Tag: sanità

  • Azienda Zero, quando Gallo le cantava ad Oliverio

    Azienda Zero, quando Gallo le cantava ad Oliverio

    Di indigestione di parole rimangiate non risulta mai morto nessun politico e siamo certi possa sopravvivere anche l’assessore regionale Gianluca Gallo. Mentre la maggioranza si appresta a votare per la nascita di Azienda Zero, non risultano in merito dichiarazioni del recordman di preferenze delle ultime elezioni. Niente di straordinario, si dirà: Gallo fa parte della maggioranza che vuole affidare tutta la sanità al presidente Occhiuto, perché opporsi? Il problema è che lo stesso Gallo, da consigliere d’opposizione, ne diceva di tutti i colori su un’idea a dir poco simile quando a proporla era stato Oliverio.

    Basta andare a ritroso sulla sua bacheca Facebook per trovarne ancora le prove. Siamo a dicembre del 2017 e il Nostro pubblica un post inequivocabile. «Vogliono che la politica controlli la sanità. Vogliono che il loro governo orienti scelte, decisioni e probabilmente nomine. Invece di occuparsi dei problemi della gente, che non ha più ospedali in cui curarsi né servizi efficienti sui quali poter contare, con un emendamento infilato nella Legge di Stabilità la giunta Oliverio punta a sopprimere le aziende sanitarie provinciali ed a creare un’unica azienda sanitaria regionale, con sede a Catanzaro. Alla faccia del decentramento e delle esigenze dei cittadini, e di negative esperienze passate, con un blitz vogliono accentrare tutto per poter avere maggior potere decisionale. Una vergogna. Ci opporremo con tutte le forze».
    L’azienda unica rimase sulla carta, magari per merito anche dell’opposizione dell’attuale assessore all’Agricoltura. Che si deve essere tanto sforzato all’epoca da non avere nemmeno più un briciolo d’energia per rilanciare la vecchia, sentitissima battaglia quattro anni dopo.

  • Azienda Zero, così Occhiuto governa tutta la Sanità calabrese

    Azienda Zero, così Occhiuto governa tutta la Sanità calabrese

    La Sanità calabrese sono io. Roberto Occhiuto potrebbe parafrasare il motto di Luigi XIV (in quel caso era “Lo Stato sono io”), incoronandosi sovrano assoluto di un settore così nevralgico. Dopo la nomina a commissario straordinario alla Sanità, martedì 14 dicembre arriverà a Palazzo Campanella la proposta di legge di istituzione dell’Azienda Zero a firma del fedelissimo consigliere regionale, Pierluigi Caputo.
    Operazione da 700mila euro iniziali che poi pescherà nelle risorse stanziate per la garanzia dei Lea (Livelli essenziali di assistenza) previste dal bilancio di previsione 2022-2024.

    Parola d’ordine “centralizzare”

    L’azienda Zero nasce dalla necessità di “razionalizzare, integrare ed efficientare i servizi sanitari, socio-sanitari e tecnico amministrativi del Sistema sanitario regionale” dopo 12 anni gestione commissariale ritenuta fallimentare dall’organo controllo ministeriale sui conti della nostra sanità.
    Per raggiungere tali obiettivi, è previsto l’accentramento di poteri e funzioni attraverso la gestione dei flussi di cassa relativi al finanziamento del fabbisogno sanitario regionale.
    All’Azienda Zero faranno capo tutti gli acquisti, le procedure di selezione del personale delle aziende sanitarie, le autorizzazioni e gli accreditamenti delle strutture private, la gestione del contenzioso, le eventuali transazioni, coordinerà la medicina territoriale e darà gli indirizzi in materia contabile alle Asp e Ao della Regione: il cuore malato della sanità calabrese dove si annidano clientele, sperperi, inefficienze, commistioni e interessi che hanno generato quel debito monstre che gli stessi organi contabili continuano a definire incalcolabile.

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    La sede dell’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza
    Un potere immenso nelle mani di Occhiuto

    L’Azienda zero avrà un potere immenso che fino a questo momento non aveva avuto nemmeno l’ufficio del Commissario che, pur avendo avocato in una sola figura praticamente la gestione dell’intero comparto, doveva sempre e comunque rispondere anche al dipartimento regionale Tutela della Salute che oggi viene derubricato a un mero organo di coordinamento. Si bypasseranno così – o almeno questo è l’obiettivo – anche le difficoltà di interlocuzione con dirigenti territoriali.

    Ma chi controlla chi?

    Il direttore generale dell’Azienda Zero sarà nominato dal presidente della Regione Calabria previa autorizzazione della Giunta o dal commissario ad acta. Non farebbe una piega se non fosse che il presidente della giunta si chiama Roberto Occhiuto che poi è anche il commissario delegato alla sanità. Facile immaginarsi Occhiuto mentre s’interroga sul professionista da nominare guardandosi allo specchio.
    Che la sanità fosse il regno incontrastato di baroni e baronetti era cosa nota ma adesso siamo alla restaurazione della monarchia. Occhiuto è presidente, commissario ad acta, nomina il dg del Dipartimento Salute e sceglie il capo dell’Azienda Zero. Roberto come Luigi XIV: il re Sole della Regione Calabria.

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    La Cittadella regionale a Germaneto
    Occhiuto: meno poteri alle Asp

    L’Azienda unica della sanità non è una novità calabrese. Lo dice lo stesso Roberto Occhiuto parlando con i giornalisti a Catanzaro del progetto Calabria Zero. «Esiste già in altre Regioni – è il commento del presidente della Giunta -, ho voluto farla anche in Calabria perché nelle aziende sanitarie c’è una capacità amministrativa non sempre adeguata. Ho ritenuto che fosse più utile costruire un unico cervello – continua Occhiuto – che accentrasse tutta la capacità amministrativa e che potesse svolgere, per conto di tutte le Aziende sanitarie, le funzioni che altrimenti non riescono a svolgere. Anche questo va nella direzione di riorganizzare e rendere più efficiente il sistema sanitario».

    Occhiuto ha infine precisato: «Non c’è una riduzione del numero delle aziende, c’è la costituzione di quella che di fatto sarà una sorta di agenzia. Certo, le Aziende sanitarie faranno meno di quello che hanno fatto finora dal punto di vista amministrativo, ma non mi sembra che abbiano brillato».

    I presupposti per dare una sterzata convinta alla governance della sanità, ci sarebbero pure. Ma c’è da capire – e non è una questione di secondo piano – a chi sarà affidata la gestione dell’Azienda unica regionale dal momento che al timone della nostra disastrata sanità si sono succeduti marescialli, comandanti e generali ma mai nessuno con una concentrazione di potere così grande.

  • C’era una volta un ospedale a Cariati, Roger Waters e Ken Loach: «Riaprite»

    C’era una volta un ospedale a Cariati, Roger Waters e Ken Loach: «Riaprite»

    Smascherare chi ha devastato la sanità pubblica in Calabria, garantire a tutte e tutti il diritto alla salute. Era una delle ultime volontà di Gino Strada, medico senza confini e fondatore di Emergency. E vuole farlo anche C’era una volta (la sanità pubblica) in Italia. Il lungometraggio propone, tra le tante, anche le voci del regista britannico Ken Loach e del cofondatore dei Pink Floyd, Roger Waters, che incorniciano gli abissi della sanità calabrese in una tragedia dalle dimensioni globali. La negazione delle più elementari prestazioni sanitarie nella nostra periferica terra è inserita nel più vasto fenomeno della privatizzazione predatoria, imposta dal neoliberismo in tutto il pianeta.

    Dopo il successo del film PIIGS, che nel 2017 ha ricostruito le nefaste conseguenze delle politiche economiche di austerità europea, a suo tempo realizzato insieme a Mirko Melchiorre e Adriano Cutraro con la voce narrante di Claudio Santamaria, il regista crotonese Federico Greco torna nella propria terra per evidenziare una delle sue piaghe peggiori. A I Calabresi, lui e Melchiorre narrano in anteprima contenuti e retroscena della loro inchiesta sullo sfacelo sanitario. Al centro del film, la vicenda emblematica dell’ospedale di Cariati, chiuso per effetto del commissariamento della sanità in Calabria. Da più di un anno è occupato dagli attivisti dell’associazione Le Lampare e da migliaia di altri cariatesi in segno di protesta.

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    Striscioni di protesta davanti all’ospedale di Cariati (foto Alfonso Bombini) – I Calabresi
    Raccontare il mondo partendo dalla Calabria

    «Tutto nasce nel novembre dell’anno scorso – spiegano Greco e Melchiorre -, quando Gino Strada fu chiamato in Calabria per l’emergenza Covid. Abbiamo lavorato con lui un paio d’anni fa. Quello era solo l’inizio di un progetto più ambizioso: raccontare la devastazione della sanità pubblica in Italia e nel mondo, a partire dalla Calabria. Ottenuto l’OK da parte di Gino, Simonetta Gola e tutta Emergency ci hanno anche sostenuto finanziariamente, oltre a starci molto vicini. Dopo aver seguito Gino a Crotone, abbiamo proceduto con un approfondimento. Un giorno, tornando a Roma, ci siamo fermati a Cariati per conoscere gli occupanti dell’ospedale. All’inizio pensavano che noi fossimo della Digos ed erano molto straniti. Non gli piacevamo. Poi hanno capito che eravamo persone sincere e volevamo davvero fare ciò che dicevamo. La loro storia ci è piaciuta tantissimo. Siamo stati insieme in quest’ultimo anno almeno una volta al mese per tre o quattro giorni, quindi abbiamo seguito tutto l’arco narrativo».

