentano una minaccia per chiunque occupi i gradoni del Marulla. È per questo che tutto il popolo rossoblù – si legge in un altro comunicato, stavolta degli inquilini della Bergamini – deve dare un segnale unito e compatto. Invitiamo tutti coloro i quali prendono posto in Curva Sud a restare in silenzio per i primi 15 minuti della partita».

    Un silenzio assordante

    Niente cori all’unisono neanche stavolta, quindi. Ma «un silenzio assordante» sì. Poi l’amore per il Cosenza tornerà a trionfare (con voci distinte), sperando che i giocatori facciano altrettanto.
    Quel quarto d’ora muto per una squadra che di buono ha avuto finora quasi solo il supporto dei tifosi non è una bella notizia. Resta un dubbio nei più disillusi: dopo 11 anni di disinteresse sul tema, basteranno gli ultras temporaneamente muti per convincere Guarascio a «riflettere su quale sarebbe l’atmosfera nel nostro stadio senza la spinta e la passione del suo pubblico»?

  • Non lasciamo nell’oblio i nostri campioni

    Non lasciamo nell’oblio i nostri campioni

    «Di tutti gli sport, l’unico che ami veramente è la boxe», diceva Jack London. Non sappiamo se Giovanni Parisi, boxeur calabrese la cui storia è raccontata sul nostro giornale, conoscesse l’autore di Zanna bianca o avesse mai letto le sue cronache pugilistiche scritte per il New York Herald. È assai probabile, però, che ne condividesse l’opinione.

    Il Rocky di Calabria

    Parisi ha un destino comune ai moltissimi calabresi scappati da qui: gloria altrove, oblio nella sua terra. Dopo una carriera paragonabile per luce a quella di Benvenuti e Oliva, Parisi muore in un incidente e la città che lo aveva visto arrivare da migrante con la famiglia in cerca di una sorte migliore, ne ricorda ancora la bravura, il coraggio e la tenacia sul ring. A Voghera gli hanno intitolato uno stadio e come il Rocky Balboa cinematografico, anche una statua, per la verità più suggestiva di quella del film.

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    Philadelphia, la statua di Rocky Balboa in cima alla scalinata che percorreva per allenarsi nel film

    Un appello per la sindaca Limardo

    A Vibo, invece, non saranno in tanti a ricordarsi le sue prodezze sportive e solo due anni fa in consiglio comunale è stata avanzata la proposta di dare il nome del pugile a una strada cittadina. L’idea, però, ci risulta sia rimasta a dormire in qualche cassetto, quasi a voler prolungare la condanna all’indifferenza che la sua città ha riservato all’atleta. Sarebbe il caso di riscattare questo torto, sarebbe giusto che la sindaca di Vibo, Maria Limardo, desse il nome di Parisi a uno spazio significativo della città. Perché la Calabria è un posto strano: si inorgoglisce per record piuttosto improbabili, mentre è pronta a dimenticare chi, con la forza di un gladiatore e la velocità di Flash, sui ring del mondo ha portato la faccia piena di pugni di un terrone.

  • Giovanni Parisi, il campione dimenticato

    Giovanni Parisi, il campione dimenticato

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    Siete mai stati terroni? Il vibonese Giovanni Parisi una volta sì, quando era povero. Poi, veloce come i suoi pugni, è diventato un campione, uno dei più grandi che lo sport italiano abbia mai avuto. E più veloce ci ha lasciati, schiacciato tra le lamiere lungo le strade di Voghera, la città che lo aveva adottato. Aveva 42 anni. Lassù, nella provincia pavese dove il piccolo emigrante calabrese aveva trovato in palestra il rifugio dalle frecciate degli altri ragazzi sulle sue origini, Giovanni Parisi è ancora un eroe.

