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  • Così l’Onorata Sanità calabrese nega il diritto alla salute ai cittadini

    Così l’Onorata Sanità calabrese nega il diritto alla salute ai cittadini

    La ricetta del presidente della Giunta Regionale, Roberto Occhiuto, è l’azienda unica per la sanità calabrese. Da sempre, un coacervo di accordi politici, di interessi della ‘ndrangheta, con i figli dei boss che sono diventati classe dirigente, una camera di compensazione dove la massoneria la fa da padrona.

    Il giudizio della Corte dei Conti sulla sanità calabrese

    La politica bipartisan, ormai da mesi, batte all’unisono: cancellare il debito sanitario calabrese. Per i proponenti, un passaggio necessario, azienda unica o meno, per auspicare una ripartenza. Per altri un colpo di spugna su anni di intrallazzi e ruberie. Che la pandemia da Covid-19 ha mostrato in tutta la sua drammaticità, con la Calabria spesso declassata da “zona bianca” a una condizione di limitazioni e restrizioni. Non già per il numero dei contagi, ma per la fatiscenza e l’inadeguatezza del suo sistema sanitario.

    Ora su quel buco, enorme, della sanità calabrese interviene anche la Corte dei Conti. I giudici contabili sostengono l’inattendibilità del deficit sanitario e la sua probabile sottostima: «Dall’esame dei risultati d’esercizio, relativi all’esercizio 2020, tutte le aziende del Ssr calabrese hanno chiuso in perdita, per un totale di -267 milioni 167mila euro. Le aziende del Ssr calabrese, nel periodo 2014-2019, non hanno rispettato la direttiva europea sui tempi di pagamento. Nel 2020 gli indicatori risultano ancora elevati, seppure, nella maggior parte dei casi, in leggera diminuzione. Con una media, per il 2020, di 159 giorni. La situazione debitoria delle Aziende sanitarie e ospedaliere ammonta complessivamente ad oltre 1 miliardo 174 milioni di euro».

    La mammella da spremere

    La sanità calabrese è, da sempre, una mammella da spremere senza fine per le cosche e per affaristi di vario genere. Non a caso, il settore – che avvolge il 70% del bilancio regionale – è commissariato da anni. E il debito più che miliardario. «Il ritardo con cui – è scritto nella relazione della Procura contabile – le aziende sanitarie e ospedaliere del Ssr calabrese effettuano i propri pagamenti determina ingenti interessi moratori che incidono negativamente sui risultati finanziari». Con riferimento al contenzioso, si legge ancora, «il totale ammonta ad oltre 481,21 milioni di euro e il totale degli accantonamenti ammonta ad oltre 51,89 milioni di euro. In definitiva sui costi del servizio sanitario calabrese continua a incidere fortemente il contenzioso con i correlati oneri aggiuntivi».

    Un sistema che non si regge in piedi

    La Procura regionale ha poi rilevato «svariate criticità». Permangono carenze di effettivo supporto alla struttura commissariale, carenze assunzionali, carenze nella gestione degli accreditamenti. E poi, una pesante situazione debitoria delle Aziende sanitarie, forti ritardi nei pagamenti e pignoramenti. Infine, gravi ritardi nell’approvazione del bilanci e insufficienza dei flussi informativi. Tutti questi fattori «contribuiscono a determinare l’enorme difficoltà a realizzare efficacemente il piano di rientro dal disavanzo che, infatti, da oramai oltre un decennio è rimasto pressoché immutato».

    In particolare – sostiene ancora la Corte dei Conti – «con riguardo al disavanzo totale 2020 […] si deve porre in evidenza che, seppure in lieve miglioramento rispetto all’anno scorso, non è certo un dato ottimistico perché, comunque, il deficit sanitario in oltre dieci anni si è ridotto di circa soli 13 milioni di euro (da oltre 104 ad oltre 91 milioni)». Giudizio negativo, poi, anche per i cosiddetti LEA, i livelli essenziali di assistenza: «Il punteggio per il 2019 è di 125. Di molto al di sotto della soglia (almeno tra 140 e 160) e molto meno del 2018 (162)».

    Il caso Reggio Calabria

    Il pur enorme deficit quantificato potrebbe addirittura essere sottostimato. Questo, soprattutto, a causa della situazione grottesca e paradossale dell’Asp di Reggio Calabria: «In primis ciò è legato alla situazione dell’Asp di Reggio Calabria, dove dal 2013 esiste una contabilità non fondata su documenti amministrativi». Questa “contabilità orale”, di fatto, «rende impossibile ricostruire il quadro debitorio dell’azienda». E non si parla di cifre di poco conto, ma di «una situazione debitoria potenzialmente dirompente, con passività che potrebbero toccare i 500 milioni».

    L’Asp di Reggio Calabria per anni avrebbe persino pagato per (almeno) due volte le stesse fatture a studi privati e cliniche convenzionate. Il risultato è un danno erariale di svariati milioni di euro fin qui accertati dalle indagini della Procura della Repubblica. Proprio alcuni mesi fa, sono state rinviate a giudizio quasi venti persone per le doppie fatture pagate dall’Asp in favore dello “Studio radiologico sas di Fiscer Francesco” di Siderno.

    Tra i rinviati a giudizio ci sono il legale rappresentante della clinica, ma anche funzionari dell’Asp, nonché l’ex direttore sanitario Salvatore Barillaro e quello amministrativo Pasquale Staltari. Ma, soprattutto, l’ex commissario straordinario dell’Asp, Santo Gioffrè. Proprio quel Santo Gioffrè che aveva evitato il doppio pagamento di una fattura da 6 milioni di euro alla clinica “Villa Aurora” denunciando tutto in Procura.

    I doppi pagamenti

    Le indagini, infatti, avrebbero permesso di constatare una duplicazione di pagamenti per oltre 4 milioni di euro. Soldi corrisposti dall’Asp reggina a favore dello studio radiologico privato, operante nel settore dell’erogazione di prestazioni diagnostiche ai pazienti in convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale. Gli inquirenti si sono poi concentrati su una transazione, conclusa nel 2015 tra l’Asp ed il privato, che ha disposto il pagamento della somma di quasi 8 milioni di euro a saldo di crediti pregressi, presuntivamente vantati come non ancora riscossi.

    Oltre dieci anni di prestazioni sanitarie dichiarate non pagate dallo studio radiologico e poste a fondamento di diversi decreti ingiuntivi divenuti esecutivi a seguito della mancata opposizione dell’Asp reggina. Ma quelle somme erano state già liquidate per un ammontare complessivo di oltre 4 milioni di euro. Compresi interessi. Le indagini avrebbero quantificato in quasi due milioni e mezzo di euro le imposte non pagate.