     

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    Come PIIGS, anche questo documentario si basa su due binari paralleli. Uno è la microstoria de Le Lampare, l’altro focalizza il macrolivello, cioè l’analisi di quel che succede nel mondo nella privatizzazione della sanità. Intervengono nomi autorevoli, come l’epidemiologo inglese Michael Marmot (OMS) e il sociologo svizzero Jean Ziegler (ONU). «Abbiamo l’aspettativa di portare il lavoro nei festival internazionali nella prossima primavera. Poi – proseguono gli autori – sarà nei cinema, in Tv e sulle piattaforme. Dobbiamo fare i conti con la chiusura delle sale cinematografiche a causa della pandemia. Quest’anno abbiamo un calo del 45 % degli spettatori nelle sale. Un’ecatombe! Se continua così, nel 2022 non riaprirà il 30 % dei cinema».

    Epoche a confronto

    Il titolo C’era una volta (la sanità pubblica) in Italia propone un sottotitolo: Giakarta sta arrivando. Mirko Melchiorre e Federico Greco spiegano che «questa frase minacciosa apparve nel 1970 in Cile sui muri di Santiago e in alcune lettere recapitate ai militanti del Partito comunista cileno dopo l’elezione di Salvador Allende. Si riferiva al massacro di circa tre milioni di comunisti, avvenuto a Giakarta, in Indonesia, nel 1965. In precedenza, il presidente indonesiano Sukarno aveva espresso la volontà di proteggere il suo Paese dalla predazione delle multinazionali statunitensi e londinesi. Ma nel ’66 ci fu il golpe militare di Suharto, durante il quale furono uccise da 500mila a tre milioni di persone con modalità atroci. Quindi, quando fu eletto Allende, la CIA avvertì che in Cile sarebbe accaduto quanto era già avvenuto in Indonesia.

    La scritta apparsa sui muri di Santiago del Cile
    La scritta apparsa sui muri di Santiago del Cile – I Calabresi

    Noi riteniamo che Giakarta metaforicamente stia arrivando in Italia,e in Europa grazie alla globalizzazione. L’operazione ha avuto un momento di svolta nel 2011, con l’avvento del governo di Mario Monti; oggi grazie a chi all’epoca a Monti conferì pieni poteri. È ovvio che non parliamo di golpe militare in Italia. Gli obiettivi però sono gli stessi: la predazione dei servizi e degli asset pubblici, la privatizzazione non solo della sanità, ma anche dell’acqua pubblica e di tanti altri settori nevralgici della nostra società».

    Dall’Inghilterra di Ken Loach alla Lombardia

    Nel documentario è Ken Loach a ricostruire l’analoga storia del sistema sanitario pubblico inglese, nato nel ’48 già con il verme delle privatizzazioni. «Successe la stessa cosa negli anni Ottanta in Italia – proseguono i due film maker -. Nel ’78 il primo ministro della sanità fu Renato Altissimo, un liberale, appartenente a uno dei partiti che il sistema sanitario pubblico non lo avrebbe voluto. Oggi, prendiamo per esempio la Lombardia: la narrazione dominante sostiene che questa regione sarebbe sempre stata un’eccellenza, ma noi abbiamo intervistato Maria Elisa Sartor, docente universitaria a Milano e autrice di un libro di 800 pagine, che racconta la privatizzazione della sanità lombarda. Guarda caso, la pandemia ha provocato più danni nella regione in cui il sistema pubblico non esisteva, perché quasi tutto in precedenza è stato privatizzato.

    Ken Loach
    Ken Loach chatta con gli autori durante la lavorazione del film – I Calabresi

    È una regione che ospita un sesto della popolazione italiana, ma ha fatto registrare un quinto dei contagiati e un quarto dei morti per Covid. Questo è dovuto al fatto che il sistema sanitario, dopo essere stato privatizzato dai Formigoni e dai Maroni, è indecente. I proprietari dei grandi gruppi che investono sull’oro delle Residenze Sanitarie Assistenziali, focolai del contagio, hanno comprato testate giornalistiche in perdita. Per esempio, De Benedetti, tessera “onoraria” numero 1 del PD, con la KOS Spa è un grandissimo proprietario di strutture sanitarie private. Viene spontaneo chiedersi a cosa gli siano serviti giornali in perdita come la Repubblica. E non solo a lui.

    Tanti sono gli editori di giornali che da anni producono articoli di aspra critica del sistema sanitario pubblico, a favore di quello privato. Ciò accade in Calabria, ma ovunque. Negli anni Ottanta in Italia avevamo più di 500mila posti letto, oggi meno di 200mila. L’emergenza pandemica non sarebbe stata così devastante se avessimo avuto il numero dei posti letto tagliati dalle riforme del ’92, dalla cosiddetta sinistra: prima Monti, poi Renzi. La responsabilità ricade soprattutto sulle scelte del PD negli ultimi 20 anni».

    Davide contro Golia

    Nelle loro inchieste, i due registi cercano di andare sempre alle origini dei problemi: la globalizzazione, il Washington consensus, il filantrocapitalismo. «Tocca lottare – concludono Mirko Melchiorre e Federico Greco – contro un mostro che è ciclopico, sta ad altezze siderali e non sappiamo nemmeno di preciso chi sia. Eppure, come dice Ken Loach, a volte colui che sembra Davide, può divenire più potente di Golia. Il vero gigante, se riesce a estendere le lotte e intrecciarle, è Le Lampare di Cariati, la sua occupazione dell’ospedale. Con Gino Strada realizzammo due interviste, una a Crotone e l’altra a Milano. Parlava con entusiasmo de Le Lampare. Aspettava solo un cenno per andare a gestire un ospedale in Calabria: quello di Cariati mi sembra il più adatto, disse».

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    Gino Strada, medico e fondatore di Emergency
    La Calabria come set

    Tra le immagini scolpite nella memoria visiva dei due film maker, la terapia subintensiva a Crotone: «Emergency la ha gestita per alcuni mesi. Abbiamo vissuto situazioni emozionanti nella tragicità come nella speranza. Una su tutte? La gioia di persone in età avanzata, quando gli infermieri annunciavano loro che il tampone era finalmente negativo e potevano tornare a casa».

    Riprese a Cariati
    Un momento delle riprese a Cariati – I Calabresi

    Federico Greco è così riuscito a fare i conti con la propria terra: «Ci torno ogni estate, da 50 anni. Non avevo mai visto, però, Crotone da un punto di vista professionale, non ci ero mai sbarcato con la telecamera in spalla. E questo mi ha fatto vedere Crotone e la Calabria come non le avevo mai osservate. Così ho sciolto le resistenze verso tutto ciò che non va. Adesso ci verrei a vivere e a morire. Con tutte le persone che abbiamo incontrato, gli attivisti de Le Lampare, Mimmo, Cataldo, Michele, Mimmo Massaro, Ninì Formaro, siamo diventati fratelli. È nata un’amicizia per tutta la vita. Come dice Michele Caligiuri, Cariati è il posto più bello del mondo».

  • Aborto, l’ospedale degli obiettori dove un solo medico dice sì a un diritto

    Aborto, l’ospedale degli obiettori dove un solo medico dice sì a un diritto

    Per abortire, la prima porta a destra. Percorri il corridoio, evitando di guardarti intorno, ti chiedi cosa ti aspetta e hai già la risposta a quella domanda: «Adesso non è il momento».
    Non è il momento giusto per un figlio, lo dicono quasi sempre le donne quando arrivano in ospedale con il certificato rilasciato dal consultorio familiare o dal medico curante, entro le dodici settimane di gestazione la loro gravidanza verrà interrotta.

    All’ospedale di Cosenza 250 Ivg l’anno

    Ospedale civile di Cosenza, reparto di ostetricia e ginecologia: qui ogni anno nascono in media oltre 2000 bambini e – sempre qui – vengono effettuate circa 250 interruzioni volontarie di gravidanza, a praticarle c’è un solo ginecologo, l’unico non obiettore di coscienza.

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    Francesco Cariati, ginecologo dell’Azienda ospedaliera di Cosenza

    È il giovedì il giorno delle Ivg: una sigla per non dire, per capirsi al volo. È il giorno della settimana in cui l’unico medico pro-aborto dell’intera azienda ospedaliera si occupa delle donne che hanno deciso di non portare avanti la gravidanza ed esercitano il loro diritto a interromperla, un diritto sancito dalla legge 194. Fino alla nona settimana di gestazione l’aborto avviene attraverso il metodo farmacologico, dalla nona alla dodicesima settimana – ma fortunatamente si ricorre a questa pratica sempre meno – si deve intervenire chirurgicamente. Il turno in reparto del dottor Francesco Cariati il giovedì è diviso tra le gestanti e le donne in attesa di Ivg.

