“Il mondo come io lo vedo, la filosofia e i saperi scientifici” è il titolo dell’iniziativa organizzata dal Liceo Classico Bernardino Telesio di Cosenza e dell’Università della Calabria in occasione della giornata mondiale della filosofia che si celebra il 20 novembre. Appuntamento alle ore 10:30 nella sala Docenti e biblioteca Stefano Rodotà. Saluti istituzionali di Domenico De Luca, dirigente scolastico del liceo Telesio. Introducono: Roberto Bondì, professore ordinario di Storia della Filosofia all’Università della Calabria; Francesco Valentini, professore ordinario di Fisica all’Università della Calabria. Intervengono Vincenzo Fano, professore ordinario di Filosofia della Scienza all’Università di Urbino e Giulio Peruzzi, professore ordinario di Storia della Scienza all’Università di Padova.
Non pensavo che saltando in groppa a Zeus finivo per trovarmi nel Parlamento Europeo di Bruxelles. Eppure è successo e ne sono orgogliosamente felice.
Quando, da prof, decisi di occuparmi della storia dell’Unione Europea, pensai subito di iniziare dal mito della principessa Europa, la figlia del re di Tiro, che, ammaliata e rapita da Zeus – trasformato per l’occasione in un candido e mansueto toro – si ritrovò a rappresentare un ponte fra due mondi, l’Oriente e l’Occidente, e a dare il suo nome alle terre a nord del Mediterraneo, allo spazio geografico che secoli dopo Victor Hugo immaginava come Stati Uniti d’Europa messi di fronte agli Stati Uniti d’America, pronti a “tendersi la mano al di sopra dell’oceano, scambiare fra loro merci, prodotti, artisti, scienziati”.
Ecco, questa è la mia idea di Europa: un confronto costante, un nutrimento reciproco fra civiltà, un arricchimento socio-politico-culturale per tutti. E questo è quello che ho scritto anche nel mio libro Sguardi sull’Unione Europea – Le slide raccontano edito dall’Associazione culturale Libraries Inside.
Per dare maggiore forza al mio racconto, mi sono fatta aiutare anche da grandi della letteratura che mi fanno compagnia da sempre, e quindi, fra gli altri, Dante, che ci insegna ad abbassar lo sguardo – «adima il viso» – per porci a favore di altri punti di vista e capire ciò che ancora non ci è «discoverto»; Shakespeare, con la sua lezione di umanità che fa recitare accoratamente a Shylock; Cervantes, che ci propone di andare verso l’altro come forma di riscatto per ricercare sé stessi; Joyce, la cui intera produzione letteraria ci fa riflettere sul nazionalismo esasperato che porta solo distruzione e morte; Virginia Woolf, che si è impegnata tutta la vita per dare dignità alle donne; Marguerite Yourcenar che, attraverso il suo Memorie di Adriano, ci insegna a riflettere sul significato della riconciliazione tra passato, presente e futuro.
Sguardi sull’Unione Europea, sperimentato in classe in più occasioni, attira l’attenzione degli alunni perché usa linguaggi diversi: oltre a quello storico-letterario, racconta il tema col linguaggio dell’arte, col linguaggio cinematografico e con quello musicale. Tutto ciò ha contribuito ad affermare la mia convinzione del perché essere europeisti, del perché l’Europa deve «diventare un sentimento», come sostiene Bono Vox degli U2, per vivere insieme nella nostra unica casa e annullare definitivamente la minaccia della guerra, ricordando Bob Dylan, se Dio è dalla nostra parte, fermerà la prossima guerra: è stato possibile per 80 anni, facciamo in modo che lo sia per sempre, insieme. D’altronde, come potremmo competere da singoli stati con giganti quali gli Stati Uniti, la Russia, la Cina? Riflettiamo sulle parole dei padri fondatori e delle madri fondatrici dell’Unione Europea e proviamo a non sprecare il nostro tempo, le nostre vite, a non considerarci numeri da sommare o da sottrarre nei bilanci della nostra quotidianità anonima: proviamo a sentirci persone e impariamo il rispetto reciproco. Agiamo come il capitano del film del 1983 E la nave va di Federico Fellini, quando deve spiegare ai ricchi viaggiatori della sua nave la presenza di altre persone a bordo: le loro zattere si stavano rovesciando. Raccogliere queste donne, questi bambini, queste famiglie disperate, era un dovere al quale non potevo sottrarmi.
Tutto questo ho avuto il piacere di raccontarlo anche in un’aula del Parlamento Europeo di Bruxelles il 18 marzo scorso, sostenuta e incoraggiata da cinque miei alunni, ragazzi dell’Europa, anche loro con gli occhi e il cuore pieni di passione per la conoscenza e per il bello. Nonostante la stanchezza di una giornata intensa, l’aula del Parlamento Europeo a noi destinata, gremita soprattutto di giovani delle scuole del meridione d’Italia, era comunque attenta e desiderosa di ascoltare: il mio discorso si è rivolto soprattutto a loro, come sempre nel mio percorso di insegnante ormai da decenni, un discorso che vuole avere il sapore della speranza, dell’unione tra forze che insieme possono. Il racconto si è posato anche sul Manifesto di Ventotene, un esempio di progetto di costruzione in un periodo di assoluta distruzione; ho ricordato anche la fondazione della casa editrice Einaudi, nata proprio nel momento in cui la censura offendeva il pensiero libero dei giovani che vissero nel periodo fascista, e ho rievocato il recupero di alcune delle opere d’arte confiscate dalla furia ossessiva di Hitler grazie alla conoscenza della lingua tedesca da parte di una impiegata francese che sente e annota sul suo diario quanto basta per dire “anch’io ho fatto la mia parte”.
E, a proposito della conoscenza delle lingue e della sua importanza, che bello poter assistere a come si lavora nel Parlamento Europeo con 24 lingue diverse! Un esempio concreto di diversità come ricchezza, non certo come ostacolo, input da lingue di partenza che si trasformano in output di nuova derivazione linguistica, un lavoro eccezionale oggi reso più semplice grazie alle tecnologie di ultima generazione le quali comunque, non dimentichiamolo, sono sempre affiancate dalle competenze straordinarie di traduttori professionisti, ognuno dei quali conosce perfettamente dalle quattro alle otto lingue almeno.
Facciamo quindi in modo che, nei luoghi della democrazia per eccellenza, negli spazi che danno alla parola (da qui Parlamento) il suo giusto ruolo di protagonista, si avviino discorsi di costruzione fra le parti all’insegna di una identità comunitaria propositiva che vuole continuare a vivere in pace e vuole impegnarsi a risolvere quelle mancanze, quelle incompiutezze che ancora oggi oppongono resistenza al sogno di un’unione europea libera, democratica, sicura.
L’Unione Europea, oggi più che mai, è come il pugile in difficoltà nel quadro Taking the Count di Thomas Eakins: ognuno nella propria parte deve aiutarlo ad alzarsi e, con dignità, deve portarlo alla vittoria.
Allarme siam fascisti! Perché quelli col fez e le camicie nere non ci sono più, è vero, ma hanno sembianze diverse e non per forza nuove, anzi continuano a puzzare di orrore.Il Fascismo lo abbiamo inventato noi italiani e non ce ne siamo liberati mai. Un trauma culturale che non abbiamo affrontato, eluso con tenacia, raccontandoci le atrocità compiute dalle SS e tacendo quelle perpetrate dai repubblichini, ma ancora di più tacendo sui decenni durante i quali i diritti più semplici sono stati annichiliti da un regime crudele e assassino, funzionale a interessi complessi e noti.
Oggi quella operazione di rimozione trova il suo culmine quando gli eredi di quel passato, sempre sentitisi estranei dentro una democrazia liberale, cercano l’affondo revisionista stando al governo e l’ipotesi di riforma sul premierato ne rappresenta l’ultimo sforzo in questo senso.
Il fascismo eterno
Il fascismo non c’è più, ma a dirlo sono solo i fascisti. Una specie di negazione di se stessi, di codardia fatta di equilibrismi linguistici: «Sono afascista», pare dicesse di sé Giuseppe Berto e da lì a scendere fino a Meloni, La Russa con il suo museo privato di reliquie del Ventennio, Lollobrigida, Sangiuliano e compagnia.