    La ‘ndrangheta classe dirigente

    Anche così si spolpa la Sanità calabrese. Quella in cui la ‘ndrangheta si è fatta classe dirigente. Con i figli dei vecchi boss degli anni ’70 e ’80, che hanno conseguito lauree in Giurisprudenza e Medicina, soprattutto presso l’Università degli Studi di Messina. Per anni un vero e proprio feudo della ‘ndrangheta della Locride soprattutto. Affonda le sue radici nel mito la versione secondo cui i giovani esponenti dei clan della fascia jonica reggina sostenessero gli esami “con la pistola sul tavolo”. E un collaboratore di giustizia, negli anni, ha affermato: «Ci fu un periodo in cui l’Università di Messina era una sorta di dépendance di Africo Nuovo». Proprio l’Africo Nuovo di Peppe Morabito, il “Tiradritto”.

    L'università di Messina
    L’Università di Messina

    Del resto, è utile ricordare le risultanze emerse, alcuni anni fa, con la relazione di scioglimento per ‘ndrangheta dell’allora Asl di Locri. Agli atti la fitta ed intricata rete di rapporti di parentela o di affinità e frequentazione che legano esponenti anche apicali della criminalità organizzata locale a numerosi soggetti alle dipendenze dell’azienda. Alcuni dei quali con pendenze o pregiudizi di natura penale.

    Il delitto Fortugno

    Quelli sono gli anni del delitto del vicepresidente del Consiglio Regionale della Calabria, Franco Fortugno, assassinato il 16 ottobre del 2005 a Palazzo Nieddu del Rio a Locri. Le indagini sul suo omicidio e la parallela inchiesta “Onorata Sanità”, che porterà alla condanna definitiva dell’allora consigliere regionale Mimmo Crea, sveleranno un sistema inquietante. In cui, a prescindere dalle responsabilità penali accertate, sarebbero emerse relazioni molto strette e intense tra politica, imprenditoria, mondo delle professioni e ‘ndrangheta.

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    Francesco Fortugno

    Molti nomi, menzionati nelle migliaia di carte investigative, citati nelle infinite udienze davanti ai giudici, ricorrono e ricorrono. E continuano, ancora oggi, a ricoprire incarichi di grande rilievo in seno alla sanità reggina e calabrese. Non è un caso che a distanza di molti anni dalla relazione del prefetto Basilone sull’Asl di Locri, anche l’Asp di Reggio Calabria verrà commissariata per infiltrazioni della criminalità organizzata, con lavori per imprese non inserite nella white list della Prefettura o, peggio, colpite da interdittiva antimafia.

    Nessuno firma i bilanci di Cosenza

    Lo stesso discorso vale per un’altra importante Asp della regione, quella del capoluogo Catanzaro, anch’essa considerata di grande interesse per le cosche. E la situazione è grave anche all’Asp di Cosenza. Qui diversi manager della Sanità pubblica sono indagati per aver truccato i bilanci dell’Ente nel tentativo di far quadrare, almeno sulla carta, conti altrimenti molto più drammatici. L’ultimo consuntivo approvato – oggi nel mirino della Procura – risale ormai al 2017. Da allora otto commissari si sono alternati senza mettere la propria firma su quelli successivi. Anche a Cosenza doppie fatture e un contenzioso monstre non quantificato né gestito come si dovrebbe hanno generato una voragine finanziaria da centinaia di milioni di euro.

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    La sede dell’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza
    Massoni e legami politici: l’interrogazione parlamentare

    A Reggio Calabria o a Locri, un po’ ovunque la sanità è un coacervo di interessi. Anche e soprattutto a Cosenza. Ne è convinto il deputato Francesco Sapia, ex grillino duro e puro che, non accettando la svolta governativa dei 5 Stelle, è confluito ne L’Alternativa. Il parlamentare proprio in queste ore con un’interrogazione parlamentare ha chiesto «se il ministro dell’Interno non intenda promuovere l’accesso agli atti presso l’Asp di Cosenza».

    Sapia, peraltro, alla Camera siede proprio in Commissione Sanità.E non usa troppi giri di parole: «Primariati non autorizzati, anomala conservazione dei tamponi, proroghe allegre di contratti scaduti, sforamenti di bilancio, incompatibilità, parenti che lavorano insieme, ruoli svolti senza requisiti e procedure selettive pubbliche, carenze da Terzo mondo e gestioni incontrollate di presìdi salvavita. Questo squallore deve finire, non è più tollerabile».

    Il parlamentare pare essersi fatto un’idea ben precisa sulle possibili ragioni dietro i problemi elencati: «È urgente verificare se massoni e legami politici negli uffici abbiano condizionato o possano pregiudicare l’imparzialità amministrativa nell’Asp di Cosenza».

    Il buco nero dell’Asp di Cosenza

    Ma a cosa si riferisce, nello specifico, l’ex grillino? Da anni sono sempre più insistenti i dubbi sulla spesa farmaceutica e gli affidamenti illegittimi di incarichi a esterni. Con riferimento a questi ultimi, secondo quanto previsto dalla legge possono ammontare, al massimo al 50% di quella sostenuta nel 2009 per le stesse finalità. Ma negli scorsi anni si è andati ben oltre: dell’82% nel 2016 e del 76% nel 2017.

    Come per altre Asp calabresi, peraltro, anche all’Asp di Cosenza diventa un’impresa trovare le fatture. Agli atti emergono sei diverse società a responsabilità limitata che da tempo reclamano pagamenti dall’Asp cosentina. Circa 20 milioni di euro per un debito che sarebbe maturato a partire dal 2007. Il problema è che però negli uffici dell’Asp non esistono fatture che possano giustificare queste richieste esorbitanti. E da quelle che si trovano, molto spesso i pagamenti risultano già effettuati da anni.

    Le fatture che non si trovano

    Perché poi, ovviamente, nel disordine, nella negligenza, possono annidarsi anche tentativi di raggiro. E così, per anni, l’Asp di Cosenza è stata letteralmente assaltata da una lunga sfilza di società di factoring, pronte a vantare crediti (reali o presunti) nei confronti dell’Ente. «L’Azienda non è in grado di identificare con certezza la matrice sulla cui base i pagamenti vengono liquidati, questa situazione espone la stessa al rischio di remunerare più di una volta lo stesso importo per il medesimo debito», ha scritto tempo fa la Corte dei Conti. Tra fatture già pagate e altre scomparse, il buco nelle casse dell’Asp cresce a dismisura.

