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  • Sanità: dai morti nelle Rsa agli affari, il partito trasversale sotto inchiesta

    Sanità: dai morti nelle Rsa agli affari, il partito trasversale sotto inchiesta

    «Sono stati molto solerti quando dovevano segnalarmi che avevo dimenticato di pagare la retta. Invece mi hanno inviato solo un messaggio WhatsApp per comunicarmi che mia madre aveva contratto il Covid. Lei poi è morta nel giro di un mese. E io non ho potuto neanche vederla, salutarla, far celebrare un funerale o anche solo una messa».

    Quella di Giuseppe, avvocato di Soverato, è una delle storie della “Domus Aurea”, ma non è l’unica. «Ad altri è andata peggio», racconta, «una persona che conosco ha scoperto che suo fratello era morto, dopo essere stato contagiato nella stessa struttura, solo da una telefonata di cordoglio che gli è arrivata da altri. Avevano appreso prima di lui la notizia».

    Uno stillicidio di morti

    Mettono i brividi i racconti dei familiari di chi ha vissuto i giorni terribili della Rsa di Chiaravalle Centrale, entroterra catanzarese, diventata un focolaio di Covid costato la vita a 28 persone. È successo poco più di un anno fa, ma il tema della sanità e del rapporto coi privati, nonostante una campagna elettorale già in corso, non sembra centrale nel dibattito di oggi.

    Il primo caso accertato a Chiaravalle risale al 25 marzo 2020. Poi, per la lunghissima settimana successiva, sono rimasti tutti lì, mentre morivano i primi sette pazienti.
    La narrazione social li chiama “nonnini”, ma tra quelle 28 vittime c’era anche chi aveva poco più di 60 anni. Dopo un tira e molla tra la Regione e la proprietà della struttura i pazienti sono stati trasferiti a Catanzaro, ma lo stillicidio di morti non si è fermato fino a maggio inoltrato. Il rimpallo di responsabilità e il contenzioso legale invece prosegue tuttora, a distanza di oltre un anno da quella tragedia umanitaria.

    Tengo… Parente

    Sembra lontanissima e altrettanto dimenticata la vicenda di un’altra Rsa-focolaio, quella di Villa Torano, nel paese cosentino di Torano Castello. Lì i contagi, a cavallo di Pasqua 2020, hanno abbondantemente superato quota 100. Ha fatto discutere perché è emerso un atteggiamento diverso da parte della Regione nei confronti della struttura, con la Cittadella che ha aggirato perfino i suoi stessi provvedimenti.

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    Uno stralcio dell’ordinanza di Jole Santelli che stabiliva le procedure da seguire in casi cone quello di Villa Torano

    Per esempio: il titolare ha confermato di aver avuto direttamente dalla Protezione civile regionale circa 200 tamponi per gli ospiti della sua clinica privata. Ma ciò è avvenuto in una fase delicatissima in cui i test per il Covid venivano ancora distribuiti col contagocce. Erano poche centinaia quelli che in quei giorni venivano effettuati in tutta la Calabria.

    La proprietà della struttura fa riferimento al gruppo guidato da Massimo Poggi, ex socio di Claudio Parente – big del centrodestra calabrese, esponente di Forza Italia e coordinatore di una delle liste (“Casa delle libertà”) che ha contribuito alla vittoria elettorale del 2020 – le cui quote nella società che gestisce questa e altre cliniche private sono state rilevate anni fa dalla moglie.

    La magistratura indaga

    Su questi due casi, lontani e distinti non solo geograficamente, la magistratura ha aperto altrettante inchieste di cui ancora non si conosce l’esito. Per Villa Torano la Procura di Cosenza ha acceso i riflettori su alcune morti sospette e sul boom di contagi. Ipotizza i reati di epidemia colposa e omicidio colposo. Per la Rsa di Chiaravalle la Procura di Catanzaro punta ad accertare le cause del contagio di massa e se ci siano state eventuali omissioni da parte degli enti competenti nella gestione dell’emergenza e nel trasferimento di pazienti e operatori quasi tutti infettati nella struttura.

    Profitto vs Bene collettivo

    Ciò che resta, al di là dei risvolti giudiziari di una tristissima strage di anziani, è il nodo dei rapporti tra la politica, ad ogni livello e in ogni schieramento, e l’imprenditoria di settore. Non è in discussione la possibilità di fare affari perfettamente leciti in questo settore. Ma è un fatto che ci siano joint venture più o meno ostentate tra i decisori politici – che anche in regime di commissariamento non si astengono dal far sentire il loro peso – e i portatori di interessi che rispondono alle logiche del profitto e non a quelle del bene collettivo.

    Le cointeressenze, così come le guerre di burocrazia e gli intrecci politici, non riguardano solo la Calabria. Spesso, mentre sul territorio la sanità pubblica annaspa tra tagli ed emergenze, del business calabrese dei privati si discute nei palazzi romani. I due mondi non sono così distinti e quello della sanità privata è senza dubbio un partito trasversale.