Eppure le tentazioni autoritarie, repressive, censorie, perfino vendicative, restano palesi, quotidiane: studenti manganellati, presidi e docenti dissidenti intimiditi, pulsioni razziste liberate da ogni remora. Sì, il fascismo storico non c’è più, perché ogni cosa è cambiata, eppure sopravvive forte quello che Eco chiamava il “fascismo eterno”, fatto di sospetto verso la cultura, derisione rivolta agli atteggiamenti critici, populismo identitario come risposta all’insicurezza sociale generata dalle crisi.
Il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni (FdI) posa in occasione del giuramento
Paura e capri espiatori
L’orizzonte geopolitico di chi oggi governa il Paese è rappresentato dall’autoritarismo, che è sempre negazione dei diritti, come la libertà di espressione, dell’autodeterminazione delle donne, di una scuola e di una informazione libere. La destra cavalca il populismo, che ha assunto marcatamente caratteristiche di regressione democratica, perché reagisce alle crisi con risentimento, proponendo di arroccarsi come difesa dalla paura. E quest’ultima è sempre stata una condizione emotiva capace di mobilitare le masse attorno a leader carismatici e contro utili capri espiatori.
Autorità e frustrazione
La semplificazione delle questioni è ancora il motore dei fascismi e ha lo scopo di consumare la componente liberale delle democrazie. Su questo sono drammaticamente attuali le parole di Fromm, quando spiegava che nelle crisi prevalgonola tentazione di identificarsi con figure autoritarie e la spinta a scaricare le proprie frustrazioni su gruppi minoritari.
La cronaca di questi mesi ci restituisce proposte politiche contro l’aborto, contro i migranti, contro i diritti diffusi cui rinunciare in cambio di una effimera promessa identitaria.
A scuola di Resistenza
Il fascismo è ancora sempre questo: indifferenza verso le sofferenze sociali, veder annegare i migranti e sentirsi spiegare che era meglio se restavano a casa loro, incapacità di capire la complessità e risolvere il tutto individuando nemici. Il “me ne frego” delle camicie nere non è mai morto, per questo oggi è indispensabile non solo ricordare la Resistenza, ma fare Resistenza.
I modi sono diversi, il più efficace resta quello che Gramsci suggeriva in una lettera destinata al figlio Delio, in cui parlava di scuola e della necessità di studiare la Storia. Serve per riconoscere e smascherare i mostri anche se certe volte sembrano sorridenti. Conoscere il fascismo in ogni sua forma.
Buona Liberazione a tutti, non solo oggi.
Assunta Morrone si divide tra la scuola e la scrittura. Due grandi passioni che camminano insieme. È dirigente scolastico dal 2007. Tra i suo libri compaiono titoli come Il Bosco, Io e Velazquez, La Maratona (Artebambini di Bologna), Ardian che voleva svuotare il mare (Expressiva edizioni), Eustachio Naumann. Le montagne che camminano (Falco Editore). Alcuni suoi testi (e di Allen Say) hanno animato lo spettacolo Storie in musica, di scena al teatro Rendano di Cosenza.
La guerra raccontata ai bambini. Come nasce l’idea della sua storia andata in scena al Teatro Rendano?
«La guerra non è l’unico tema trattato nel concerto-spettacolo andato in scena al Rendano, ma sicuramente comporta la messa in gioco di emotività e sensibilità legate all’attualità e provoca negli ascoltatori, peraltro molto giovani la condizione e il desiderio di dire “no alla guerra”, la stessa guerra che invece attanaglia i tempi presenti e su più fronti. È necessario che si ritorni a sensibilizzare le giovani generazioni sui temi duri della guerra per dare loro gli strumenti per poter partecipare alla nascita di un mondo senza ostilità, senza stragi, senza soprusi. Il percorso ha previsto, oltre alla guerra, un passaggio sulla storia del Kamishibai, per poi passare ai temi dell’amicizia, dei sentimenti familiari, della fantasia (con un omaggio a Gianni Rodari) e della poesia (con il passaggio su Dante). Tutto il canovaccio teatrale è stato ideato da me e dal maestro Massimo Belmonte come percorso sulla narrazione agita e resa spettacolare».
Questa idea è stata alla base delle tante collaborazioni?
«Storie in Musica ha preso l’avvio da una progettazione più ampia che ha messo insieme tanti soggetti in una sorta di prova zero che, a seconda degli esiti, poteva diventare riproducibile e trasferibile in altri contesti.L’Orchestra Sinfonica Brutia ha fatto propria la proposta progettuale nella persona del maestro Francesco Perri e, per la parte organizzativa, della dottoressa Annarita Callari, in collaborazione con l’associazione teatrale Porta Cenere di Cosenza, l’ente di formazione e casa editrice Artebambini e l’Associazione Kamishibai Italia, che hanno entrambe sede a Bologna. All’interno del concerto- spettacolo la messa in scena di tre linguaggi della narrazione, i testi, le immagini e le musiche di altrettante storie scritte per kamishibai, strumento antico di origini giapponesi in grado di produrre una speciale ricaduta negli ascoltatori. Ringrazio tutti gli illustratori con cui ho lavorato, Francesca Carabelli, Jole Savino e Lida Ziruffo ma anche i musicisti Giuseppe Musumeci, compositore del primo brano e direttore d’orchestra e Massimo Belmonte che ha musicato gli altri cinque brani previsti nel Concerto-Spettacolo. Le voci di Elisa Ianni Palarchio e Mario Massaro, attori professionisti, formati sulla lettura per kamishibai, ci hanno regalato emozioni a iosa, in tutte le letture ma soprattutto in quella dedicata alla guerra. Mi corre l’obbligo di ringraziare Gianpaolo Palumbo per la grande competenza di gestione delle immagini e l’estro creativo su alcuni passaggi del grande Kamishibai che è diventato il palcoscenico, l’associazione il Delfino per aver permesso la realizzazione di un laboratorio destinato ai minori stranieri non accompagnati, ospiti del Sai di Mendicino, il cui esito ha arricchito la parte illustrata, non solo formalmente. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza la partecipazione di ben dodici scuole di Cosenza e provincia che hanno accolto il nostro invito. Una scuola in particolare della nostra città ha curato le riprese video della prima matinée: si tratta dell’Istituto d’Istruzione Superiore Da Vinci-Nitti che ringrazio di cuore».
E poi Dante? Ci ricorda quanto abbiamo bisogno di poesia e letteratura. A qualsiasi età. Sin da piccoli…
«L’umanità è poesia, abbiamo bisogno di immergerci nella poesia e nella letteratura perché ci appartiene e ci identifica. Il nostro sentire individuale si fonde con un sentire collettivo, universale ed è necessario che la consapevolezza possa formarsi da subito, tra i bambini molto piccoli, in un percorso dall’infanzia all’adolescenza. Il progetto identifica tra le priorità anche attività di educazione ai sentimenti e alle emozioni. Il Dante, protagonista della narrazione, è un bambino che immagina la sua vita futura e si mette nella condizione di confrontarsi con i suoi coetanei esortandoli a guardare il mondo con il suo metodo, quello dell’osservazione e dell’immaginazione. Crescendo, quegli stessi bambini riconosceranno il Sommo Poeta e forse sarà più facile per loro appassionarsi nella lettura e comprensione dell’opera complessa che ci ha lasciato in eredità».
Perché ha scelto la forma del Kamishibai? C’è qualche motivo particolare?
«Ho conosciuto il Kamishibai nel 2011, grazie alla promozione e alla diffusione che ne faceva, già da qualche tempo Artebambini, con cui è iniziata una collaborazione che ha portato a molte pubblicazioni e alla proposta di formazione nelle scuole, curata dagli esperti della casa editrice con competenza e passione. Scrivere storie per il Kamishibai è esperienza difficilmente paragonabile: i testi seguono un andamento particolare, non devono essere troppo lunghi, hanno un contraltare nelle illustrazioni e nel progetto da me ideato un rapporto stretto anche con la musica. Oggi in Italia il lavoro di formazione e promozione di Artebambini con il Kamishibai, ma anche nell’abito più complessivo della letteratura per l’Infanzia, è molto ampia e di grande qualità. Una delle prove più tangibili di questo impegno si ritrova nella Rivista Dada, una rivista d’arte per bambini che coglie la storia, i metodi, le narrazioni, i laboratori didattici. Narrare con il Kamishibai offre allo scrittore la possibilità di entrare nel vivo dei temi trattati, nella sinergia giusta con gli altri linguaggi».