    Al 31 dicembre 2017 l’Asp di Cosenza aveva ben 541 milioni di euro di debiti. E le anticipazioni di cassa, che dovrebbero essere un’eccezione, sono diventate una regola. E, con il tempo, si sa, i debiti crescono. Nel 2005, infatti, l’Azienda Sanitaria di Cosenza aveva un debito di circa 3 milioni e mezzo di euro ereditato dall’ex As 1 di Paola legato a una condanna in tribunale. Nessuno ha pagato e quella somma è cresciuta a dismisura. Nel 2020 gli interessi pagati sulla cifra prevista inizialmente ammontavano a quasi 8 milioni e mezzo.

    La “favorita” dell’ex dg

    Ma Sapia parla anche di concorsi fatti ad hoc. Una inchiesta della Procura di Cosenza, infatti, sostiene come la procedura riguardante una donna abbia avuto un trattamento di favore, con un bando creato proprio per lei. E questo in forza della relazione sentimentale che avrebbe intrattenuto, per un determinato periodo, con l’ex direttore generale dell’Asp, Raffaele Mauro. Questa procedura le avrebbe fatto ottenere una promozione, senza averne avuto diritto.

    Alcune modifiche normative (inserite usando come stratagemma il pensionamento di un funzionario) sarebbero state inserite su misura proprio per favorire la “preferita” di Mauro. Tra le varie presunte e creative irregolarità, quella di non tenere conto dell’esperienza nel settore. E la donna, pur non avendo alcuna pregressa attività lavorativa (a dispetto degli altri candidati) nel settore in esame vince la selezione. Un artifizio che, sempre secondo i pm, sarebbe avvenuto grazie a una commissione compiacente, per non urtare la suscettibilità dell’allora dg.

    «Processate i commissari»

    Ma proprio quell’inchiesta – denominata, non a caso, “Sistema Cosenza” – afferma come la gestione allegra dell’Asp cosentina sia stata di fatto avallata dal silenzio (nel migliore dei casi) della Regione e dei commissari. A non opporsi a tutto questo, anche Massimo Scura e il generale Saverio Cotticelli, per i quali, proprio alcuni giorni fa, la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per i falsi bilanci dell’Asp.

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    Gli ex commissari massimo Scura e Saverio Cotticelli

    Secondo l’accusa, il buco di bilancio sarebbe stato occultato, omettendo, tra le altre cose, di riportare in bilancio le cifre del contenzioso legale che, da solo, ammonta ad oltre mezzo miliardo di euro. Bilanci, secondo i magistrati, palesemente falsi e che, nonostante le irregolarità e i pareri negativi del collegio sindacale, con riferimento al triennio 2015-2017 sono stati comunque approvati dagli organi di controllo istruttorio.

    Le ultime inchieste

    “Sistema Cosenza” non è l’ultima inchiesta che mette nel mirino la sanità calabrese. Praticamente tutte le procure calabresi hanno fascicoli aperti di una certa rilevanza. Nel marzo del 2021, un’altra operazione ha portato all’arresto di medici e dirigenti perché responsabili di essere affiliati alla cosca Piromalli, una delle più potenti della ‘ndrangheta. Secondo l’inchiesta “Chirone”, tramite alcune aziende il potente clan di Gioia Tauro si sarebbe aggiudicato gli appalti di fornitura dell’Asp di Reggio Calabria. Uno dei dirigenti coinvolti era proprio colui che aveva il compito di valutare il fabbisogno sanitario della provincia di Reggio ai fini della fissazione dei budget.

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    Nicola Paris

    E rischia il processo anche l’ex consigliere regionale della Calabria, Nicola Paris, eletto nel 2020 con la lista dell’Udc e arrestato nell’agosto scorso con l’accusa di corruzione. Secondo l’inchiesta “Inter Nos”, Paris avrebbe tentato di intervenire sull’allora presidente f. f. della Regione, Nino Spirlì. A che scopo? Sollecitare il rinnovo contrattuale per Giuseppe Corea, direttore del settore Gestione risorse economico-finanziarie dell’Asp. Secondo gli inquirenti, è la persona grazie alla quale le imprese vicine ai clan Serraino, Iamonte ed a quelli della Locride ottenevano gli appalti. Paris avrebbe caldeggiato la nomina di Corea nell’interesse degli imprenditori che, stando al campo di imputazione, «lo avevano sostenuto durante la campagna elettorale».

  • Sanità più moderna, se il nuovo piano è identico al vecchio

    Sanità più moderna, se il nuovo piano è identico al vecchio

    La notizia rimbalza di sito in sito ormai da qualche ora: la Regione ha pubblicato il nuovo piano che dovrebbe portare all’ammodernamento tecnologico della Sanità calabrese. E via con il lungo elenco di macchinari che presto (?) faranno bella mostra di sé nelle strutture pubbliche destinate alle cure dei cittadini. Un dettaglio, però, sembra sfuggito alle cronache: la cifra messa sul piatto è identica a quella del piano già pubblicato nella scorsa primavera.

    In pratica, stando alle cifre riportate, in tutti questi mesi non sarebbe stata comprata un’apparecchiatura che sia una, a dispetto dell’immancabile dose di promesse. C’erano a disposizione 86.488.636,84 euro nel vecchio piano, ci sono a disposizione 86.488.636,84 euro anche nell’attuale. Non un centesimo di più, né uno di meno. A voler essere generosi si potrebbero considerare gli allegati C e D del piano e non il documento principale. In questo caso, gli acquisti ancora da effettuare sfiorerebbero i 70 milioni di euro e quelli già effettuati si fermerebbero al 20% del totale più o meno.

    I mammografi in uso da oltre 18 anni

    Il budget, datato 2019 quindi già a disposizione da prima di redigere la precedente lista della spesa, dovrebbe servire alla Calabria per dotarsi di tecnologie all’avanguardia. Ma a furia di aspettare, il rischio è che i nuovi acquisti – quando arriveranno davvero – si rivelino meno ultramoderni di quanto sperato. Comunque vada stavolta, saranno comunque meno vecchi dei loro predecessori. In particolare, dei mammografi in uso nella nostra disastrata rete sanitaria pubblica. Dovrebbe andare in pensione dopo quasi 30 anni di onorato (?) servizio il decano della categoria, acquistato nel lontano 1993 per il presidio ospedaliero dell’allora Corigliano. Da quelle parti, in realtà, Fujifilm e Roche Italia ne hanno donato uno poche settimane fa. Nel piano della Regione, però, la cosa non risulta, tant’è che negli allegati si prevede una spesa di quasi 365mila euro per acquistarne uno.

