Tag: sanità

  • Debito della sanità azzerato, tutti promettono ma Roma dice no

    Debito della sanità azzerato, tutti promettono ma Roma dice no

    Il debito della sanità calabrese? Azzeriamolo. Questa è la parola magica pronunciata in campagna elettorale dalla politica che promette di risolvere il dramma del buco nero del debito, la cui portata reale non è ancora stata interamente quantificata. Comprensibilmente è pure l’argomento cui i calabresi sono maggiormente sensibili, perché qui si decide se ci si può curare oppure no, se si devono cercare altrove centri specializzati e terapie che qui non funzionano.

    Per questo è anche il terreno di gioco dove si consuma la partita più importante, quella in cui si possono vincere oppure perdere le elezioni e l’idea di azzerare il debito della sanità è così suggestiva che finisce per accomunare tutti i candidati. Un desiderio destinato ad infrangersi contro l’ultimo verbale del “Tavolo Adduce”, la commissione che vigila sullo stato dei conti della sanità calabrese. E che spiega impietosamente che ogni ipotesi di stralcio non ha reale fondamento. Il documento evidenzia come «al momento non è stata quantificata l’entità del debito pregresso».

    Annunci da destra…

    Eppure in mille occasioni ogni candidato continua a sostenere la promessa di cancellare il disavanzo. Il primo a sollevare questa ipotesi è stato Roberto Occhiuto, che già nel dicembre del 2020 annunciava trionfante che grazie ad un suo emendamento «di fatto si azzera il debito». In realtà la supposta conquista del candidato della destra è piuttosto una rateizzazione del «debito sanitario diluendolo in 30 anni con un tasso d’interesse del 1,2%». Ma nel gioco delle parole il parlamentare, che ancora non era candidato alla presidenza della Calabria, nel settembre di quell’anno spiegava che «il problema del debito verrà azzerato».

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    Nino Spirlì e Roberto Occhiuto, il ticket che il centrodestra propone per la guida della prossima Giunta regionale

    Sullo stesso fronte nel marzo dello scorso anno il presidente facente funzioni Spirlì proclamava in una delle sue dirette social, ma anche in maniera più ufficiale, di aver avanzato «la richiesta di azzeramento al ministro della Salute Speranza». Il leghista spiegava che tale ipotesi «si poggia sulla constatazione che se non si riparte da zero sarà impossibile poter prevedere nuovi investimenti».

    … E da sinistra

    Ma se credete che il sogno della cancellazione del disavanzo appartenga solo alla destra vi sbagliate: la candidata del centro sinistra, Amalia Bruni, ha in più occasioni affermato la necessità di ricorrere a questa cura, perché «la ricetta necessariamente deve passare dall’annullamento del debito». Sulla stessa linea si è espressa Dalila Nesci, unica calabrese tra i sottosegretari del governo dei Migliori guidato da Draghi. L’esponente dei 5 Stelle, parlando della sanità regionale ha esortato a «lavorare per azzerare il debito». A questo miraggio non si sottrae nemmeno de Magistris, nel cui programma è scritto con chiarezza che si deve ottenere la «fine immediata di ogni commissariamento» e procedere «all’azzeramento del debito sanitario»

    I casi di Reggio e Cosenza

    La proposta dell’azzeramento rivela la misura della distanza tra il meraviglioso mondo della teoria e il severo mondo della realtà. E a marcare questa distanza è la dimensione del debito che gela ogni ipotesi di stralcio. Ma, soprattutto, sono le parole con cui si chiude la relazione del Tavolo Adduce.

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    L’Asp di Cosenza: l’ultimo bilancio consuntivo approvato risale al 2017 e sulla sua attendibilità sussistono parecchi dubbi

    «Con riferimento alla richiesta di costituire gestione stralcio per affrontare la questione del debito pregresso, con particolare riferimento alle ASP di Reggio Calabria e Cosenza, valutano che eventuali modifiche normative che potrebbero rendersi necessarie, dovranno essere valutate una volta definita la quantificazione del debito pregresso». Fuori dalla rigidità del lessico burocratico, vuol dire che non potete stralciare nulla, anche perché non siete stati in grado di dirci a quanto ammonta il debito e soprattutto come coprire l’eventuale azzeramento.

    Roma dice no

    Ma non è finita. La stessa relazione mette sull’avviso che «occorre poi attentamente valutare eventuali proposte normative che potrebbero generare effetti emulativi e ricadute in termini di finanza pubblica nel breve e nel lungo periodo, dopo un lavoro di risanamento dei conti del SSN che ha richiesto impegno pluriennale da parte di tutte le regioni». Tradotto in soldoni significa che le altre regioni che stanno affrontando piani di rientro con successo e sacrifici, potrebbero esigere di azzerare anch’esse il debito residuo.

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    La sede del Ministero della Salute

    E in conclusione di tutto ciò, lapidariamente si afferma che «pertanto la proposta di una gestione stralcio per il debito pregresso, per le motivazioni su esposte, non si ritiene percorribile». Se qualcuno pensava di risolvere la questione con un fantasioso scurdammoce ‘o passato, si è sbagliato alla grande.

  • VIDEO | Vecchio sito, Vagliolise o Rende: il dilemma del nuovo ospedale

    VIDEO | Vecchio sito, Vagliolise o Rende: il dilemma del nuovo ospedale

    Insieme alla metropolitana leggera, quello dell’ubicazione del nuovo ospedale di Cosenza era stato il tema principale della campagna elettorale del 2016. Tutti d’accordo sulla necessità di costruirlo, ma quando si è iniziato a discutere su dove farlo le cose hanno iniziato a complicarsi. E a nulla era servito lo studio di fattibilità commissionato (e pagato) dalla Regione per valutare la migliore ubicazione possibile. L’analisi dei tecnici, anzi, era finita nel calderone di Passepartout, l’inchiesta di Nicola Gratteri e i suoi che mira soprattutto a far luce sull’assegnazione e l’andamento di alcuni appalti nel Cosentino.

     

    Un’esigenza cresciuta con il Covid

    Cinque anni dopo, la pandemia ha reso ancora più evidente, se possibile, che il vecchio ospedale dell’Annunziata non è più in grado di erogare al meglio i servizi ai cittadini. Anacronostico nella sua conformazione, con una pianta organica insufficiente, semplicemente inadeguato ale sfide che la Sanità deve e dovrà affrontare. Nulla però si è ancora mosso, nonostante i soldi per realizzare una struttura moderna che lo sostituisca non manchino.

    I soldi non mancano

    Al contrario, ci sono circa 410 milioni di euro a disposizione da tempo: 365 per il nuovo ospedale, più altri 45 da spendere per un restyling dell’Annunziata. Serve solo capire dove debba sorgere il nuovo nosocomio e per quale motivo proprio in quella zona. L’ultima parola a riguardo spetta al consiglio comunale. Ergo, al sindaco e alla maggioranza che succederanno agli attuali inquilini di Palazzo dei Bruzi dopo le elezioni. Questi ultimi puntavano sui dintorni dell’ospedale che c’è già, i loro avversari sul sito individuato nello studio di fattibilità, ossia Vagliolise. Adesso c’è anche chi punta a realizzarlo fuori dai confini cittadini. E chi pensa che addirittura un nuovo ospedale non sia affatto la priorità per la Sanità cittadina. Nel video, tutte le posizioni dei candidati a sindaco di Cosenza sulla questione.

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    Perché vuoi fare il sindaco di Cosenza? 

    Le prime tre cose che farai se vinci?

    Se non fossi candidato, chi voteresti?

    Se altri due fossero al ballottaggio, chi voteresti?

    Sei di destra, sinistra o centro?

    Chi rappresenta di più Cosenza: Telesio, Alarico, Mancini, Totonno Chiappetta, Marulla?

    Centro storico, qual è la tua proposta più concreta?

     

     

  • Sanità, partecipate, dissesti: la Calabria a rischio default

    Sanità, partecipate, dissesti: la Calabria a rischio default

    Iniziamo coi numeri, tutt’altro che rassicuranti: chi amministrerà la Calabria, dal 4 ottobre, dovrà misurarsi con un dato pesantissimo, espresso da due cifre, calcolate con prudente approssimazione e, probabilmente in difetto.
    La prima ammonta a 2 miliardi e 600 milioni. È il passivo totale della Sanità, la croce a cui dal 2009 sono inchiodati i calabresi, che subiscono le aliquote regionali più alte d’Italia per coprire quel che si può di questa voragine senza ottenere un’assistenza sanitaria decente.
    La seconda cifra ammonta a un miliardo circa. È meno inquietante di quella sanitaria, ma fa paura lo stesso, perché è il totale dei passivi delle società partecipate.

    Tuttora, la Regione è presente in sei società: Ferrovie della Calabria, Fincalabra e Terme Sibaritide (delle quali è socio unico), Banca Popolare Etica, Sorical e Sacal.
    Questo miliardo di passivi mette a rischio tutte le leve attraverso le quali la Regione influisce nelle attività degli enti locali e, quindi, pesa in maniera diretta sulla vita dei cittadini.
    In altre parole, è confermato, anzi di sicuro aggravato, il deficit della Sanità, che nel giudizio di parificazione della Corte dei Conti del 2019, blocca il 79% del bilancio regionale. Ma tutto il resto (trasporti, gestione idrica e rifiuti) rischia di finire gambe all’aria o, alla meno peggio, di zoppicare parecchio.

    Un’ecatombe di Comuni

    Se si stringe il campo visuale sui territori, il dramma calabrese emerge alla grande e ha per protagonisti e vittime i Comuni, quasi tutti messi malissimo dopo la sentenza della Corte Costituzionale 80 del 28 aprile 2021.
    Questa sentenza, che di fatto vieta di spalmare i debiti nel generoso lasso di trent’anni previsto nel 2015 dal governo Renzi, si è abbattuta come una mazzata sugli enti locali, che ora rischiano di brutto. Stando all’allarme lanciato dal sindaco di Rende Marcello Manna i Comuni in pericolo di dissesto sarebbero duecento circa. Ma, a ben vedere, la differenza tra chi è dissestato e chi non lo è ancora è solo una questione di dettagli: per i cittadini i tributi sono al massimo in entrambi i casi e i servizi risultato ridotti o a repentaglio.

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    Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza

    Questo in Calabria, perché in altre realtà, ad esempio Torino, il livello dei servizi è qualitativamente sostenuto, a dispetto delle condizioni finanziarie del Comune, che non sono proprio il massimo.
    Tra gli ottantadue Comuni che vanno al voto, i due più importanti consentono un paragone calzante: sono Cosenza, che è in dissesto dal 2019, e Lamezia Terme, che è in riequilibrio finanziario ma barcolla non poco, visto che non può più approfittare della “rateazione” trentennale. Nelle linee di fondo, la situazione delle due città è piuttosto simile: tributi a palla e servizi in calo o insufficienti.

    Il decreto sostegni non basta

    Ma non serve proiettarci verso il futuro per intuire la portata dell’Apocalisse, perché la catastrofe c’è già.
    Dei Comuni che vanno al voto il 3 ottobre assieme alla Regione, otto sono nei guai. Si va dai guai gravissimi di Cosenza, Badolato, Casabona e Bova Marina, al caos di Chiaravalle, che oscilla tra dissesto e riequilibrio da circa sette anni, alla situazione grave di Lamezia e di tutti gli altri paesi in riequilibrio.