Lei ha già scritto diversi libri. Cosa bolle in pentola in questo momento?
«I progetti a cui sto lavorando sono di diversa natura: a breve in uscita una raccolta di liriche che attraversa un periodo lungo della mia scrittura e ne coglie i passaggi storici e geografici più significativi, in tutta la loro essenza poetica, a breve anche la conclusione di una saga per ragazzi sulle avventure di un falco grillaio amato dai lettori che torna più forte di prima con la sua terza storia ambientalista e poi tanto altro ancora nell’alveo della letteratura per bambini e ragazzi e non solo di cui vi darò indicazioni a tempo debito».
Visitare la Bovesìa, con i suoi centri spopolati, è come fare un salto nel tempo. Tra l’alternarsi dei gialli, dei verdi, di quei marroni sovrastati dal bagliore delle rocce bianche della fiumara Amendolea, ogni metro percorso racconta pezzi di una storia spezzata. Pezzi di comunità sparite che si sono lasciate alle spalle un passato di compattezza ed unità che non c’è più.
La piazzetta di Gallicianò
Arrivando nella piazzetta di Gallicianò, comune di Condofuri, alveo di una delle tante varianti linguistiche del grecanico, una bandiera greca sventola solitaria.
Gallicianò è un paese ormai per lo più vuoto. Eppure è ancora teatro di manifestazioni culturali come quella cui sono venuto a partecipare: la presentazione del progetto europeo Coling,un percorso di ricerca e di studio internazionale per la valorizzazione, il rafforzamento e la rivitalizzazione del greco di Calabria come lingua minoritaria. La mia visita segue quella di qualche mese fa a To Ddomàdi Grèko, la settimana di formazione linguistica intensiva che da alcuni anni si svolge a Bova Marina e in cui si sono formati molti dei collaboratori di Coling.
To Ddomàdi Grèko
«Negli ultimi 50 anni la nostra associazione si è battuta per la tutela, la promozione e la valorizzazione della grecità calabra. Da nove anni, ogni agosto, realizziamo a Bova un corso di grecanico che è in realtà percorso formativo full immersion di una settimana. Partiti in 15, oggi siamo in 70, l’interesse va via via crescendo ed ospitiamo giovani e adulti di Reggio, provenienti da altre regioni di Italia e stranieri. Abbiamo creato un’iniziativa che combina la pura formazione linguistica alla riscoperta di tradizioni, cultura e territorio. La lingua è il collante che ci fa incontrare, confrontarci, dialogare».
Danilo Brancati firma gli attestati di partecipazione alla Settimana Greca di Bova
Danilo Brancati è il presidente di Jalò tu Vua, una delle più longeve associazioni culturali che, dagli anni Settanta, si occupa di quest’ambito. La sua associazione è l’ideatrice di quest’iniziativa che trasporta la formazione classica in uno spazio totale di apprendimento collaborativo. E promuove l’incontro tra gli ultimi nativi parlanti ed i neofiti.
Grazie a questo impegno, la Bovesìa ha fatto scuola. Me lo racconta Gian Lorenzo Vacca, attivista salentino e ricercatore del progetto Coling: «La Calabria Greca per me è un pezzo di cuore perché è dove ho capito qual era la mia strada. Guardando il lavoro dei ragazzi di Jalò tu Vua, ho capito che il modello funzionava e poteva essere replicabile. Ho formato un gruppo di appassionati, abbiamo rilevato l’associazione Grika Milume, siamo venuti a partecipare ai lavori di To Ddomàdi Grèko e, nel giro di un anno, nel 2021, abbiamo organizzato la prima edizione della Settimana Greco-salentina, I Ddomàda Grika. Senza questa esperienza calabrese non saremmo stati qui a parlarne adesso».
Una lingua deve vivere
«Per noi era importante insegnare una lingua che sta scomparendo, ma non volevamo che avvenisse in un contesto accademico. La lingua non vive – non solo – attraverso lo studio di regole grammaticali. Vive se viene usata. In un confronto costante con i pochi parlanti nativi ancora in vita. Perché consente di entrare in contatto con quel sistema culturale, valoriale, di saperi giunto fino a noi. Che esisterà fin quando ci sarà anche un solo parlante. Di parlanti oggi ne abbiamo persi parecchi. Per questo è importante trasmettere questo patrimonio».
Danilo Brancati
Il problema per Danilo non è (solo) legato al numero di parlanti effettivi, ma all’approccio con cui una lingua e la sua cultura di riferimento vengono vissute. A prescindere dal numero. «Quest’anno abbiamo ampliato l’offerta formativa ed esperienziale che Jalò tu Vua propone. Alle classi standard – principianti, livello intermedio, avanzato – e a quelle per bambini che prevedono forme di apprendimento giocoso, si è aggiunta quella rivolta agli insegnanti di latino e greco. Vogliamo favorire connessioni culturali tra il sapere autoctono e quello che si studia ad esempio nei Licei classici».
Studenti dialogano con i grecanici anziani
Il progetto Coling
To Ddomàdi Grèko si è rivelata un laboratorio di ricerca e applicazione didattico-linguistici anche nel progetto “Coling – Lingue minoritarie, maggiori opportunità. Ricerca collaborativa, coinvolgimento della comunità e strumenti didattici innovativi”, il primo del genere a mettere in contatto la comunità dei Greci di Calabria con l’accademia. Coordinato dall’Università di Varsavia, con il contributo di Università e centri di ricerca europei e del Gruppo di Azione Locale Area Grecanica, il progetto ha svolto una ricerca collaborativa assieme alla comunità dei parlanti greco-calabri, elaborando metodologie e strumenti didattici nuovi per un insegnamento a 360 gradi del grecanico fin dalla più tenera età.
Un momento della presentazione del progetto Coling
Cofinanziato con oltre 1 milione di euro e partito nel 2014, si è chiuso a fine settembre a Gallicianò con la presentazione di risultati: un manuale grammaticale, un corso on line di lingua grecanica., un videogioco, due giochi da tavolo educativi, schede di apprendimento linguistico per l’infanzia. Oltre all’elaborazione di un sistema di standardizzazione ortografica delle varianti linguistiche greco-calabre.
Una comunità di parlanti in agonia
A chiarirmi la complessità della situazione è Salvino Nucera, intellettuale, poeta, autore grecanico di Chorio di Roghudi e antesignano della battaglia per la tutela della minoranza greco-calabra. «Oggi i grecanici sono circa un migliaio, di cui parlanti 300 scarsi». Uno stillicidio che nei secoli ha degradato il greco di Calabria da lingua predominante di tradizione orale in tutto l’Aspromonte a macchia culturale resistente.
Un processo lungo, durato secoli, in cui la compattezza della grecità culturale e linguistica entra in crisi: il declino politico e culturale di Bisanzio, la diffusione del rito latino nella liturgia e nella predicazione della Chiesa, il tramonto del monachesimo basiliano e, più recentemente, le ragioni unitarie, la propaganda fascista, l’emigrazione, la delocalizzazione, il pubblico ludibrio e il senso di inferiorità culturale percepito assestano un colpo quasi mortale a questo “spazio” culturale. Oggi i grecanici sono una comunità sfilacciata, a volte sparsa, quasi frutto di una diaspora e preda di un inesorabile disfacimento.
Salvino Nucera
Salvino Nucera, il poeta greco-calabro
«Sono contento che una nuova generazione volenterosa e curiosa stia proseguendo sulle nostre orme, perché per me si è trattato di un impegno e di una passione per la vita». Salvino Nucera non è solo colui che, assieme ad Alessandro Serra, fondatore di Teatropersona, sta traducendo le tragedie di Euripide in greco di Calabria. È anche l’antesignano che, tra gli anni Settanta e Ottanta, assieme agli allora ragazzi dell’associazione Jonica si batte per la tutela della minoranza greca. Ed è tra coloro che hanno riaperto la stagione della produzione scritta in grecanico.