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    L’età media delle apparecchiature in dotazione al Servizio sanitario regionale calabrese

    Quello di Corigliano non è l’unico mammografo ad essere “diventato maggiorenne” in tutto questo tempo, anzi. A fargli compagnia ci sono quelli delle Casa della salute di Mormanno (2004), Cariati (2002) e dei presidi ospedalieri di Paola (2002), Gioia Tauro (2004) e Melito (2000), nonché quello del poliambulatorio di Cirò Marina (2003). Senza dimenticare i quasi diciottenni in uso ad Amantea (2005), Mesoraca (2006) e Trebisacce (2007). Le apparecchiature sanitarie, in teoria, sono considerate vecchie già dopo sette anni e andrebbero cambiate perché obsolete entro i successivi cinque.

    La Sanità tra tumori ed emigrazione

    Tutti i vecchi mammografi citati (e non solo quelli), stando alla relazione di contesto pubblicata dal dipartimento Sanità, richiedono una sostituzione. Consentirà «di avere diagnosi più accurate con una forte riduzione delle dosi di radiazioni e dei tempi dell’esame». Ma, soprattutto, di risparmiare un po’ di quattrini in prospettiva, rimediando «all’obsolescenza delle corrispondenti apparecchiature attualmente installate nel presidio ed ai conseguenti elevati costi di gestione a causa dei frequenti interventi di manutenzione».

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    Un estratto dell’approfondimento della relazione di contesto pubblicata dalla Regione

    La speranza è che servano anche a curare meglio i tumori alla mammella, che da questa parti continuano a risultare più problematici che nel resto d’Italia. Un divario, questo, che trova conferma anche nel trattamento delle altre patologie oncologiche. E va a pesare anche sulle casse regionali alla voce “emigrazione sanitaria” per milioni di euro ogni anno.

  • La regola di Ennio: la poltrona passa di padre in figlio… e nuora

    La regola di Ennio: la poltrona passa di padre in figlio… e nuora

    A novembre 2020 esplode una protesta a Cosenza contro l’istituzione della zona rossa.
    Tra i bersagli della piazza ci sono i fratelli Gentile ed Ennio Morrone, accusati di aver distrutto la sanità calabrese, pubblica e privata.
    A metà gennaio 2022 gli ex dipendenti della clinica Misasi-San Bartolo salgono sul tetto della storica struttura cosentina per protestare contro i licenziamenti che hanno colpito 51 dei 129 lavoratori. Le lettere di licenziamento provengono dai fratelli Greco, che hanno rilevato la clinica dai Morrone.

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    Operai protestano sul tetto della Clinica Misasi-San Bartolo dopo l’arrivo delle lettere di licenziamento per 51 di loro

    Dopo il figlio ecco la nuora 

    Nel frattempo, sono successe alcune cose importanti: Luca Morrone, figlio di Ennio, non è più in Consiglio regionale, dove sedeva tra i banchi della maggioranza in quota Fratelli d’Italia. Al suo posto è subentrata la moglie, Luciana De Francesco, eletta nella medesima lista meloniana con 4mila 500 e passa voti. Il pacchetto di famiglia, che fu di Ennio e poi di Luca è rimasto in casa, anche se ha cambiato sesso e cognome.
    Potenza delle dinastie, che rendono il potere una proprietà transitiva.
    E con buona pace di chi protesta: saranno pure molti, ma sempre meno di chi vota senza fiatare.

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    Luciana De Francesco, eletta in consiglio regionale con Fratelli d’Italia

    Il patriarca Enniuzzo

    Viso paffuto, aria paciosa e modi sornioni, Giuseppe Ennio Morrone, detto Ennio e a volte Enniuzzo, è il meno vistoso tra i big cosentini di lungo corso.
    Non ha la popolarità di Pino Gentile né il radicamento di Nicola Adamo. Soprattutto, non ha la loro capacità di trasformare le clientele in seguito.
    A voler fare un paragone irriverente, Ennio somiglia a un gatto: astuto, aggressivo quando serve, spregiudicato e calcolatore, l’ex esponente socialista (quindi democratico, poi mastelliano e infine azzurro) è un maestro nell’arte della sopravvivenza politica in posizioni di potere. Soprattutto, è il più determinato a trasformare il potere in eredità. Vediamo come.

    Quattrini e seggi

    C’è una regola non scritta che pochi possono permettersi di violare: la separazione tra attività d’impresa e la politica. In Calabria, le eccezioni eclatanti sono due: Sergio Abramo e, appunto, Ennio Morrone.
    Morrone senior, di professione ingegnere, ha esordito come imprenditore attraverso Geocal, un laboratorio di analisi specializzato sui materiali utilizzati nei lavori pubblici.
    Il battesimo politico di Morrone, invece, è stato propiziato da Pino Gentile. Con buoni risultati, tra l’altro: il Nostro fa il vicesindaco a fine anni ’80. Poi, finita la Prima Repubblica, quindi il Psi, riemerge come assessore di Giacomo Mancini.
    Il salto di qualità avviene col centrosinistra nel 2000, quando Morrone si candida ne I Democratici e diventa consigliere regionale.
    Nel 2005 il big cosentino aderisce all’Udeur di Clemente Mastella e torna in Consiglio regionale con gran scioltezza.

    L’anno doro di Ennio Morrone

    La giunta Loiero e la vicinanza a Super Clemente si rivelano meravigliosi trampolini di lancio: diventato assessore regionale al Personale, Ennio si gioca la promozione romana nel 2006. E vince: diventa deputato e, in maniera non troppo indiretta, occupa una casella al Comune di Cosenza, dove suo fratello Giancarlo (medico andrologo e poi direttore sanitario della “Misasi”) diventa vicesindaco.
    Questo è l’apice di Ennio, che non bisserà più il record di potere e presenze. Ma capitalizza comunque quel che ha a dispetto di tanti scivoloni, che ad altri sarebbero costati più cari. Vediamoli.

    Le rogne

    Già nel 2003 Morrone era finito nel mirino della Dda di Catanzaro per presunte infiltrazioni delle ’ndrine nei lavori dell’allora A3. L’inchiesta finì in niente per tutti gli indagati.
    Nel 2006 Morrone fu intercettato durante un colloquio in carcere con Franco Pacenza, all’epoca notabile dei Ds, mentre ne diceva di tutti i colori di alcuni magistrati. Lo scandalo mediatico rientrò con la velocità con cui era esploso.
    Nel 2007 è la volta di Why Not?, la megainchiesta di Luigi de Magistris, allora sostituto procuratore a Catanzaro.
    Why Not? finì per Morrone allo stesso modo che per altri indagati eccellenti (tra cui Nicola Adamo): in nulla.