    Ma se si considera il totale dei Comuni nei guai, la cifra è terribile: sono ottantasette.
    L’unica speranza è il decreto sostegni, che ha stanziato circa 600 milioni per alleviare il deficit strutturale. Questi soldi potrebbero fare molto per i Comuni in riequilibrio, soprattutto Reggio. Ma possono sì e no alleviare i conti dei municipi dissestati, cioè Cosenza.
    La domanda, a questo punto, sorge spontanea: che c’entra il dissesto dei municipi coi passivi della Regione, visto che Comuni e Regioni fanno cose diverse, quindi hanno regimi finanziari separati?

    Un cane di debiti che si morde la coda

    Con rara crudezza, il presidente della Sezione regionale della Corte dei Conti Vincenzo Lo Presti aveva lanciato un monito alla Regione, che come tutti gli enti pubblici della Penisola ha il vizio di “lavorare” le cifre per ridimensionare l’annaspamento: i residui attivi sono sovrastimati, quelli passivi sottostimati.
    Era il 10 dicembre 2020 e, come già anticipato, i magistrati contabili valutavano il Bilancio regionale del 2019, che è l’ultimo documento utile, visto che la Corte non si è ancora pronunciata sull’esercizio 2020.

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    È il caso di mettere da parte la Sanità, il cui debito è calcolabile solo in maniera presuntiva, visto che mancano dati certi dall’Asp di Reggio.
    Occorre concentrarsi, piuttosto, sulle partecipate, una delle quali è un punto di contatto tra la finanza regionale e quelle dei Comuni.
    Ci si riferisce alla Sorical, la società mista detenuta al 54% dalla Regione e al 46% da Acque di Calabria, una spa con socio unico, la francese Veolia.

    I crediti mai riscossi

    La Sorical non morirà di debiti, che pure ci sono (si ipotizzano 370 milioni circa, ma i vertici della società giurano di aver tagliato del 68%). Ma di crediti: la società avanza una somma impressionante, circa 200milioni, dai Comuni, quasi tutti morosi, in particolare Cosenza, Reggio e Catanzaro.
    I residui attivi, cioè i crediti non ancora riscossi, condizionano l’attività corrente. In altre parole, la vita quotidiana dell’ente e dei cittadini che vi si rivolgono per ottenere servizi.
    Vengono senz’altro “appostati” nel Bilancio, ma non sono liquidità. Anzi, molti di questi diventano inesigibili perché si prescrivono o possono essere recuperati solo con molta fatica e, spesso, non nelle quantità sperate.

    La catena perversa è facile da ricostruire: i cittadini pagano poco e in pochi ai Comuni, i quali pagano quel che possono o non pagano affatto (nel caso della Sorical, c’è chi spera, come Cosenza e Vibo, che nasca la società unica di gestione delle acque, che esoneri i Comuni anche dalla gestione diretta delle reti idriche).
    Risultato: la Regione deve intervenire a ripianare i passivi delle partecipate che non riescono a recuperare i crediti. Ciò vale anche per Sacal, piegata dal Covid, che ha messo in ginocchio le compagnie aeree che fanno scalo soprattutto a Lamezia, e per Ferrovie della Calabria, letteralmente ostaggio del trasporto su gomma e oberata da clientele.

    Non ci salverà l’Europa

    Non fidiamoci troppo dei fondi europei, che abbiamo dimostrato di non saper utilizzare o di utilizzare male il più delle volte, né dei 9 miliardi del Pnrr.
    Questi finanziamenti, come ribadisce l’articolo 119 della Costituzione, possono essere impiegati solo per investimenti. E sperare che questi investimenti producano utili (e quindi imponibile su cui far cassa) è fantascienza, almeno al momento: significherebbe sperare che i calabresi diventino ricchi a tempi record per poter risanare la Regione.

    Ma come può diventare ricca una popolazione strangolata a livello fiscale da una Regione che, al massimo, è in grado di riscuotere poco più del 60% delle tasse che impone?
    L’alternativa alla capacità di impiego dei fondi europei, ordinari e di emergenza, richiederebbe capacità politiche che al momento non ci sono: la piena attuazione del federalismo fiscale, che attiverebbe gli automatismi del fondo di perequazione calcolato sulla differenza di gettito tra i territori.

    Capitale economico e umano

    Già: il problema vero della Calabria è la sua povertà endemica, che, unita alla costante decrescita demografica, ha creato un mix micidiale. I Comuni e gli utenti non “guadagnano” abbastanza, quindi non possono pagare a dovere i servizi regionali e la Regione, con poco meno di un miliardo di utili l’anno, deve tappare le falle.
    La situazione ordinaria è questa. Il resto (cioè i finanziamenti promessi, in particolare quelli dell’estate appena trascorsa) è propaganda.

    Ma il vero capitale che manca è quello umano: i Comuni, oberati anche da personale non sempre qualificato, non possono permettersi i progettisti per attingere ai fondi europei e la Regione è ancora lontana dall’avere le competenze necessarie per la piena informatizzazione dei servizi. Deve ancora “smaltire” il personale prodotto dal vecchio Concorsone del 2004 e i dirigenti diventati tali in seguito alle vecchie “verticalizzazioni”, prima di procedere a un turnover adeguato.

    La situazione attuale

    Il 2019 terminò con un “onore delle armi” all’amministrazione Oliverio, che riuscì a malapena a rattoppare qualche buco nella riscossione e, finalmente, a conteggiare quasi come si sarebbe dovuto (e come avrebbe dovuto anche lui nei primi quattro anni di mandato) i debiti e i crediti.
    Ora c’è il rischio di un salto nel buio. E forse non sbaglia chi promette rivoluzioni alla Calabria: non c’è davvero quasi altro da fare.

  • Se vinco a Cosenza faccio l’ospedale a Rende

    Se vinco a Cosenza faccio l’ospedale a Rende

    «Il nuovo ospedale troverebbe la giusta dislocazione nell’area dove insiste l’Università della Calabria». Lo scrive nero su bianco Franco Pichierri nel suo programma da sindaco. Pichierri è un democristiano in servizio permanente effettivo, trasversale, moderato e prudente, ma la sua idea circa il posto dove costruire il nuovo nosocomio è capace di far sgranare gli occhi. Per la verità è la sola idea che susciti attenzione, sommersa in mezzo a proposte che paiono senza vigore, ma è sufficiente per promuoverlo come sola voce fuori dal coro campanilistico.

    Sindaco di Rende o Cosenza?

    Pichierri dunque si candida ad essere non solo il primo sindaco della città, ma proprio il primo cosentino ad immaginare che l’ospedale debba sorgere a Rende. Ci vuole coraggio, ma pure una certa lungimiranza, per proporre una idea di tal genere. La lungimiranza risiede nell’immaginare un ospedale accanto all’università, dove è in arrivo la facoltà di medicina, ma soprattutto perché quell’area è più baricentrica rispetto ad un bacino territoriale parecchio vasto.

    Il coraggio, invece, è necessario per superare il campanilismo. Ma ancor di più per rinunciare alla promettente economia che si avrebbe attorno alla costruzione di un nuovo ospedale e ai sottostanti interessi, che poi sono le ragioni per le quali questo argomento si trova ancora solo nei programmi elettorali. Pichierri però è uno di quei candidati con non solidissime chance di affermarsi. E forse proprio per questo l’indossare l’abito del politico che guarda lontano può dargli un poco di lustro a poco prezzo.

    La lotteria per il centro storico

    Il resto del programma è rappresentato da una lista di buoni propositi, senza l’impegno che sarebbe necessario. Anche il candidato Dc fa riferimento alle risorse del Pnrr di Draghi per affrontare il dissesto, sulle cui responsabilità democristianamente tace. I cosentini posso stare tranquilli, perché «l’obiettivo è fare diventare l’amministrazione pubblica alleata dei cittadini» e ciò accadrà grazie alla «trasformazione digitale del Comune di Cosenza». Per quanto riguarda il lavoro il candidato vorrebbe «stimolare nuove imprenditorialità, avvicinando il talento alle aziende».

    Non manca lo sguardo rivolto alla città antica, che «deve rinascere e ritornare realmente a svolgere quel ruolo centrale e trainante che un tempo aveva nell’ambito dell’intero comprensorio, quale centro pulsante artistico, sociale e produttivo» e qui è verosimile che Pichierri faccia riferimento ai fasti del XV secolo. Il problema delle casse svuotate si può risolvere e il candidato dello Scudo crociato pensa di affrontarlo favorendo «anche il coinvolgimento dei privati promuovendo l’istituzione della “Lotteria Nazionale dei Brettii”».

    Dieci anni da cancellare

    Le idee di Cosenza in Comune, invece, sono precedute da una fotografia dolente della città, che racconta di disuguaglianze acuite dal Covid, ma causate anche da scelte politiche che hanno trascurato le persone e i bisogni reali. A guidare la lista è Valerio Formisani, medico che ha sovrapposto la sua militanza politica alla professione, impegnandosi, tra l’altro, nell’assistenza sanitaria agli ultimi con la creazione di un “Ambulatorio medico senza confini”. Nessuno stupore quindi se il suo programma parta dai temi sociali, dalla partecipazione democratica dei cittadini alle scelte.

    Formisani sa che le casse sono vuote, «a causa di sperperi, pessime gestioni finanziarie, bilanci falsi perpetrati da un decennio di cattiva amministrazione». Per questo occorre individuare le priorità di intervento, per esempio «il rafforzamento dei servizi pubblici essenziali, l’integrazione delle marginalità sociali e territoriali e il ripristino della salubrità ambientali, mortificati da un’azione amministrativa improntata ad una irragionevole e sfrenata cementificazione affaristica».

    La solitudine dei duri e puri

    Un cambio di passo che metta i cittadini al centro dell’azione politica, che prevede la creazione di un “Piano comunale del benessere”. Il “benessere” sociale di Formisani non è la striscia di cemento dove scorrazzare con le bici elettriche immaginata dal sindaco uscente, però. Consiste nel monitorare le condizione economiche della cittadinanza per «costruire interventi sociali, culturali ed economici mirati, favorire la redistribuzione del lavoro esistente, attraverso la “Contrattazione territoriale”, bloccare gli sfratti e aiutare i “morosi incolpevoli”. Quanto alle risorse del Pnrr «devono essere destinati al potenziamento dei servizi pubblici soprattutto a favore dei soggetti più disagiati».

    La città vecchia nei progetti del candidato di Cosenza in Comune vedrebbe l’apertura di cantieri per la manutenzione degli stabili, il censimento degli immobili pericolanti e il recupero delle attività commerciali. E poi la cultura, la lotta all’intolleranza e la spinta all’inclusione culturale. Temi e bandiere che rischiano di essere proposti e sventolate per pura testimonianza. Perché ancora una volta, probabilmente anche per difendere con orgoglio una idea di purezza, Cosenza in Comune corre in solitudine.