«L’ultimo precedente è databile alla fine del Seicento: un testo scritto da un sindaco bovese pro-tempore. Nel 1981 Giovanni Andrea Crupi pubblica La Glossa di Bova, traduzione di cento favole esopiche in greco di Calabria. Nel 1986 esce il mio primo libro. All’inizio pensavo in dialetto, scrivevo in grecanico e ritraducevo in italiano. Poi ho capito che avrei dovuto partire pensando direttamente in greco».
Dal nucleo originario di Jonica si staccarono una serie di cellule. E andarono a costituire organizzazioni diverse: Apodiafazzi, Comelca – Comunità greca di Calabria -, Jalo to Vua, per citarne qualcuna. Ma qualcosa secondo Salvino non ha funzionato.
I fondi della legge 482
«C’è stata poca sinergia. I fondi stanziati dalla Provincia di Reggio Calabria attraverso la legge 482 per le minoranze linguistiche hanno scatenato gelosie e sono stati male utilizzati. L’impatto di quanto finanziato è stato limitato. Ha prevalso lo spirito greco della divisione. Faccio un esempio: i corsi di lingua grecanica promossi dalla Provincia come specializzazione per la Pubblica Amministrazione venivano pagati profumatamente. Spesso però i partecipanti non figuravano e il controllo era scarso. Successivamente con quei fondi il GAL Area Grecanica realizzò alcune pubblicazioni. Una la feci anche io con Rubbettino. Poi poco altro». Tuttavia, dopo la recente presentazione del piano regionale di dimensionamento scolastico, appellandosi alla 482, i sindaci dell’area Grecanica sono riusciti a scongiurare la chiusura di alcune scuole. Infatti il piano prevede agevolazioni per le aree delle minoranze linguistiche, fissando a 600 anziché a 1000 studenti la soglia sotto cui attuare il ridimensionamento.
Diversa la situazione della comunità arbëreshe che, con i suoi oltre 50mila membri (fonte Wikepedia) e con impegno e peso politico ben diversi, ha raggiunto importanti obiettivi. Uno su tutti: il nuovo contratto di servizio RAI 2023 -2028 garantirà produzione e distribuzione di trasmissioni e contenuti in arbëreshë. Anche il presidente Occhiuto ha ritenuto l’Arbëria di tale importanza da assegnare a Pasqualina Straface la delega ai rapporti tra il Consiglio Regionale e le comunità arbëreshë. Con buona pace di Danilo, i numeri contano, eccome!
Oggi intanto presso la Corte dei Conti pende un esposto contro l’avviso pubblicato lo scorso febbraio dalla Città Metropolitana di Reggio. Poco meno di 100mila euro per associazioni e organizzazioni senza scopo di lucro impegnate nella tutela del greco di Calabria. Il bando prevede l’attivazione di 10 sportelli linguistici con interprete/traduttore per le sedi dei comuni di Bagaladi, Bova, Bova Marina, Cardeto, Condofuri, Melito Porto Salvo, Reggio Calabria, Roccaforte del Greco, Roghudi e Staiti.
Peccato che lo faccia incaricando enti terzi cui verrebbe delegata la verifica dei requisiti di idoneità. Tra questi anche la “qualifica di interprete e traduttore di lingua greco-calabra”.
Lo stesso Danilo Brancati, raccontandomi l’attività di Jalò tu Vua nelle scuole, aveva sollevato tutte le criticità del caso. A cominciare dall’assenza di un sistema di certificazione della conoscenza di una lingua tramandata oralmente. L’avviso, anche secondo il Movimento Federativo delle Minoranze Linguistiche, rischierebbe di «alimentare pratiche clientelari sotto le mentite spoglie della promozione e della valorizzazione della lingua greco-calabra».
Daniele Castrizio
La ricetta di Castrizio
Nel frattempo chi può e sa, fa sui territori. E chi non le manda a dire è il professor Daniele Castrizio, storico, archeologo, docente di numismatica all’Università di Messina e neo-direttore del Museo della Lingua Greca di Bova Gherard Rohlfs: «Siamo ormai all’anno zero. Non c’è visione, né progettualità. Io ho tutta l’intenzione di riorganizzare il Museo di Bova. Per cui mi chiedo e chiedo: quale progetto abbiamo per la lingua e l’universo grecanico? Ritengo la questione della lingua parlata una battaglia ormai persa».
Che fare allora? «Riconosco e apprezzo l’impegno di Jalò tu Vua che sta effettuando un’attività di rivitalizzazione eccezionale, ma adesso dobbiamo puntare sulla valorizzazione di questa nostra grecità: filoxenia, enogastronomia, archeologia, monumenti, territorio. Dobbiamo spiegare che cosa vuol dire essere grecanici, costruendo una narrazione del territorio che non viene praticata da nessuno e che, spesso, quando c’è stata, ha prodotto dei falsi storici. Pensa che nella versione cattolica i greci di Calabria sarebbero piccole comunità insediatesi nel Settecento, quando invece un filone di studi ha dimostrato come la presenza greca in Calabria sia millenaria».
Piccoli alunni della Settimana Greca a Bova
DNA greco-calabro
Castrizio porta diversi esempi: «Prendi i risultati della mappatura del DNA della Bovesìa condotte da Giovanni Romeo dell’Università di Bologna: un DNA talmente antico da essere privo di elementi italici, slavi, dori o joni e simile a quello degli abitanti di Creta. Prendi le fonti storiche – in ultimo Dionigi di Alicarnasso – che attestano che 14 generazioni prima della guerra di Troia gli Arcadi si mossero verso il Sud Italia. Oppure prendi gli studi di John Robb che dimostrano la presenza dei grecanici prima del periodo miceneo. O, ancora, prendi anche solo un mero dato linguistico: ci sono parole di greco-calabro che si trovano nei poemi omerici e addirittura nella Lineare B. Quanti sanno che la produzione di seta del Reggino, protetto da 11 fortificazioni, rappresentava il cuore economico dell’impero Romano? Quando Reggio cadde in mano ai normanni la moneta si deprezzò del 30%».
Il nuovo ruolo del Museo Rohlfs
«Sono cose che andrebbero raccontate, così come andrebbe raccontato che le comunità dell’Arbëria sono originariamente greche, tanto che adottano il rito religioso greco. Bisogna abbandonare il particolare delle singole narrazioni con un’operazione di verità e trasparenza che restituisca la memoria e la dignità necessarie per decodificare, valorizzare e raccontare il territorio».
Castrizio ha tutta l’intenzione di dare nuovo impulso all’azione del Museo della Lingua Greca: «Voglio fare diventare il museo di Bova un museo Storico. Sto organizzando una prima mostra, suddivisa in tre aree: storia e archeologia, linguistica e territorio. Nel frattempo stiamo programmando una serie di attività educative con le scuole. E puntiamo ad aprire il Museo al territorio, per trasformarlo in un centro di produzione culturale».
Premere di più sugli attrattori culturali
L’idea di Castrizio sembra fare il paio con le linee della nuova programmazione regionale che puntano sugli attrattori culturali: meno opere murarie e maggiori investimenti culturali. In un contesto in cui i parlanti sono ormai sparuti e i numeri delle nascite tracciano un orizzonte grigio, la rivitalizzazione linguistica rischia di rivelarsi un tentativo per ritardare una morte annunciata. I (pochi) nuovi parlanti, sempre meno autoctoni, avulsi da un contesto che incoraggia un uso quotidiano e indefesso del grecanico, trasmetteranno ai propri figli quanto appreso o lo terranno per sé? Combinare invece l’apprendimento linguistico con un’azione più incisiva nelle scuole e una strategia più ampia di narrazione e valorizzazione della grecità calabrese potrebbe migliorare la situazione.
Scrivere di immigrazione mettendo da parte la mia coscienza, nella quale sono scolpiti principi che impongono di soccorrere chiunque sia in difficoltà in qualsiasi situazione e zona del “globo terracqueo”, è impresa ardua. Tuttavia ci voglio provare, e lo faccio componendo un mosaico composto dalle seguenti tessere.