    Il sindaco del settore Sanità

    Per esempio, nella Cariati in cui i cittadini occupano per lungo tempo l’ospedale per chiederne la riapertura, il sindaco si chiama Filomena Greco. La sua è una famiglia di imprenditori i cui interessi dall’olio e dal vino si sono estesi alle cliniche private. La loro area di riferimento è il Pd, con amicizie che a quanto si racconta vanno da Renzi a D’Alema.

    Sono proprietari degli “Ospedali Riuniti iGreco”, gruppo che nasce nel 2013 con l’acquisizione della Casa di Cura “Madonna della Catena” e nel 2014 si amplia con l’acquisizione delle strutture “La Madonnina” e “Sacro Cuore”. E, a proposito di trasversalismi, acquista pochi mesi fa ulteriori cliniche. Quelle dei Morrone, big del centrodestra e presenza fissa o quasi da anni in Consiglio regionale, col figlio Luca a prendere il posto che fu del padre Ennio.

    A una loro cerimonia di presentazione del gennaio del 2018 c’erano – riferiscono le cronache locali – oltre tremila persone. Tra di loro anche due deputati del Pd dell’epoca, Brunello Censore e Ferdinando Aiello. Quest’ultimo oggi è indagato assieme all’ex procuratore aggiunto antimafia di Catanzaro, Vincenzo Luberto, trasferito per ragioni disciplinari a Potenza come giudice civile. La Procura di Salerno lo accusa di aver sostanzialmente asservito la propria funzione proprio all’ex parlamentare dem.

    Ancora un’inchiesta

    Altro caso recentissimo è quello dell’inchiesta che coinvolge l’ex sindaco di Amantea Mario Pizzino e l’imprenditore Alfredo Citrigno, indagati per corruzione dalla Procura di Paola in relazione all’apertura di un centro diagnostico. I locali sarebbero stati ceduti dai familiari del politico al noto gruppo imprenditoriale cosentino.

    Fino a prova contraria non significa che i Greco, Parente, Citrigno o altri siano penalmente colpevoli di qualcosa, ci mancherebbe. Si tratta però di casi che forse qualcosa raccontano sui rapporti tra la politica calabrese (e non solo) e molti gruppi della sanità privata.

    I dubbi dei sindacati

    A chiedere chiarezza sono anche i sindacati. Angelo Sposato, segretario generale della Cgil, a margine di un’audizione con la Commissione parlamentare antimafia, ha ribadito pubblicamente la richiesta di «verificare gli accreditamenti nella sanità privata, gli appalti e le forniture». Una proposta poi rafforzata anche dall’intera assemblea del sindacato calabrese, che si è riunita alla presenza del leader nazionale Maurizio Landini.

    Spesso a rimanere schiacciati in situazioni drammatiche sono i lavoratori. È il caso del Sant’Anna Hospital di Catanzaro, una clinica privata d’eccellenza per la cura delle patologie cardiovascolari. Un contenzioso tra Asp e proprietà – con in mezzo un’inchiesta su presunti ricoveri fantasma in Terapia intensiva – ha portato per settimane al congelamento di un contratto da 24 milioni di euro relativo al 2020.

    Antonio Jiritano, dirigente dell’Usb in prima linea in questa e altre vertenze della sanità, conosce bene la situazione. «Per Catanzaro il Sant’Anna è come la Fiat per Torino. La nostra battaglia – spiega – non è certo per favorire i privati, che anzi abbiamo spinto a metterci dei soldi dopo che hanno guadagnato per vent’anni, bensì per i lavoratori. Non si possono tenere alla corda centinaia di persone».

    Sempre più soldi ai privati

    Intanto, anche per avere un’idea dei soldi pubblici che si investono annualmente nel settore, basta leggere l’ultimo decreto del commissario ad acta della sanità calabrese. Guido Longo ha fissato il tetto massimo per l’acquisto di prestazioni di assistenza territoriale sociosanitaria e sanitaria da privato accreditato. Il documento prevede, per il 2021, uno stanziamento complessivo di 186,8 milioni di euro. La somma è in aumento di oltre 12 milioni rispetto all’anno precedente e di 14 milioni rispetto al 2019.
    Il decreto suddivide così il budget: all’Asp di Cosenza 75 milioni, a Catanzaro 38,4 milioni, a Crotone 32,675 milioni, a Reggio Calabria 36,487 milioni e a Vibo Valentia 4,2 milioni.

  • Covid e welfare, quanti affari per la ‘ndrangheta

    Covid e welfare, quanti affari per la ‘ndrangheta

    Il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, nella recente pubblicazione di Danilo Chirico “Storia dell’anti-‘ndrangheta” parla così dell’occasione che la pandemia da Coronavirus e la crisi economica potranno rappresentare per le mafie e, nello specifico, la ‘ndrangheta. La crisi offre nuove opportunità ai gruppi criminali, sia nei settori tradizionali «come le multiservizi (mense, pulizie, disinfezione), intermediazione della manodopera, rifiuti, imprese di costruzioni» sia in quelli che «appaiono particolarmente lucrosi come il commercio di mascherine o il turismo». Non è solo un’ipotesi fondata sull’esperienza: sono già almeno «trenta le situazioni sospette intercettate, con società che sono state costituite all’estero che commerciano in dispositivi di protezione, riconducibili a organizzazioni mafiose o ’ndranghetiste».