  • Terme Luigiane: «Per riaprire serviranno anni, altro che 2022»

    Terme Luigiane: «Per riaprire serviranno anni, altro che 2022»

    Il pasticciaccio che ha portato alla chiusura delle Terme Luigiane continua a tenere banco. Nei giorni scorsi avevamo intervistato il sindaco di Acquappesa, Francesco Tripicchio, che per replicare alle accuse subite in questi mesi era andato all’attacco di Sateca. La sua versione, però, è diametralmente opposta a quella dell’azienda che ha gestito il compendio termale dal 1936 all’anno scorso. I vertici di Sateca parlano di «opera di disinformazione» da parte dell’amministratore comunale. E smentiscono categoricamente che le proteste di questi mesi siano «una montatura costruita ad arte dai gestori storici» come reputa Tripicchio. Così, per offrire ai lettori un’informazione più ampia possibile, dopo i lavoratori, gli utenti e il sindaco abbiamo sentito anche gli imprenditori affinché potessero dire la loro su quello che sta accadendo.

    I Comuni vi hanno fatto un’offerta affinché le attività nel 2021 proseguissero, perché l’avete rifiutata?

    «La società è stata costretta a rifiutare perché l’accettazione era condizionata dalla seguente formula vessatoria e quindi inaccettabile: “resta inteso che tale proposta è subordinata al ritiro di tutti i contenziosi in atto, nessuno escluso”. E il canone che ci chiedevano era assolutamente fuori mercato in termini economici».

    Eppure secondo Tripicchio le cifre non si discostano da quelle che si pagano altrove. Se in posti come Fiuggi o Chianciano l’acqua costa di più, perché Sateca dovrebbe spendere meno per l’acqua delle Terme Luigiane?

    «Non sappiamo se il sindaco Tripicchio dica certe cose per manifesta incompetenza o malafede. Ma a smentire le sue affermazioni c’è il rapporto del Dipartimento del Tesoro secondo il quale la totalità delle terme del Lazio (compreso Fiuggi) pagano annualmente canoni per 179.000 Euro e quelle della Toscana (compreso Chianciano) 106.000 Euro».

    Quelle però sono le concessioni, la vostra è una subconcessione. Tripicchio spiega che il calcolo del vostro eventuale canone futuro è figlio di un accordo del 2006 tra Stato e Regioni. Perché dovreste continuare a pagare molto meno?

    «In realtà il sindaco fa riferimento ad un documento di indirizzo delle Regioni in materia di acque minerali, cosa molto diversa. È per questo che Fiuggi, distribuendo bottiglie in tutto il mondo, paga un milione di canone. I conti tornano. Forse il sindaco pensa di rimediare al dissesto del suo Comune rifacendosi sulla Sateca? Una pubblica amministrazione non può sparare cifre a vanvera, dovrebbe fare riferimento al mercato. Non a quello delle acque da imbottigliamento, però».

    Per il sindaco sono solo 44 i vostri dipendenti, altri parlano di 250 lavoratori: quanti sono in realtà?

    «Tripicchio purtroppo non sa leggere i bilanci e neanche i certificati camerali. Nella nota integrativa allegata al nostro bilancio del 2019 (ultimo anno pre-covid) si indica un numero medio annuo (quindi riferito a 365 giorni) di 100 lavoratori, per i quali la Sateca spa ha speso 2.122.000 Euro. Se fossero stati solo 44 dipendenti, avremmo pagato uno stipendio medio a dipendente di 48.227 euro. Purtroppo non possiamo permettercelo».

    Voi contestate ai Comuni di non aver pubblicato un bando, loro replicano che la procedura adottata sia equivalente secondo il Codice degli appalti. Come se ne esce?

    «Riteniamo la manifestazione d’interesse non valida e abbiamo presentato ricorso. Purtroppo il Tar ha rimandato a ottobre la sentenza, prevista all’inizio di luglio, su richiesta dei due Comuni e della Regione, che sembra non abbiano fretta di chiarire le cose. Tripicchio fa, inoltre, riferimento all’art.79 del Codice degli Appalti, che però non riguarda minimamente l’argomento in questione. Dopo mesi che chiediamo qualche riferimento normativo alle assurde azioni dei due sindaci, Tripicchio ci fornisce un articolo di legge che non c’entra nulla».

    La subconcessione a vostro favore, comunque, è scaduta da 5 anni. Per quale motivo avrebbero dovuto farvi continuare come se niente fosse?

    «Non esiste al mondo che si sbatta fuori in maniera illegale, come siamo certi verrà dimostrato dalla magistratura, e con la forza il subconcessionario di un servizio pubblico prima dell’insediamento di chi prenderà il suo posto. Vale per tutti i servizi di pubblica utilità, soprattutto per quelli sanitari. Il tutto gridando al rispetto della legge senza mai dire a quale legge si faccia riferimento».

    Su una cosa con Tripicchio potreste essere d’accordo, però: il sindaco trova strano che, oltre a voi, a rispondere all’invito dei Comuni siano state solo ditte campane. Che idea vi siete fatti a riguardo?

    Il fatto che alla manifestazione d’interesse abbiano partecipato solo aziende di Castel Volturno, Casalnuovo di Napoli, Casoria etc. , tutte operanti nel settore edile, con capitali sociali modestissimi e senza alcuna esperienza termale e che, secondo il sindaco, questa sia una “strategia”, perché poi con l’avvalimento potranno subentrare altri soggetti, secondo noi è molto preoccupante. E anche delle amministrazioni comunali responsabili dovrebbero preoccuparsi. Perché un’azienda seria e fatta da persone perbene non partecipa direttamente ad una manifestazione d’interesse ma manda avanti delle “teste di ponte”? Questo atteggiamento di Tripicchio non fa altro che alimentare le preoccupazioni e le voci su imprenditori chiacchierati e interessati.

    Il parrocco di Guardia ci ha raccontato di aver ricevuto minacce per essersi schierato dalla parte dei vostri dipendenti. Cosa avete da dire a riguardo?

    «L’affermazione del sindaco “Al parroco porterò sostegno se davvero è stato minacciato” lascia molte perplessità sulle qualità umane di Tripicchio, non pensiamo che tale affermazione meriti alcun commento».

    Tripicchio però è certo che le Terme riapriranno già nel 2022, con o senza Sateca. Quante probabilità ci sono che vada davvero così secondo voi?

    «Noi della Sateca siamo cresciuti a “pane e zolfo”. Sappiamo benissimo cosa vuol dire avviare uno stabilimento da zero, visto che i sindaci prima di appropriarsene coattivamente ci avevano espressamente richiesto che fosse totalmente sgombro. Ad essere ottimisti, la ristrutturazione – siamo in zona soggetta a vincoli ambientali – e tutta la parte burocratica (autorizzazione sanitaria, accreditamento, budget, autorizzazioni di VVF, certificazioni varie…) necessitano di anni. Anche con lo scandaloso, perché passa il principio che chi distrugge viene premiato, contributo economico promesso ai due sindaci da Orsomarso l’apertura l’anno prossimo è assolutamente impossibile».

    A che pro allora un annuncio di quel genere?

    «Ci auguriamo che il proclama di Tripicchio non vada ad inserirsi nella campagna elettorale di Rocchetti (il sindaco di Guardia Piemontese, il comune che insieme ad Acquappesa gestirà le acque termali fino al 2036, nda) e Orsomarso e che non inizi una campagna di promesse ed impegni sulle terme che nessuno potrà certamente mantenere. Chiediamoci se una Giunta regionale che dovrebbe svolgere solo l’attività ordinaria in attesa delle elezioni possa, invece, promettere finanziamenti, posti di lavoro e contributi a destra e a manca».

    Possibile che gli errori siano tutti della pubblica amministrazione?

    «Il ritardo accumulato dal 2016 ad oggi nel fare il bando è esclusivamente da attribuire ai due Comuni. Non sono stati in grado per anni di presentare la documentazione richiesta dalla Regione, nonostante questa si fosse dichiarata disponibile ad aiutarli. Tripicchio e Rocchetti, anche grazie all’immobilismo della proprietaria delle acque, la Regione, hanno distrutto una realtà imprenditoriale, assolutamente non perfetta, ma che con il suo lavoro teneva in piedi l’economia della zona e consentiva a centinaia e centinaia di lavoratori una vita dignitosa e a migliaia di curandi il benessere. Parliamo di una realtà imprenditoriale mai sfiorata da alcuna collusione con la criminalità, incentrata sul totale rispetto della normativa e dei contratti di lavoro. Di questa distruzione dovranno rispondere sia in sede civile che penale».

    Ma perché dovrebbero accanirsi contro di voi come sembrate pensare?

    «Siamo amareggiati, in Calabria le cose vanno sempre al rovescio: chi distrugge in maniera gratuita aziende e posti di lavoro ha il coraggio di ricandidarsi e chi fa chiudere le Terme Luigiane facendo perdere centinaia di posti di lavoro viene addirittura premiato, proprio dall’assessore al lavoro Orsomarso, con un milione di euro di finanziamento. È iniziata la campagna elettorale, non c’è altro da dire».

  • Terme Luigiane, è l’ora del confronto: Molinaro dice sì, gli altri?

    Terme Luigiane, è l’ora del confronto: Molinaro dice sì, gli altri?

    Lo stop alle attività delle Terme Luigiane nel 2021 rappresenta, a prescindere da chi ne sia responsabile, una sconfitta per l’intero territorio e la sua economia. In questi giorni abbiamo provato ad approfondire per i nostri lettori i dettagli della vicenda, dando voce ai protagonisti. Abbiamo fatto parlare prima i lavoratori, gli utenti, la società che aveva in gestione il compendio, per poi ascoltare l’altra campana, quella della politica locale.

    Una scelta precisa, all’insegna dell’imparzialità e dell’approfondimento per il bene della comunità, che il nostro direttore intende portare avanti fino in fondo. Per trovare una soluzione, ha scritto nel suo ultimo editoriale, c’è bisogno che gli attori protagonisti del dramma delle Terme Luigiane si incontrino. E che parlino apertamente con i cittadini di ciò che è stato fatto e di ciò che bisognerà fare per arrivare a una soluzione come tutti auspicano.

    Il primo a dare la sua disponibilità per un confronto pubblico a più voci è stato il consigliere regionale Pietro Molinaro (Lega), inviandoci la lettera che potete leggere poche righe più sotto. La risposta del direttore, riportata subito dopo, conferma le nostre intenzioni di non lasciare che tutto si limiti a un rimpallo di responsabilità o al chiacchiericcio pre-elettorale.

    Ma, soprattutto, è un invito a tutti gli altri protagonisti – politici, imprenditori, lavoratori – della diatriba ad aderire a questa proposta.
    Confidiamo che contattino, così come ha fatto il consigliere Molinaro, la nostra redazione per partecipare a un dibattito aperto. Il dialogo e il confronto sono l’unico modo per restituire ai cittadini la fiducia nella politica e nell’imprenditoria locale.

    La lettera a I Calabresi del consigliere regionale Pietro Molinaro 

    Egregio direttore,

    mi riferisco al suo articolo Le Terme Luigiane muoiono, annegate dalle chiacchiere, ed in particolare alla parte in cui sollecita i politici a parlarne pubblicamente, “vis-à-vis con i lavoratori che hanno perso il lavoro, con gli operatori commerciali – albergatori in primo luogo – già messi K.O. dal Covid, con quei calabresi che alle terme ci debbono andare, nella propria terra, specie se qui possiamo vantare una volta tanto «un fiore all’occhiello»”.