    L’ingresso dell’ospedale dell’Annunziata a Cosenza
    Un solo ginecologo non obiettore

    «Io sono abituato a dare la vita, è il mio lavoro – chiarisce – ed è molto difficile far coesistere la mia attività di ginecologo che accompagna le donne fino al parto con quella di medico non obiettore che aiuta ad abortire. Da una parte do la vita, dall’altra devo interromperla. Perché lo faccio? Per garantire un diritto: quello che hanno le donne di accedere a un servizio che la legge impone agli ospedali di fornire». Una questione che ne implica molte altre, che spesso rischiano di disperdersi nella pozza torbida del pregiudizio: «ci sono donne disperate – spiega Cariati – che se non hanno la possibilità di abortire in ospedale potrebbero finire in situazioni di illegalità e mettere a rischio la loro vita». Si sente solo? «Molto – ammette -. Soprattutto perché è complicato garantire ogni settimana questo servizio. I ginecologi obiettori di coscienza sono animali in via di estinzione» scherza. Ma poi torna serio, «lavoriamo sul filo dei giorni, il tempo è prezioso. Per le Ivg chirurgiche ho bisogno di anestesisti, ostetriche e infermieri anche loro non obiettori e sono pochissimi, bisogna organizzare e incastrare i turni di lavoro. Al di là delle ferie programmate sempre tenendo conto delle urgenze delle pazienti, non possiamo permetterci di assentarci. Altrimenti il servizio si interrompe».

    Leggere nello sguardo delle donne

    Nel silenzio ovattato rotto solo dai pianti dei neonati che reclamano la poppata, ad accogliere le donne che arrivano per abortire – dietro porte anonime per garantire la privacy di chi entra – c’è un piccolo staff di professionisti che, innanzitutto, non le giudicheranno. Proveranno ad afferrare sguardi sfuggenti, dopodiché, nel rispetto della volontà di ogni donna, si avvierà l’iter dell’Ivg.

    Manuela Bartucci, assistente sociale in ospedale a Cosenza

    Manuela Bartucci fa l’assistente sociale in ospedale e lavora in stretta sinergia con Cariati, ha costruito un dialogo costante con la rete territoriale dei consultori familiari. Con lei le pazienti hanno il primo colloquio quando arrivano in ospedale. «Ho imparato con il tempo e l’esperienza a leggere negli sguardi delle donne – racconta – a cogliere un segnale di tentennamento, a decifrare la comunicazione non verbale. Io sono lì per capire se c’è qualcosa che potrebbe far cambiare il destino di quella donna».

    Le precarie e le lavoratrici che non vogliono figli

    Alla base della scelta di interrompere una gravidanza, racconta, spesso – ma non sempre – c’è una condizione di precarietà: grosse difficoltà economiche, mancanza di una relazione stabile, situazioni lavorative senza garanzie. Ci sono ragazze che hanno appena trovato un impiego e hanno paura di perderlo o studentesse universitarie che temono di non riuscire a portare a termine gli studi. «In questi casi metto sul tavolo tutte le soluzioni che potrebbero rappresentare un appiglio – dice -. Magari non hanno consapevolezza delle opportunità e dei diritti, dal reddito di cittadinanza all’assegno unico. Sono sempre loro a scegliere, ma – afferma con orgoglio – molti bambini alla fine sono nati».

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    Un cartello di protesta del collettivo Fem.In contro gli antiabortisti

    Sono soprattutto italiane

    Le donne che intraprendono il percorso di interruzione della gravidanza arrivano sole, oppure accompagnate da un genitore, dal compagno o dal marito. Sono soprattutto italiane, hanno in media tra i 25 e i 35 anni. Poche, circa il 5%, le minori tra i 16 e i 18 anni, qualcuna al di sotto dei 15. Ci sono poi molte donne migranti soprattutto marocchine, nigeriane, romene, moldave.

    Ma il quadro non è completo. Dal lockdown ad oggi si è fatto largo un dato nuovo: a richiedere l’Ivg sono sempre di più donne italiane sopra i trent’anni, con una posizione lavorativa stabile ma fortemente determinate a non avere figli, «in questi casi ci troviamo di fronte ad una scelta di vita e dunque a una decisione irremovibile».
    Storie di ripensamenti e storie di abbandoni

    Adesso sua madre non vede l’ora di essere nonna

    Le storie sono tante e rimangono attaccate addosso a chi fa l’assistente sociale in un posto come questo, «è difficile tornare a casa e liberarsene facilmente». Ne ricorda tante, alcune a lieto fine altre no. «Qualche settimana fa si è presentata qui una donna di circa trent’anni. Voleva abortire ma nei suoi occhi ho letto il tormento. Ho provato a parlarle, lei è scoppiata a piangere, si è aperta. Non posso dirlo a mia madre, ha detto. In paese la gente mi criticherebbe e la mia famiglia si vergognerebbe di me. L’ho invitata ad affrontare tutto con lucidità e coraggio, a prendersi qualche giorno per parlare senza timore con sua madre. Beh, lo ha fatto e all’inizio non è stato semplice, ma continua a mandarmi dei messaggi, mi ringrazia per averla aiutata, adesso sua madre non vede l’ora di diventare nonna».

    La bimba affidata a una nuova famiglia

    Ci sono poi vicende che si evolvono seguendo strade imprevedibili. A luglio una donna si è presentata in un ospedale della provincia per abortire, aveva superato il limite delle settimane di gestazione, non ha potuto farlo. Ha portato avanti la gravidanza e la bimba è nata qui nell’ospedale di Cosenza ma la madre ha confermato la volontà di non riconoscerla. «Ho accompagnato questa donna all’uscita – ricorda – . Le ho chiesto di pensarci, di non avere fretta. Tieni il mio numero, le ho detto. Se dovessi ripensarci avrai tutto il sostegno che ti serve. Quella telefonata è arrivata, ma per comunicarmi la volontà di non tornare a riprendersi sua figlia. Alla piccola è stato dato un nome scelto dalle ostetriche, per venti giorni ha vissuto qui in neonatologia, accudita e coccolata da tutti. Poi è stata affidata ad una nuova famiglia».

    L’ingresso della Degenza ostetrica all’ospedale di Cosenza
    Le difficoltà non mancano

    Sono racconti che fanno brillare gli occhi dietro le mascherine, «spesso si danno dei giudizi sommari sull’aborto, diventa un tema politico, scalda i dibattiti – dice Francesco Cariati – ma bisognerebbe ricordare che dietro ogni storia c’è un dolore da rispettare. Noi qui facciamo il massimo per tutelare le donne e la loro scelta. Certo, le difficoltà non mancano. A partire dalla logistica».

    L’aborto è anche un problema di privacy e lingua

    Le donne che vengono in ospedale per abortire devono condividere gli spazi con le donne col pancione e con quelle che hanno appena partorito, s’incrociano, si sfiorano. «Siamo molto attenti a garantire la privacy, ad agire con il massimo tatto – aggiunge Cariati – ma il problema c’è, non si può negare. È necessario avere un’ala riservata per le interruzioni di gravidanza. Siamo in attesa che venga realizzata, questo renderà tutto più semplice». Quando? «Non ho informazioni certe sui tempi. Posso dire però che il progetto c’è».

    Un altro problema è quello della mediazione linguistica, le donne che non parlano l’italiano precipitano nel vortice di adempimenti burocratici e qualche volta si perdono. «Spesso ho di fronte ragazze sperdute, con le quali ho difficoltà anche solo a spiegare dove devono andare, cosa devono fare, quando devono tornare» dice Cariati. Molte di loro non sono informate sui metodi contraccettivi e capita che tornino anche due o tre volte in un anno. «Ecco, in momenti come questi, in cui rivedo in reparto una donna che ha già avuto più di un aborto volontario, ho qualche difficoltà, la redarguisco. Sono un ginecologo – ripete – il mio compito è dare la vita, questo non lo dimentico mai».
    La chiacchierata si è protratta oltre i tempi stabiliti, ma le storie sono tante e tutte raccontano un pezzo di verità sull’aborto. Un’infermiera si avvicina alla porta, sta cercando proprio lui, da lontano gli fa segno con la mano, indica la sala parto. «Devo andare – dice Cariati – c’è un bambino che ha fretta. Lo faccio nascere e torno».

  • Covid Calabria, quando il virus dà alla testa

    Covid Calabria, quando il virus dà alla testa

    Chi pensava che passata la sfuriata della fase acuta e archiviati i vari lockdown, tutto sarebbe presto tornato alla normalità, non aveva fatto i conti con l’onda lunga del Covid e i suoi effetti sulla salute mentale.
    La corsa del Coronavirus non si è arrestata alle soglie dei reparti di malattie infettive, nelle terapie intensive degli ospedali ingolfate di polmoniti bilaterali e insufficienze respiratorie. Il virus si è insinuato nella vita privata dei cittadini come un tarlo, ha rotto equilibri, scombinato prassi, modificato routine. E questo ha avuto conseguenze. In alcuni casi delle gravi conseguenze.