    La famiglia prima di tutto

    Il principale motivo d’orgoglio di Ennio è la famiglia. In particolare, sua figlia Manuela, che ha fatto per anni la magistrata a Cosenza, prima a livello penale poi nel Tribunale fallimentare. Manuela, tra le varie, è moglie di Stefano Dodaro, già capo della Squadra Mobile di Cosenza.
    Il sogno di molti padri “che contano” è avere figli “che contano” altrettanto. E quando non ci riescono da soli, arriva il consiglio paterno.
    È il caso di Marco e Luca, gemelli quasi indistinguibili, che hanno ereditato i due core business di papà Ennio: l’imprenditoria (Marco) e la politica (Luca).
    Marco diventa socio e ad della San Bartolo, la società proprietaria delle cliniche – Misasi, San Bartolo e Villa Sorriso – di famiglia. Luca si dà alla politica, dove riprende e prosegue la carriera paterna.

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    Stefano Dodero, ex capo della Mobile a Cosenza e attualmente direttore della scuola di Polizia a Vibo Valentia

    Rinascere in Azzurro

    Nel 2010 Ennio si candida in Regione in quota Pdl. Non ce la fa per un soffio, ma l’aiuta la sfortuna altrui: prende il posto di Franco Morelli, finito in galera per concorso esterno in associazione mafiosa.
    Intanto, nel 2011, Luca diventa presidente del consiglio comunale di Cosenza nella prima sindacatura di Mario Occhiuto. Poi succede un fatto curioso: nel 2014, Ennio torna in consiglio regionale con Forza Italia. A inizio 2016, Luca partecipa alla sfiducia, che fa decadere Mario Occhiuto a pochi mesi dalla scadenza del mandato. Contestualmente, Ennio diventa presidente della Commissione regionale di controllo e garanzia, durante l’amministrazione Oliverio.

    L’impero scricchiola

    L’avvisaglia è in una dichiarazione rilasciata da Eugenio Facciolla, procuratore di lungo corso, durante una famosa ispezione ministeriale sul Tribunale di Cosenza. Facciolla, in quell’occasione, aveva lanciato l’allarme sul possibile conflitto d’interessi rappresentato da una magistrata moglie del capo della Squadra mobile e figlia di un politico. Dodaro verrà trasferito da lì a poco.
    Nel frattempo, anche le cliniche danno problemi: accumulano debiti, soprattutto nelle retribuzioni e nella previdenza, ed entrano nel mirino dei sindacati.
    Il punto più alto della crisi si registra nel 2015, quando per tamponare i problemi la San Bartolo ricorre ai contratti di prossimità. Il risultato è accettabile a livello economico ma pessimo a livello politico-sindacale.
    Infatti, la situazione si trascina fino alla primavera del 2021, quando i Morrone decidono di vendere tutto o quasi ai Greco, specializzati nel recupero delle cliniche decotte (avevano già acquistato La Madonnina e il Sacro Cuore di Cosenza e La Madonna della Catena di Laurignano), non prima di aver tentato di vendere a un altro big: Piero Citrigno.

    Migranti e guai

    Un’altra buccia di banana si rivela nel 2015, in seguito alla protesta di alcuni migranti ospiti della struttura, il Centro d’accoglienza di Spineto, frazione di Aprigliano vicinissima alla Sila. Un’inchiesta giornalistica dell’agosto di quello stesso anno rivela che il centro d’accoglienza è gestito dalla Cooperativa Sant’Anna, di cui tra l’altro era stato amministratore Marco Morrone. Nel giro di pochi mesi, la struttura viene chiusa. Ma intanto lo scandalo è scoppiato a livello nazionale e finisce addirittura in Profugopoli, il libro di Mario Giordano.
    La coop Sant’Anna, detto per inciso, gestisce anche i servizi ausiliari delle cliniche riconducibili ai Morrone più altre attività terziarie. Ma scoppia un’altra rogna: l’inchiesta Passepartout, in cui è indagato e rinviato a giudizio Luca Morrone.
    A causa di questo procedimento, Luca deve rinunciare alla candidatura alle Regionali dello scorso ottobre.

    La storia infinita

    Il resto è noto. L’elezione della De Francesco ha inaugurato un altro filone di ereditarietà politica: quello che al posto dei figli premia i loro coniugi.
    Un filone, tra l’altro non proprio inedito, visto che l’ha sperimentato con successo sulla costa Tirrenica l’ex europarlamentare del Pd Mario Pirillo, che ha sponsorizzato alla grande la carriera di Graziano Di Natale, il marito della figlia.
    In un modo o nell’altro, la dinastia resiste. Passano i decenni, cambiano i sistemi, crollano gli imperi (anche i loro), ma i Morrone sono vivi e lottano.
    Nel loro caso, il Gattopardo può essere un paragone insufficiente…

  • Superconsulenti sì, purché non siano calabresi: Occhiuto ora non vuole più i cervelli in fuga

    Superconsulenti sì, purché non siano calabresi: Occhiuto ora non vuole più i cervelli in fuga

    Lo scorso 18 ottobre lo stesso Roberto Occhiuto che oggi rivendica il suo «cambio di passo» lanciava, da Milano, una delle dirette a cui avrebbe poi abituato il suo pubblico social. Ancora fresco di elezione, e gigioneggiando un po’, spiegava come tutti, in quel momento, gli chiedessero notizie sull’imminente composizione della sua giunta. Il governatore/factotum della città si descriveva invece come «più impegnato» a cercare «personalità di assoluta qualità» da «coinvolgere, in ruoli chiave», nel «progetto di rilancio della Regione». Obiettivo dichiarato del suo scouting lombardo erano i «calabresi che se ne sono dovuti andare, ma che magari sognano di tornare».

    Visto che è stato lui a rispolverare il refrain della diaspora e delle eccellenze, ma senza alcuna voglia di alimentare campanilismi di cui non si sente il bisogno, vale la pena dopo 3 mesi andare a indagare il giro di nomine che si è nel frattempo innescato in quel di Germaneto. Un generatore semiautomatico di incarichi che al momento, sempre al netto della retorica calabrocentrica, non pare inquadrabile nella narrazione, cara a Roberto Occhiuto, del nativo illustre che torna nella riserva indiana a dispensare virtù e conoscenze.