    Condivido la sua opinione che i politici parlino in pubblico della vicenda delle Terme Luigiane, confrontandosi con le principali vittime dello scempio costituito dalla chiusura degli stabilimenti. Per questo, le esprimo la mia disponibilità ad accogliere il suo eventuale invito a parlare pubblicamente della vicenda delle Terme Luigiane ed a confrontarmi con chi riterrà opportuno. Se con il suo giornale vorrà organizzare un incontro pubblico a più voci sulla vicenda, non mancherò. Con l’auspicio che non serva ad alimentare polemiche ma a trovare soluzioni.

    I miei atti pubblici documentano il mio impegno, non a chiacchiere ma con atti politici ed amministrativi, per l’apertura delle Terme Luigiane. Ho preso posizione pubblicamente sulla vicenda fin dal dicembre 2020. Ho sollecitato, con comunicazioni scritte ufficiali, Orsomarso e Spirlì a far svolgere alla Regione un ruolo attivo per garantire le prestazioni sanitarie e l’occupazione. E l’ho fatto sia pubblicamente che in incontri personali.

    Ho scritto al Direttore generale del Dipartimento Attività produttive che il 1° luglio mi ha risposto ma successivamente ha interrotto la comunicazione, nonostante sia stato sollecitato più volte, sempre in forma scritta. Ho incontrato i lavoratori nel corso dell’occupazione pacifica dello stabilimento termale. Ho partecipato alla manifestazione pubblica dei lavoratori. Ho presentato una interrogazione alla Giunta regionale alla quale non ho ricevuto risposta. Ho presentato una mozione in Consiglio regionale che non è stata discussa. Mi sono mosso anche in altre direzioni istituzionali che per ora ritengo opportuno mantenere riservate. Non è bastato e ne sono dispiaciuto, ma onestamente, da consigliere regionale credo che non avrei potuto fare di più.

    Per svolgere il mio compito ho assunto una posizione di cui sono fermamente convinto anche se è molto distante da quella dell’Assessore Orsomarso e del Presidente ff. Spirlì. Facciamo parte della stessa maggioranza ma questo, per me, non vuol dire accettare tutto quello che fa la Giunta regionale. Su singoli atti, nel merito, considero doveroso e legittimo dissentire ed io l’ho fatto senza farmi frenare da vincoli di maggioranza. Da eletto, rispondo innanzitutto alla mia coscienza ed ai miei elettori e poi alla maggioranza di cui faccio parte. Ognuno legittimamente sostiene le proprie posizioni, ed io sarei disposto a cambiare posizione se Orsomarso e Spirlì mi fornissero motivazioni valide che finora non mi hanno fornito.

    Dunque, ben venga anche un’iniziativa pubblica organizzata dal suo giornale, per un confronto schietto tra le diverse posizioni che ci sono in merito alle Terme Luigiane. In ultimo, mi permetto di formularle i miei auguri per la nuova iniziativa editoriale de I Calabresi. Fin dalle prime settimane di vita il suo giornale si sta caratterizzando per essere realmente il “giornale d’inchiesta” che ha dichiarato di voler essere. Per questo mi complimento con lei e con i suoi collaboratori. La Calabria potrà trarre grande utilità da un’informazione sempre più ricca di inchieste che aiutino i cittadini ad andare oltre le apparenze ed il qualunquismo. Un cordiale saluto.

    Pietro Molinaro

     

    La risposta del direttore de I Calabresi, Francesco Pellegrini

    Egregio consigliere,

    Apprezzo molto la sua disponibilità ad un confronto pubblico con gli altri soggetti politici e istituzionali, ma anche con altri attori coinvolti nella crisi delle Terme Luigiane, di cui tutti, i lavoratori in primo luogo, auspicano e richiedono una pronta soluzione.
    Vi sono altri, molti altri problemi in Calabria a forte impatto economico e sociale che impongono alla classe politica, a tutela della sua credibilità ed onorabilità, che non pare godere di buona salute, un reale e trasparente confronto con i cittadini. Si preferisce invece – anche con la compiacenza di alcuni professionisti della “disinformazione” – il gioco stucchevole e penoso delle promesse avveniristiche, meglio se collocate in un tempo lontano – decenni, non mesi – che assicurano l’immunità ai falsi profeti.

    Noi, come Lei cortesemente ricorda, siamo nati per introdurre o rendere più ampia la pratica del confronto e della comunicazione pubblica, la sola idonea a determinare scelte politiche e convincimenti consapevoli della comunità dei cittadini.
    Quindi accogliendo la sua disponibilità chiediamo ai sindaci di Acquappesa e Guardia Piemontese, all’assessore Orsomarso, al presidente Spirlì, alla Sateca e, soprattutto, ai lavoratori delle Terme Luigiane di comunicare la loro condivisione della proposta del consigliere Molinaro. Noi, con le necessarie intese, provvederemo all’organizzazione dell’incontro presso le Terme – o, in alternativa, presso la nostra sede a Cosenza – e alla sua diffusione in streaming.

    Cordiali saluti
    Francesco Pellegrini

  • Terme Luigiane, il sindaco spara a zero su Sateca: «Il 90% dei lavoratori d’accordo con me»

    Terme Luigiane, il sindaco spara a zero su Sateca: «Il 90% dei lavoratori d’accordo con me»

    Francesco Tripicchio è il sindaco di Acquappesa, uno dei due Comuni coinvolti nella querelle che ha portato alla chiusura delle Terme Luigiane. Di critiche in questi mesi ne ha subite parecchie, ma sulla strategia per respingerle la pensa come Gentil Cardoso: la miglior difesa è l’attacco. Secondo lui, tutta la polemica intorno alla vicenda sarebbe una montatura costruita ad arte dai gestori storici – sono lì dal 1936 ed era previsto ci rimanessero fino all’affidamento di una nuova concessione (attesa dal 2016, data di scadenza della precedente ottantennale) a chicchessia, loro compresi, da parte dei due enti pubblici – degli stabilimenti. Quanto alla responsabilità dello stallo venutosi a creare, con tutti i danni economici che ha comportato per l’economia del territorio, non sarebbe sua e del suo collega di Guardia Piemontese, Vincenzo Rocchetti. Né della Regione, apparsa ai più poco incisiva nella crisi che ha portato alla paralisi il compendio termale, abbattendo anche l’indotto che generava. A stabilire chi abbia ragione, come spesso accade da queste parti, finiranno per essere i tribunali.

    Tutti dicono che la politica ha fatto chiudere le Terme lasciando a casa 250 lavoratori, lei cosa risponde?

    «Che la politica non ha fatto chiudere proprio nulla: è stata fatta una proposta alla società che gestiva il compendio termale da 85 anni e quella l’ha rifiutata. Le è stato detto di proseguire le attività nel 2021 a un prezzo di 90mila euro, tenendo presente che fino all’anno scorso ne pagava 44mila».

    Il canone è più del doppio del precedente, non trova normale che abbiano rifiutato?

    «No, perché fino al 2020 spese come la manutenzione delle strade, l’illuminazione pubblica e i consumi elettrici erano a carico loro. Adesso sono passate ai Comuni, che per questo hanno chiesto soldi in più che corrispondono a questi nuovi costi. La società non ha accettato, la loro proposta era di darci 30mila euro all’anno per 40 litri al secondo di acqua calda. Le nostre sorgenti forniscono in totale 100 l/s, di cui proprio 40 di acqua calda.

    Guarda caso vogliono tutta quella calda loro: significherebbe che nel resto del compendio non si può lavorare. Capisco che chi ha avuto un monopolio lo difenda con le unghie e coi denti, ma non può averlo più. E poi chiedevano garanzie per il futuro che nessuno può dar loro perché parliamo di beni pubblici che vanno messi a bando. Quindi Sateca, come tutte le società del mondo, deve partecipare a un bando. E chi lo vince gestirà gli stabilimenti nel compendio».

    I Comuni però non hanno fatto un bando…

    «C’è una manifestazione d’interesse, è la stessa cosa perché l’articolo 79 del Codice degli appalti prevede le manifestazioni d’interesse con procedure negoziate. Hanno partecipato in sei. Compresa Sateca, che ha fatto pure ricorso».

    La procedura scelta non aumenta la discrezionalità degli enti nella scelta del nuovo gestore?

    «Non è così, nessuna discrezionalità. Anche così ci sono parametri e paletti che la pubblica amministrazione deve mettere a tutela dei beni comuni. Chi presenta e chi valuta le proposte si deve attenere a quelli, non c’è nessuna differenza».

    Perché allora nell’avviso parlate di 40 litri al secondo in cambio di 70mila euro annui e a Sateca ne chiedete 90mila per il 2021 e quasi 400mila per il futuro?

    «La base d’asta è di 70mila euro, aumentabili, più una percentuale sul fatturato pari all’1%. Sateca ha lasciato macerie, chi andrà a gestire dovrà investire almeno un milione per poter operare perché la società ha portato via perfino le vasche dallo stabilimento tornato in nostro possesso. Questo sarà oggetto di separata azione giudiziaria. Il canone, comunque, non si discosta di tanto dai 90mila euro chiesti a Sateca.

    Ma di parecchio dai 400mila euro futuri…

    Abbiamo fatto un calcolo sulla base di quanto stabilito nella Conferenza Stato-Regioni del 2006, considerando i valori medi. E i valori medi hanno dato un risultato di circa 370mila euro. Abbiamo dato la disponibilità per applicare il nuovo corrispettivo da dopo il 2022 per arrivare ai 370mila euro progressivamente nel giro di 5-6 anni. Perché Chianciano e Fuggi pagano un milione di euro e le Terme Luigiane, che hanno acque di qualità superiore, dovrebbero pagare cifre molto inferiori?».

    Forse perché lì si parla di acque minerali oltre che termali?

    «Questa, perdoni il termine, è una grande cazzata. Così come 85 anni di gestione indisturbata sono un caso unico al mondo».

    Nei rapporti del Mef degli anni scorsi sulle acque minerali e termali c’è scritto altro, però. Le acque termali e le minerali sono distinte, così come i loro prezzi, e la storia del termalismo italiano è zeppa di concessioni perpetue…

    «C’è differenza tra concessione e subconcessione: la prima la hanno i Comuni, che poi affidano a terzi il servizio».

    La vostra concessione dura fino al 2036, giusto?

    «Sì, perché qualcuno l’ha trasformata. Quanto alla subconcessione, gli enti pubblici possono stabilire, giustificandoli s’intende, i canoni. Addebitare a Comuni e Regione la chiusura del compendio termale è vergognoso: è l’azienda che ha chiuso, che non ha voluto proseguire, che dice di voler tutelare lavoratori ma non tutela nessuno.

    A proposito, i lavoratori non sono 250, secondo i bilanci sono 44. Questo pseudocomitato che scrive a nome dei lavoratori vorrei sapere da chi è composto: il 90% dei dipendenti sono incazzati con la società, mi arrivano tantissimi messaggi e telefonate in questo senso, posso dimostrarlo».

    Le manifestazioni di questi mesi mostrano parecchi lavoratori in protesta però, non le pare che questo contraddica la sua versione?