Migranti? Un’opportunità, parola di Occhiuto
«I flussi di migranti sono difficilmente arginabili… Penso che in un Paese di 60 milioni di abitanti, 100 mila migranti non dovrebbero essere molti da integrare; diventano, invece, troppi quando non c’è integrazione, quando si costruiscono dei ghetti magari a ridosso delle stazioni. Ma un Paese moderno che si affaccia sul Mediterraneo il problema dell’integrazione dei migranti avrebbe dovuto affrontarlo e risolverlo già da tempo. Io ho proposto, per esempio, di organizzare un’accoglienza diffusa… Troppe volte in Italia si è discusso del problema dell’immigrazione senza capire come potesse essere arginato facendolo diventare un’opportunità… Quelli che oggi vengono in Europa scappano dalla fame, dalle guerre, dalla morte. Un Paese civile è un Paese fatto di donne e uomini che non hanno una concezione proprietaria del territorio nel quale hanno avuto la fortuna di nascere e di vivere».
La legge regionale 18/2009 (c.d. “legge Loiero”, anche per dare a Cesare quel che è di Cesare) prevede che la Regione Calabria «nell’ambito delle proprie competenze, ed in attuazione dell’articolo 2 del proprio Statuto, concorre alla tutela del diritto d’asilo sancito dall’articolo 10, terzo comma, della Costituzione della Repubblicapromuovendo interventi specifici per l’accoglienza, la protezione legale e sociale e l’integrazione dei richiedenti asilo, dei rifugiati e dei titolari di misure di protezione sussidiaria o umanitaria presenti sul territorio regionale con particolare attenzione alle situazioni maggiormente vulnerabili tra le quali i minori, le donne sole, le vittime di tortura o di gravi violenze» e «promuove il sistema regionale integrato di accoglienza e sostiene azioni indirizzate all’inserimento socio-lavorativo di rifugiati, richiedenti asilo e titolari di misure di protezione sussidiaria o umanitaria».
Gli accordi di “esternalizzazione” (anche i termini hanno una loro importanza, e questo è orribile se l’argomento è l’immigrazione) con Tunisia e Libia, regalando motovedette e supportando le intercettazioni in mare insieme a Frontex, non hanno fermato la fiumana di disperati che fanno rotta verso l’Italia.
È invece cresciuta e cresce giorno dopo giorno: “come può uno scoglio arginare il mare?”.
Scuola, demografia, famiglie
È di questi giorni l’accendersi del dibattito sul dimensionamento scolastico, il cui frutto avvelenato è la scomparsa di un buon numero di istituzioni scolastiche dotate di autonomia dovuta essenzialmente al calo della popolazione. Ne abbiamo già scritto circa sette mesi fa, quindi rinviamo a quell’articolo.
Il “ricongiungimento familiare”, oltre ad essere un istituto giuridico per richiamare i congiunti nel Paese dove il migrante ha trovato nuove opportunità di vita, è diventato una pratica che coinvolge la nostra terra. Personalmente, conosco almeno una ventina di famiglie che hanno deciso di trasferirsi in altre zone dell’Italia, soprattutto al Nord, per raggiungere i figli che hanno stabilito in quei luoghi il centro dei loro interessi di studio/formazione/lavoro. La spiegazione è semplice e rassegnata: «E perché dovremmo rimanere qui?». Oltre all’affetto, incide la necessità di aiutare i membri della famiglia nella gestione quotidiana dei figli, o anche esigenze economiche se la remunerazione non è adeguata ai costi da affrontare per condurre un’esistenza “libera e dignitosa” (viva la nostra Carta!).
In un video, girato a Lampedusa nella notte del 14 settembre, si vedono abitanti dell’isola, turisti, immigrati, ballare per le strade tutti insieme, sorridenti. Quella che per molti seguaci del ministro della paura uscito dalla fantasia di Antonino Albanese è un’emergenza, un disastro, una calamità simile a terremoti e inondazioni, si può trasformare in qualcosa di gioioso, in vita ed arricchimento reciproco. D’altra parte, Riace sta in Calabria, non in Veneto.
In definitiva, invece di andare appresso alla propaganda e alle scelte securitarie dei vari Minniti, Salvini, Meloni, i cui risultati sono sotto l’occhio di tutti quelli che non se li bendano, facciamo una scelta diversa.
Migranti e Occhiuto, le ultime parole famose
Presidente Occhiuto, utilizzi gli strumenti a sua disposizione, le funzioni in capo alle Regioni, e quindi anche alla Calabria, per realizzare per i migranti ciò che lei stesso ha proposto: «organizzare un’accoglienza diffusa», in quanto «in Italia si è discusso del problema dell’immigrazione senza capire come potesse essere arginato facendolo diventare un’opportunità».
L’Italia è o no “un Paese civile fatto di donne e uomini che non hanno una concezione proprietaria del territorio nel quale hanno avuto la fortuna di nascere e di vivere”?
Questa, a mio avviso, l’affermazione più significativa del presidente Occhiuto, piacevolmente sorprendente, in quanto cancella in un colpo solo la teoria della sostituzione etnica, quella della non italianità dei cittadini italiani di pelle nera (Paola Egonu, copyright il generale che non voglio neanche nominare), quella (addirittura!!!) della stirpe, riportata alla luce dal Medioevo dal cognato–fratello d’Italia.
La pallavolista italiana Paola Egonu
Se pensiamo ai Calabresi, tralasciando il resto dello Stivale e delle isole, essi sono il frutto di un miscuglio di etnie, colori di pelle, culture, idiomi, religioni: un vero melting potin salsa calabrese. Basti pensare che lo Statuto regionale, e la Costituzione italiana, riconoscono sul nostro territorio tre minoranze linguistiche con radici che affondano in centinaia e, in un caso, migliaia di anni.
Occhiuto e le opportunità dei migranti
E allora, presidente Occhiuto, contribuisca a fare rinascere la Calabria partendo dai migranti, da quella che definisce un’opportunità. Siamo d’accordo con lei. Crei le condizioni per portare nella nostra regione nuova linfa. Gente che, come i nostri avi e i nostri coevi, ha una spinta in più, dettata da motivazioni forti, tanto forti da spingerla a rischiare la vita su barchini in balia delle onde o di rimanere internati per settimane a Ellis Island prima di entrare negli USA, o di tornare indietro con lo stesso bastimento dell’andata.
Italiani in arrivo ad Ellis Island nl secolo scorso
Con la terra abbandonata, a rischio incendi per mancanza di cura e di occhi vigili, tanto da dover ricorrere a droni e telecamere. Con i paesi e le città che si svuotano, e hai voglia a protestare per il ridimensionamento dei servizi (le scuole, in primis, ma non solo) in una fase storica in cui per ognuno di essi le entrare devono coprire in larga parte i costi. Risolviamo il problema. Anzi: cogliamo l’opportunità. Cosa potrà succedere? Che avremo qualche bambino un po’ meno bianco? E allora dovremmo vietare anche la tintarella e le abbronzature nei centri estetici.
D’altra parte, i medici cubani di bianco hanno solo il camice.
Roberto Occhiuto con alcuni dei medici cubani giunti in soccorso della sanità calabrese
Alfabeto minimo per capire (e sopravvivere) agli Esami di Maturità.
Afasia
“Incapacità di esprimersi mediante la parola o la scrittura o di comprendere il significato delle parole dette o scritte da altri, dovuta ad alterazione dei centri e delle vie nervose superiori”. Spesso prende alcuni studenti davanti alla prima domanda nel corso delle prove orali agli esami di maturità: restano lì immobili con lo sguardo fisso come davanti a una visione Mariana. Per farli ripartire generalmente basta scuoterli un poco.
Bocciati
Agli esami di maturità in genere non si boccia nessuno, una volta che sei arrivato lì, pur di farti superare la linea del traguardo la commissione è disposta a spingerti a mano. Statisticamente solo i privatisti corrono qualche rischio, per esempio se provi a fare in un colpo solo tutti gli anni del liceo. Cose che nemmeno alla Cepu considerano possibile.