    La stabilità mentale in crisi

    Ci sono state persone che hanno lasciato il lavoro. Altre che non hanno resistito al nuovo assetto sociale post-pandemico e non sono riusciti a mantenere una relazione affettiva.
    L’elemento che più di tutti sembra aver messo in crisi la nostra stabilità mentale è lo stop, forzato, ad ogni forma di interazione sociale. Ne è convinta la psicoterapeuta di Cosenza, Maria Giovanna Napoletano: «A causa dalla difficoltà di stare insieme tra pari, molti bambini presentano ritardi nel linguaggio. Problemi nella sfera della socialità colpiscono invece i pre-adolescenti e hanno a che fare con la sensazione costante di precarietà».
    Ondate, varianti, zone rosse, lockdown, quarantena: sono tutti elementi di un nuovo linguaggio sociale che ha destrutturato la realtà che conoscevamo creandone una nuova, inedita e destabilizzante.

    Salgono le patologie psichiatriche nei bambini

    In tutta Italia nell’ultimo anno c’è stata una vera e propria esplosione di patologie psichiatriche, anche in età pediatrica. Lo ha fatto notare la dottoressa Elena Chiappini, pediatra che lavora al prestigioso ospedale Meyer di Firenze e docente universitario in Pediatria generale e specialistica dell’Università di Firenze.

    Soffre tanto chi sta già messo male

    C’è un dato, invece, su cui sembrano esserci ormai pochi dubbi, ed è la relazione causale tra la pandemia da Covid e le malattie psichiatriche. Lo conferma Immacolata d’Errico, psichiatra e psicoterapeuta: «L’analisi dei dati – spiega – dimostra non solo l’escalation di queste patologie a iniziare dai disturbi del comportamento alimentare ma anche l’evoluzione di disagio psicologico in chi non ha sviluppato quadri psichiatrici».
    Fuori da ogni tecnicismo, significa che la pandemia ha amplificato la fragilità psicologica anche di quella parte di popolazione che con panico, depressione e atti di autolesionismo, non aveva finora mai fatto i conti.

    Diversa la situazione per chi era già avvezzo al disagio mentale prima dell’avvento della pandemia. In questi casi, si è notato un aggravamento del quadro clinico. Quanto esteso possiamo desumerlo dalla statistica che ci fornisce la cosentina Maria Giovanna Napoletano: «Dalla mia esperienza ho notato una complicazione delle patologie in circa l’80% dei pazienti».

    Sterilizzare le mani in maniera compulsiva

    Secondo i professionisti della salute mentale, i disturbi d’ansia si manifestano in modo diverso in base all’età dei soggetti. I bambini fino ai 5/6 anni di età, sviluppano sintomi fisici come mal di testa, mal di pancia, paura del buio, ansia da separazione. Dai 7 anni in su possono comparire segni di stress, alterazioni del pensiero, panico, disturbi del sonno e dell’umore. Peggiorativi sono i risultati di un altro studio sul disturbo ossessivo – compulsivo che sembra avere sofferto parecchio la “perturbazione” che la paura del Covid – 19 ha provocato. Ci sono stati casi di persone talmente esasperate dalla necessità di lavarsi le mani e di igienizzarle anche decine e decine di volte al giorno, da essersi provocati ipersensibilità ai detergenti, irritazioni ed eritemi.

    Il parere della psicoterapeuta

    «Purtroppo è una situazione a cui assistiamo spesso in chi soffre di disturbo ossessivo compulsivo» spiega la dottoressa Napoletano, che di lavoro fa la psicoterapeuta. «Le norme introdotte per il contenimento del contagio hanno aggravato le compulsioni: lavarsi le mani e disinfettarsi sono gli esempi più ricorrenti ma non sono gli unici. C’è stato anche un aggravamento di tipo cognitivo: pensieri ricorrenti e intrusivi sono stati esasperati dal contesto di solitudine e dalla mancanza di relazioni sociali».

    Roberta, sola e in preda alla paranoia

    Gianmarco e Roberta possono aiutare a capire come il Covid impatta nel concreto sulla sofferenza mentale. Roberta (entrambi i nomi sono chiaramente di fantasia) è una vedova sulla sessantina. Abita sola in una villetta alla periferia del capoluogo di regione. La sua vita è stata segnata dal disagio psichico sin dalla più tenera età ma negli ultimi anni era riuscita a ritagliarsi una certa stabilità fatta di poche e abitudinarie azioni: uscire per la spesa, fare una sosta al tabacchino e rientrare a casa. Tanto le bastava.

    Con il Covid le cose sono cambiate. Le chiusure, le zone rosse, il martellamento mediatico hanno riacceso in lei la paranoia di potersi contagiare e l’hanno portata a chiudersi in casa e a rinunciare alle (poche) interazioni sociali che aveva. Dopo quasi due anni, gli effetti continuano a farsi sentire. Roberta non ha più ripreso la sua routine e le sue giornate sono condizionate dalla paura di potersi ammalare e da una sensazione di precarietà asfissiante.

    Gianmarco, fissato con l’ordine e la pulizia

    Gianmarco, anche lui calabrese, ci racconta una storia diversa. La sua diagnosi pre-Covid era disturbo ossessivo compulsivo con tratti paranoici. Ha sempre avuto la tendenza a pensare troppo, Gianmarco. E l’arrivo del Covid non lo ha aiutato. Anzi. La famiglia racconta che ha iniziato ad essere fissato con l’ordine e la pulizia. Disinfettava tutto quello che entrava in casa: dalle buste della spesa agli abiti indossati, dalle chiavi alle scarpe al portamonete. Il Covid era sempre nei suoi pensieri, le sue giornate erano scandite dal Bollettino informativo delle 18 con numero di morti e feriti. Di tornare in cura e riprendere le sedute con lo psichiatra, per lui era un assoluto tabù. Gianmarco dice di essere troppo geloso dell’autonomia che è riuscito a conquistarsi in questi anni. «Tornare in terapia – spiega – sarebbe come andare indietro di dieci anni, ammettere che sono ancora malato e che non ho speranza di guarire».

     

  • Regionalismo differenziato, il colpo di grazia alla nostra Sanità

    Regionalismo differenziato, il colpo di grazia alla nostra Sanità

    L’articolo 116, terzo comma, della Costituzione prevede la possibilità di attribuire forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario.
    L’attribuzione di queste forme rafforzate di autonomia deve essere stabilita con legge formulata sulla base di un’intesa fra Stato e Regione, acquisito il parere degli enti locali interessati, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119 della Costituzione in tema di autonomia finanziaria ed approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti.

    Queste disposizioni sono state introdotte in Costituzione con la riforma del Titolo V prevista dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 e finora mai attuate, almeno fino alla nota di accompagnamento al DEF 2021, dove si ritrova il disegno di legge su Autonomia Differenziata Regionale.
    Il governo Draghi con il Documento di Economia e Finanza 2021 ha confermato infatti, tra i disegni di legge collegati alla legge di Bilancio 2022-2024, il DDL “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’art.116, 3° comma, Cost.”.

    Ricchi contro poveri

    Poiché il 28 febbraio 2018 il Governo Gentiloni sottoscrisse con Emilia Romagna, Lombardia e Veneto, gli “Accordi preliminari“ per acquisire maggiore autonomia in alcuni ambiti strategici: politiche del lavoro, istruzione, salute, tutela dell’ambiente e dell’ecosistema. Vale la pena andare a rileggere tali accordi per comprendere qual è la direzione verso la quale si sta spingendo: un sistema federale di regioni, che contraddice l’unità del nostro paese, amplificando, cosa ancor più grave, le disparità esistenti tra nord e sud Italia, tra regioni ricche e regioni più povere.

    Contro questo rischio, che farebbe sprofondare la nostra regione, che presenta tutti gli indicatori economici con il segno negativo, in uno stato di gravissima povertà, consegnandola definitivamente nelle braccia della malavita organizzata, si sta muovendo Progetto Sud che, accogliendo le istanze di Anaao Assomed, organizza incontri di sensibilizzazione e informazione, coinvolgendo associazioni e comitati che hanno un riferimento in Comunità Competente.

    Progetto Sud ha recentemente organizzato un incontro con i consiglieri e le consigliere regionali della coalizione che aveva Amalia Bruni candidata presidente alle recenti elezioni regionali e si propone di fare altrettanto con i consiglieri e le consigliere delle altre coalizioni, con i sindacati, con la conferenza dei sindaci, con tutte le organizzazioni che possono contribuire a costruire una partecipazione dal basso, che eserciti pressione verso gli organi istituzionali deputati a prendere decisioni in merito, soprattutto alla salvaguardia del diritto alla salute.