    I superconsulenti in quota Bertolaso

    I botti di Capodanno, per esempio, alla Cittadella li hanno sparati reclutando due superconsulenti per nulla calabresi, ma che godono entrambi del requisito di provenire dal cerchio magico di Guido Bertolaso. Si tratta di Agostino Miozzo ed Ettore Figliolia, chiamati da Occhiuto a occuparsi rispettivamente di sanità e questioni giuridiche. A onor del vero non avranno dei supercompensi, ma del loro primo mese al servizio della causa calabrese non sembrano esserci grandi tracce. A parte qualche conferenza stampa, un paio di interviste e certamente molte videochiamate.

    Uno come Miozzo, d’altronde, nel 2019 dichiarava 213mila euro di incarichi pubblici (fonte Presidenza del Consiglio), mentre ora dalla Regione Calabria avrà 12mila euro all’anno (più rimborsi spese). A parte la sua democratica smania di «arrestare» i no-vax, per adesso l’ex coordinatore del Comitato tecnico scientifico – che Giuseppe Conte voleva nominare commissario alla sanità – ha fatto scoprire alla Calabria le magnifiche e progressive sorti della telemedicina, una cosa di cui nell’Unione Europea si parla dal 2008.

    Ma la Calabria potrà godere anche delle sue competenze in materia di «riorganizzazione del sistema regionale di emergenza urgenza». Lo stesso settore per cui Occhiuto ha annunciato un accordo con Areu (l’Agenzia che se ne occupa per la Regione Lombardia) ribadendo l’obiettivo di «importare buone pratiche senza inventarsi nulla di nuovo». A questi intenti non ha reagito benissimo la Fismu (affiliata Cisl Medici) che ha invitato il governatore a parlare con i medici e a guardare «alle esperienze che funzionano sul territorio».

    Aspettando Bortoletti

    Certamente meno rumoroso di Miozzo è Figliolia, che dopo anni in servizio all’Avvocatura dello Stato, e con una lunga sfilza di incarichi governativi alle spalle, ora si occuperà di «temi giuridici riguardanti l’azione di governo» della Regione Calabria. Tante volte in questi anni, in effetti, la Regione ha ingaggiato contenziosi non sempre fortunati con il governo nazionale, ma questi quasi sempre riguardano le leggi regionali che, in teoria, sarebbero di competenza del Consiglio.

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    Il colonnello dei Carabinieri, Maurizio Bortoletti

    Uno che ci servirebbe come il pane, nel pieno delle sue funzioni, sarebbe invece il subcommissario alla sanità Maurizio Bortoletti. Colonnello/manager che ha risanato un buco enorme nella sanità campana, è stato nominato per affiancare Occhiuto a metà novembre. Ma ancora oggi non è operativo per via di un braccio di ferro con l’Arma dei carabinieri dovuto alla procedura per il suo “distacco”.

    Alla comunicazione pensa Forza Italia

    Vabbè: lasciando da parte i nomi altisonanti e le consulenze in remoto, ci sono comunque anche altri esterni, meno noti ma rigorosamente non calabresi, chiamati in questi mesi alla corte di Occhiuto. Il suo portavoce, per esempio, dal 16 novembre – ma lo aveva seguito già in campagna elettorale – è il messinese Fabrizio Augimeri. Giornalista professionista, già portavoce di Mariastella Gelmini, consigliere per la comunicazione di Renato Brunetta e capo ufficio stampa del gruppo di Forza Italia alla Camera, ha – oltre ai rimborsi spese per le missioni – un trattamento economico pari a quello di un dirigente di settore della Giunta regionale di fascia A.

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    Fabrizio Augimeri quando era portavoce di Mariastella Gelmini

    Ma evidentemente lui non basta, perché ad occuparsi di comunicazione istituzionale il presidente della Regione ha chiamato anche un’altra «esperta esterna»: Veronica Rigoni, «in possesso di alta qualificazione professionale», già consigliere comunale a Creazzo (Vicenza) e responsabile della comunicazione dei giovani di Forza Italia. Neanche lei calabrese, e da quanto risulta nemmeno iscritta all’albo dei giornalisti, avrà un compenso di 36mila euro per un anno.

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    Silvio Berlusconi e Veronica Rigoni, ex consigliere comunale in provincia di Vicenza e responsabile comunicazione giovani FI

    La rivoluzione di Roberto Occhiuto può aspettare

    Pure guardando ai dirigenti autoctoni, però, non sembra che sulla Cittadella si sia abbattuta quella rivoluzione burocratica che era stata annunciata. A fronte di due nuovi direttori generaliIole Fantozzi alla Sanità e Claudio Moroni alle Infrastrutture – altri due – Filippo De Cello al Bilancio e Maurizio Nicolai alla Programmazione comunitaria – sono rimasti dov’erano.

    L’arrivo di Fantozzi alla Salute ha suscitato malumori dentro e fuori il palazzo. Ma ancora più perplessità ha sollevato la conferma di Nicolai. È il manager protagonista, in negativo, del blocco dei 69 milioni di euro per cui Roberto Occhiuto è dovuto andare fino a Bruxelles. Ed è anche un politico: si era candidato con Forza Italia alle Regionali del 2020 prendendo, nel collegio di Cosenza, 3.279 voti.

    Fatte salve alcune indubitabili competenze, alla fine è pur sempre la politica che sponsorizza superconsulenti e incaricati di partito. Chiamati da fuori, alla faccia dei «calabresi che se ne sono dovuti andare», a colonizzare una regione già tradizionalmente terra di conquista che, per ora, non è proprio quella «che l’Italia non si aspetta».

  • Sanità, appalti, portaborse: le ultime parole famose dei politici calabresi

    Sanità, appalti, portaborse: le ultime parole famose dei politici calabresi

    Certo si tratta di contraddizioni meno drammatiche rispetto a quella per cui, nello stesso giorno, si esulta perché Studio Aperto parla del «primato» della Calabria sui vaccini ma si registrano, in appena 24 ore, 8 morti per Covid e migliaia di nuovi contagi. Con i ricoveri che schizzano al 41% in area medica e al 19% in Terapia intensiva.

    Le dichiarazioni dei politici calabresi

    La situazione degli attuali politici calabresi, giusto per scomodare una volta di troppo Ennio Flaiano, resta grave, ma davvero poco seria. Specie se ci si attarda nell’esercizio di mettere a confronto certe dichiarazioni che protagonisti e comparse della scena regionale rilasciano, con evidente sprezzo del ridicolo, smentendo puntualmente se stessi. La scarsa memoria dei cittadini amministrati è sempre un buon alleato, dunque ricordare ogni tanto le acrobazie verbali dei Nostri può essere uno spunto per valutarne l’affidabilità.