    Ma se il “contagio” dell’economia è storia vecchia di almeno 50 anni, quello delle somme più precisamente riguardanti il welfare in tempo di Covid, è stato, fin da subito un obiettivo perseguito dalla ‘ndrangheta. Due misure, su tutte, hanno rappresentato in questi mesi di pandemia una boccata d’ossigeno per numerose famiglie in difficoltà economica: il Reddito di Cittadinanza e i Buoni Spesa Covid. E su entrambe la ‘ndrangheta ha messo le mani.

    Le mani sul reddito di cittadinanza

    La relazione della Direzione Investigativa Antimafia nel 2020 contiene testualmente: «Nel semestre è emerso un ulteriore aspetto comprovante l’ingordigia ‘ndranghetista in spregio alla situazione emergenziale vissuta dal contesto sociale calabrese appena descritto, in totale distonia con le ingenti risorse economiche a disposizione delle consorterie, anche attraverso le richieste del reddito di cittadinanza».

    La appropriazione indebita dei membri dei clan del reddito di cittadinanza è al centro anche della polemica politica tra i sostenitori della misura, il Movimento 5 Stelle in primis, che ne ha fatto un simbolo, e gli “abolizionisti”. Sono numerosi gli episodi censiti negli ultimi mesi.  Il 15 marzo del 2021 la Guardia di Finanza scopre 86 “furbetti” del Reddito di Cittadinanza. Truffa da oltre 700mila di euro. Una quindicina di costoro ha anche condanne per reati di ‘ndrangheta. L’hanno ottenuto semplicemente omettendo il proprio trascorso giudiziario. E i sussidi sono arrivati.

    Si tratta, evidentemente, di appetiti (soddisfatti) che non riguardano solo la ‘ndrangheta. Anche le altre mafie, Cosa Nostra su tutte, si sono accaparrate somme ingenti. In un unico caso, siamo nello scorso aprile, la cifra ammonta a oltre 600mila euro. Questo perché, unitamente alla ‘ndrangheta, Cosa Nostra è l’organizzazione mafiosa che maggiormente fa del controllo del territorio un marchio di fabbrica. Depredare il welfare, infatti, non è solo una questione di introito economico. In questo modo si (ri)afferma la superiorità sullo Stato. Storicamente, i grandi boss della ‘ndrangheta puntano e ottengono (indebitamente) l’indennità di accompagnamento dall’INPS o accedono (altrettanto indebitamente) ai sussidi previsti dalla Legge 104.

    Un affare per la ‘ndrangheta che conta

    Il Reddito di Cittadinanza viene approvato all’inizio del 2019. La ‘ndrangheta si organizza ben presto. In circa un anno viene documentato come esponenti di grande rilievo delle cosche Piromalli e Molè di Gioia Tauro siano riusciti ad ottenere il sussidio. Si tratta di persone condannate per reati di ‘ndrangheta, talvolta all’ergastolo e detenuti in regime di 41 bis. Ma anche sorvegliati speciali, con le rispettive consorti. Danno erariale da 280 mila euro.  A infiltrarsi nelle maglie del welfare in tempo di pandemia non sono ladruncoli da quattro soldi, ma  bdella ‘ndrangheta. Non solo i Piromalli e i Molè, ma anche i Pesce e i Bellocco, come mostrato da altre inchieste.

    Le indagini documentano le ruberie di cosche che appartengono al gotha della ‘ndrangheta, come i Tegano e i Serraino di Reggio Calabria. Ma anche i figli di Roberto Pannunzi, considerato il “Pablo Escobar italiano”, uno dei più importanti narcotrafficanti della storia, capace di dialogare da pari a pari con i cartelli sudamericani. Non è un caso che anche nel maxiprocesso “Rinascita-Scott”, con cui la Dda di Catanzaro, retta da Nicola Gratteri, sta portando alla sbarra i rapporti tra cosche e massoneria, risultino tra gli imputati soggetti percettori del reddito di cittadinanza.

    A dicembre 2020 invece la Guardia di Finanza di Crotone scopre che fra i “furbetti” c’era un esercito di picciotti, luogotenenti e boss di Alfonso Mannolo, arrestato nel 2019 come elemento di vertice del clan di San Leonardo di Cutro e accusato di associazione mafiosa, traffico di droga, riciclaggio, estorsione e usura. Febbraio 2021: tra le persone individuate dalla Guardia di Finanza, c’è anche un soggetto condannato in via definitiva nell’ambito del processo “Kyterion”, come affiliato alla potente cosca dei Grande Aracri.  In un altro caso, siamo a maggio 2021, scoperto dall’Autorità Giudiziaria vibonese, l’importo delle somme indebitamente ottenute, ammonta a 225mila euro. Si parla, complessivamente, di diversi milioni di euro.