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    Giovanni Parisi, oro olimpico a Seoul ’88 tra i pesi piuma

    Oggi invece, pochi giorni dopo quello che doveva essere il suo 55esimo compleanno, di lui nella sua Calabria, nella sua Vibo, non restano che qualche sparuta traccia e sbiaditi ricordi. Eppure di questa terra – che oggi prova con dubbia grazia a intestarsi un briciolo dei successi di Marcell Jacobs celebrandone le estati rosarnesi – Giovanni Parisi resta il solo ad aver vinto una medaglia d’oro alle Olimpiadi moderne. Non solo: insieme a Nino Benvenuti e Patrizio Oliva (trionfatore però nell’edizione “dimezzata” di Mosca ’80) è l’unico pugile italiano ad avere aggiunto nella propria bacheca anche la cintura di campione mondiale, una volta passato tra i professionisti. Parisi di titoli iridati ne ha conquistati due, in altrettante categorie di peso differenti.

    Un precedente illustre

    Già, le Olimpiadi moderne. In quelle antiche, infatti, la Calabria se la cavava alla grande, tanto da potersi vantare di aver dato i natali a Milone da Crotone, probabilmente il più grande lottatore della sua epoca. Un uomo dall’appetito leggendario, come Michael Phelps, e che proprio come il plurimedagliato nuotatore statunitense aveva fatto incetta di allori olimpici imponendosi in sette edizioni tra il 540 e il 512 avanti Cristo.

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    La statua di Milone da Crotone esposta al Louvre di Parigi

    Di omaggi a Milone, però, il mondo è pieno. La Coca Cola gli ha dedicato una cartolina inserendolo tra i grandi campioni della storia delle Olimpiadi. C’è una città nel Maine (USA) che porta il suo nome. Senza contare la statua di Puget al Louvre oppure quelle nello stadio di Olimpia e nello stadio dei Marmi a Roma. O, ancora, il fatto che a citarlo nelle loro opere ci siano autori del calibro di Shakespeare, Rabelais, Dumas padre e Balzac. E come si chiama uno dei principali appuntamenti per gli appassionati di lotta greco-romana? Trofeo Milone. Giovanni Parisi, invece, di tributi, specie in Calabria, non ne ha mai ricevuti abbastanza. Né dopo la morte, sic transit gloria mundi, né quando la sua stella brillava sotto i riflettori al centro del ring.

    Milo
    Un cartello di benvenuto a Milo (USA)

    Da Vibo a Voghera

    Giovanni Parisi nasce a Vibo il 2 dicembre del 1967 ma l’abbandona ancora bambino; sua madre Carmela vuole lasciarsi alle spalle un marito uccel di bosco e cercare fortuna al Nord. Ci prova prima a Pavia, poi a Voghera. Carmela non gode di buona salute ma si ammazza di lavoro, dovunque lo trovi, per sfamare i suoi tre figli. Gli anni ’70 passano e Giovanni ha sempre meno voglia di trascorrerli tra i banchi. Irrequieto, diffidente, non esattamente il beniamino di tutti a causa delle sue origini e delle ristrettezze economiche. Una volta salta fuori dalla finestra della scuola (per fortuna la classe è al pian terreno) per darsi alla fuga. Il modo di scappare da quella vita lo trova nella boxe, sport di poveri per poveri.

    È il 1980 quando in palestra arriva quel ragazzo mingherlino, meno di cinquanta chili su un corpo sempre pronto a scattare. L’allenatore Livio Locarno, che negli anni successivi diviene quasi il padre mai avuto prima, lo chiama “nano” per temprarlo. Ma capisce presto che ha davanti uno di quei treni che, se va bene, passano una volta sola nella carriera. Il “nano” in realtà è un gigante. Di più: un campione. È velocissimo, disposto al sacrificio, con tanta fame e nessuna paura. E ha qualcosa che non tutti i pugili, anche tra i migliori, hanno: un pugno da K.O.

    Lacrime e ananas

    L’unica cosa che sembra poter fermare il ragazzo è l’ansia, che gli manda lo stomaco in subbuglio a ridosso di ogni incontro. Risolverà tutto con un semplice cracker mandato giù negli spogliatoi prima di infilare i guantoni. Da quel momento la strada per Giovanni Parisi si mette in discesa. Nel 1985 è campione italiano tra i piuma, titolo bissato un anno dopo tra i leggeri. Quando le Olimpiadi di Seoul si avvicinano, però, si rompe il metacarpo di una mano. È fuori dalla selezione azzurra in partenza per la Corea del Sud.