    «C’è chi si porta i parenti, chi gli amici, mica sono lavoratori delle Terme Luigiane! E in quelle manifestazioni non c’è nessuno di Guardia o Acquappesa, anche perché i posti di rilievo la Sateca li ha dati tutti a gente che non è di qui. I lavoratori veri che protestano sono 3 o 4, se fa un giro per strada e parla con la gente del posto le diranno quello che dico io, non quello che dicono l’azienda o quei 3-4 lavoratori».

    Lo abbiamo fatto e ci hanno detto cose diverse dalle sue. Compreso il parroco, che ci ha raccontato di minacce subite per aver criticato voi politici…

    «Al parroco porterò sostegno se davvero è stato minacciato. Ma io e il mio collega di Guardia stiamo pensando di denunciarlo perché in un video pubblicato dal Corriere della Calabria ha detto che io e Rocchetti siamo dei mafiosi».

    Nell’avviso parlate di 15 anni più altri 15, quindi di una (sub)concessione fino al 2051, ben oltre il 2036…

    «Parliamo di un’opzione per i successivi quindici anni. Nel momento in cui avremo dalla Regione il rinnovo della concessione – magari verrà fuori che è stato fatto un abuso e che è illegittimo non averla mantenuta perpetua (la Consulta ha stabilito nel gennaio 2010 che modifiche di questo genere sono a norma, nda) – ci potranno essere gli eventuali altri quindici. Certamente non ci potranno più essere altri 85 anni di monopolio assoluto».

    In altre terme, anche calabresi, la situazione sembra identica a quella che c’era da voi e lei contesta. Cosa ha da dire a riguardo?

    «Io mi occupo del mio Comune, non degli altri. E dopo 85 anni sto cercando di far rivivere le Terme Luigiane. Se responsabilità politica c’è nella situazione che si è creata, non è dei sindaci di Acquappesa e Guardia o di chi è ora alla Cittadella. Semmai è di qualche altro politico regionale precedente, che ha fatto ingerenze e interferenze degne dell’attenzione dell’autorità giudiziaria».

    L’assessore Orsomarso dalle colonne del Quotidiano del Sud ha parlato di «proroghe a ripetizione» prima del vostro avviso pubblico: quante sono state?

    «Due, nel 2016 e nel 2019. Qualcuno dice che i comuni non sono stati in grado di fare il bando negli ultimi cinque anni, ma non è così. I comuni hanno avuto la durata della concessione in loro favore il 18 dicembre 2019: prima cosa potevo mettere a bando se non sapevo per quanto avrei potuto affidare il servizio?. L’iter della trasformazione della concessione da perpetua a temporanea è iniziato in Regione nel 2015, sotto Oliverio».

    Che era stato appena eletto però, il tempo non lo avrà perso chi c’era prima ancora di lui? Si sapeva da 80 anni che la concessione sarebbe scaduta nel 2016

    «L’atto che reputo illegittimo lo ha fatto lui e per quasi cinque anni non ci ha dato la durata della concessione. Poi nel 2019 il sottoscritto si è messo ad andare quasi ogni giorno in Regione per ottenerla. Oliverio e i suoi hanno solo ostacolato i Comuni, l’ho detto anche all’autorità giudiziaria. Ho la coscienza pulita e non ho nulla da temere, faccio quello che la legge prevede di fare. Ora le Terme Luigiane devono rivivere, ma non a vantaggio di un privato che fattura 6 milioni di euro in 4-5 mesi e lascia nei Comuni 44mila euro, 25mila dei quali versiamo alla Regione. Per me i 370mila euro chiesti a Sateca sono pure pochi».

    Eppure anche Orsomarso nell’intervista contestava la vostra scelta di applicare i presunti prezzi medi e non quelli minimi…

    «Ripeto, per quest’anno chiedevamo 90mila euro. Orsomarso si riferisce agli anni dal 2022 in poi. Non c’entra nulla che le acque siano termali o minerali, noi abbiamo calcolato le somme per analogia, sulla base della Conferenza Stato-Regioni di cui parlavo, con il metodo di interpolazione lineare. I 370mila euro sono un prezzo più basso di quello che sarebbe venuto fuori con la media aritmetica».

    Il minimo auspicato dall’assessore, invece, a quanto ammonterebbe più o meno?

    «Circa 250mila euro. Io avrei optato proprio per il massimo, che sfiorava il milione di euro».

    Lei ritiene sia compatibile col mercato un prezzo simile?

    «Assolutamente sì. Solo di budget regionale per le prestazioni sanitarie accreditate Sateca prende da anni 2,7 milioni di euro, senza contare il non convenzionato. Che saranno 370mila euro a confronto?».

    Ci sono pure i costi per l’azienda però, quelli non li considera?

    «I costi li hanno anche gli enti, che peraltro hanno la Corte dei Conti a controllarli. Io ho il dovere di mantenere determinati parametri per evitare che la magistratura contabile mi contesti scelte».

    Il dissesto del suo Comune ha avuto peso nei calcoli sui nuovi canoni?

    «Se lo avesse avuto, avrei dovuto applicare il massimo. Anche sulle concessioni, come per le aliquote, i Comuni in dissesto dovrebbero applicare le tariffe più alte, ma considerando le particolarità del caso e le ricadute occupazionali sul territorio abbiamo chiesto di meno».

    Perché allora nell’avviso che avete pubblicato non si parla del mantenimento dei livelli occupazionali?

    «Una manifestazione d’interesse dà indicazioni generali. Poi, nella lettera d’invito ai partecipanti che hanno i requisiti si mettono una serie di parametri e in base a quelli si assegnano i punteggi. La lettera non è ancora partita, ma lì ci sarà il mantenimento dei livelli occupazionali come criterio premiale. Spero che al massimo entro una decina di giorni venga inviata».

    Come mai si è arrivati a uno scontro e allo stallo totale di fronte a ripercussioni economiche enormi per il territorio, tanto più in pandemia?

    «Nei mesi estivi qui c’è stato il pienone negli alberghi. Probabile che a settembre ci sia un calo, come lamenta qualcuno, ma ad agosto c’è stato un aumento delle presenze».

    Le Terme Luigiane però non lavoravano solo ad agosto…

    «Lo facevano 4-5 mesi all’anno. In base al bando che stiamo preparando dovranno restare aperte per almeno 8-10 mesi e, giocoforza, i livelli occupazionali aumenteranno».

    Altro problema: si parla di condotte a rischio danneggiamento per colpa della chiusura e di pericoli di inquinamento perché l’acqua sulfurea destinata agli stabilimenti ora finisce in un torrente. Cosa ha da dire a riguardo?

    «Il nuovo subconcessionario non utilizzerà quella condotta, perché quella riguarda proprietà della Sateca. In ogni caso al suo interno ci può essere qualche incrostazione di zolfo che con un minimo di pulizia si elimina, le tecnologie moderne lo permettono. Nessun danneggiamento quindi, né condotte da rifare ex novo».

    Quindi servono comunque nuove condotte se quella utilizzata finora è di Sateca?

    «No, quelle comunali ci sono già nel compendio. Abbiamo “chiuso l’acqua” nell’altra condotta per non farla defluire in una struttura privata che non aveva più un contratto in essere. Le pubbliche amministrazioni devono tutelare i beni pubblici e possono procedere anche senza l’autorizzazione dei giudici, come abbiamo fatto riprendendoci gli stabilimenti all’interno del compendio».

    Avete fatto almeno un’ordinanza prima di riprenderveli?

    «Non ce n’era bisogno procedendo con l’apprensione coattiva, tant’è che nessuno ci ha detto nulla. Non avevano contratto, l’acqua non gli spettava».

    E l’inquinamento potenziale?

    «Non c’è. Lo scarico utilizzato è quello storico, non si può neanche parlare di sversamento: chiusa la condotta va tutto lì, ma non è un agente inquinante, è quello che fuoriesce naturalmente dal sottosuolo. Se ci fosse stato pericolo d’inquinamento sarebbero intervenuti i carabinieri, no?».

    Le indagini spesso sono lunghe e gli interventi della magistratura arrivano dopo…

    «Al momento nessuno ci ha contestato reati ambientali. Se fosse stato illegale quello che facciamo la prefettura non ci avrebbe mandato forze di polizia a supporto quando abbiamo ripreso lo stabilimento comunale da Sateca».

    Gran parte delle strutture legate al termalismo in zona sono di Sateca, c’è il rischio che le Terme Luigiane muoiano se loro chiudono i battenti?

    «Lo stabilimento San Francesco d’ora in poi sarà di chi si aggiudica il bando e non è detto che gli impianti termali siano più piccoli degli attuali. Lo stabilimento ha tre blocchi, dipenderà dai progetti presentati. E i clienti potranno comunque andare in alberghi esterni, di Sateca come di altri. Se ci sono o meno loro, le Terme Luigiane vanno avanti lo stesso. Tant’è che se quest’estate la Sateca li avesse aperti avrebbe incassato: la gente è andata nei paesi vicini a dormire, avrebbero avuto ospiti come altri».

    Torniamo al “bando”: se Sateca perde e fa ricorso rischia di saltare anche la stagione termale 2022?

    «Chiariamo: io non ho problemi se vince Sateca. Loro cercano di mostrare la loro indispensabilità, ma tutti sono sostituibili al mondo. E i ricorsi possono arrivare da qualsiasi partecipante, non solo da Sateca, a prescindere da chi vinca la gara. Poi dipenderà dal Tar, se darà sospensive, se farà procedere a consegne in via d’urgenza o altro. Io mi auguro che non ci siano ritardi e farò di tutto perché si riparta a regime da subito».

    Cos’ha da dire sulle voci che parlano di imprenditori locali “chiacchierati” che beneficerebbero dello scontro per prendersi le Terme Luigiane?

    «È un tentativo di diffamazione: se, tranne Sateca, alla manifestazione hanno partecipato solo aziende non calabresi quali dovrebbero essere gli imprenditori locali chiacchierati?».

    Chi ha risposto al vostro avviso però non si occupa di termalismo, non lo trova strano?

    «L’ho notato anche io, ma immagino che sia una strategia degli imprenditori. Esiste l’istituto dell’avvalimento: io partecipo a una manifestazione d’interesse, poi nella fase successiva posso dire con chi faccio l’avvalimento. Magari anche Sateca presenterà un progetto in avvalimento con qualcuno. Al momento, tra l’altro, sono loro quelli con i maggiori requisiti, dopo si vedrà».

    Quindi gli imprenditori discutibili potrebbero rientrare dalla porta di servizio, non va specificato dall’inizio che si opera con dei partner?

    «No, solo dopo aver ricevuto la lettera d’invito. E i progetti saranno valutati con la massima attenzione. Io penso che aggiudicheremo la subconcessione entro i primi di novembre. Quindi anche se ci saranno ricorsi in un paio di mesi sarà tutto pronto. La stagione 2022 alle Terme Luigiane si farà. Vogliamo aprirci al mercato e in futuro non escludo che a offrire cure termali possano essere i Comuni stessi, magari in società con qualche privato, con benefici per la comunità e non solo per dei monopolisti».