    La ricchezza in tempo di Covid

    L’altra grande forma di accaparramento di denaro pubblico nel periodo della pandemia è rappresentata dai Buoni Spesa Covid. Una forma di sussidio istituita nel corso della prima ondata della pandemia e su cui la ‘ndrangheta, già nel luglio 2020, aveva messo le mani. Sono 45mila gli euro intascati indebitamente dagli uomini del clan grazie al Decreto Rilancio. L’inchiesta, coordinata dalla Dda di Milano, si è concentrata sugli appetiti di tre aziende riferibili alla ‘ndrangheta del Crotonese. Ancora una volta ai Grande Aracri.

    Alla fine del 2020, 186 denunce in provincia di Reggio Calabria per indebite percezioni sui Buoni Spesa Covid. Un terzo degli indagati risulta avere legami di parentela con soggetti appartenenti a ‘ndrine o a famiglie di interesse investigativo. Il totale delle irregolarità riscontrate comprende un danno erariale complessivo di circa 357mila euro. E si è scongiurata, per il tratto a venire, un’ulteriore perdita di circa 127.000 euro. Somme che gli uomini e le donne di ‘ndrangheta avrebbero altrimenti incassato.

    Si tratta, se possibile, di cifre e proporzioni ancor più grandi rispetto a quelle del Reddito di Cittadinanza. Recentemente, in provincia di Vibo Valentia sono scattate circa 300 denunce per buoni spesa direttamente dai Comuni a persone che autocertificavano il proprio stato di difficoltà economica sulla base di bandi stilati dagli stessi enti locali. Tra questi, diversi affiliati alle cosche. Sono così emerse una serie di irregolarità per un danno erariale complessivo di oltre 100mila euro. Uno degli ultimi casi è di metà maggio 2021. Coinvolge 478 denunciati e tra essi molti affiliati alla ‘ndrangheta vibonese. Per loro sono arrivati 70mila euro, senza che ne avessero diritto.

    Il lockdown per fare affari

    Le mafie e la ‘ndrangheta in particolare sanno sfruttare ogni occasione. Anche i lunghi periodi di lockdown e la pandemia sono diventati occasione per lucrare. Ancora dalla relazione della DIA: «Il lockdown ha rappresentato la ennesima occasione per le consorterie criminali di sfruttare la situazione per espandersi nei circuiti della economia legale e negli apparati della pubblica amministrazione».

    Sempre in “Storia dell’anti-‘ndrangheta” di Danilo Chirico si dà conto di quanto messo nero su bianco dall’Organismo permanente di monitoraggio e analisi sul rischio di infiltrazione nell’economia da parte della criminalità organizzata di tipo mafioso, istituito dal Ministero dell’Interno. Gravi le affermazioni che sostengono come le mafie (e, in primis, la ‘ndrangheta) stiano tentando di «accedere illecitamente alle misure di sostegno all’economia», di ottenere il pagamento di prestazioni sanitarie in favore di aziende “mafiose” o collaterali ai clan e di svolgere servizi utili ad affrontare la pandemia (per esempio la sanificazione delle strutture).

  • Epidemia permanente: i buchi neri della sanità e il vuoto della politica

    Epidemia permanente: i buchi neri della sanità e il vuoto della politica

    Ci sono un centralinista, un elettricista e un giardiniere. Non caricature da barzelletta, ma dipendenti della sanità pubblica almeno fin dagli anni ’70, quando a gestire gli ospedali erano i Comitati di gestione delle Unità sanitarie locali (Usl) con assunzioni scientificamente lottizzate tra i partiti della Prima Repubblica. Per capire in che condizioni sia la sanità calabrese oggi bisogna partire proprio da qui. L’emergenza non è arrivata con il Covid. Ha radici nell’epoca in cui la sanità pubblica era la vera, grande industria del Mezzogiorno, l’unica che per decenni ha permesso a tante famiglie di contrarre il mutuo e mandare i figli all’università. Poi l’assetto di potere ha cambiato forma, così come sono mutati, almeno all’apparenza, i partiti che ne costituiscono l’ossatura.

    Nel nuovo millennio per fare nuove clientele si esternalizzano i servizi. Le Usl diventano Aziende (prima Asl e poi Asp) e il lavoro che dovrebbero fare il centralinista, l’elettricista e il giardiniere va in appalto a coop private che assumono le persone indicate dal politico di turno. Senza dimenticare i legami, cementati con milioni di euro pubblici, tra politica e sanità privata. La bolla alla fine scoppia perché è un sistema che proprio non si sostiene. Tutto a un tratto ci si accorge che si devono far quadrare i conti e arrivano i tagli orizzontali. Si chiudono anche ospedali di zone molto disagiate che erano l’unico approdo sanitario per tanta gente che sopravvive nella periferia della periferia del Paese.