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    La nazionale italiana di boxe in partenza per Seoul ’88

    Ritroverà un posto solo grazie a un infortunio identico al suo occorso al collega Cantarella. Ma Franco Falcinelli, il selezionatore della delegazione italiana, non vuole che partecipi nella sua categoria abituale. Per il c.t. la concorrenza lì è troppa, Giovanni Parisi deve dimagrire per tornare tra i pesi piuma, pena l’esclusione dalla squadra. Inizia una corsa contro il tempo: sacrifici, sudore e tonnellate di ananas per tenersi in forza ma perdere peso. Poi, improvvisa, la morte di mamma Carmela. Parisi, distrutto dal dolore, si mette in testa di dover vincere per lei, per restituirle tutto quello che gli ha dato. E si presenta puntuale e in forma smagliante all’appuntamento con la Storia.

    Il bambino d’oro: Giovanni Parisi diventa Flash

    I Giochi dell’88 rappresentano una delle pagine più buie di quel grande romanzo sportivo che è la Boxe. Restano negli annali per l’oro scippato al leggendario Roy Jones Jr, che dopo aver massacrato per tutto l’incontro il suo avversario Park Si-Hun, vede i giudici assegnare il match all’incredulo e malmesso pugile di casa. Ma nessuno può battere Giovanni Parisi, non ancora ventunenne, in quei giorni.

    Il vibonese elimina gli avversari uno dopo l’altro. E quando sale per l’ultima volta sul ring gli bastano un minuto e 41 secondi per chiarire chi sia il campione. Il suo sinistro d’incontro si abbatte come un fulmine sul romeno Daniel Dumitrescu, che non riesce a rialzarsi. Con quel pugno a velocità supersonica Parisi fa suoi l’oro e un soprannome che si porterà appresso per il resto della carriera: Flash. Giovanni festeggia con una capriola poi le prime parole, i primi pensieri, sono per Carmela. E da quel giorno ogni volta che entrerà tra le sedici corde avrà al collo una mezzaluna d’oro su cui ha fatto incidere il nome della madre e la scritta “Seoul 88”.

    Flash in America

    È ora di passare tra i professionisti. E Parisi anche lì fa scintille. Il primo incontro senza caschetto lo disputa nel 1989 proprio in Calabria, nell’ex Cgr di Melito Portosalvo, a rimarcare il legame indissolubile con la sua terra natia. Tre riprese e l’americano Kenny Brown finisce K.O.
    Il titolo mondiale, invece, se lo aggiudica nella sua città d’adozione: il 25 settembre 1992 a Voghera manda a tappeto Francisco Javier Altamirano. La cintura di campione del mondo Wbo dei pesi leggeri è sua. La difende due volte, poi decide di lasciarla per passare tra i superleggeri.

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    Altamirano va giù e non si rialza, Parisi è campione mondiale

    Vuole l’America, si trasferisce lì, entra a far parte della scuderia di un altro mito della boxe (e della truffa): Don King. Il promoter dai capelli elettrici in quegli anni è il dominus della Noble art e gli organizza la sfida dei sogni: a Las Vegas Giovanni Parisi proverà a strappare la cintura Wbc nientepopodimeno che a Julio Cesar Chavez. Il Toro di Culiacàn si rivelerà un osso troppo duro per lui. Parisi resta in piedi fino all’ultimo, ma la sconfitta ai punti è l’unico verdetto possibile. L’appuntamento col secondo titolo mondiale, però, è solo rimandato.

