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  • Benvenuti a Crotone, la città che vive in fondo alle classifiche

    Benvenuti a Crotone, la città che vive in fondo alle classifiche

    Misurare le grandezze economiche e sociali per comprendere meglio il livello di sviluppo delle comunità è questione di crescente interesse nella comunità degli esperti e dei decisori. Il principale indicatore della crescita – il prodotto interno lordo – era stato introdotto a valle della Grande Crisi del 1929. Include tutti i tasselli del reddito prodotto, che però non necessariamente stabiliscono il grado di benessere delle popolazioni.

    Dal Pil al Bes

    Già nel 1968 Robert Kennedy affermava che «il nostro Pil comprende l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le ambulanze per liberare le autostrade dalle carneficine. Mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte e le carceri per le persone che le forzano…In breve misura qualsiasi cosa, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta». Il lavoro di analisi finalizzato a riformulare gli indicatori con cui leggiamo la struttura della società e dell’economia è partito nel 2009, proseguendo per un decennio. Ha portato formalizzare una nuova metrica dello sviluppo, basata sulla misurazione del benessere economico e sociale (Bes).

    Anche l’Istat si adegua

    Da qualche anno l’Istat ha cominciato a pubblicare l’andamento degli indicatori nazionali secondo i nuovi criteri di benessere a livello provinciale. Questa nuova chiave di lettura consente di leggere la dotazione di capitale sociale sotto numerosi profili. Tiene conto, infatti, di sanità, servizi sociali, pubblica istruzione, mercato del lavoro, competenze educative, efficienza delle pubbliche amministrazioni, diffusione della criminalità, ampiezza delle istituzioni culturali, qualità del territorio, energia proveniente dalle fonti rinnovabili, struttura della raccolta dei rifiuti, innovazione nei brevetti.

    Qual è il posizionamento delle province della Calabria rispetto all’Italia ed al Mezzogiorno? La serie storica Istat mette anche a disposizione l’evoluzione degli indicatori dal 2004 al 2020. Noi ci limiteremo a fotografare l’istantanea dell’ultimo anno, rinviando ad una successiva occasione l’osservazione dei mutamenti che si sono determinati nel corso degli ultimi quindici anni.

    Quanto viviamo

    Partiamo dalla durata della vita, espressa come speranza di vita alla nascita, misurata in numero medio di anni. In Italia tale indicatore arriva ad 82 anni nel 2020, con un calo vistoso rispetto al 2019 (83,2), sostanzialmente per effetto della pandemia. Il Mezzogiorno registra 81,6 anni nel 2020, con un calo meno vistoso rispetto al 2019 (82,4), segno di una minore aggressività mortale della pandemia.

    La Calabria registra nel 2020 una speranza di vita alla nascita pari allo stesso dato della media nazionale (82 anni), con un calo ancora meno vistoso rispetto al dato del 2019 nei confronti del valore nazionale e meridionale (82,4). Il miglior dato provinciale è quello di Catanzaro con 82,5 anni, mentre il peggiore è quello di Crotone con 81,1.

    Infanzia: mortalità e servizi

    Se però analizziamo il dato della mortalità infantile, espresso come numero per ogni 1.000 nati vivi, la forbice tra Italia e Mezzogiorno è più visibile, ed il risultato della Calabria è complessivamente più allarmante.
    Il numero dei bimbi morti è pari a 2,9 nella media nazionale ed a 3,7 nel Sud. La Calabria registra un valore peggiore rispetto a quello meridionale, con un dato pari a 4. La peggiore performance tra le province calabresi è quella di Reggio Calabria con 4,9, mentre il dato più confortante è quello di Vibo Valentia con 2,4. Rispetto a Reggio Calabria fanno peggio in Italia solo Trapani (6,4), Enna (6), Avellino (5,6), Ragusa (5,1).

    Servizi per l’infanzia

    Passiamo ora alla percentuale di bambini che hanno usufruito di servizi per l’infanzia. In questo caso il differenziale tra Italia e Mezzogiorno è particolarmente robusto: mentre il valore nazionale è pari al 14,7%, nel Sud l’indicatore non arriva neanche alla metà (6,4%) e la distanza rispetto al Centro è abissale (21%).
    In Calabria la situazione è disastrosa, con l’indicatore regionale che è pari al 3,1%. Solo Crotone si colloca sopra il valore della media meridionale (8,8%), mentre Vibo Valentia sta all’1,8% e Reggio Calabria arriva appena ad 1,9%, con una sola provincia in Italia che riesce a fare peggio rispetto alle due province calabresi: si tratta di Caserta (1%).