    Diritti negati

    La Calabria non garantisce i LEA. Basta fare un giro negli ospedali pubblici calabresi per comprendere quali sono le reali condizioni di lavoro per chi esercita la propria professione in ambito sanitario, ma, soprattutto, per comprendere le condizioni spesso gravissime di mancanza delle cure fondamentali, di negazione del diritto alla dignità della persone che subisce chi si trova in condizioni di avere bisogno di cure ospedaliere.

    Il “turismo sanitario” dalla Calabria verso regioni del nord, ormai anche per la cura di patologie leggere e facilmente risolvibili in regione, raggiunge quote da diaspora, facendo lievitare oltre misura i costi regionali per la sanità, in una situazione di gravissimo indebitamento, nonostante gli oltre dieci anni di commissariamento governativo, soluzione che aveva l’obiettivo di risanare il debito e che invece ha contribuito ad amplificarlo.

    Ventuno Regioni, altrettante Sanità

    La pandemia da Covid 19 ha dimostrato, nella sua drammaticità, che è fondamentale una governance unitaria del Servizio sanitario nazionale. Né possiamo illuderci che la pandemia sia un evento eccezionale: la devastazione del Pianeta dalle scellerate attività antropiche ci porrà di fronte a frequenti zoonosi e rischi di pandemia.
    L’appello lanciato da Comunità competente alla società civile organizzata per mobilitarsi contro l’istituzione nel nostro paese di 21 sistemi sanitari regionali, contro una scelta politica che potrebbe portare alla distruzione del sistema sanitario pubblico italiano, già fortemente minato dai troppi aiuti economici erogati a favore di strutture private, è stato sottoscritto finora da oltre 150 associazioni, ma l’elenco è destinato ad allungarsi.

    Basta commissari

    E se l’attribuzione del commissariamento a Roberto Occhiuto potrebbe avere il sapore di una restituzione alla politica locale della gestione della sanità, rimane l’istituto del commissariamento che non è stato risolutivo, ma è stato parte del problema, oltre a richiedere, data la gravità della situazione, un impegno totale a tempo pieno che difficilmente potrà essere garantito da chi ha l’onore e l’onere di essere presidente di Regione.
    La fine del commissariamento è conditio sine qua non per una ripartenza dignitosa e collettiva, rovesciando il paradigma che finora ha visto nell’arcipelago di monadi dei commissari e dei direttori generali il fallimento della gestione della sanità pubblica calabrese.

    I bisogni della Calabria

    Abbiamo bisogno di quantificare il debito della sanità calabrese, che si aggira su cifre a nove zeri, per capire come gestire la situazione. Abbiamo bisogno di costruire la medicina territoriale e ripristinare il diritto alla salute e alla dignità della persone. Di assunzioni a tempo indeterminato, con garanzia di condizioni di lavoro accettabili e dignitose, di personale medico, infermieristico, Oss in ogni ospedale pubblico calabrese.

    Occorre uscire dalla visione economicistica della gestione della sanità pubblica. Serve costruire competenze specifiche nella gestione di fondi messi a disposizione della regione e rimasti finora inutilizzati.
    Abbiamo bisogno di aprire consultori, importanti presidi di medicina territoriale aperti e gratuiti per tutte le persone che vi si rivolgono, e applicare la Convenzione di Istanbul ratificata dal nostro paese nel lontano 2013 e mai applicata.

    Una questione politica

    Una concezione partecipata della sanità pubblica è imprescindibile da ogni proposta di risanamento e ricostruzione di quanto è stato finora demolito da una classe politica incompetente, ingabbiata in un sistema clientelare che garantisce potere a discapito delle competenze professionali, a discapito di diritti inalienabili.
    L’impegno della società civile nella mobilitazione è fondamentale, ma non può bastare senza un preciso impegno di chi ha responsabilità politiche. Perché la questione è una questione politica.

    L’autonomia differenziata regionale, come si può evincere dagli accordi preliminari delle tre regioni italiane, è uno stravolgimento dell’assetto politico del nostro paese, rischia di essere un ritorno a una condizione preunitaria, con indebolimento importante dei poteri del Parlamento in materie fondamentali per la nostra società.
    A essere penalizzate saranno le regioni più povere a maggior tasso di emigrazione e a più basso reddito pro capite. Noi non possiamo permettercelo!

    Antonia Romano

  • Sanità cosentina, la carica post elettorale dei 680 Oss

    Sanità cosentina, la carica post elettorale dei 680 Oss

    Come fa un semplice concorso, tra l’altro piuttosto piccolo, a diventare un concorsone? In Calabria si può. Come si fa ad avere tanto personale disponibile e non poterlo utilizzare? Nella Sanità calabrese capita questo e peggio.
    Stavolta è toccato agli operatori socio-sanitari reclutati a ottobre dall’Azienda ospedaliera di Cosenza con un concorso bandito nel 2017. Una procedura alla calabrese, in cui all’allungamento dei tempi è corrisposta una dilatazione dei posti, che dai 24 previsti in origine sono diventati 80 effettivi con una “magia” amministrativa degna di un alchimista.
    Ma tanta arte potrebbe non bastare perché, suggeriscono gli addetti ai lavori, anche ottanta risultano troppo pochi.

    Grandi numeri per piccoli posti

    Nelle pubbliche amministrazioni si entra per concorso o ricorso. Ma anche per graduatoria.
    Già: i concorsi amministrativi non si limitano a stabilire un numero (limitato) di vincitori e uno di “perdenti” (i più) tra i candidati.
    I concorsi servono anche per abilitare. Non a caso, tra vincitori e “sconfitti” esiste una terza categoria: gli idonei non vincitori.
    Per il concorso oss del 2017 il numero è mostruoso: sono circa 600 su una graduatoria effettiva di circa 680. In pratica, poco più di un decimo dei candidati (oltre 5mila) che nel 2017 avevano aderito al bando.

    Questi 600 ora premono alle porte della Sanità calabrese. Hanno in parte la legge dalla loro, che li considera comunque idonei a servire ospedali e ambulatori pubblici e sperano di essere assorbiti quanto prima, perché il tempo per far valere i propri interessi non è tantissimo: 3 anni a partire dalla fine del concorso, ché tanto dura l’efficacia della graduatoria.
    Ma questi 600, complici anche molte promesse fatte durante l’ultima campagna elettorale, sperano anche nel fatto che il nuovo commissario regionale alla Sanità, Roberto Occhiuto, possa dare una risposta “politica” alle loro domande. In altre parole, che si comporti più da assessore della sua Giunta regionale, che da commissario.
    Come si è arrivati a tutto questo?

    Lo strano concorso

    Le pubbliche amministrazioni ci hanno abituato a tante stranezze. Ma questo concorso ne batte molte. Infatti: come fa un concorso bandito in fretta e furia per procurarsi personale a durare quattro anni? La risposta è piuttosto semplice: sciatteria.
    L’Ao di Cosenza non è riuscita a lungo a trovare un’azienda specializzata a cui appaltare lo svolgimento delle prove. Poi è intervenuto il Covid a far slittare il tutto ed ecco che le prove si sono svolte a partire da giugno 2020, in una situazione completamente mutata.
    Di quanto fosse mutata, se n’è accorta Isabella Mastrobuono, la commissaria straordinaria dell’Ao, la quale nella tarda primavera scorsa ha chiesto, in seguito a un burrascoso incontro in prefettura, altri 14 posti da aggiungere ai 24 previsti in origine.

    Il commissario dell’Ao di Cosenza, Isabella Mastrobuono

    Occhio alle date: la richiesta risale a poco prima di aprile scorso, cioè tra lo svolgimento delle preselettive (giugno 2020) e la prova pratica.
    Occhio anche ai dettagli: la commissaria non ha modificato il bando, ma lo ha solo integrato con una domanda inviata alla Regione senza risposta. Perciò i 14 in più non sono “vincitori” ma “idonei”. Certo, nei fatti non cambia nulla. Ma nelle amministrazioni la forma pesa più della sostanza: questi 14 posti presi con un “silenzio-assenso” sono la prima pesca dalla graduatoria. Un precedente tra i tanti che incoraggia i candidati a ben sperare.

    Chi vive sperando…

    Infatti, le speranze non sono state disattese. Subito dopo gli orali, svoltisi lo scorso giugno, la commissaria si è accorta che il buco da colmare era più grande. Perciò ha chiesto e ottenuto altri 42 posti, fino ad arrivare a 80. Ed ecco la prima stranezza del concorso: gli idonei assunti sono più dei vincitori.
    La seconda stranezza sta nel numero enorme di idonei, che ha trasformato gli aspiranti oss in un vero e proprio bacino. Ma pure in una potenziale bomba sociale, che potrebbe esplodere se certe aspettative non venissero soddisfatte.