     

  • Terme Luigiane, minacce al prete e impianti a rischio

    Terme Luigiane, minacce al prete e impianti a rischio

    Tra Guardia Piemontese e Acquappesa aleggia ancora l’effluvio di zolfo, simile all’odore di uovo sodo. Spenti gli stabilimenti termali, ristagna l’acqua sulfurea che sgorga dalla sorgente. Prima di tuffarsi dritto in mare, il prezioso rigagnolo bollente scolpisce tra le rocce una caldissima vasca di color verde smeraldo, dove pochi freak turisti s’immergono e se la godono. Anche a Lamezia, nelle terme di Caronte, o in altre località italiane come nella toscana Saturnia, oltre agli impianti a pagamento, da sempre esistono pozze di deflusso accessibili a tutti. Tra questi boschi però il fenomeno è recente. E al di là di qualche amatore e di pochi curiosi, si sono esauriti gli ultimi barlumi di vita sociale.

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    Una pozza d’acqua sulfurea nei pressi delle Terme Luigiane

    È confinato nella nostalgia dei boomers il ricordo delle Terme Luigiane che richiamavano giovani moltitudini al tempo della mitica discoteca Onda Verde. Sbarrate porte e finestre degli alberghi, deserte le strade, gracidanti ranocchie sguazzano nella piscina termale, fino all’anno scorso stracolma di bagnanti. Resistono solo un’eccellente pizzeria napoletana e uno dei pochi cinema superstiti sulla costa tirrenica cosentina, “La Sirenetta”. Non si vedono più in giro i 32mila turisti, gran parte dei quali russi, che nel 2019 riempirono hotel e B&B. Desolante appare la piazzetta dove un tempo si ballava, cani randagi latranti minacciano i pochi runner che s’avventurano quassù, in un ex luogo che riverbera le solitudini di altri centri abbandonati nei recessi delle Calabrie.

    Nutrito sarebbe l’elenco dei paesini fantasma. Mentre in altre aree della regione, come Roghudi e Cavallerizzo di Cerzeto, alluvioni, emigrazioni, frane e smottamenti hanno colpito duro, nella zona termale di Guardia Piemontese, madre natura e sorella povertà non sono imputabili dello sfacelo. Se le Terme Luigiane restano chiuse, la colpa non è delle calamità. Nel momento più critico di un’estenuante vertenza, sono stati i sindaci di Guardia Piemontese e Acquappesa ad assumersi la responsabilità di serrare i rubinetti dell’acqua che generava fanghi e vapori sulfurei.

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    Vacche pascolano liberamente intorno agli stabilimenti chiusi delle Terme Luigiane

    Dallo scontro feroce tra le due amministrazioni comunali e Sa.te.ca, la società subconcessionaria che da tempo immemore gestiva gli impianti, sono emerse soltanto macerie. E nemmeno la pandemia era riuscita a desertificare le corsie di questi stabilimenti. Persino nel 2020, sebbene l’utenza delle cure termali si fosse ridotta dell’80 per cento, gli impianti avevano continuato a funzionare. Ma quest’anno il duello s’è fatto più aspro e ha finito per azzerare tutto. Dove neanche il coronavirus ha potuto sortire effetti devastanti, è riuscita a provocare danni irreparabili l’umana cupidigia.

    Un bene (poco) comune

    Il getto d’acqua sulfurea da 100 litri al secondo, di cui s’alimentavano le Terme Luigiane, è di proprietà della regione Calabria che lo concede ai comuni siamesi di Acquappesa e Guardia Piemontese. Questi a loro volta ne affidano la gestione alla società privata Sa.te.ca. Così è stato per 80 anni, dal 1936 al 2016. Alla scadenza della concessione, è iniziata una partita che al momento non registra vincitori. L’attuale situazione di stallo infatti lascia sconfitto un territorio dalle potenzialità turistiche immense, consegna 250 lavoratori e lavoratrici alla disoccupazione e priva migliaia di pazienti delle cure necessarie ad affrontare fastidiosissime patologie.

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    Una protesta dei lavoratori delle Terme Luigiane rimasti a spasso a causa della chiusura degli stabilimenti

    Tra i contendenti è in atto da sempre una partita a briscola. Nessuno di loro vuole cedere il mazzo. Uno dei partecipanti, la Regione, gioca in modo distratto. Dal 2016, quando sono cambiate le regole, tutti hanno iniziato a lanciare le carte in aria. E per capire se qualcuno abbia barato, bisognerà attendere gli esiti delle inchieste aperte dalla Procura di Paola e i responsi dei giudici amministrativi, subissati da ricorsi.

    Forse neanche il compianto drammaturgo Vincenzo Ziccarelli, che per anni nel complesso termale diresse la rassegna culturale Zolfo e malie, sarebbe stato in grado di ideare le scenette tragicomiche, degne del miglior Charlie Chaplin, avvenute alla fine dello scorso inverno, quando le amministrazioni comunali si sono riappropriate dei beni detenuti dalla Sa.te.ca. S’è registrata tensione altissima tra i rappresentanti dei due enti e dell’azienda, con le forze dell’ordine a fare da cuscinetto in un derby disputato intorno a un pallone liquido e gassoso.

    La pantomima tra i sindaci e i legali della Sa.te.ca al momento della restituzione di parte degli immobili del complesso termale in un video pubblicato dal Quotidiano del Sud a febbraio

    Lo scontro si è rivelato inevitabile nel gennaio 2021, quando a distanza di due settimane dal nuovo protocollo d’intesa, che avrebbe previsto un’ulteriore proroga della concessione alla Sa.te.ca fino al subentro del nuovo gestore, l’accordo firmato in Prefettura è stato di fatto ribaltato dalla determinazione delle due amministrazioni comunali a concedere tale concessione fino al novembre 2021, non oltre.

    Missione impossibile

    I pochi viandanti, perlopiù calabresi ormai trapiantati altrove, che si avventurano nell’area desertificata delle terme, sbigottiti chiedono come mai qui sia tutto chiuso, quali siano le responsabilità di cotanto degrado. Centoquarantasei metri più in basso, sul livello del mare, qualche turista più curioso interroga il titolare di uno dei bar di Guardia marina: «Come si è arrivati allo scontro?». Il barista stringe le spalle e risponde sottovoce: «Interessi politici». Gli avventori incalzano e rilanciano l’amara considerazione che ormai ha un tono proverbiale: «Che peccato! Guardia è un posto meraviglioso. Una risorsa termale come questa, al nord creerebbe migliaia di posti di lavoro per tutto l’anno. Ma come si fa a tenerla chiusa?».

    Già, come si fa? Se in tutta questa vicenda c’è stato un peccato originale, è nella mancata indizione di un regolare bando pubblico per affidare la gestione dello stabilimento a un nuovo gestore. È opinione diffusa che i Comuni avrebbero potuto e dovuto farlo nel 2016, magari preparando i termini della gara almeno un anno prima, all’approssimarsi della scadenza della concessione quasi secolare. Invece, in questi cinque anni non ci sono riusciti. Secondo la controparte, in realtà Guardia e Acquappesa non hanno mai avuto la volontà politica di bandire l’asta pubblica.

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    Le piscine ormai deserte delle Terme Luigiane

    Dal canto loro, i Comuni sostengono che sarebbe «alquanto difficile avviare una procedura di gara di un compendio abbandonato (perché inutilizzati ed inutilizzabili sono la gran parte degli edifici) e devastato». Strano però che fino all’autunno 2020 queste strutture fossero attive e funzionanti. Di fatto, comunque, le due amministrazioni comunali si sono limitate a produrre avvisi esplorativi che di solito preludono ad affidamenti diretti, benché nel novembre 2017 precisassero che «I soggetti che avranno manifestato l’interesse ad effettuare tale progettazione, potranno presentare la propria proposta progettuale che, nel caso di migliore proposta, sarà fatta propria dagli Enti ed assunta come base di gara successiva per la gestione della realtà termale Terme Luigiane».

    Niente bando e prezzi alle stelle per le Terme Luigiane

    All’epoca, un interessamento informale sarebbe pervenuto da potenti gruppi imprenditoriali locali, già impegnati nella sanità e in edilizia. Alcune vicissitudini avrebbero però impedito che dai primi contatti si passasse a un’assunzione di responsabilità. Non sono calabresi, bensì campane, e si occupano di asfalto, edilizia, movimento terra, progettazione e studi di fattibilità (attività non proprio legatissime al termalismo), le ditte che all’inizio di questa estate hanno presentato altre manifestazioni di interesse. Intanto, dopo le proroghe della concessione, che nell’ultimo lustro hanno permesso il funzionamento della stazione termale, nell’ultima annata tra le amministrazioni comunali e l’azienda privata Sa.te.ca si è imposta una cortina di ferro, carta bollata e reciproche accuse.

    «Ci troviamo di fronte ad una società che ai Comuni paga 43mila euro annui, mentre, soltanto dalle prestazioni convenzionate con l’Asp ricava oltre 2milioni e 700mila euro (sempre annui). E non vogliamo inserire, nel calcolo, la somma delle prestazioni effettuate a pagamento», strillano i sindaci di Guardia e Acquappesa. Alla fine del maggio scorso, la Sa.te.ca ha formulato una proposta che avrebbe previsto lo sfruttamento di 40 litri al secondo di acqua calda al prezzo di un canone annuo di 30mila euro per il 40 per cento dell’acqua termale, considerato che i Comuni versano alla Regione 22mila euro per il 100 per cento della risorsa.

    Davvero difficile pervenire a un accordo, perché pochi giorni dopo, i Comuni hanno chiesto a Sa.te.ca 93mila euro. E per gli anni successivi 373mila euro, riducendo però la disponibilità a 10 litri al secondo. Qualora invece l’azienda avesse voluto impegnare nei propri impianti 40 litri, i Comuni hanno fatto sapere che avrebbero alzato il prezzo a 1.000.742,40 euro. Qualcuno fa notare che ammonta a questa cifra il 66 per cento del totale annuo versato agli enti titolari da tutte le società private che gestiscono gli stabilimenti termali italiani.

    Il grande assente

    Prima che l’avvento dell’homo cellularis virtualizzasse i giochi adolescenziali e le relazioni umane, quando ancora si disputavano agguerrite partitelle a calcio negli improvvisati campetti realizzati tra un condominio e l’altro, accadeva spesso che in assenza di un arbitro, le azioni di gioco contestate sfociassero in risse verbali e fisiche. A volte, il proprietario del pallone lo afferrava e, indispettito, pronunciava la frase più temuta: «Ah sì? Allora me lo porto a casa e non si gioca più!». Sembra evocare quei romantici scenari l’atteggiamento assunto dai due sindaci che hanno chiuso il rubinetto dell’acqua calda, un tempo incanalata negli impianti gestiti dalla Sa.te.ca. Ma è soprattutto la mancanza di una giacchetta nera a consolidare la metafora. In tutta questa vicenda, grande assente è infatti la Regione.

    «Siamo rimasti profondamente delusi dal comportamento del presidente Nino Spirlì – racconta un dipendente di Sa.te.ca, che preferisce restare nell’anonimato -. Nella primavera scorsa, ha convocato le parti e ci è sembrato coraggioso, preparato, disponibile. Ha diffidato i Comuni, minacciando la revoca della concessione. Poi, però, si è chiuso in un silenzio assoluto. È chiaro che sarà stato richiamato all’ordine dai suoi alleati politici. Non avrà voluto ostacolare i loro interessi».