    Oltre dieci anni di commissari, ma la sanità peggiora

    L’involuzione della sanità calabrese si è dunque tramutata in un commissariamento ultradecennale accentuato da quel “decreto Calabria” che, nelle ultime ore, la Corte costituzionale ha bocciato solo in parte. Le reazioni e le interpretazioni circa la pronuncia della Consulta si sprecano, ma è sempre bene ricordare come e quando questa vicenda abbia avuto origine.

    La “tutela” governativa sulla Salute dei calabresi inizia con il governatore-commissario Peppe Scopelliti – anche se i tagli erano arrivati già con Agazio Loiero – e prosegue con i suoi successori: l’ingegnere toscano Massimo Scura; il generale dei carabinieri in pensione Saverio Cotticelli; l’ex superpoliziotto Guido Longo. Quest’ultimo è attualmente in carica, gli altri si sono avvicendati in un decennio in cui le cose non sono affatto migliorate.

    Spulciando tra le carte del Ministero della Salute ci si accorge infatti che i Livelli essenziali di assistenza (Lea) nel 2011 si attestavano a un «punteggio pari a 128», collocando la Calabria «in una situazione “critica”». Dopo 10 anni, stando ai verbali del Tavolo interministeriale (detto “Adduce”) che monitora le Regioni in Piano di rientro, la situazione è addirittura peggiore di prima. Nella riunione romana del 22 dicembre 2020 si registra, per il 2019, un «punteggio provvisorio pari a 119, in rilevante peggioramento rispetto alla precedente annualità e collocando la regione nella soglia di non adempienza».

    Nelle ultime ore dalla nuova riunione del Tavolo Adduce è emerso che il disavanzo al 2020 si dovrebbe attestare sui 90 milioni. È una voragine finanziaria da cui non sembrano in gradi di farci risalire né i commissari-poliziotti con i superpoteri dei decreti Calabria né tantomeno gli stessi politici che in questa cavità ci hanno precipitato e che ora scalpitano per riprendersi “tutt’ chell’ ch’è o’ nuost”.

    Le (poche) proposte dei candidati

    La candidata del centrosinistra Amalia Bruni è del mestiere, le forze politiche che la sostengono, a partire da Pd e M5S, hanno fatto subito sapere che lei «conosce perfettamente i limiti del sistema sanitario regionale». E che questo sarà un «tema centrale dell’azione politica e amministrativa a cui intendiamo guardare».

    L’aspirante presidente del centrodestra Roberto Occhiuto ha annunciato di volere chiedere al governo di «mettere a disposizione della Regione la Ragioneria generale dello Stato insieme ai reparti operativi della Guardia di Finanza per ricostruire i conti della sanità».

    Luigi de Magistris si è schierato «per la sanità pubblica, per una sanità che funzioni e dia garanzia a tutte e tutti» attaccando non tanto Bruni quanto chi la sostiene che, a suo dire, «ha contribuito in questi anni, come il Pd a livello regionale, allo smantellamento della sanità pubblica». Insomma, come proposta politica ancora c’è davvero poco di sostanziale sul piatto della campagna elettorale.

    I ritardi della sanità

    In attesa che si faccia chiarezza (documenti alla mano) sull’ultimissima riunione del Tavolo interministeriale, vale la pena ricordare che a Roma hanno già messo nero su bianco nei mesi scorsi «la gravità concernente la mancata adozione dei bilanci 2013-2017 della Asp di Reggio Calabria», aprendo un capitolo sui buchi milionari finiti al centro di indagini giudiziarie che di recente hanno investito anche l’Asp di Cosenza. E poi le «fortissime criticità sui tempi di pagamento da parte degli enti del Servizio sanitario della Regione Calabria: sulla base delle informazioni fornite dalle aziende, Tavolo e Comitato rilevano che tutte le aziende del Servizio sanitario calabrese non rispettano la direttiva europea sui tempi di pagamento, con ritardi fino a oltre 800 giorni».

    Persistono, secondo i tecnici dei Ministeri, «gravi criticità nell’adesione ai programmi di screening oncologici» e anche le assunzioni restano ferme, tanto da spingere il governo a sottolineare «l’urgenza di dare piena attuazione ai decreti Covid». Al di fuori delle carte ministeriali, invece, va ricordato che se da un lato gli operatori sanitari sono stati costretti a combattere a mani nude la guerra al Covid, con gli infermieri che hanno denunciato turni massacranti e straordinari non pagati, dall’altro sono stati annullati o posticipati migliaia di ricoveri e di interventi. Per non parlare delle prestazioni ambulatoriali, letteralmente crollate.

    I vuoti sul territorio

    In un quadro simile sono in forte ritardo sia la conversione degli ospedali dismessi in Case della salute che la piena operatività delle Usca (Unità speciali di continuità assistenziale). Sono strumenti che, con la pandemia in atto, avrebbero potuto rivelarsi essenziali per evitare le morti, le code delle ambulanze, il caos vaccini, i dati aggiornati a mano perché nessuno ha ancora effettuato la digitalizzazione del sistema.