    I buchi e i bisogni

    La storia di questo concorso si lega alla vicenda complicatissima degli oss cosentini.
    Una domanda innanzitutto: quanti ne servono? Una risposta certa non c’è. Comunque tanti. A sentire alcuni esponenti sindacali, il fabbisogno effettivo sarebbe di circa 250 oss per il solo Ospedale dell’Annunziata.
    Se si allarga lo sguardo agli altri due Ospedali dell’Ao (il Mariano Santo di Mendicino e il Santa Barbara di Rogliano) e alle strutture dell’Asp la cifra diventerebbe iperbolica: servirebbero 2.500 oss.
    A questo punto i 680, che sembrano “troppi”, risulterebbero troppo pochi. È così? A livello legale no.

    Il fabbisogno legale dipende da tre fattori. Il primo è costituito dalle Linee guida, redatto e approvato dalla direzione regionale della Sanità. Il secondo è determinato dalle singole Aziende (Asp e Ao) attraverso gli Atti aziendali, che contengono gli organigrammi.
    Il terzo fattore risulta dalla differenza tra le previsioni dell’Atto aziendale (che possono essere più basse del fabbisogno reale) e il personale che effettivamente opera nelle strutture.

    Per chiarire: se il fabbisogno di fatto è 1.000, nulla vieta che l’Atto aziendale dichiari, a causa del Piano di rientro, un fabbisogno di 100 e che, per esempio, il personale impiegato sia di 70 unità. Risultato: il fabbisogno legale sarà di 30 e non di 930.
    Tuttavia, non mancano indizi. Innanzitutto, il fabbisogno del 2019 del solo Ospedale di Cosenza era calcolato in 190 unità. Fino a quel momento i vertici dell’Ao avevano rimediato utilizzando il personale di Coopservice, l’azienda subentrata nel 2014 a Dussman nella gestione esternalizzata dei servizi ospedalieri (pulizie, ecc.).
    Sappiamo com’è andata a finire: la giurisprudenza ha messo uno stop all’uso di personale esterno per svolgere le mansioni di oss e Coopservice, nel frattempo finita anche sotto inchiesta, non solo ha mollato il settore ma ha licenziato quaranta suoi dipendenti.

    Il garbuglio e le promesse

    Ma allora: quanti oss possono permettersi l’Ao ed, eventualmente, l’Asp di Cosenza? Per avere una risposta occorreranno i nuovi Atti aziendali, che dovrebbero essere emanati a fine novembre, e le nuove Linee guida. E qui iniziano le magagne: per quel che riguarda l’Asp, ad esempio, non sono chiare le disponibilità finanziarie, visto che la giustizia amministrativa ha dichiarato illegittimi i bilanci, tra l’altro non rosei, del biennio 2016-2017.

    Poi, a dirla tutta, non è detto che i vertici dell’Azienda sanitaria siano obbligati a pescare dalla graduatoria dell’Ao. Così, almeno, si apprende dai piani alti di via Alimena.
    Certo, le regole di buona amministrazione imporrebbero la “pesca” in un bacino già qualificato anziché fare nuovi concorsi. Tanto più che l’Asp, proprio di recente, ha emesso avvisi per il reclutamento di oss per fronteggiare l’emergenza sanitaria…
    D’altronde non mancano i precedenti di “pesca”: tale l’assunzione a tempo determinato, fatta dall’Ao di Cosenza nel 2019, di 17 oss presi da una graduatoria di Reggio Calabria. Tale anche l’“invio” a Vibo di infermieri reclutati a Cosenza.

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    Roberto Occhiuto

    Ma tutto resta appeso alla volontà politica dei nuovi vertici della Sanità regionale, oltreché ai mezzi finanziari. Questi 600 idonei della graduatoria cosentina rischiano di diventare la prima grana per Roberto Occhiuto, finora prodigo di buone intenzioni sulla nostra scassatissima Sanità.
    Già: chi vive di speranze, in questo caso alimentate dalla campagna elettorale, di speranze può morire. Ma, come insegna la vicenda degli ex Coopservice, non lo fa in silenzio…

  • Dieci giorni con Virginia nella terapia intensiva dei neonati

    Dieci giorni con Virginia nella terapia intensiva dei neonati

    Il limbo dei bimbi esiste ed è al terzo piano di un edificio enorme che domina Catanzaro. Mi ci ha portato mia figlia, Virginia Sara, quando aveva appena 7 ore di vita, facendomi scoprire un microcosmo che non avevo idea esistesse fino a quel momento. Le ansie, i dolori e le gioie di un evento primitivo e sublime come il parto sono stati spazzati via in un attimo. Una puericultrice esperta, con sguardo e nome da madre, si è accorta che qualcosa non andava, che la piccola non respirava bene. Quindi i primi controlli, gli esami approfonditi, la diagnosi di una brutta infezione e il ricovero in Terapia intensiva neonatale. Colpo tremendo: dalla meraviglia di scoprirsi genitori all’angoscia più buia in poche ore.

    L’ingresso del reparto di Patologia Neonatale all’ospedale “Pugliese-Ciaccio” di Catanzaro
    Dieci giorni in terapia intensiva

    Quello che ho conosciuto in quei giorni, dieci interminabili giorni, è un luogo sospeso, in cui la vita e la morte quasi si toccano mentre galleggiano nell’indeterminatezza. All’ingresso della Tin dell’ospedale “Pugliese” c’è un bottone rosso che fa aprire, silenziosa e lenta, una porta blu. Al di là c’è uno stanzone pieno di luci e di suoni che non sono quelli che dovrebbero accompagnare un bambino nelle prime ore in cui si affaccia sul mondo. Dentro ci sono, affiancate una all’altra, tante incubatrici. In ognuna c’è un neonato che piange e scalcia e lotta aggrappandosi istintivamente alla vita. A fianco o in sala d’attesa o a casa ci sono dei padri e delle madri che si sentono genitori a metà, catapultati dentro un tunnel di cui forse avranno piena contezza solo se e quando ne usciranno. E poi c’è il personale sanitario che in quel limbo ci lavora, quasi tutte donne, la cui sensibilità umana e professionale è tanto grande quanto la corazza che deve indossare ogni giorno chi si muove tra la vita e la morte di un neonato.

    Un messaggio di speranza e bellezza nel reparto di Patologia neonatale all’ospedale “Pugliese-Ciaccio” di Catanzaro
    Sono pochi ma tutti preparatissimi

    Sono preparatissimi ma numericamente non abbastanza, non per quello che fanno lì dentro, loro comunque non si fermano un attimo. Macinano km curando e coccolando i bimbi, provando a contenere le preoccupazioni e l’impazienza dei genitori, non nascondendo né edulcorando né ingigantendo nulla, ma proprio nulla di quello che succede ai loro piccoli. Sanno che hanno di fronte gente che telefona alle 2 di notte in reparto o che rimane in sala d’attesa per delle ore, magari passando in rassegna cento volte le card con i personaggi del dr. House che qualcuno ha appiccicato sull’attaccapanni, o interrogandosi sull’umanissima Madonna di Benois di Leonardo raffigurata nel quadro all’ingresso.

    L’ospedale “Pugliese-Ciaccio” di Catanzaro
    Mia figlia promossa in sub intensiva

    Quando ogni giorno devi percorrere le strade calabresi per andare a vedere tua figlia attaccata a un tubicino e con degli aghi infilati dappertutto tutto il resto perde dimensione e colore, tutto diventa grigio e piatto. Quando ogni giorno fai andata e ritorno su quelle statali, magari singhiozzando mentre Jannacci dalla pennetta usb sghignazza «…se me lo dicevi prima…», l’intera esistenza si comprime in quelle ore in cui hai lei davanti, anche se è dentro una scatola trasparente in mezzo a tanti altri bimbi lontani dal calore che a tutti loro e a tutti i bimbi del mondo non dovrebbe mai mancare. Quando esulti perché un medico ti dice che «Virginia è stata promossa» in sub intensiva e quando, dopo qualche giorno, ti ritrovi a casa con lei a fianco che ti respira addosso e ride mentre dorme, allora capisci quanto sei fortunato, mentre tanti altri passano ancora più giorni e settimane e mesi in quella sofferenza rituale che intorpidisce l’anima. E hai la pelle d’oca, e non ci credi ancora.

    E ti risuona in mente quella canzone di Enzo Iannacci: E allora è bello. Quando tace il water. Quando ride un figlio. Quando parla Gaber (…) E sarà ancora bello. Quando guardi il tunnel. Che è ancora lì vicino e non ci credi ancora. E sei venuto fuori. E non ci credi ancora. E c’hai la pelle d’oca. E non ci credi ancora”.

    Sergio Pelaia

     

  • Natale senza lavoro, il pacco dei Greco pronto per 51 dipendenti

    Natale senza lavoro, il pacco dei Greco pronto per 51 dipendenti

    Cinquantuno famiglie cosentine perdono la principale fonte di reddito. Operatori sociosanitari, centralinisti, amministrativi e ausiliari della RSA San Bartolo e della clinica Misasi stanno per essere licenziati. Garbati ma freddi e risoluti, appena subentrati alla vecchia proprietà, nelle strutture che hanno rilevato dai Morrone, i Greco hanno fatto subito sapere che l’aria sarebbe cambiata. Com’è noto, nel tempo hanno sviluppato una singolare competenza nel correre non solo al capezzale dei pazienti, ma anche delle aziende in coma.