    Le parole dei lavoratori

    Gli fa eco un collega, anch’egli dipendente per tanti anni della struttura termale: «I sindaci si rifiutano di riceverci. Dicono che non ci riconoscono come interlocutori. E neanche l’ex prefetto di Cosenza, Cinzia Guercio, si è mai degnata di ascoltarci. Ma il comportamento più inqualificabile lo ha avuto l’assessore regionale al Turismo, Fausto Orsomarso. A parte scendere in polemica, nulla di concreto ha fatto per evitare il blocco degli stabilimenti. Qualche mese fa, è venuto addirittura a promettere lo stanziamento di 230mila euro per la realizzazione di un parcheggio. Cosa ce ne facciamo di un parcheggio, se le terme sono chiuse? E poi si è rifiutato di salvaguardare il funzionamento della miniera. Il suo ufficio, attraverso il dirigente Cosentino, si è categoricamente rifiutato di applicare la norma della legge regionale 40/2009 che prevede la sospensione/revoca in caso di morosità da parte dei Comuni concessionari, superati i 240 giorni. Eppure sono trascorsi due anni e mezzo».

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    Uno striscione contr l’assessore Orsomarso durante le proteste dei lavoratori delle Terme

    Un’altra lavoratrice si schiera con l’azienda: «I sindaci parlano di ricavi per 2 milioni e 500 mila euro, in realtà si tratta dell’incasso per le prestazioni sanitarie, non del ricavo. Nel 2019 la Sa.te.ca ha speso 2.400.000 solo per gli stipendi. Abbiamo paura di perderla, perché ci ha sempre garantito la massima legalità. Temiamo di finire come altre strutture sanitarie calabresi, che stanno passando di mano sempre secondo lo stesso schema degli avvoltoi che si lanciano sulla preda quando è ormai agonizzante. È vero che solo una minoranza tra di noi ha in tasca un contratto a tempo indeterminato. Gli altri sono stagionali, ma più di 1000 lavoratori fanno parte dell’indotto termale».

    La delusione dei clienti

    Analogo e bipartisan è il risentimento tra gli utenti abituali delle terme. Giuliano ha 48 anni ed è un insegnante che conosce bene questo scorcio di Tirreno: «Quest’anno, niente aerosol e inalazioni! Già prevedo guai per le mie tonsille. Grazie alle cure estive – spiega –, in inverno evitavo intere settimane a letto. Mi dispiace pure per il personale sanitario. Sono persone molto gentili e preparate. Però i loro guai dipendono proprio dai politici che dicono di volerle difendere. Non ho niente contro Giuseppe Aieta. E mi sembra strana la faccenda del voto di scambio. Da queste parti ha racimolato poche decine di voti. Ma lui e Carletto Guccione, con quale faccia si siedono a un tavolo di mediazione? Il gruppo dirigente del loro partito è formato da gente che ha mangiato l’inverosimile e ha costruito piccoli imperi sfruttando le clientele in settori importanti come la telematica e le fonti di energia alternativa».

    «Chiuditi la bocca, prete!»

    Il più indignato di tutti è don Massimo Aloia, parroco di Guardia marina e delle Terme. «In questa storia – spiega il sacerdote – latitante è la verità. Per ovvie ragioni legali, quella che gli operai gridano, non può essere tutta la verità. L’anomalia è il comportamento delle istituzioni. All’inizio, ci siamo sforzati di non pensar male, ma la chiusura delle acque è stata la prova della loro malafede. I sindaci dicono che è un atto dovuto, ma allora perché non l’hanno fatto negli anni precedenti?».

    Don Massimo parla con tono pacato e severo. «Le amministrazioni comunali – prosegue – hanno dichiarato illegittimo l’accordo che loro stesse avevano da poco sottoscritto in Prefettura. Ci sono tanti aspetti oscuri in questa vicenda. Non capisco come mai il presidente Spirlì, che pure fa riferimento a un partito sedicente portatore dell’ordine e della legalità, non abbia avuto il coraggio di revocare la concessione ai Comuni, dopo 240 giorni di inadempienza, come la legge prevedrebbe».

    Sono diverse le famiglie dei dipendenti rimasti senza lavoro ad aver chiesto aiuto economico alla parrocchia. Il vescovo ha inviato appositi fondi a don Massimo. Poche settimane fa, però, alla sua porta hanno iniziato a bussare anche le minacce: «Telefonate intimidatorie, bigliettini anonimi, i soliti messaggini che pervengono a chi parla troppo», denuncia il sacerdote, senza esitazione.

    Le Terme Luigiane in coma. Irreversibile?

    Le ferite sociali stanno per tramutarsi in piaghe che a breve rischierebbero di portare alla morte del paziente. Tra gli oneri pattuiti nel vecchio accordo di concessione, l’illuminazione intorno agli impianti, la pulizia e la manutenzione stradale spettavano al gestore, quindi a Sa.te.ca. In uno dei tanti passaggi della vertenza, i Comuni hanno revocato persino l’assegnazione di queste competenze. È presumibile che se tali settori non saranno assegnati in tempi brevi a un nuovo soggetto privato, il già visibile degrado si alimenterà dei disservizi.

    Il danno peggiore, comunque, potrebbe scaturire proprio dalla chiusura del rubinetto principale. L’adduzione delle acquee sulfuree avveniva mediante un tubo sotterraneo, prodotto a suo tempo dalla Dalmine. Secondo il parere di alcuni manutentori, se la condotta non è piena, con tempo lo zolfo forma dei residui che nel medio periodo si accumulerebbero e, tappandolo, lo renderebbero inservibile. La tragedia avrebbe così un epilogo già andato in scena innumerevoli volte, nelle Calabrie saccheggiate dalla malapolitica e dai profitti dei privati.

    Ma la politica che ne pensa?

    Ormai quasi nulla di quel che resta dell’immenso patrimonio naturale di un’intera regione appartiene ai calabresi. Una multinazionale detiene i laghi della Sila e decide quanta acqua distribuire agli agricoltori; le spiagge sono cementificate o recintate; l’acqua è nelle mani di una società a prevalente capitale pubblico, i cui fili sono retti dalla politica; il vento che muove le pale eoliche è accaparrato dai privati; il legname dei boschi finisce negli impianti a biomasse; il ciclo dei rifiuti non è per niente virtuoso e continua a imbottire i territori di velenifere discariche.

    Sono temi che dovrebbero riempire le agende delle forze politiche impegnate nelle prossime elezioni amministrative, sia regionali che comunali. Ma quanti sono i candidati che hanno a cuore le risorse naturali? La maggior parte di loro si trastulla con le chiacchiere tracimanti da quelli che ci ostiniamo a chiamare “social”, ma che di sociale non hanno un bel niente, essendo piattaforme private. Anzi, privatistiche, dunque disinteressate alla difesa e all’esercizio dei beni comuni. Come tutti i soggetti responsabili, a vario titolo, della chiusura delle Terme Luigiane.

  • Grave insufficienza renale, l’ospedale di Cosenza la manda via

    Grave insufficienza renale, l’ospedale di Cosenza la manda via

    Ha una grave insufficienza renale, ma l’ospedale di Cosenza la manda via. Dura una notte l’odissea di una signora di mezza età tra il presidio sanitario spoke Paola-Cetraro e l’hub della città dei bruzi. Sul Tirreno non c’è un nefrologo a prestarle cure necessarie. Cosenza è l’unico Hub della provincia. Ma non viene accettata.

    Qualcuno trovi un nefrologo allo spoke Paola-Cetraro
    Il referto dei medici dello spoke Paola-Cetraro

    D’estate si moltiplicano le presenze sulla costa. Turisti e gente che torna a Sud per le vacanze. Un nefrologo di notte non dovrebbe mancare, soprattutto in queste condizioni e con molti pazienti dializzati, quindi esposti a rischi maggiori.

    Il referto firmato da due medici dell’ospedale Spoke Paola-Cetraro spiega la gravità della situazione. «A causa della mancanza di un medico reperibile di Nefrologia e Dialisi in questo presidio (Paola) e in quello di Cetraro – si legge nel documento – si trasferisce il paziente per competenza all’Hub di Cosenza».
    Cercano di «contattare il Pronto soccorso di Cosenza senza esito». Alla fine la paziente rientra dall’Annunziata «senza essere accettata dal Pronto soccorso, né tantomeno essere visitata da un nefrologo».

    Una situazione non più sostenibile

    Un quadro allarmante emerge dalla comunicazione inviata da Francesco Rose, direttore medico di presidio unico facente funzioni dell’AO di Cosenza. Per conoscenza la missiva è rivolta pure al direttore sanitario Angelo Barbato.

    «Negli ultimi giorni in pronto soccorso si registrano gravi criticità per l’eccessivo numero di pazienti in attesa di ricovero». Ha scritto Rose, poi aggiungendo: «Il personale del pronto soccorso ha segnalato modalità di accesso che possono essere definite incongrue». Una situazione «non più sostenibile dal punto di vista dell’assistenza e della logistica».

    Nel documento si danno indicazioni rispetto alla richiesta proveniente da altri ospedali spoke della provincia. «Per patologie specialistiche, le UOC (Unità operative complesse) interessate – è scritto nel testo firmato da Rose – potranno dare disponibilità ad accettare i pazienti solo quando si ha a disposizione il posto letto, evitando di suggerire di far giungere il paziente in Pronto soccorso in attesa» di una sistemazione.

    La missiva inviata da Francesco Rose direttore medico di presidio unico

    La vita delle persone messa a rischio

    «È grave che non ci sia un nefrologo nello spoke Paola-Cetraro per le urgenze notturne. Ci troviamo di fronte a un’interruzione di pubblico servizio, aggravato dal fatto che si mette a rischio la vita delle persone». Il consigliere regionale del Partito democratico, Carlo Guccione, commenta «l’ennesimo caso di malasanità per mancanza di personale e di una turnazione efficace».

    Se medici e il personale sanitario operano oggettivamente in condizioni difficili, Guccione si rivolge, invece, al commissario dell’AO di Cosenza, Isabella Mastrobuono. «Dovrà rispondere – afferma il democrat – del perché, come si evince dal referto, la paziente è stata respinta al pronto soccorso di un hub come Cosenza senza ricevere cure». E «accerti se esistono eventuali responsabilità». Vista la gravità della situazione, che «va al di là del pur emblematico caso singolo, spero che intervenga la magistratura a fare chiarezza». In merito alla comunicazione del direttore Rose, Guccione fa notare: «È un dispositivo che di fatto ha chiuso l’accesso dei tre ospedali spoke di Paola-Cetraro, Corigliano-Rossano e Castrovillari all’hub di Cosenza».

  • LONGFORM | Grand Hotel Quarantena

    LONGFORM | Grand Hotel Quarantena

    Durante la prima ondata di Covid-19 che ha colpito l’Occidente, Torano Castello è stata l’ultima zona rossa sanitaria italiana. L’isolamento per i suoi 4mila abitanti è iniziato il 14 aprile 2020, la revoca risale al 10 maggio successivo. Alle ore 17 del 15 maggio però, la quarantena non è finita per tutti.