Colloquio (d’esame)
Ci si aspetta che il candidato esponga con disinvoltura un percorso multidisciplinare, passando disinvoltamente da una materia all’altra, cogliendone i collegamenti, esprimendo anche un pensiero critico e personale sulle vicende di maggior rilievo proposte nel corso della prova orale. Tutto il contrario delle prove Invalsi, che infatti sono una bufala e non servono a niente, però costano un botto.
Praticamente durante l’anno chiediamo ai ragazzi un sapere buono per i quiz e poi agli esami ci aspettiamo una cosa diversa. Geniale.
Commissione
Gruppo di prof che deve esaminare gli studenti. Una volta era tutta esterna, cioè fatta da docenti provenienti da altre scuole, anzi da altre città, con un solo membro interno, in genere il più sfigato del Consiglio di classe. Gesualdo Bufalino, che insegnava in un Magistrale, disse che gli esami di maturità erano una occasione per i prof (generalmente piuttosto poveri) di viaggiare e godere delle bellezze del Paese che altrimenti non avrebbero mai visto. Infatti si poteva fare domanda per fare esami in città magnifiche, come Firenze, Roma, Venezia e il Ministero copriva le spese. Qualcuno pensò che fosse una manna e se ne approfittò.
Oggi le commissioni sono miste, metà docenti della classe, metà esterni e i soldi che si guadagnano sono molti meno rispetto ai tempi di cui parlava Bufalino.
Gesualdo Bufalino
Commissione web
Piattaforma digitale che semplifica la vita dei membri delle commissioni. I verbali sono prestampati e basta compilare i vari format. Peccato che nel corso delle riunioni preliminari, quelle durante le quali si scrivono moltissimi verbali, la piattaforma si sia bloccata pare in tutta Italia e si sia dovuto procedere a mano, come una volta.
La rivincita del mondo antico sulla presunzione della modernità.
Copiare/1
Una volta c’erano le cartucciere, quelle cinture portate sotto gli abiti, dove i vari temi erano meticolosamente infilati come provvidenziali proiettili. Era un lavoro da pazienti amanuensi: era necessario scrivere a penna gli argomenti, riempiendo con grafia piccolissima lunghe strisce di carta che poi andavano sapientemente arrotolate. Sul lato destro trovavano posto quelli di Storia, dalla Prima guerra mondiale a Hiroshima, dall’altra i temi di Italiano, da Leopardi a Pasolini.
Ma quello era un metodo da boomers, che come generazione gli esami di maturità dovrebbero averli fatti da un pezzo. Oggi è soppiantato da forme di “suggerimenti digitali”, come ChatGpt, che potrebbe farti passare per un novello Salinger, oppure farti scrivere cose assolutamente ridicole.
Copiare/2
Sia che si venga beccati con il classico foglio col compito già scritto conservato nel panino, oppure con un telefonino collegato alla rete, oltre ad essere espulsi dall’aula, resta pure la figura tremenda di finire quasi certamente sulle locandine dei giornali locali.
Copiare/3
Molti decenni fa in una classe del Telesioc’era uno studente che aveva un talento: sapeva passare le copie. La versione di Greco o Latino non la faceva mica lui, lui aveva il compito di far arrivare la copia a tutti i compagni. E poiché non tutti erano bravi, ecco che lui si ingegnava nel farcire le versioni di errori, non sia mai che uno che aveva sempre preso un cinque stentato facesse una versione perfetta… la credibilità ne avrebbe patito. Un artista della copiatura collettiva.
Dizionario/1
È il solo strumento che il candidato può portare all’esame. Dentro ci sono tutte le parole. Ma per la generazione digitale, avvezza ad usare i telefonini, potrebbe sembrare un oggetto arcaico.
Dizionario/2
Il numero delle parole padroneggiate dai giovani pare si sia ridotto, anche a causa dell’egemonia culturale di certi programmi televisivi contro cui nessuna scuola può nulla. Per qualche candidato il solo modo teorico per tentare di parlare la lingua madre senza torturarla è mangiare il dizionario.
Documento (di classe)
Malloppo sia cartaceo che digitale in cui un docente, particolarmente sventurato, ha dovuto raccontare tutta la storia della classe, da quando gli studenti sono venuti al mondo fino all’ammissione agli esami. Dentro ci trovate qualunque cosa: programmi, metodi, verifiche, schede e tabelle, valutazioni e analisi psico educative.
Se scriverlo è cosa noiosissima, per essere disposti a leggerlo bisogna essere minacciati di morte.
Fujutina (non amorosa)
Urgente ma assolutamente mistificatorio bisogno di qualche studente di recarsi al bagno non per espletare una impellente minzione, ma per consultare al volo il foglietto con gli appunti celato tra le mutande. La variante digitale prevede che al posto del foglietto ci sia un cellulare sfuggito al controllo dei commissari. Roba da agente segreto in missione in territorio nemico.
Greco (o Latino)
Il latino lo fanno in molti licei, il Greco solo al Classico. Il Castiglione e Mariotti e il Rocci pesano ognuno circa tre chili e sono stati portati fino a scuola in occasione di ogni compito in classe per cinque anni. Generazioni di studenti sono venuti su con la scoliosi senza però essere diventati grecisti o latinisti. Ancora oggi agli esami la lingua che fu di Lisia o Platone rappresenta un incubo, quella di Cicerone o Cesare una passeggiata.
Ispettori
Figure mitologiche che pare il Ministero mandi durante gli esami di maturità nei licei per vedere se tutto va bene. Quando arrivano seminano il panico. Certe volte invece arrivano, ma non se ne accorge nessuno.
La sede del Ministero dell’Istruzione in viale Trastevere a Roma
Mamme
Sono quelle donne che conoscono benissimo il Materialismo storico e sanno con chi Montale ha «sceso almeno un milione di scale», visto che hanno seguito le ripetizioni del figliolo fino allo sfinimento. Potrebbero affrontare l’esame meglio del maturando, ma si limitano a preparargli una colazione adeguata alla fatica della prova che si annuncia: caffellatte molto zuccherato, biscotti da inzuppare mentre il povero ragazzo è costretto a ripetere lo Zibaldone.
Preparano lo zaino per la prova scritta: dizionario, tre penne, fazzolettini, bottiglia di thè freddo, bottiglia d’acqua. Poi salutano il figlio dicendogli: vai bello di mamma, ti aspetto qui. In realtà si precipitano sotto la scuola in attesa che l’esame finisca.
Maturità (esami di)
Nei Paesi occidentali ed opulenti rappresentano l’ultimo rito di iniziazione alla vita adulta. Una volta per i maschi c’era la Leva e solo chi non l’ha fatta ne può avere nostalgia. I riti di iniziazione sono sempre dolorosi, portano la fatica del mutamento, della trasformazione. Il cambiamento è difficile, sempre, gli Esami di maturità molto meno.
Merito
Non è solo il nuovo nome del Ministero dell’Istruzione, è un inganno. Evidentemente a viale Trastevere 76/A, dove lavora Valditara, non hanno mai letto il fanta-saggio del sociologo Michael Young, L’avvento della meritocrazia. Nel libro l’autore inventa, appunto, il concetto di meritocrazia e immagina una società in cui ognuno merita ciò che ha, il ricco la propria opulenza, il povero la propria vita miserabile e nessuno cerca di cambiare lo stato delle cose.
Il merito è una bugia perché come già avvisava don Milani, la cosa più ingiusta è «fare parti uguali tra disuguali».
Il ministro Giuseppe Valditara
Ognuno fa i conti con il proprio “capitale sociale”, che nella definizione di Bourdieu è «la somma delle risorse, materiali o meno, che ciascun individuo o gruppo sociale ottiene grazie alla partecipazione a una rete di relazioni interpersonali basate su principi di reciprocità e mutuo riconoscimento», vale a dire la base della disuguaglianza sociale.
E non si può parlare di meritocrazia senza intervenire sulle disuguaglianze.