    «Siamo una regione “ospedalocentrica” ma senza avere gli ospedali», spiega Rubens Curia, ex manager della sanità pubblica e portavoce di “Comunità competente”. Si tratta di una rete di enti di terzo settore, associazioni, persone, sindacati, che da due anni porta avanti una «battaglia culturale» invocando gli interventi previsti dalla legge per la medicina territoriale. «Quando abbiamo rilanciato le nostre proposte, a novembre scorso, c’erano solo 17 Usca attive in tutta la regione, nei mesi successivi ne hanno attivata qualcun’altra ma a ranghi ridotti e con giovani medici che fanno un lavoro massacrante».

    Secondo la legge dovrebbe essercene una ogni 50mila abitanti, ma quella che c’è a Cosenza in via degli Stadi, per esempio, ne ha serviti oltre 160mila. Gli ospedali da campo non hanno impedito che si ingolfassero di nuovo i reparti. E non si sa che fine abbiano fatto i Covid Hotel – il bando della Protezione civile prevedeva per le strutture individuate il pagamento di 65 euro per le camere occupate e 15 euro per quelle rimaste inutilizzate. Ci sono stati anche tanti anziani che, per seguire le paradossali indicazioni della piattaforma di prenotazione, hanno dovuto fare fino a 200 km per vaccinarsi. Qualcuno, addirittura, è dovuto arrivare fino in Sicilia per la sua dose.

    Intanto alla Cittadella si avvicendano ciclicamente gli stessi burocrati che sopravvivono ai commissari inviati dal governo per gestire questa epidemia permanente. Inamovibili più del centralinista, del giardiniere e dell’elettricista.

  • Sanità allo sbando, accreditamenti «fuori controllo»

    Sanità allo sbando, accreditamenti «fuori controllo»

    Il Settore Accreditamenti della Regione, quello che gestisce i rapporti tra sanità pubblica e privata, «è fuori controllo». A metterlo nero su bianco è Remo Pulcini (Agenas) nel report inviato al ministero della Salute e realizzato in collaborazione e su indicazione del dirigente del Settore 2, Francesca Palumbo. Pulcini staziona nella Cittadella in qualità di esperto inviato dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, a supporto della struttura commissariale guidata da Guido Longo.

    La grande fuga

    La guida del settore 2 della Cittadella di Germaneto non sembra un posto ambito, anzi. Molti scappano, altri fanno di tutto per starne alla larga. Palumbo è stata trasferita d’ufficio lì con decreto del presidente facente funzioni Nino Spirlì. Ma ha capito subito, come tanti altri, che il suo ruolo da dirigente non sarebbe stato affatto semplice. A marzo del 2021 partecipa all’avviso interno della Regione Calabria, passando poi al dipartimento Agricoltura. Prima di lei aveva mollato il tellurico Settore 2 anche Francesco Bevere, direttore generale di allora.

    Il report sugli accreditamenti

    Il documento di Palumbo e Pulcini evidenzia come il Settore sia ai limiti del collasso, costretto ad affrontare «gravi criticità». L’aggettivo non è speso a caso, l’elenco dei problemi comprende, infatti, un «ingente arretrato di varia tipologia; nessun criterio logico organizzativo; tempistica di conclusione dei procedimenti non rispettata con inevitabile contenzioso; pratiche incomplete o introvabili; istruttorie avviate con parziale documentazione».

    Le raccomandazioni dell’Anticorruzione

    Anche l’Anac ha segnalato nel 2020 una serie di criticità in merito all’attività di controllo sulle strutture sanitarie accreditate. Nel documento inviato, tra gli altri, anche al presidente Nino Spirlì, l’Anticorruzione raccomandava «la previsione di meccanismi non automatici di rinnovo del contratto ma legati alla verifica della performance, anche in termini di risultati e qualità del servizio offerto». Il suggerimento non sembra avere avuto fortuna.

    «Caos amministrativo»

    Già il 26 gennaio 2021 la stessa Palumbo rispondeva a una richiesta di accesso agli atti del consigliere regionale Carlo Guccione (Pd) evidenziando «il caos amministrativo già segnalato dalla stessa precedente dirigente ad interim». In merito agli elenchi chiesti dal consigliere, la Palumbo scriveva: «La ricognizione è approssimativa». Perché? «Non esiste archiviazione elettronica dei documenti, né fascicoli elettronici delle strutture, né sufficiente personale nel settore».