    Dalla Rsa all’hotel

    Maria, la chiameremo così per tutelare la sua privacy, a quell’ora sente il clacson dal cortile e si prepara a uscire. Sta per incontrare i medici dell’Unità speciale di continuità assistenziale (Usca) di Cosenza, per quello che spera sia il suo ultimo tampone molecolare. La scena avviene in un piccolo hotel nascosto dalle montagne del paese. Da un mese, insieme a otto colleghi, questa infermiera è qui che vive. Isolata dal mondo, in un rudere abbandonato praticamente senza elettricità né riscaldamento.

    Come c’è finita? Tutto è iniziato a Pasquetta: il video con gli attempati pazienti che ballano e cantano a poche ore del primo caso di contagio a Villa Torano, la Rsa dove lavora Maria, diventa virale in poche ore. E con l’apertura di un fascicolo d’indagine della procura di Cosenza arrivano le maggiori trasmissioni nazionali. Le ipotesi di accusa per i vertici della struttura sono pesanti: epidemia colposa, omicidio colposo e lesioni in ambito sanitario.

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    Il clima di polemiche è pesantissimo, ma non c’è tempo nemmeno per pensarci, ora bisogna cercare di frenare la valanga in ogni modo. In poco tempo e con metodi spiccioli si organizzano tamponi a tappeto fra pazienti e operatori. Il risultato, in un periodo nel quale trovare reagenti è molto difficile, quando la pandemia sostanzialmente non ha ancora raggiunto la Calabria, fa gelare le vene: sono quasi tutti positivi.

    E ora? Il commissario dell’Asp di Cosenza, Giuseppe Zuccatelli, dice che bisogna ricominciare da zero. All’ora di pranzo del 15 aprile va in diretta al tg e dichiara: «Non mi fido, troppo anomalo che ci siano tutti questi asintomatici. O bisogna segnalarlo come caso mondiale e portarlo all’attenzione dei massimi istituti di ricerca scientifica del pianeta, oppure bisogna rifare tutto, perché forse i tamponi non sono stati fatti come si doveva».

    Asintomatici à gogo e sindaci in rivolta

    Tocca ripetere i tamponi, che però confermano il dato epidemiologico iniziale: 93 contagi al virus SARS-CoV-2 divisi fra pazienti, operatori della struttura e loro familiari, tre bambini compresi. Solo cinque i sintomatici, tutti ultraottuagenari. Dunque, delle due, era giusta quella data per assurdo: ben prima della pubblicazione della ricerca su Vo’ Euganeo che farà scoprire al mondo l’alta percentuale di asintomatici nel contagio da Covid-19, a Torano Castello si ha evidenza di un dato analogo. Una scoperta scientifica che può servire al mondo intero.

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    Tamponi a Villa Torano dopo la scoperta del focolaio nella Rsa

    Il prossimo passo è mettere in piedi al più presto una quarantena monitorata per i contagiati, e qui torniamo alla nostra infermiera Maria. Il 16 di aprile il dipartimento Tutela della salute della Regione stila un piano in cui prevede il trasferimento dei contagiati in altre strutture del circondario. Dire che i sindaci dei paesi coinvolti abbiano reagito con le barricate è più di un’espressione eufemistica. Romeo Basile, il primo cittadino del vicino comune di Mottafollone, arriva addirittura a schierare le ruspe a difesa della verginità epidemiologica del suo paese. Altri, in modo meno mediatico, rispondono comunque che non se ne parla.

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    Romeo Basile, sindaco di Mottafollone, blocca l’accesso al suo paese con una ruspa

    Il piano della Regione dunque rimane lettera morta. La grana dei contagiati ora è sostanzialmente tutta sulle spalle del sindaco di Torano Lucio Franco Raimondo. Che, di concerto con l’Asp, in pochi giorni decide di chiudere in compartimenti stagni la clinica, emanando parallelamente un’apposita ordinanza di confinamento per Maria e i suoi colleghi nell’ex San Felice, un vecchio hotel abbandonato vicino alla Rsa Villa Torano.

    Turismo e Sanità

    Andando a vedere le carte si scopre che entrambe le strutture, di proprietà pubblica e affidate in convenzione alla società “Medical center”, nascono come hotel negli anni ’70. Le due strutture sono vicine, ma i loro destini biforcano sul finire del secolo. Mentre nel 1999 la Medical Center diventava assegnataria della struttura comunale, infatti, dando vita alla prima Rsa della Calabria, il nuovo Motel San Felice vedeva la luce con un rinnovato slancio turistico. Una luce destinata a brillare poco, però. A differenza della sanità privata, in questo campo a decollare non sono stati gli affari ma i registri, poco tempo dopo atterrati in tribunale.

    Sono entrambe vetuste e vanno chiuse. A metterlo nero su bianco è una relazione dettagliata del Comune di Torano Castello, che già nel 2017 denotava tutte le carenze strutturali e le usure delle strutture convenzionate, illustrando nel dettaglio il progetto di spostare in 24 mesi di lavori tutto 600 metri più a nord. Una nuova megastruttura d’eccellenza per il Sud, con un ampliamento di posti per un investimento complessivo di 11.272.512,00 euro. I terreni privati erano stati individuati ed era stato persino stipulato un preliminare di compravendita con un costo del terreno fissato a 15 euro al metro quadrato. Ma i lavori non sono mai partiti.

    Perciò tre anni dopo, lo stesso ente che certificava l’inadeguatezza di una struttura vi disponeva il confinamento coatto di uomini e donne con l’infezione più sconosciuta e pericolosa mai vista ancora in atto. Una decisione figlia sicuramente dall’emergenza in atto, ma controversa, tanto che sei lavoratori con infezione asintomatica in corso rifiutano di attuarla, dando mandato di opposizione all’avvocata Angela Cirino del foro di Cosenza. La legale presenta così un ricorso in cui va ben oltre le criticità già presenti nei documenti municipali. «Ho anche scoperto che l’hotel», ha ricostruito, «è affidato a una curatela fallimentare rimasta all’oscuro di tutti i passaggi fatti dall’amministrazione di Torano Castello in accordo con l’Asp di Cosenza».

    Un trasloco non autorizzato

    Un bel pasticcio, perché, spiega la legale, «prima di autorizzare lo spostamento si sarebbe dovuta rilasciare l’autorizzazione igienico sanitaria prodotta dal proprietario di struttura». Finito? No, perché l’avvocata ha anche scoperto che una parte della struttura è sottoposta a sequestro penale per un’inchiesta della magistratura su un incidente che causò la morte di un minore qualche anno prima.

    L’esperimento del quarantena hotel, in definitiva, presenta diversi profili di illegalità e non può proseguire. L’Asp a questo punto non può che recepire le eccezioni e quindi emanare un’ordinanza di sgombero. Gli operatori sanitari rimasti però, fedeli alla propria missione professionale, decidono di mettere la salute degli altri davanti alla propria, scegliendo di portare a termine l’esperimento. Maria, finalmente negativizzata, è l’ultima infermiera a lasciare l’hotel, il 18 maggio 2020.

    La Scienza e la Legge

    «Il caso di Villa Torano creò molto scalpore mediatico, per tanti motivi. Ma noi eravamo concentrati sui pazienti e non ci rendevamo conto di cosa accadeva fuori. Noi ci occupiamo solo di curare i malati», ricostruisce il dottor Sisto Milito, a capo della squadra di medici che si è occupata di spegnere questo focolaio. Dal punto di vista dei medici, «quello sperimentato a Torano è un metodo che ha funzionato, che di lì a poco tutti avrebbero adottato», ribadisce.

    Mentre in quel periodo la strategia della chiusura della struttura è stata la scelta per gran parte delle Rsa dove è dilagata l’emergenza, infatti, così non è stato per i pazienti di Villa Torano. «Non chiudere la Rsa – aggiunge Milito, che ha operato nel cluster insieme a Vincenzo Gaudio, Filippo Luciani, Giovanni Malomo, Vincenzo Pignatari e Nunzio Conforti – ci ha permesso di tutelare la vita di malati senza famiglia, che sarebbero finiti in mezzo alla strada privi di qualsiasi cura o in qualche altra struttura a diffondere l’epidemia».

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    La stazione mobile con i medici dell’Asp all’ingresso di Villa Torano

    Per quanto riguarda invece i confinati nell’hotel fantasma, i rimpianti sono tanti. «Sì, lì si sarebbe potuta produrre letteratura scientifica di valore con tutta la mole di dati arrivata dai supporti della telemedicina, che ha garantito il monitoraggio dei parametri vitali degli infetti, 24 ore su 24 per oltre un mese». In un periodo in cui non solo la Calabria, ma il mondo intero aveva fame di farlo, si poteva capire di più sulla carica virologica e sulla effettiva durata della quarantena o del periodo di incubazione, considerando anche i casi di negatività al primo tampone e positività al secondo. «La struttura era compromessa da beghe giudiziarie, ma noi avevamo fatto un pensierino a requisirla, per l’autunno soprattutto. Era attesa una nuova ondata influenzale e poteva essere di nuovo necessario isolare persone che non possono fare una quarantena completa a casa», conclude Milito.

    Insomma, si poteva imparare da questo esperimento e adeguare alle evidenze scientifiche raccolte l’organizzazione sanitaria per l’annunciata seconda ondata autunnale. Invece è andata diversamente. Tanto la comunità scientifica, quanto l’opinione pubblica non hanno saputo nulla di questa buona pratica medica avvenuta fra le montagne calabresi.

    Mentre con l’arrivo dell’estate i focolai pian piano si sono spenti in tutta Italia, in Calabria la struttura commissariale chiamata a predisporre il piano pandemico, attraverso le parole del commissario Saverio Cotticelli in diretta tv, ha addirittura ammesso di aver dimenticato di doverlo scrivere un piano pandemico. Il risultato è quello che tutti sappiamo: una lunga stagione di scandali, dimissioni e rinunce, ma soprattutto un tributo altissimo in termini di vittime.

    Covid hotel

    Eppure, un tentativo di attuare la politica dei covid hotel anche in Calabria alla fine è arrivato. La stipula dei primi contratti risale a fine 2020. E nel giro di due mesi l’accordo era scritto fra la Regione e otto strutture alberghiere diffuse sul territorio regionale, per un totale di 371 posti letto disponibili. Era già troppo tardi probabilmente. La Calabria aveva ancora negli occhi mesi con le autoambulanze in fila fuori dai pronto soccorso; centinaia di posti letto per pazienti con pochi o nessun sintomo in quella fase avrebbe potuto rappresentare una boccata d’ossigeno per le sottodimensionate strutture calabresi. Ma qualcosa non ha funzionato e continua a non funzionare.

    Si contano infatti con le dita le strutture convenzionate che hanno ospitato contagiati covid in Calabria finora, per un rimborso 65 euro al giorno cadauno. Tutte le altre stanze sono rimaste vuote, con un costo per la comunità comunque significativo: 15 euro al giorno per ogni posto letto dedicato a contagiati covid rimasto vacante.

    Infografica-Covid-Hotel

    Individuata la categoria di persone da sottoporre a quarantena controllata e trovati i posti dove farlo, pare fosse difficile l’organizzazione perché le due cose si incontrassero. E con l’arrivo della nuova estate praticamente tutte le strutture convenzionate hanno preferito ritornare a dedicarsi ai turisti in arrivo. Così la Calabria, destinata ad accogliere migliaia di turisti da ogni dove, è tornata praticamente e al netto di un’eccezione al punto di partenza: a cercare hotel per la quarantena.