    Chiudere gli ospedali? Ottimo, riapriamoli

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    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Partiamo proprio dal dominatore del momento, Roberto Occhiuto. Oltre a citare i «target di Figliuolo» almeno tre volte al dì ha da poco annunciato con altrettanto zelo la riapertura degli ospedali di Cariati, Trebisacce e Praia a Mare. Giova fare un salto indietro di oltre un decennio. Il 23 luglio 2010 l’allora presidente della Regione Peppe Scopelliti, commissario-governatore proprio com’è oggi Occhiuto, diceva al consiglio regionale che «la chiusura degli ospedali – riportano i resoconti di Palazzo Campanella – rappresenta un messaggio culturale nuovo».

    Neanche 3 mesi dopo (9 ottobre 2010) Scopelliti presentava il Piano di rientro al teatro Morelli di Cosenza. E in prima fila c’era proprio Occhiuto, all’epoca deputato dell’Udc, che dichiarava: «Oggi finalmente si mette mano a una riforma che, certo, genera qualche protesta come è naturale quando si fanno scelte impopolari. Diamo tempo a chi governa di affrontare tutti i problemi».

    Tra i 18 ospedali indicati dall’allora governatore c’erano anche quelli di Trebisacce, Praia a Mare e Cariati. A disporre la riapertura dei primi due è stato in realtà il Consiglio di Stato. Per il terzo c’è voluta un’occupazione a oltranza dei cittadini e il sostegno clamoroso di Roger Waters. Dopo l’intervento del fondatore dei Pink Floyd Occhiuto ha almeno ammesso che «l’errore fu quello di chiudere, forse, gli ospedali sbagliati e soprattutto di non convertirli in Case della salute e poliambulatori».

    Dema di lotta e di governo

    A ricordargli questa contraddizione è stato, con la nota veemenza, il tre volte ex (pm, sindaco di Napoli e candidato alla Presidenza della Calabria) Luigi de Magistris durante la recente campagna elettorale. Anche a lui però la memoria gioca brutti scherzi. È ancora agli atti dei social un suo tweet del 24 febbraio 2013 in cui si autodefiniva un «visionario» sostenendo che «la fase più avanzata della democrazia sia l’anarchia». E aggiungendo di «sognare» comunità che «si autogestiscano senza poteri, solo amore!».

    In quel momento, più che un ibrido tra Bakunin e Mario Capanna, Dema era però già sindaco di Napoli da due anni e sarebbe stato rieletto anche per un altro mandato. Qualche anno dopo la sua tendenza alla sovversione, e giammai al potere, lo avrebbe portato a candidarsi alla Regione mentre ancora vestiva la fascia di primo cittadino. E la via rivoluzionaria di de Magistris alle istituzioni probabilmente continuerà con le Politiche 2023. Intanto è cronaca di questi giorni la molto poco anarchica nomina di suo fratello Claudio nello staff di uno dei due consiglieri regionali eletti nelle sue liste, Ferdinando Laghi.

    Scontro tra titani

    Il populismo fa fare di queste figure ai politici calabresi (autoctoni o adottati, come Dema)come, di recente, ha confermato il comportamento del 5stelle locali con i portaborse. Ma de Magistris è riuscito nell’impresa di farsi rinfacciare l’incoerenza perfino da un campione di giravolte come Carlo Tansi. Il geologo ha ricordato all’ex pm di averlo criticato perché si era avvicinato al «PUT (Partito Unico della Torta)» come in effetti avvenuto con l’ingresso di Tansi in coalizione col vituperato Pd, mentre ora «quel PUT gli ha sistemato suo fratello come portaborse alla regione».

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    C’eravamo tanto amati: Luigi de Magistris e Carlo Tansi ai (brevi) tempi della loro alleanza

    Feudalesimo democratico

    A proposito di Pd, nel girone dei politici calabresi smemorati non può certo mancare Nicola Irto, neo incoronato leader con un congresso – «unitario» per gli apologeti, farsa per i detrattori – che, nei fatti, non ha certo brillato per dialettica democratica. È stato eletto segretario l’unico candidato alla segreteria e sono entrati nell’assemblea regionale tutti i delegati che erano stati inseriti nelle liste. Il 21 maggio scorso in un’intervista all’Espresso Irto annunciava di non volersi più candidare a governatore. E, soprattutto, dichiarava che «il Pd è in mano ai feudi». Se dopo pochi mesi quell’impostazione medievale si sia dissolta non è dato saperlo. Ma valvassini e valvassori sembrano ben rappresentati nel gioco correntizio che ha portato Irto dov’è ora. Magari anche lui in prospettiva Politiche 2023.

    Nicola Irto prima delle ultime elezioni regionali
    Nicola Irto prima delle ultime elezioni regionali

    Garantismo a processi alterni

    Irto è il futuro, ma anche il recente passato dei dem ha regalato soddisfazioni. Basti pensare all’ex presidente Mario Oliverio: quando usò come pretesto gli avvisi di garanzia di “Rimborsopoli” per liberarsi della sua prima giunta politica si mostrò nei fatti giustizialista; le grane giudiziarie successive che lo hanno visto coinvolto in vicende da cui è puntualmente uscito pulito ne hanno fatto un indefesso garantista. Ma è lo stesso Oliverio che durante il suo mandato aveva giurato e spergiurato di non volersi mai e poi mai ricandidare alla guida della Regione. E che ha poi finito ingloriosamente la sua carriera candidandosi e ottenendo un misero 1,7%.

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    Mario Oliverio festeggia con Carlo Guccione dopo la vittoria alla Regionali: lo nominerà assessore per poi scaricarlo

    Dottor Orso e mister Marso

    Non mancano esempi fulgidi anche nell’attuale Giunta. Delle dichiarazioni di Gianluca Gallo, che le cantava proprio a Oliverio su politica e sanità, abbiamo già scritto. Ma non è da meno il collega Fausto Orsomarso. L’assessore di FdI, che si faceva fotografare in discoteca con Bob Sinclar mentre sulle strade del Tirreno cosentino veniva inviato l’Esercito per controllare gli assembramenti della movida, si è prodotto in un discreto carpiato anche sulla metro leggera Cosenza-Rende.