    Diplomati e laureati

    Se guardiamo alla percentuale della popolazione nella fascia di età 25-34 con almeno il diploma di scuola superiore, in Italia tale valore raggiunge il 62,9%, rispetto al 54,7% delle regioni meridionali. La Calabria si allinea sostanzialmente alla circoscrizione meridionale (54,9%), ma in una forbice di forte differenziazione a livello regionale, con un valore molto basso a Crotone (44,7%) ed un risultato molto più elevato a Cosenza (58,8%). L’unica provincia italiana che registra un valore peggiore per questo indicatore rispetto a quello di Crotone è Barletta-Andria-Trani (43,5%).

    Se, nella stessa fascia di età, andiamo a misurare la percentuale dei laureati, la forbice tra Italia e Mezzogiorno torna ad allargarsi. Mentre l’intera nazione registra il 28,3% di laureati, il Sud si ferma al 22%.
    La Calabria a livello regionale è in linea con il Mezzogiorno, con il 22,1%, ma anche in questo caso le differenze sono molto sensibili a livello provinciale: si passa dal massimo di Cosenza, con il 27,3%, al minimo di Crotone con il 14,6%, poco più della metà rispetto alla migliore performance calabrese. Solo Oristano, con il 13,7%, fa peggio di Crotone in Italia per questo indicatore.

    Il primato dei Neet

    I giovani che non lavorano e che non studiano (Neet) sono in Italia il 23,3%, ma arrivano a sfiorare un terzo nel Mezzogiorno (32,6%). In Calabria questo indicatore supera un terzo a livello regionale (34,6%), ed addirittura arriva a sfiorare la metà a Crotone (47,2%). Per questo indicatore Crotone registra la peggiore performance dell’intera nazione, un primato certamente poco invidiabile.

    Le prove Invalsi

    Nella competenza alfabetica non adeguata, misurata dalle prove Invalsi, l’Italia registra il 34,1%, indicatore già preoccupante in sé. Il Mezzogiorno sta al 43,4%: quasi uno su due dei giovani meridionali deve colmare competenze di base nella espressione e nella comprensione linguistica. La Calabria varca questa soglia già drammatica, ed arriva al 49%, quasi uno su due dei giovani meridionali deve colmare competenze di base nella espressione e nella comprensione linguistica. Crotone, ancora una volta, si spinge oltre, ed arriva al 56,9%, ancora una volta il peggiore indicatore a livello nazionale.

    Nella competenza numerica, sempre misurata con i risultati delle prove Invalsi, la situazione è persino peggiore, per il Paese, per il Sud e per la Calabria.
    In Italia il tasso di inadeguatezza numerica è pari al 39,2%, mentre nel Mezzogiorno si supera la metà: 53,4%. La Calabria a livello regionale arriva al 60,3%, con la punta avanzata nella solita Crotone al 65,9%, anche in questo caso con la peggiore performance nazionale.

    I dati sul mercato del lavoro

    Se misuriamo il tasso di mancata partecipazione al mercato del lavoro, in Italia l’indicatore è pari al 19%, rispetto ad un Mezzogiorno che arriva ad un terzo della popolazione in età attiva (33,5%%). La Calabria si colloca su un valore regionale più elevato rispetto alla media meridionale (37,7%), ma con una forbice rilevante al suo interno tra il 33,5% di Cosenza ed il 48,7% di Crotone, ancora una volta in testa in questa poco invidiabile graduatoria.

    L’occupazione giovanile

    Il tasso di occupazione giovanile, nella fascia di età tra 15 e 29 anni, registra in Italia un valore pari al 29,8%, con il Mezzogiorno che arriva stentatamente ad un occupato per ogni cinque giovani (20,1%). In Calabria il valore regionale e poco inferiore alla media meridionale (19,6%), con una varianza interna provinciale molto marcata: si passa dal 23,2% di Cosenza al 12,6% di Vibo Valentia ed al 12,7% di Crotone.