    Giovanni Parisi torna in Calabria: la bomba a Vibo

    Parisi torna in Europa e nel 1996 a Milano si prende la cintura Wbo dei superleggeri sconfiggendo il portoricano Sammy Fuentes. Decide di difenderla nella sua Calabria, in quella Vibo che ha dovuto lasciare da piccolo. L’accoglienza non è esattamente quella che si riserva al figliol prodigo. Le operazioni di peso si svolgono nell’Hotel 501, ma pochi minuti dopo a due passi dalla hall scoppia una bomba. «È il racket, escluso dall’incontro, che ha voluto farsi sentire in maniera rumorosa? O una premessa estorsiva ai titolari del grande albergo?», chiede Pantalone Sergi dalle colonne di Repubblica. Domande che resteranno senza risposta.

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    Il manifesto dell’incontro, poi spostato, in piazza San Leoluca a Vibo

    Non è l’unico problema da affrontare per Parisi in quei giorni. Monsignor Onofrio Brindisi, parrocco del duomo cittadino, ha costretto gli organizzatori a spostare l’incontro da piazza San Leoluca alla periferia di Vibo. Secondo il prelato, disputarlo di fronte a una chiesa profanerebbe la sacralità del luogo. «Un’offesa alla cristianità? Spero – commenta Parisi – di far cambiare idea a monsignore. Vibo Valentia è la mia città natale e avevamo pensato di valorizzarla facendo ammirare in televisione le sue bellezze artistiche». Sarà per un’altra volta. Parisi sconfigge comunque l’inglese Nigel Wenton e festeggia tra i suoi corregionali. Sul ring dalle nostre parti, però, non risalirà più.

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    Giovanni Parisi festeggia la difesa del titolo sul ring di Vibo

    Il lungo addio

    Negli anni a seguire il pugile calabrese difende la cintura altre cinque volte, prima di doverla cedere al messicano Carlos Gonzalez. Prova a riprendersene una un paio d’anni dopo passando tra i welter, ma perde la sfida decisiva contro il portoricano Daniel Santos. Poi i problemi a quella mano che rischiavano di fargli perdere le Olimpiadi dell’88 ritornano, costringendolo a restare lontano dal ring per un paio d’anni. Annuncia più volte il ritiro, poi torna sempre, spinto dalla passione. Ha un’ultima grande chance, prendersi il titolo europeo dei welter contro il francese Frederic Klose. Subisce una batosta, le immagini di suo figlio che piange a bordo ring conquistano le pagine dei giornali. E lui, dicendo addio a quella boxe che gli aveva dato tutto strappandolo alla povertà, dedica al bambino una struggente lettera dalle colonne della Gazzetta dello Sport. È il 2006.

    Nemo propheta in patria: la Calabria e Giovanni Parisi

    Il 25 marzo del 2009 sulla circonvallazione di Voghera una BMW si schianta poco prima dell’ora di cena contro un furgone. Tra i rottami dell’auto c’è il corpo di Giovanni Parisi. Lì dov’era stato terrone, ora tutti piangono quello che considerano da tempo il loro campione. Danno il suo nome allo stadio e nel decennale della sua morte gli dedicano, col supporto della Rosea, una statua che lo ritrae mentre esce da una pagina del giornale per sferrare uno dei suoi formidabili pugni.

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    Voghera, la presentazione della statua dedicata a Giovanni Parisi

    Vibo, invece, fatica a ricordarlo. Ci provano i tifosi, che di recente hanno realizzato anche un bel documentario dal titolo Flash – La storia di Giovanni Parisi, un po’ meno le istituzioni locali. Certo, c’è ancora la decrepita targa che ricorda l’intitolazione di una struttura nel 2011 al pugile scomparso. Deserta la messa celebrata in suo onore nel 2016. A fine 2020 dal Comune arriva l’annuncio che, su proposta del pentastellato Marco Miceli accolta all’unanimità dagli altri consiglieri, una delle tredici “via Roma” presenti in città diventerà “via Giovanni Parisi”. Due anni dopo pare siano ancora tutte e tredici lì. Quella strada, dichiarava Miceli, avrebbe dovuto «essere da esempio e da stimolo per le nuove generazioni vibonesi, affinché credano nei propri sogni, trovando la forza di non mollare mai». Forse conviene la cerchino altrove, a Voghera magari.