    Così i nuovi amministratori si sono affrettati a chiarire al personale sanitario che non avrebbero guardato in faccia nessuno e non si sarebbero lasciati condizionare da eventuali protezioni parentali. Soprattutto, i Greco avrebbero preteso l’allineamento della qualità delle prestazioni agli standard, secondo loro elevati, delle altre cliniche di cui sono proprietari. Prodigi della “società liquida”: una potente famiglia contro il familismo.

    La clinica Misasi a Cosenza, ceduta di recente dalla famiglia Morrone al gruppo iGreco
    Cinquantuno esuberi su 129 dipendenti

    Pochi giorni fa questo potente gruppo, da tanti anni ai vertici di settori differenti dell’imprenditoria locale, ha annunciato 51 esuberi su 129 unità lavorative. Il personale superstite dovrà dunque gestire 45 posti di riabilitazione intensiva, 10 letti di lungodegenza medica, 60 di RSA non medicalizzata e prestazioni ambulatoriali fisioterapiche.
    Le formule adottate per motivare i licenziamenti sono quelle che da sempre accompagnano i tagli dei posti di lavoro nelle aziende: “situazione di crisi”, “piano di risanamento economico”, “indispensabile riequilibrio finanziario”, “riduzione dei costi aziendali”.

    Le colpe addebitate alla Regione

    Secondo la nuova proprietà, le responsabilità principali, tanto per non cambiare, sono imputabili alla Regione Calabria che avrebbe effettuato «il tardivo rimborso delle prestazioni erogate negli anni che vanno dal 2002 al 2014, nonché la insufficiente remunerazione delle prestazioni relative all’anno 1995, e la continua contrazione dei budgets che non hanno consentito la copertura dei costi fissi». Nel documento inviato alle organizzazioni sindacali si ribadisce che determinanti sarebbero state «le politiche sempre più stringenti poste a base del patto di stabilità regionale».

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    La sede della Regione Calabria a Germaneto
    E quelle dei Morrone

    Secondo i Greco, i fondi pubblici sono stati ridotti, i posti letto pure, ma il personale è rimasto ai livelli di prima. Quindi, bisogna tagliuzzarlo. Ci sarebbero poi gli errori commessi dai Morrone: «Le altre cause che hanno concorso a determinare il dissesto finanziario – si legge nel documento – sono addebitabili alla errata previsione di un investimento immobiliare, ovvero all’acquisizione di un terreno in permuta nel comune di Cosenza su cui realizzare la struttura immobiliare da adibire a Casa di cura».

    L’operazione doveva essere effettuata in virtù di un cospicuo credito d’imposta, ma in seguito un provvedimento normativo ne avrebbe limitato la fruizione, «sicché non era più possibile, considerate le restrizioni temporali, completare l’opera progettata. A tal punto, per non disperdere le opere murarie realizzate, si decise di convertire il progetto originario in un intervento di edilizia residenziale da destinare al mercato immobiliare. Tutto ciò generava dei forti ritardi nella realizzazione dell’opera (…), causando inadempienze contrattuali nell’assegnazione degli immobili da attribuire ai venditori del terreno concesso in permuta e determinando delle forti penali da corrispondere ai cedenti il terreno. Il suddetto processo fu l’inizio di un sistemico ed inarrestabile ciclo d’indebitamento che ha innestato, a sua volta, una incontrollabile crisi finanziaria».

    Il ritorno degli ospedali riuniti?

    Insomma, secondo i Greco, galeotte furono l’ennesima avventura edilizia e un’altra disastrosa operazione immobiliare che i Morrone realizzarono acquistando un edificio a Diamante. Di fronte a dati così oggettivi, ci sarebbe ben poco da ribattere. Eppure, in una lettera aperta, un gruppo di lavoratrici e lavoratori fa notare che «il nuovo colosso iGreco si espande ed è pronto ad acquisire l’ex palazzo della Banca Carime a Vaglio Lise, proprio lì dove sorgerà il nuovo ospedale», caldeggiando così le ipotesi degli analisti di politica cittadina, che vedono una convergenza di interessi tra il blocco di potere politico che sostiene la nuova amministrazione comunale e gli imprenditori della sanità privata.

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    La leghista Simona Loizzo

    Riprenderebbe fiato il programma di centralizzazione delle strutture al momento gestite da iGreco. Cioè il vecchio progetto di ospedali riuniti che avrebbe dovuto trovare una location nella zona nord dell’area urbana. Stavolta troverebbe pure la benedizione di nuove figure del quadro politico regionale, come la leghista Simona Loizzo, da sempre estimatrice del marchio iGreco.

    I sindacati non si fidano

    Critici e guardinghi i sindacati. «Come mai – si chiede Ferdinando Gentile, dell’USB – di questa situazione si sono accorti solo adesso? La procedura di concordato preventivo, avviata dalla precedente proprietà, forniva un quadro realistico. Prima di subentrare alla vecchia proprietà, una visura camerale i Greco l’avranno fatta. È chiaro che l’annuncio dei licenziamenti pone due condizioni: o la Regione destina più fondi o i lavoratori e le lavoratrici accettano contratti mortificanti per loro e meno onerosi per l’azienda. Il piano prevede anche un taglio secco di portinai e centralinisti, come se in strutture delicate come queste non ce ne fosse bisogno».

    Licenziamenti entro Natale

    Serratissimi i tempi per le procedure di licenziamento, che si chiuderanno entro 45 giorni. Entro una settimana, l’esame congiunto al quale parteciperanno i sindacati, poi le carte passano all’ispettorato. «Già per il prossimo 15 novembre i Greco hanno convocato i dipendenti – prosegue Gentile -. Li metteranno di fronte a scelte già fatte. Così pagano i lavoratori per gli interessi di due famiglie. Non dimentichiamo che i soldi che permettono alle cliniche private di funzionare sono privati solo sul piano nominale. In realtà, provengono da casse pubbliche. Non ci possiamo permettere licenziamenti in questa drammatica fase storica. Chiediamo che la Regione e il Comune intervengano. Se questi licenziamenti avverranno, potrebbe essere l’inizio della macelleria sociale in Calabria».

    L’intreccio perverso

    Emerge dunque quanto perverso sia l’intreccio tra sanità pubblica e privata. La seconda si è nutrita delle risorse disponibili per la prima, fino a quando la pubblica non è andata in crisi totale. Come accade in ogni sistema costruito su rapporti patologici, anche il parassita, alla fine, soccombe insieme al corpo che lo ha ospitato. È molto improbabile che il nuovo commissario alla Sanità, il presidente della Regione Roberto Occhiuto, in considerazione dei suoi trascorsi e soprattutto delle sue ferme convinzioni neoliberiste, possa restituire risorse alla sanità pubblica calabrese.

    Luciano Moggi

    Luciano Moggi è stato evocato da iGreco nelle trattative della scorsa estate per l’acquisizione, poi sfumata, del Cosenza Calcio. C’è chi con malizia fa notare che il presunto sistema Moggiopoli, nonché il suo abbraccio mortale che fece franare gran parte dei vertici del calcio italiano del secolo scorso, rischia di riproporsi nell’organizzazione dei servizi alla salute dei calabresi. Come prendere la sanità, già agonizzante, a pallonate.

  • Medicina all’Unical, una storia di baroni e campanili

    Medicina all’Unical, una storia di baroni e campanili

    Tutti applaudono, o quasi. Ora che il nuovo corso di laurea in Medicina e tecnologie digitali è una realtà, c’è la classica corsa a salire sul carro dei vincitori.
    Ha applaudito Mario Occhiuto, che sta per concludere il suo decennio alla guida di Cosenza. Hanno applaudito, sul versante rendese, il sindaco Marcello Manna e la sua assessora Lisa Sorrentino.

    Non applaudono i gruppi dirigenti e, soprattutto, le associazioni catanzaresi, alcune delle quali si sono spinte a chiedere la testa del rettore Giovambattista De Sarro per quello che percepiscono come uno “scippo” della classe dirigente cosentina, considerata “predatoria”.

    Applaude in maniera tiepida Sandro Principe, che già lo scorso febbraio aveva ammonito: «La strada è ancora lunga», per la creazione di una facoltà vera e propria. E aveva rimesso sul tappeto il problema del nuovo Ospedale di Cosenza e, soprattutto, della sede in cui realizzarlo. Che secondo lui non può che ricadere il più vicino possibile all’Unical. Cioè nella sua Rende. Ma accusare Principe di campanilismo, a questo punto, può risultare gratuito. Nella vicenda travagliata della scuola medica cosentina, infatti, i campanilismi che hanno pesato di più sono quelli tra Cosenza e Catanzaro.