    Cosenza è la città con meno no profit in Calabria

    Misuriamo infine la presenza sui territori delle organizzazioni no profit, espresse per ogni 10.000 abitanti: in Italia sono 50,7 mentre nel Mezzogiorno arrivano a 38,5. Questo indicatore esprime il capitale sociale diffuso e dedicato a specifiche finalità meritevoli di tutela e di impegno diretto da parte dei cittadini.
    In Calabria il dato è leggermente più positivo del Mezzogiorno (40,6). Vibo Valentia registra il valore più elevato a livello regionale (45,1), seguita da Catanzaro (44). Ancora una volta è Cosenza ad essere fanalino di coda nella graduatoria regionale.

    La popolazione esposta a rischio frane

    Per verificare la qualità del territorio, analizziamo l’indicatore che esprime la percentuale di popolazione esposta al rischio di frane. In Italia questo valore è pari al 2,2%, mentre questa percentuale sale al 3,2% per le popolazioni meridionali. In Calabria questo dato schizza al 4,5%, con una punta del 6,2% a Catanzaro.
    Nella raccolta differenziata dei rifiuti l’Italia ha raggiunto il 61,3%, contro poco più della metà nel Mezzogiorno (50,3%). La Calabria su scala regionale si colloca poco sotto (47,9%), ancora una volta con una forbice molto vistosa tra Cosenza (58,6%) e Crotone (30,8%).

    Crotone prima in Calabria per servizi on line dei Comuni

    Se si osserva la fornitura di servizi interamente on line da parte dei Comuni alle famiglie questo indicatore arriva al 25,1%. Un quarto delle amministrazioni comunali italiane si è attrezzato digitalmente. Questa percentuale scende al 15,6% nel Mezzogiorno.
    In Calabria questa percentuale quasi si dimezza ancora (8,7%), con una punta più positiva nella provincia di Crotone (13,9%) ed un risultato più negativo nella provincia di Cosenza (6,4%), tra i peggiori a livello nazionale.

    La Calabria delle differenze

    Il quadro d’assieme che emerge dalla lettura degli indicatori di benessere economico e sociale relativo alla Calabria evidenzia due questioni strategiche che bisogna prendere in carico. Da un lato la condizione giovanile è in estremo disagio, sia sotto il profilo delle competenze sia sotto il profilo delle opportunità di lavoro. Dall’altro lato, nel disagio generale della Calabria, non esiste una realtà omogenea: per molto indicatori la forbice differenziale tra le province è molto elevata.

    Occorre quindi comprendere innanzitutto che esistono diverse Calabrie, che viaggiano a velocità differente rispetto ad un disagio mediamente allineato a quello del Mezzogiorno. I tasti che le politiche pubbliche devono cogliere sono differenziati in funzione di questi divari interni.
    Poi, senza politiche per la qualificazione delle competenze giovanili e senza la capacità di offrire una prospettiva alle nuove generazioni, la regione sarà destinata ad incartarsi su se stessa. E ad essere un territorio, se va bene, accogliente per i vecchi.

  • Scuola a Riace, dopo i Decreti Salvini si chiude

    Scuola a Riace, dopo i Decreti Salvini si chiude

    I Decreti Salvini hanno ammazzato anche la scuola di Riace, chiusa per mancanza di alunni. Il grande murales con il faccione imponente degli antichi guerrieri venuti dal mare mostra i segni del tempo. Da quasi tre anni i bambini non passano più sotto l’effigie dei bronzi che li attendevano ad ogni suono della campanella.  Anche i corsi di italiano per stranieri e per gli stessi riacesi sono stati sospesi, tutto spostato nel plesso della frazione a mare. Con buona pace dei progetti di rilancio del borgo che avevano portato il paesino jonico sulle prime pagine dei media di mezzo pianeta.

    A lezione solo grazie ai migranti

    Come tanti micro paesi arroccati sulle colline di questo spicchio di Meridione, il borgo dei santi Cosma e Damiano paga lo scotto di uno spopolamento inarrestabile. Tra gli effetti immediati compare la chiusura sistematica di quelle scuole che non raggiungevano il numero minimo di alunni necessari a tenere aperti i battenti. Nella scuola di Riace però le cose sono precipitate solo negli ultimi tempi. Fino a tre anni fa infatti, l’istituto comprensivo – che raccoglie asilo, scuola dell’infanzia, elementari e medie –  era riuscito a mantenere aperta la scuola del borgo grazie all’affluenza massiccia dei piccoli studenti venuti da terre lontane. Eritrei, pakistani, afghani. Gli alunni stranieri hanno rimpolpato per oltre un decennio le fila degli studenti che ogni mattina frequentavano la piccola scuola colorata nel cuore del borgo.