  • Gigi Marulla, monaci e utopie: benvenuti a Stilo

    Gigi Marulla, monaci e utopie: benvenuti a Stilo

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    I viaggiatori politicamente corretti si riconoscono subito, fanno tenerezza. Ricordano Silvio Orlando in Ferie d’agosto, quando cerca vanamente di isolarsi dai rumori, dalla cafonaggine e dall’invadenza dei suoi vicini. Tenta inutilmente di arginare il mondo reale, rifugiandosi in un paradiso naturale, senza acqua corrente né elettricità, che rivelerà, però, tutti i suoi limiti.

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    Silvio Orlando in Ferie d’agosto (Paolo Virzì, 1996)

     

    I viaggiatori motivati, informati, consapevoli non li incroci nei luoghi più affollati. Se anche dovessero transitare su un lungomare, o in un centro commerciale, non si farebbero notare. Vestono in modo sobrio, quasi dimesso. Non ostentano videocamere e altre apparecchiature elettroniche. Non si espongono neanche troppo agli sguardi, dato che il più delle volte sono pallidi per le ore trascorse sui libri più in voga, nei musei e nei teatri.
    In un posto come Stilo, in provincia di Reggio Calabria, li individui subito, invece, perché spiccano in mezzo agli abitanti del borgo che ha dato i natali a Tommaso Campanella.

    Stilo, la terra dell’utopia

    Come accade in ogni paese del Sud, anzi in ogni meridione, i nativi osservano con sguardo compassionevole e divertito i viaggiatori che ammirano il paesaggio, rapiti dallo spettacolo. Per un nativo di Stilo quello è il panorama quotidiano, abituale, delle faccende di ogni giorno, lavoro, spesa, scuola, chiacchiere. Per un viaggiatore colto e curioso sbarcare a Stilo significa calpestare la terra dell’utopia, dove è nata la trama de La Città del Sole, la comunità perfetta immaginata dal filosofo.

    La Città del Sole, l’opera più famosa del filosofo Tommaso Campanella

    Non per caso ha scelto di chiamarsi Città del Sole anche l’albergo che affaccia sul corso del paese, ricavato da un immobile sequestrato alla criminalità. Un posto confortevole, funzionale, di misurata eleganza, con un bel terrazzo a disposizione degli ospiti, che riposando lì possono rielaborare i pensieri affiorati alla mente durante le passeggiate tra le chiese e le case di Stilo. Tommaso Campanella fu rinchiuso per quasi trent’anni in un carcere dagli spagnoli, per aver organizzato una congiura contro il dominio straniero, da queste parti. A quei tempi spagnoli e baroni, oggi la ‘ndrangheta e i suoi legami con la politica.

    Marulla e granite nel silenzio

    Il luogo di maggior richiamo ovviamente è la Cattolica; oggi la piccola chiesa bizantina è inserita in un percorso che segnala eremi e chiese rupestri, per viaggiatori che amano muoversi a piedi o in bicicletta, un turismo lento e rispettoso dei luoghi e del silenzio che regna, un bene prezioso da tutelare.
    Infatti intorno alla Cattolica i visitatori sono decisamente à la Silvio Orlando, ammiriamo la bellezza del sito e scrutiamo le pietre e le colonne, alla ricerca di una rivelazione misterica. Individuato come cosentino dal vigilante, vengo informato che il grande Gigi Marulla è nato a Stilo, il mio interlocutore è suo cugino. Non è proprio una rivelazione trascendentale, ma mi accontento. Sul calcio sono sprovveduto, devo compiere un percorso di iniziazione.

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    Il ricordo di Gigi Marulla all’ingresso della scuola calcio che aveva fondato

    Unica concessione al consumismo, davanti all’ingresso dell’area della Cattolica, un piccolo chiosco di bibite e gelati, segnalato in rete per la bontà delle granite artigianali. Mi concedo pure io la granita, anche se sono arrivato in macchina. Cerco di essere un viaggiatore politicamente corretto, ma subisco tutto il fascino del turismo becero. Poi col caldo di fine estate non sarei mai arrivato vivo a Stilo, marciando attraverso la montagna, con le provviste in spalla, come i fieri escursionisti che mi circondano, sudati e soddisfatti.