Notte (prima degli esami)
L’ultima spiaggia di una adolescenza dura a morire, in realtà dopo gli esami non cambia nulla. Qualcuno la passa sui libri perché ha scoperto di non ricordare nulla, per altri sarà insonne pensando a qualche amore, per molti sarà una notte da ricordare a lungo come il primo bacio. Tutti ci sono passati, ma solo Venditti ci ha fatto un sacco di soldi.
Orario (di accesso alle aule per le prove scritte)
Momento pericolosissimo durante il quale orde di studenti si precipitano verso le aule per occupare gli ultimi posti, quelli che si immaginano più adatti alla copiatura del compito.
Presidenti
Sono uomini o donne sulle cui spalle grava il peso del corretto svolgimento degli esami. Sono come notai, ma pagati molto meno. Li vedi camminare nei corridoi e subito li distingui dai commissari: sono quelli con la faccia preoccupata. Qualcuno è preso dalla “sindrome del caporale”, crede cioè di comandare, poi scopre che non è vero.
Promossi
Rassegniamoci, la scuola che promuove tutti è una menzogna “democratica”, un’ipocrisia. Ci si è convinti che promuovere tutti sia l’abolizione della disuguaglianza. In realtà la scuola ha smesso di bocciare, ma non salva i ragazzi dalla spietatezza della selezione che avviene fuori dalle aule in base al “capitale sociale” di ciascuno. Per questo non c’è più la professoressa classista contro si arrabbiava don Milani, semplicemente non serve.
Scientifiche (Materie)
Pare che per gli studenti italiani siano le più difficili, c’è gente che si è rifugiata al Classico perché c’era poca Matematica. Siamo il Paese con meno propensione verso le Stem, d’altra parte siamo un Paese di navigatori, santi e poeti, mica matematici (ai navigatori però la matematica serve eccome). Come attenuante possiamo dire che secondo Martha Nussbaum «a salvare le democrazie non saranno gli ingegneri, ma gli umanisti»
Silenzio
Imbarazzante assenza di parole che aleggia nell’aula quando lo studente ha esaurito assai anzitempo le cose da dire e la commissione lo guarda pregando che ritrovi una scintilla di vita per ripartire.
Sintesi
Capacità dello studente di chiudere efficacemente un ragionamento, mostrando al contempo padronanza nell’eloquio. Se è eccesiva sconfina nella dimostrazione di non sapere cosa dire (vedi silenzio)
Tesina
Una volta c’era la tesina. Era un lavoro multidisciplinare che serviva a valutare quanto lo studente fosse in grado di cucire le materie tra loro in modo organico ed efficace.
Aveva titoli altisonanti come La morte dell’Io nella prima metà del Novecento. Alla fine del liceo l’Io moriva sempre. Poi dal Ministero si sono inventati il tirare a sorte una frase o una immagine e tessere attorno a quella lo svolgimento dell’esame. Oggi si è tornati al “percorso”, non una tesina, ma nemmeno un argomento a piacere.
Verbali
In passato, prima dell’era digitale, si dovevano redigere tre copie di verbali, a mano, assolutamente uguali. Dentro ci potevate trovare tutto quello che era accaduto nel corso degli esami. Una volta un vecchio prof prossimo alla pensione ci mise dentro dei versi di Dante. Nessuno lo chiamò mai per chiedergli perché mai lo avesse fatto.
Voto
È espresso in centesimi, oltre il cento c’è la Lode, per fortuna nessun bacio accademico. Il voto è il prodotto dell’inesorabile misurino fatto di crediti, voti di ammissione, voti presi nelle prove d’esame. Un calcolo precisissimo che commette sempre l’errore di ridurre una persona a un numero.
Vacanze (la voce dovrebbe essere posizionata più in alto, ma le vacanze chiudono gli esami, forse)
Tempo che comincia appena lo studente ha finito gli esami e che il povero illuso immagina fatto di spiagge, discoteche, lunghissime dormite. In realtà per molti le prove per le selezioni necessarie per accedere alle facoltà universitarie sono già dietro l’angolo. Perché gli esami, come si sa, non finiscono mai.
Ps: la prova d’esame finisce davvero quando il candidato sente rivolgersi dal presidente la consueta domanda: «Che farai dopo?». Ecco, a quel punto un sorriso si allarga sul suo volto, perché sa che a quella domanda non c’è una risposta giusta o sbagliata. Eppure quella domanda è la più importante. Ebbene, qualunque cosa vogliate fare dopo, buona fortuna.
Ora che attorno alle acque potenti del Lao si stanno spegnendo i clamori, dopo il ritrovamento del corpo della povera studentessa caduta dal gommone e quei luoghi stanno tornando alla loro primitiva solitudine, vale la pena provare a dare uno sguardo meno frettoloso alla vicenda, le cui responsabilità vanno assai oltre quelle della sola guida alla quale Denise Galatà e i suoi compagni erano stati affidati.
Le cause della tragedia vanno cercate lontano dalle rapide bianche del Lao e molto prima del giorno della tragedia, ma sin dentro le aule di un liceo che decide di mandare i propri ragazzi a fare la “gita scolastica” in uno dei posti più belli della Calabria, ma che nella seduzione della natura selvaggia conserva un margine di pericolosità che è ben conosciuto.
La scuola che si sposta
La “gita scolastica” è un modo di dire improprio, quasi gergale. In realtà si tratta di viaggi di istruzione. Non è una finezza semantica, è un cambiamento di senso. Il viaggio d’istruzione è la scuola che si sposta, che va in un luogo diverso dalle proprie aule, che continua a svolgere il proprio compito di crescita ed educazione alla bellezza. È una lezione che si fa senza le mura attorno.
Per questo non deve essere fatta per forza come una volta dentro un museo – anche se resta sempre un’ottima idea – ma anche cogliendo la lentezza di una passeggiata in un bosco. Oppure il passo svelto che richiede un sentiero di montagna un poco più impervio, affidandosi magari a una guida dei nostri parchi, in grado di spiegare i luoghi, dare voce agli spazi, dire i nomi dei posti e degli alberi.
Il Lao e le responsabilità nella morte di Denise Galatà
Il Lao è cosa diversa. È una bellezza severa, di quelle non addomesticate. Abbaglia gli occhi, ma può fare male. Molto. Era già successo, forse non troppo distante da dove Denise Galatà è scivolata dal gommone nel Lao. Un’altra ragazza era caduta e si era persa ingoiata dai vortici. Il ministro Valditara ha annunciato una ispezione, una richiesta di informazioni su come quella gita sia stata organizzata.
Denise Galatà, la 19enne morta nel fiume Lao
È quasi certo che non troverà falle tra le carte, né errori procedurali. Resta da capire come sia stato possibile immaginare una discesa del Lao quando le scuole nell’organizzare le uscite sono responsabili perfino dell’efficienza dell’autobus su cui viaggiano gli studenti e la così detta Culpa in vigilando, ovvero l’omissione di tutela e vigilanza dei docenti verso gli studenti, durante un viaggio è molto più opprimente che durante una normale giornata scolastica. Poi entra in gioco il grado di responsabilità della compagnia di rafting, che ha considerato praticabile la discesa, malgrado i giorni di pioggia continui.
Non si torna indietro
Il Lao ha tre percorsi, da Laino alla Grotta del Romito, poi da questa a Papasidero e infine fino ad Orsomarso. Il primo tratto è quello più bello. Gole alte dove l’acqua corre potente, disegnando percorsi tortuosi, fatti di rapide in successione, salti, massi da aggirare, cascate. Luoghi dove non c’è la possibilità di arrivare senza un kayak o appunto un gommone, dove non è previsto di tornare indietro: si deve per forza procedere. La bellezza della natura nella sua forma più autenticamente primitiva.
Rafting sul Lao
Fino a qualche anno fa il percorso intermedio era caratterizzato da un enorme macigno crollato da una delle pareti e questo ostacolo costringeva le guide a far scendere i turisti, porre i gommoni in verticale e farli passare attraverso la strettoia. Era una fatica disumana e a un certo punto il macigno scomparve liberando il percorso. Le dicerie raccontano che il tappo fosse stato fatto saltare con l’esplosivo.