    Quattro accreditamenti su cinque scaduti 

    Il problema è che in quegli uffici si decide la destinazione – e la sua legittimità – di decine e decine di milioni di euro. Guccione snocciola numeri che mettono a nudo un sistema in tilt: «In Calabria le strutture sanitarie – pubbliche e private – con accreditamenti validi sono solo 86. Quelli scaduti sono 422, mentre solo 142 hanno presentato istanza di rinnovo». Il democrat sintetizza così il dato che ne emerge: «Più dell’80% delle strutture opera in regime di illegittimità per colpa degli uffici del Settore 2, accreditamenti e autorizzazioni, del dipartimento Tutela della Salute». Dati forniti dalla Regione stessa, difficile metterli in dubbio. Ma qualcuno dalla Cittadella dovrebbe spiegare come e perché siano possibili

  • Metro e ospedale, prendi i soldi e spacca

    Metro e ospedale, prendi i soldi e spacca

    Molto rumore – e altrettanto denaro – per nulla, la storia recente di Cosenza ha per protagonisti i fantasmi delle opere pubbliche mai completate e le ambizioni personali dei politici che le hanno annunciate, spesso in concomitanza con appuntamenti elettorali. Simbolo principale (ma non unico) di questa stagione è la metro leggera, piatto forte dell’agenda politica bipartisan locale da un ventennio. L’idea risale a quando sulle due sponde del Campagnano regnavano Mancini e Principe. Socialisti entrambi ma rivali storici, per una volta si trovano d’accordo su una cosa: si fondano o meno in una città unica, Cosenza e Rende hanno bisogno di servizi integrati. Trasporto pubblico in primis, con buona pace delle aziende private che, di proroga in proroga, continuano a vedersi affidare dalla Cittadella i collegamenti tra i due comuni.

    Vent’anni dopo

    Da allora sono passati due settennati di programmazione Ue che consideravano strategica la metro, cinque presidenti in Regione (più due facenti funzioni), altrettanti alla Provincia, tre rettori all’università e quattro sindaci per ognuna delle due città, con quelli in carica entrambi al secondo mandato consecutivo. Dai circa 46 milioni di spesa ipotizzati a inizio millennio per realizzare la tranvia si è passati a 90, che sono diventati 160 al momento di fare la gara d’appalto . Ne servirebbero altri 50 però per completare l’opera, stando alle ultime comunicazioni tra Regione e Commissione europea, se mai lo si farà. Nessun binario montato finora, né alternative all’orizzonte. In compenso la sola progettazione definitiva è costata 3,9 milioni di euro fino al 2015. Ma andava completata ed ecco un altro milione e 630mila euro impegnato ad hoc nel 2016.

    Cambio di rotta

    Non un anno qualsiasi, ma quello della sfiducia al sindaco di Cosenza, Mario Occhiuto. Lascia Palazzo dei Bruzi a pochi mesi dal termine del suo primo mandato. Aveva cominciato nel 2011 proclamando di voler affiancare la Regione nel progetto della metropolitana e di sognare un viale Mancini attraversato dai tram. Si ripresenta agli elettori cinque anni dopo cavalcando l’onda anti-metro cresciuta in città. Nel nuovo programma scrive di voler sfruttare il vecchio rilevato ferroviario e non più il viale per il nuovo collegamento. Sono in tanti a credergli e votarlo per questo. Il sindaco rieletto blocca i tentativi della Regione di dare il via ai lavori, visto che nel frattempo un’Ati composta dalla ravennate Cmc e dalla spagnola Caf si è aggiudicata (da unica partecipante) la gara per la progettazione esecutiva e la realizzazione dell’opera.

    Il baratto tra Cosenza e Regione

    I ruderi dell’ex hotel Jolly, abbattuto per far posto al museo dedicato ad Alarico

    Va in scena il braccio di ferro tra Occhiuto e Mario Oliverio, all’epoca presidente della Regione. Quest’ultimo – insieme alla gauche locale, compreso il candidato democrat a sindaco Carlo Guccione – punta forte sulla metro in centro. Occhiuto, che coltiva ambizioni da leader politico della Calabria postoliveriana, parrebbe pensarla all’opposto. Ma nel 2017, tra lo stupore generale, baratta il suo ok al tram sul viale con altre opere complementari sparite quasi tutte dai radar poco dopo. Le uniche a partire saranno il museo dedicato ad Alarico nel centro storico e il Parco del benessere, proprio sul viale della discordia. Per il primo si è speso già quasi un milione e mezzo, impiegato per acquistare dall’Aterp e poi abbattere l’ex hotel Jolly, sulle cui ceneri dovrebbe sorgere, grazie ad altri tre milioni e mezzo, la struttura in onore del barbaro. Attirerà davvero turisti a Cosenza? Rivitalizzerà il quartiere? A quattro anni dall’accordo è un cumulo di macerie racchiuse tra le reti di un cantiere fermo. Lo scorso ottobre Palazzo dei Bruzi ha annunciato l’imminente ripresa delle attività. I fatti l’hanno smentito.

    Quer pasticciaccio brutto de viale Mancini

    Va peggio con il parco, che ha costretto a rimodulare a sua misura l’intero progetto della tranvia. Per ora pezzi aperti al pubblico senza collaudo si alternano ad aree chiuse e si è spesa già la metà dei 2,6 milioni previsti. Solo che l’altro milione e 300mila non basta più per finirlo. È recente la notizia di un nuovo impegno di spesa per ulteriori 2,8 milioni che dovrebbero permettere di consegnarlo alla città nel 2022. I cosentini lo attendono dal 2019. Scherzi del calendario, proprio l’anno in cui era attesa la sfida alle Regionali tra Occhiuto e Oliverio, entrambi trombati dai rispettivi alleati prima ancora del voto.