    La mazzata dei decreti Salvini

    Poi, con l’approvazione dei decreti Salvini varati dal primo governo Conte, i progetti Cas e Sprar sono stati via via smantellati, con le famiglie costrette ad abbandonare il paese in cerca di nuove possibilità. E così, anche le due pluriclassi – un corso per i bimbi dei primi due anni, un altro per il triennio conclusivo delle elementari – sono state chiuse e i bambini trasferiti nel plesso della marina, dove convergono anche i giovanissimi studenti di Camini. Sono poco più di una ventina i bambini rimasti a vivere nelle vecchie case addossate l’una all’altra, tra loro anche una manciata di alunni migranti che, nonostante la chiusura dei progetti, non si sono mai mossi dalle colline a due passi dal mare dei bronzi.

    Il sindaco leghista gongola

    Troppo pochi i bambini per giustificare la riapertura della scuola. Con il municipio e la stazione dei carabinieri rappresentava l’unico presidio dello Stato sul territorio. I vicini borghi di Stignano e Placanica hanno pagato la stessa drammatica emorragia di studenti in seguito alla chiusura dei progetti d’accoglienza diffusa. Ma gli amministratori locali hanno tentato fino all’ultimo di scongiurare la partenza dei ragazzi.

    A Riace le cose hanno preso una piega diversa, con il sindaco leghista Antonio Trifoli (che ha preso il posto dell’ex primo cittadino Mimmo Lucano, indagato dalla Procura di Locri). Trifoli non rimpiange la vecchia realtà. «Se anche fosse possibile mantenere l’apertura della scuola – racconta il primo cittadino – se ci fosse un così alto numero di persone in accoglienza, io non sarei d’accordo a creare delle classi con persone che vengono solo da altri Paesi». E termina: «Io penso che la vera integrazione si faccia quando le altre persone si possono inserire studiando accanto ai bambini del posto. Questa è la vera integrazione. Creare le scuole ghetto, cioè dove ci sono solo bambini immigrati, secondo me non è una cosa buona».

  • Locride, dove le scuole si salvano solo grazie alle pluriclassi

    Locride, dove le scuole si salvano solo grazie alle pluriclassi

    Un tuffo nel passato delle scuole per ritagliarsi uno spiraglio, seppure piccolo, di futuro. Parte da un paradosso il tentativo dei piccoli centri calabresi di arginare la continua emorragia di nuove nascite che, negli anni, ha causato il progressivo e inarrestabile spopolamento di tanti centri delle aree collinari e montane. Nella galassia dei piccoli borghi che costellano le colline della Locride – 42 comuni affacciati sullo Jonio tra Monasterace e Brancaleone – quello dello spopolamento è un problema con cui si fanno i conti da decenni. E che, tra le tante conseguenze, ha finito col falcidiare l’offerta scolastica destinata ai più piccoli.

    Sono decine di scuole costrette a chiudere i battenti per la mancanza dei numeri richiesti. Una deriva che sembrava inarrestabilmente destinata a favorire il travaso definitivo degli studenti di elementari e medie dai centri interni a quelli rivieraschi, ma che, pescando a piene a mani nel passato più o meno recente, si sta provando ad invertire con la reintroduzione del sistema delle pluriclassi.

    Classi vintage per garantire un futuro

    A Martone e San Giovanni così come ad Agnana e Canolo, e ancora a Stignano e a Placanica e più a sud a Samo e Sant’Agata del Bianco, paese natale dello scrittore Saverio Strati: il problema della chiusura delle scuole riguarda tutti, o quasi, i mini paesi arroccati sulle colline a pochi chilometri dal mare di questo pezzo di Calabria. Spesso hanno meno di mille abitanti, in prevalenza anziani, e i bambini e gli adolescenti che dovrebbero popolare le aule, semplicemente, non ci sono.