    L’eremo a Pazzano

    Il direttore dell’albergo Città del Sole insiste, dobbiamo assolutamente visitare l’eremo di Santa Maria della Stella, a Pazzano, comune confinante con Stilo. Così lasciando Stilo elaboro un breve itinerario mistico-montano e ci avviamo.
    Dopo pochi chilometri e tante curve arriviamo all’eremo, in una posizione meravigliosa, con una vista splendida sullo Ionio. Naturalmente arrivano alla spicciolata altri viaggiatori consapevoli, alcuni con bambini al seguito, che per ora subiscono i viaggi culturali imposti da mamma e papà, in attesa di diventare grandi e fuggire verso le discoteche dello sballo.
    Cerchiamo di capire come accedere alla grotta, è stato organizzato un sistema di apertura con moneta, un euro a persona, come contributo per l’illuminazione e le pulizie del luogo.

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    L’eremo di Santa Maria della Stella

    Una signora piuttosto scorbutica non si degna di rispondere alle educate richieste di spiegazioni. Temiamo di rimanere rinchiusi per sempre nell’eremo, una volta entrati. Potrebbe essere pure una soluzione a tanti problemi della vita che tentiamo di lasciarci alle spalle andando per eremi bizantini. Vedo inconsapevoli bambini seguire fiduciosi i genitori nella grotta, quando capiranno i rischi a cui sono stati esposti saranno dolori.

    Un viaggio nel tempo fino a… Bivongi

    Ultima tappa a San Giovanni Theristis, nel comune di Bivongi. Un monastero bizantino riportato in vita da un monaco greco, partito dal Monte Athos per recuperare questo angolo di Medioevo dimenticato dai calabresi. Solita strada orrenda, soliti viaggiatori pazienti alla ricerca del sacro. Sembra davvero di viaggiare nel tempo, qui. I monaci non ci degnano, passano silenziosi attraverso il prato, immersi nelle proprie faccende. Caprette e galline negli spazi riservati alla vita quotidiana.

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    Bivongi, il monastero di San Giovanni Theristis

    I monaci non colgono gli sguardi desiderosi di ascesi e incuriositi dei turisti pellegrini dello spirito. Si comportano sempre così, forse la loro regola li obbliga a mantenere le distanze. Non si coinvolgono come i sacerdoti cattolici, sempre in mezzo alla gente, a sbracciarsi nell’accoglienza e nell’inclusione delle pecorelle smarrite (sennò papa Francesco li rimprovera), a mostrarsi comprensivi e indulgenti verso le magagne dei peccatori. I monaci ortodossi, mi pare, non si fidano dei cattolici, custodiscono ancora la memoria della crociata del 1204, quando i cavalieri con la croce, anziché attaccare i musulmani, saccheggiarono Costantinopoli e le sue chiese. Certo che dopo ottocento anni potrebbero pure metterci una pietra sopra. Poi non credo ci siano molti cattolici praticanti tra i visitatori degli eremi sperduti.

    Via dal paradiso

    Andiamo via consapevoli che il paradiso terrestre per ora non possiamo permettercelo, ci tocca tornare nella vita quotidiana. Sosta a Monasterace Marina per qualche conforto materiale. Spiagge affollate, musica ad alto volume, corpi abbronzati ed esposti impudicamente, pure quando le pance e i culi cascanti richiederebbero veli pietosi. Sempre il solito dilemma, godersi i beni terreni più immediati o faticare per distaccarsi dalle miserie del mondo? Ci vorrebbe un consiglio bibliografico di Tommaso Campanella. Durante i trent’anni di carcere avrà avuto modo di chiarirsi tante questioni per noi ancora irrisolte.
    Intanto ci tocca la statale 106, un purgatorio moderno.