    I nuovi stanziamenti si aggiungeranno ad altri 5 milioni liquidati dalla Regione tra il 2018 e il 2020 per la metro che non c’è. E se quest’ultima saltasse definitivamente il conto rischia di aumentare parecchio, con Cmc e Caf a chiedere risarcimenti per i mancati guadagni legati all’appalto. In casi simili si parla sempre di almeno il 10% del suo valore complessivo, ossia un decimo dei 160 milioni alla base della gara vinta dall’Ati.

    I fondi dirottati

    Sventrare il viale ha creato non pochi problemi di traffico a Cosenza, forse li risolverà una bretella stradale parallela da 800mila euro rifinanziata insieme al parco. Puntare prima sul completamento di quella tornerebbe (o sarebbe tornato) più utile alla città? Chissà, per adesso il Comune pensa a completare il parco. Fatto sta che quest’ultimo, pur restando praticamente uguale, ha bisogno di essere riprogettato. Tant’è che il Comune ha affidato nelle scorse settimane un incarico da 17mila euro al fido – è stato già reclutato per progetti inerenti il verde pubblico e l’edilizia scolastica in passato- ingegner Antonio Moretti affinché provveda.

    Ma la metro si farà? Nel nuovo progetto sui lotti numero 1 e 2 del parco approvato dal Comune non ci sono riferimenti ai binari che dovrebbero attraversarlo. A difenderla pare rimasto solo Occhiuto, ormai agli sgoccioli di un’esperienza da primo cittadino in cui ha condotto il Comune ad un inedito dissesto. Il suo collega rendese Marcello Manna pare non contarci più e la Regione ha messo nero su bianco le proprie perplessità. Per ora le coperture finanziarie restano garantite da vecchi fondi Fsc, da cui si pensa di attingere anche nella programmazione 2021-2027 qualora si decida di perseverare. I soldi per la metro che erano nel Por 2014-2020, invece, sono stati dirottati (finora virtualmente) a Natale scorso sulla lotta al covid.

    Un tesoro per Cosenza nei cassetti

    Il progetto per il nuovo ospedale presentato nel 2016 da Occhiuto in campagna elettorale

    Denaro per la sanità cosentina, costretta ad affrontare la pandemia in condizioni disastrose, ce ne sarebbe stato comunque a iosa in realtà. È un tesoro da 375 milioni di euro destinato alla costruzione di un nuovo ospedale che sostituisca l’attuale, più altri 45 per trasformare il vecchio nosocomio. Anche su questo, però, la politica si è spaccata a ridosso delle scorse elezioni. Occhiuto voleva un polo sui colli che sormontano l’Annunziata, da demolire parzialmente e riconvertire in parco con annessa una facoltà di medicina che l’Unical non prevedeva ancora di istituire; il centrosinistra lo preferiva a Vaglio Lise lungo la statale Paola-Crotone, nei pressi della semideserta stazione ferroviaria, così da essere più baricentrico per l’intero territorio provinciale, con quello storico tramutato in una cittadella della salute dove raggruppare uffici e ambulatori di Ao e Asp oggi sparpagliati per la città.

    I diritti possono attendere

    Liquidati finora 330mila euro per lo studio di fattibilità sulla sua migliore ubicazione (individuata a Vaglio Lise, che si è imposto sulla soluzione di Occhiuto e una a Campagnano), tutto si è fermato. Sulla costruzione dell’ospedale, il relativo studio e altri appalti hanno acceso i fari Gratteri e i suoi. L’inchiesta si chiama Passepartout e per adesso alle accuse della Procura hanno fatto seguito solo proscioglimenti e assoluzioni con formula piena.

    Poi, dopo decenni di discussioni, l’Unical ha annunciato l’istituzione ad Arcavacata dell’agognata facoltà di Medicina. E subito Marcello Manna ha colto l’occasione per dire che il nuovo ospedale dovrà sorgere a Rende visto che l’ateneo è lì. Occhiuto invece, considerato che suo fratello è dato per favorito tra gli aspiranti presidenti della Regione, a sua volta ha ritirato fuori il suo progetto per l’ospedale. La famiglia e/o i campanilismi contano più delle valutazioni dei tecnici lautamente pagati, si direbbe.

    Il paradosso è che nell’area urbana, tra litigi vecchi e recenti, un nuovo ospedale è sorto, proprio a Vaglio Lise. Quello dell’Esercito però, spedito dal Governo a montarne in fretta e furia uno da campo spendendo un milione. In quello di Cosenza lo spazio per i pazienti covid, infatti, non bastava più. Al danno poco dopo si è aggiunta la beffa di veder convertiti quei tendoni in centro vaccinale, mentre all’ingresso dell’Annunziata la fila di ambulanze cariche di positivi si faceva interminabile. Per garantire il diritto alla salute e quello alla mobilità nell’area urbana ci sono circa 600 milioni di euro. E, infatti, i quattrini scorrono a fiumi. Per realizzare cosa, si vedrà.