    In totale sono 22 i Comuni che negli anni hanno visto ridotta la loro capacità di garantire la prima parte dell’istruzione obbligatoria. E così, per evitare di perdere le scuole elementari e le medie, nella maggior parte dei casi unici presìdi dello Stato presenti sul territorio, le amministrazioni comunali e le istituzioni scolastiche provinciali e regionali, hanno disegnato una nuova geografia didattica fatta di percorsi comuni e programmi condivisi da studenti di età diverse. Ad Agnana ad esempio, poco più di 500 anime arroccate alle pendici d’Aspromonte, il percorso della primaria è stato diviso in due: in una classe confluiscono gli alunni più piccoli dalla prima alla terza, nell’altra i più grandicelli che condividono il percorso del quarto e quinto anno.

    Medie o elementari, cambia poco

    Per le scuole medie l’unica scelta possibile, vista l’assenza di ragazzi e ragazze, è stata accorpare l’intero percorso formativo in un’unica classe, con quelli di prima che frequentano assieme ai loro compagni di seconda e di terza. A Martone, poco più di 600 abitanti pochi chilometri più a nord, la situazione non è molto diversa, con i bimbi delle elementari a dividersi due corsi pluriclassi. E così funziona anche a Samo, poco più di 800 abitanti a una decina di chilometri dal mare di Bianco. Qui le pluriclassi hanno riguardato sia le elementari che le medie, così come successo nei limitrofi borghi di Caraffa e Sant’Agata. E ancora a Staiti e San Giovanni di Gerace.

    La transumanza quotidiana dei bimbi

    Spesso però, accorpare più classi in una, non è sufficiente a raggiungere i numeri previsti per il mantenimento della scuola, e molti piccoli centri hanno dovuto rinunciare al loro personale “presidio di legalità”. Come successo a Pazzano, piccolissimo centro arroccato alle pendici delle Serre, i cui piccoli studenti, dopo la chiusura della primaria, sono costretti ad una quotidiana transumanza verso gli istituti di Stilo e di Bivongi. O come è accaduto a Canolo, comune costretto a sacrificare il plesso della frazione a valle per salvaguardare la scuola della frazione in alta quota e mantenere così il rapporto antico che lega la popolazione del piccolo centro con la sua secolare tradizione montana.

    Via i migranti, addio alle scuole

    La scuola elementare di Riace, in provincia di Reggio Calabria

    A complicare una situazione dai risvolti drammatici, negli ultimi due anni sono arrivati anche i decreti Salvini con le conseguenti chiusure ai tanti progetti di accoglienza diffusa presenti sul territorio della Locride, da almeno 20 anni al centro di una delle rotte più battute dai flussi migratori che interessano il Mediterraneo. L’allontanamento delle famiglie migranti ha infatti sancito, per mancanza di iscritti, la chiusura di numerose scuole nei paesini che avevano trovato nuova linfa dalle famiglie provenienti da Medio Oriente e Africa.

    Così è successo a Riace, costretta a chiudere la scuola del borgo, dove confluivano anche i bambini del limitrofo comune di Camini la cui primaria è stata chiusa negli anni passati per mancanza di alunni. Nell’ex paese dell’accoglienza erano proprio i bimbi migranti a garantire il numero minimo di iscritti per garantire almeno il sistema delle pluriclassi. Tutto finito e bimbi costretti a servirsi del bus per raggiungere la frazione marina.

    Una parvenza di normalità

    Lo stesso copione vissuto dai centri di Placanica e Stignano (insieme, meno di 3 mila abitanti) che erano riusciti a mantenere le scuole aperte grazie al flusso delle nuove famiglie venute dall’est. La chiusura dei centri di accoglienza ha comportato grandi cambiamenti e i due comuni, appollaiati su due cucuzzoli uno di fronte all’altro, per non perdere anche la scuola si sono inventati un percorso condiviso: in un centro la scuola media, nell’altro le elementari. Uno stratagemma che ha consentito di mantenere una parvenza di normalità ma che, nonostante tutto, non si è potuto sottrarre alla regola delle pluriclassi, che tra polemiche e difese a spada tratta, si è rivelato l’ultimo disperato tentativo di mantenere vive comunità che ogni giorno temono per la loro stessa sopravvivenza.