    Un goal accademico

    I politici applaudono. Ma quella che si è patteggiata a febbraio col nulla osta ministeriale e si è conclusa a giugno con l’istituzione del nuovo Corso di laurea è una tregua in una “guerra” ultratrentennale tra le baronie universitarie di Catanzaro e Arcavacata, in cui l’Unical si è ritrovata in una posizione di vantaggio perché decisamente più attrezzata a livello hi tech rispetto alla Magna Graecia.
    Detto altrimenti, se Medicina e tecnologie digitali doveva essere, non poteva che essere all’Unical. Specie ora che il blocco ingegneristico-informatico ha preso il sopravvento con l’amministrazione del rettore Nicola Leone, luminare dell’Intelligenza artificiale.

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    Il rettore Leone durante l’inaugurazione del nuovo corso di laurea

    Questo risultato – senz’altro ragguardevole ma che non autorizza a cantare vittoria – è il frutto dell’impegno di Sebastiano Andò, fondatore e storico preside della Facoltà di Farmacia.
    Un impegno non facilissimo, vissuto tra gli umori cangianti della politica, soprattutto cosentina, e tra i contrasti d’interesse tra le baronie universitarie.
    Perché l’Università della Calabria colmasse in maniera seria la sua lacuna nel settore sanitario sono stati necessari altri due fattori. Il primo è l’indebolimento della vecchia classe politica che, tranne poche eccezioni, ha cincischiato. Il secondo, il cambio della guardia nelle strutture accademiche di vertice.

    L’inizio dei dissidi

    La prima a non credere troppo (e, in buona sostanza a non volerla) nell’istituzione di una Facoltà di Medicina all’Unical è stata proprio una parte della classe dirigente dell’Ateneo di Arcavacata, che temeva di perdere spazi e potere.
    Questo timore, in non pochi casi, era giustificato con una motivazione ideologica in parte vera: la diffidenza, di matrice un po’ salveminiana e un po’ gramsciana, verso le “pagliette bianche”, cioè i medici e gli avvocati, considerati non del tutto a torto una causa dell’arretratezza meridionale.
    In altre parole, si credeva che Medicina e Giurisprudenza avrebbero snaturato la vocazione progressista dell’Università della Calabria.

    Questo pregiudizio agevolò non poco la nascita del polo universitario catanzarese, che approfittò delle lacune dell’Unical per dotarsi, a fine anni ’70, di queste due facoltà. Che furono istituite come sedi staccate della Federico II di Napoli (Medicina) e dell’Università di Messina (Giurisprudenza).
    Questa intelligente autocolonizzazione fu il nucleo da cui sorse la Magna Graecia.

    La lunga marcia

    L’inversione di rotta è iniziata negli anni ’90 con l’istituzione di Farmacia ed è proseguita attraverso step difficili e combattuti.
    Il primo risultato consistente è stata l’istituzione della facoltà di Scienze dell’Alimentazione (2008). Fu il frutto delle pressioni accademiche di Andò ma anche dell’interlocuzione intelligente tra Sandro Principe, all’epoca assessore regionale alla Cultura dell’amministrazione Loiero, e Salvatore Venuta, fondatore e primo rettore della Magna Graecia.

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    Il professor Sebastiano Andò

    Tuttavia, il passo in avanti più forte lo ha fatto il preside di Farmacia, sceso in campo in prima persona nel 2011.
    Andò dapprima propose un Ordine del giorno al Consiglio provinciale di Cosenza sull’istituzione di Medicina all’Unical. L’assemblea provinciale votò all’unanimità l’iniziativa e Mario Oliverio, all’epoca al suo secondo mandato di presidente della Provincia, la sposò appieno.
    In seconda battuta, il prof di Arcavacata contattò direttamente i sindaci del Cosentino, da cui ottenne 143 delibere favorevoli all’istituzione della nuova Facoltà. Praticamente un tripudio.

    Lo stop di Scopelliti

    Purtroppo, territori e istituzioni seguono tempi e logiche diverse. Ne è un esempio il tentennamento di Peppe Scopelliti, all’epoca presidente di Regione, di fronte all’istituzione di un’altra facoltà medico-sanitaria presso l’Università della Calabria, cioè Scienze sanitarie, che si sarebbe dovuta realizzare attraverso un accordo tra l’Unical e la Sapienza di Roma.

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    L’ex presidente della Regione, Giuseppe Scopelliti, stoppò l’istituzione della facoltà di Scienze sanitarie all’Unical

    Catanzaro, in questa occasione, mise il bastone tra le ruote, con un’impugnazione al Tar sostenuta da Aldo Quattrone, all’epoca rettore della Magna Graecia. Vinse l’Unical, che poteva contare anche sul classico asso nella manica: lo sponsor “romano” dell’accordo con la Sapienza era allora il cosentino Eugenio Gaudio (per capirci, il quasi commissario alla Sanità calabrese), prossimo a diventare rettore.

    Le condizioni c’erano tutte. Mancò solo la firma di Scopelliti, che all’ultimo si tirò indietro. Campanilismo reggino? Forse. Ma tutto lascia pensare che nella retromarcia dell’ex governatore e commissario regionale della Sanità abbia avuto un ruolo non leggero il timore di inimicarsi la classe dirigente catanzarese, che tiene tuttora i cordoni della borsa in Regione.

    Il timore di Oliverio

    E probabilmente questo timore lo ha provato anche Oliverio, che durante la sua amministrazione regionale si è dimostrato piuttosto tiepido sull’ipotesi Medicina all’Unical.
    In pratica, ha funzionato sin troppo la regola non scritta del regionalismo calabrese, secondo cui si vince e si perde a Cosenza, ma si comanda sempre a Catanzaro.
    Scopelliti vinse grazie ai voti del Cosentino, anche di quei sindaci che firmarono entusiasti l’appello di Andò ma si frenò davanti alla classe dirigente catanzarese.
    Oliverio, primo governatore cosentino eletto direttamente dai calabresi, titubò di fronte al Pd del capoluogo regionale.

    Se le cose stanno così, non si va lontani dal vero a pensare che la situazione si sia sbloccata grazie al declino della classe politica calabrese.
    Non è un caso che, proprio nel 2018, il Dipartimento di Farmacia dell’Unical abbia avuto il riconoscimento del Miur per l’Area medica. E che, nello stesso periodo, la specialità delle Professioni sanitarie sia entrata nel bottino dello stesso dipartimento.
    Quindi il Corso di laurea in Medicina e tecnologie digitali è il primo punto d’arrivo di un percorso piuttosto lungo e ancora da finire.

    I campanilismi tra Cosenza e Rende

    Una seconda contesa campanilista si è messa di mezzo nel percorso verso il Dipartimento di Medicina: quello tra Cosenza e Rende. Questa contesa ha per oggetto il nuovo Ospedale Hub di Cosenza, più precisamente la sua collocazione.
    Le classi dirigenti rendesi vorrebbero realizzare in nuovo nosocomio nei terreni vicino all’Istituto agrario d’oltre Campagnano, che sono di proprietà della Provincia e quindi non dovrebbero neppure essere espropriati.
    Questo progetto risale al 2006, ai tempi dell’amministrazione di Umberto Bernaudo. E si basa sulla integrazione totale tra Ospedale e Unical.

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    Il progetto per il nuovo ospedale presentato nel 2016 da Mario Occhiuto in campagna elettorale

    Le risposte cosentine sono state più articolate. La prima è stata avanzata durante la sindacatura di Salvatore Perugini e prevede la costruzione del nuovo Ospedale a Donnici. Le altre proposte, corroborate da studi di fattibilità approfonditi (e costosi), hanno corretto il tiro verso il centro città. Cioè Vaglio Lise (tra l’altro zona della Stazione ferroviaria), Colle Mussano e comunque un’area a metà strada tra l’Ospedale dell’Annunziata e il Mariano Santo di Mendicino.
    Ma il legame tra nuovo Ospedale, inteso come struttura fisica, e Dipartimento di Medicina è considerato imprescindibile solo dalla classe politica.

    Un problema politico, ma anche medico

    Infatti, secondo Andò, il problema è piuttosto di scuola medica: «L’Ospedale, prima che una struttura edile, è una comunità di professionisti. Cosenza, in cui non mancano dei grandi medici, sconta un problema serio: la classe sanitaria più anziana d’Italia». Un modo elegante di dire che occorre un turn over e, soprattutto, una classe medica più giovane, capace di conciliare la ricerca e la professione.
    Se questo turn over ci sarà, si potranno realizzare le cliniche. Altrimenti, per il momento va bene il modello “cogestito” tra Magna Graecia e Unical: i primi tre anni ad Arcavacata per la teoria e gli altri tre a Catanzaro per le cliniche.

    Ad ogni buon conto, il primo passo è stato fatto. Ed è un passo importante, al netto di ogni campanilismo: per soddisfare i fabbisogni della Sanità calabrese servirebbero trecento medici in più. E l’Ateneo di Germaneto ne produce sì e no cento all’anno.
    Una formazione sanitaria diffusa potrebbe aiutare non poco tutto il territorio regionale. Quindi, non Arcavacata “contro” Germaneto ma Unical e Magna Graecia. Quando lo si capirà a dovere, si passerà dalla tregua alla pace.