La tragica lezione della Natura
Oggi le varie associazioni di rafting che operano in quella zona e che godono del fascino del luogo alimentando un flusso turistico notevole, fanno quadrato. Spiegano che sì, l’acqua era alta, ma il fiume praticabile, i rischi bassi e certamente le guide sono tutte esperte e puntuali conoscitori di ogni passaggio d’acqua, di ogni rapida. Il timore è che il Lao venga chiuso come accaduto per il Raganello, fermando per l’ormai prossima estate i moltissimi i gommoni i cui differenti colori sono rappresentativi delle diverse associazioni che operano lungo il fiume, carichi di gioiosi turisti, spesso anche famiglie divertite. Solo che certe volte la natura ci ricorda che non è un luna park.
Chissà questa destra di governo e di rigurgiti autoritari quanto avrebbe odiato quel pretaccio di Barbiana. Probabilmente parecchio. Probabilmente gli avrebbe riversato addosso tutto il fango mediatico di cui sarebbe stata capace, del resto uno che fa il prete ma non predica l’obbedienza è già uno strano, se poi si mette in testa che siamo tutti uguali e abbiamo diritto alle stesse opportunità, anzi chi sta indietro di più, allora va contro l’idea di scuola del merito fondato sul privilegio di classe e quindi, insomma, è uno pericoloso.
Altro che Barbiana, a don Milani la destra di oggi avrebbe riservato un destino ben più crudele che un confino in montagna: schiacciato sui social e sui media addomesticati da quegli «scrittori salariati» che oggi si trovano a buon mercato.
Rivoluzionario. Un aggettivo per Don Milani
Perfino la Fondazione Agnelli
Don Lorenzo Milani nasceva cento anni fa e il suo agire politico – perché di questo si è trattato – avrebbe trovato il culmine nel maggio del ’67 con la pubblicazione di Lettera a una professoressa, il manifesto sull’ingiustizia della scuola. È difficile trovare qualcuno che critichi apertamente la visione di don Milani, perfino la Fondazione Agnelli, che prospetta da sempre futuri neo liberisti e mercantili per l’istruzione, sul suo sito pubblica articoli positivi sull’esperienza della scuola di Barbiana. Il motivo è che è impopolare dire che la scuola deve fare la selezione, occorre far passare questo messaggio in modo obliquo, in maniera che sembri accettabile.
Contro la scuola dei “migliori”
Don Milani ha avuto molti discepoli, ma tra essi non la politica che della scuola ha fatto sempre la Cenerentola, (è di oggi la notizia che il governo Meloni annuncia il taglio di 79 mila posti negli asili) o peggio una trincea da conquistare. Ed ecco che torna la scuola che fa andare avanti i “migliori”, solo che questi, ieri come oggi, sono “i figli del dottore”, dei tempi di Milani, quelli che provengono da famiglie con massime risorse e per ciò stesso con ottime opportunità.
Don Milani della scuola del merito e del logo grottesco che evocava fasci littori (poi ritirato dal ministero perché certe cose sono pessime pure per loro), non avrebbe riso, perché era pure piuttosto incazzoso, ma avrebbe spiegato che il merito è un inganno, una trappola classista per separare e fare differenze. Perché le disuguaglianze nella scuola ci sono ancora, anzi sono acuite, a più livelli.
Una questione di lavagne Bosch
Alcuni anni fa, nel corso di un convegno nazionale sulle esperienze dei licei economico-sociali presso un grande istituto milanese, emerse che uno dei partner di quella scuola era la Bosch, che i ragazzi facevano tirocini nell’azienda e ogni anno le classi avevano una Lim (lavagna interattiva multimediale) nuova e il mio pensiero andò a quei docenti calabresi che invece l’ingiustizia sociale e la fatica di fare uguaglianza devono affrontarla a mani nude. La Bosch non sana la inuguaglianza sociale, ma senza quelle risorse è più difficile, perché alla fine è una questione di soldi e di opportunità. Basti pensare al salto compiuto dalla Calabria nella sola vera rivoluzione compiuta da queste parti, cioè la nascita dell’Unical, grazie alla quale si è passati in un tempo ragionevolmente breve da una generazione di semi analfabeti a una di laureati.
Don Milani fa lezione in classe
Le parole di Don Milani
E dentro questo contesto che le parole d’ordine di Lorenzo Milani disvelano la loro potente attualità: il prendersi cura degli altri, come segno d’opposizione ai “mene frego” di ieri e riproposti oggi, la negazione dell’obbedienza come virtù e la rivendicazione del diritto a “non tacere”, che sarebbe stato più compiutamente rappresentato negli anni successivi da un altro prete eretico, Don Sardelli, l’antimilitarismo, il rifiuto di fare la differenza tra italiani e stranieri e infine l’idea mai tramontata di fare della scuola il luogo di riscatto, di emancipazione, di reale mobilità sociale, insomma il sapere come potere rivoluzionario di cambiamento personale e collettivo. Perché la scuola deve essere sovversiva e a spiegarcelo, tra gli altri, c’è stato pure un prete.
Idee poche, ma confuse. E patriotticamente autarchiche. Dopo le contorsioni storiche del presidente del Senato, incapace di parlare di antifascismo e la proposta di legge – che sembra uno scherzo ma non lo è – che prevede multe da infliggere a chi osasse pronunciare parole anglofone, ecco spuntare i licei del “Made in Italy”, che con quel nome, se già esistesse, sarebbe a rischio di censura. Di cosa si tratti non è ancora chiaro. Né è da escludere che resti null’altro che una proposta propagandista tra le tante tirate fuori per distogliere l’attenzione dai molti inciampi del governo Meloni sul piano economico ed europeo.
Licei: made in Italy o Vinitaly?
Se restiamo alla spiegazione fornita da Carmela Bucalo, senatrice di FdI, dovrebbe essere una scuola in grado di rendere gli studenti «capaci di riconoscere le insidie dei mercati, i prodotti falsi provenienti dalla Cina, gli inganni del cibo sintetico». Praticamente un corso antisofisticazioni. Ma la rappresentante del popolo non sembra avere le idee chiare. Ed ecco che aggiunge: «Vorremmo stimolare i ragazzi del nuovo liceo a proseguire gli studi nelle università di settore o negli Istituti tecnici superiori». Qualche ghost writer spieghi alla povera donna che dopo il liceo, qualunque esso sia, iscriversi a un Istituto tecnico superiore non ha molto senso.
L’idea del nuovo indirizzo di studi è venuta nel corso di Vinitaly, la fiera del vino che si svolge a Verona e forse la cosa non è del tutto casuale.
Carmela Bucalo ha parlato a Verona degli ipotetici licei del Made in Italy
Il compagno Gentile
Di certo lo scopo dichiarato è quello di costruire un percorso didattico che esalti «una solida preparazione identitaria», ignorando la globalizzazione dei saperi che esige invece una flessibilità di pensiero e di conoscenze necessaria a governare complessità mai sperimentate prima.
Tuttavia se questo non bastasse a far sorridere, ecco il contorsionismo meloniano che ci spiega che «la sinistra ha distrutto gli istituti tecnici per favorire i licei», mentre gli Albergheri e gli istituti Agrari «sono i veri licei». Eppure questa perversa visione che ancora immagina la separazione tra scuole di serie A e di serie B affonda le sue radici nella “fascistissima” riforma dell’istruzione realizzata da Giovanni Gentile, ministro del regime poi ucciso dai partigiani dei Gap.
1932, Mussolini e Gentile all’inaugurazione dell’Istituto italiano di Studi germanici, presieduto dal secondo
Nel solco della tradizione
Era lui che aveva guardato con manifesta alterigia verso tutti i corsi di studio che non fossero i licei, i soli destinati a costruire le élite. E per questo aveva costruito una scuola classista, la cui eco ancora si ode distintamente nell’attuale impianto educativo. Oggi, a sentire i suoi maldestri eredi, sarebbe stata la sinistra radical chic ad avere ispirato corsi di studio pieni zeppi di Greco e Latino.
La nuova scuola sarà italianissima, gli Alberghieri saranno il baluardo contro sushi e kebab e negli istituti Agrari si imparerà ad usare l’aratro per tracciare il solco. Sperando che poi nessuno debba difenderlo con una baionetta.
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