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    Fausto Orsomarso insieme al celebre dj Bob Sinclar

    A luglio 2011 intestava a Scopelliti il merito di aver «snellito l’iter burocratico» e sbloccato «i capitali che serviranno ad implementare la mobilità urbana». Una mossa grazie alla quale «entro il 2015 […] ogni giorno 50/60 mila utenti useranno questo sistema per spostarsi». A giugno 2016 tacciava l’allora governatore Oliverio di «scarsa cultura istituzionale» perché non aveva consultato l’allora sindaco Occhiuto (Mario) prima di procedere alla gara d’appalto per una metro «con una previsione assurda di 40mila persone di bacino quotidiano».

    Politici calabresi ed elettori smemorati

    Da notare che il fratello dell’attuale presidente della Regione – fuoriclasse di giravolte, specie sulla metro in questione, e promesse da marinaio: giusto in questi giorni a Cosenza si festeggiano i cinque anni di quella sulla realizzazione (mai avviata) del nuovo stadio nei successivi 36 mesi – era stato eletto proprio ai tempi della prima dichiarazione di Orsomarso. Che nel 2011 (in maggioranza) esaltava l’opera – «in meno di mezz’ora collegheremo tutta l’area metropolitana» – e nel 2016 (all’opposizione) ne metteva in risalto i problemi. D’altronde è la stessa classe dirigente che annuncia i «ticket» ancora prima del voto e li dimentica subito dopo. Ed è forse quella che, essendo noi elettori i primi smemorati, ci meritiamo.

  • Oltre al licenziamento anche le parole di sfida ai lavoratori (VIDEO)

    Oltre al licenziamento anche le parole di sfida ai lavoratori (VIDEO)

    Oltre alle lettere di licenziamento anche le parole di sfida contro gli operai saliti sul tetto della Casa di cura Misasi-San Bartolo di Cosenza. A pronunciare frasi dai toni accesi è stato Saverio Greco, uno dei fratelli che detengono la proprietà anche della struttura sanitaria in questione.

    https://www.facebook.com/100008592524753/videos/679273893233539

    il video è stato girato e poi pubblicato su Facebook da Ferdinando Gentile, sindacalista Usb della confederazione di Cosenza che sta seguendo la vicenda dei 51 lavoratori.

    Il gruppo imprenditoriale da poco ha rilevato le case di cura che erano in mano alla famiglia dell’ex consigliere regionale, Ennio Morrone. I Greco hanno da subito fatto capire che avrebbero mandato a casa 51 dipendenti sui 129 totali in forza alla struttura. Il giornale I Calabresi ha sollevato la vicenda già il 9 novembre scorso.

    «Questa realtà imprenditoriale decide di lasciare a casa decine di lavoratori e lavoratrici così da poter ulteriormente aumentare i propri profitti». È quanto si legge nel comunicato stampa del sindacato Usb Confederazione di Cosenza. Che continua: «La città di Cosenza non può permettersi che decine di famiglie rimangano senza risorse per poter vivere dignitosamente. Questa ennesima crisi sociale va evitata in ogni modo».

    I sindacalisti «chiedono poi un intervento immediato del presidente Roberto Occhiuto affinché convochi al più presto un tavolo di confronto vero, alla presenza delle sigle sindacali, dell’ASP di Cosenza e della San Bartolo srl».

    I Greco scaricano sulla Regione

    Gli imprenditori di Cariati hanno sin da subito scaricato sulla Regione Calabria la responsabilità di quanto avrebbero poi messo in atto. In una nota stampa hanno sottolineato «il tardivo rimborso delle prestazioni erogate negli anni che vanno dal 2002 al 2014, nonché la insufficiente remunerazione delle prestazioni relative all’anno 1995, e la continua contrazione dei budget che non hanno consentito la copertura dei costi fissi».

     

     

     

  • La tarantella triste dei posti letto destinati al Covid

    La tarantella triste dei posti letto destinati al Covid

    Mentre la quarta ondata galoppa, e si intravede la zona arancione, i calabresi hanno la sensazione di essere ancora, dopo due anni, «in braccio a Maria». Lo stesso governatore Roberto Occhiuto nelle scorse ore si è detto «preoccupato per la pressione sulla rete ospedaliera». Si può dunque immaginare quanto lo siano i cittadini da lui amministrati che assistono inermi a quella che, in un futuro non troppo lontano, potrebbe essere raccontata come la tarantella dei posti letto.

    È forse allora il caso di mettere insieme un po’ di numeri e di nomi, partendo però dagli ultimi dati. L’incidenza dei nuovi contagi tra il 3 e il 6 gennaio è stata abbondantemente sopra i 400 casi per 100mila abitanti. Molto alta. Come il tasso di occupazione dei reparti di area medica, che è al 34%. Con oltre 370 ricoverati in area medica su 1.055 posti letto attivati. Di questi, circa 200 sono stati creati negli ultimi 4 mesi.

    Le Terapie intensive

    Più complessa è la situazione delle Terapie intensive. I dati Agenas dicono che il tasso di occupazione è al 16%. E oltre 30 persone sono ricoverate in terapia intensiva su 189 posti letto esistenti. In proporzione, abbiamo a disposizione 10 posti letto ogni 100mila abitanti. È il dato più basso in Italia assieme a quello dell’Umbria. Secondo Agenas sono al momento attivabili altri 9 posti in Rianimazione.

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    I dati Agenas sui posti letto in terapia intensiva

    Occhiuto, dopo l’ultima riunione dell’Unità di crisi, ha annunciato che i posti letto in area medica dedicati al Covid verranno incrementati nei prossimi giorni perché è evidente che le ospedalizzazioni aumenteranno. Si sta pensando anche di utilizzare come Covid hospital i presidi sanitari di Rogliano, Cariati e Tropea. E di attivare in «tempi strettissimi» Villa Bianca a Catanzaro.

    Il piano per 400 posti letto Covid mai attivati

    Ora, per capire cosa sia stato fatto in due anni e per riscontrare gli annunci con la realtà, occorre fare un salto a inizio pandemia. Marzo 2020. La compianta Jole Santelli è stata eletta da poco alla presidenza della Regione. E la sanità calabrese è saldamente – si fa per dire – in mano al generale Saverio Cotticelli.

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    Le grafiche social della Regione Calabria guidata dalla Santelli per comunicare l’attivazione (mai arrivata) di 400 posti letto in terapia intensiva

    La pandemia si sta rivelando nella sua gravità e un annuncio viene veicolato con un post su Facebook. La presidente della Regione, in accordo con Cotticelli e con il supporto del Dipartimento Salute, ha «approvato il piano che prevede l’attivazione di 400 posti letto di terapia intensiva e subintensiva per le aree nord, centro e sud della regione».

    Inutile ricordare anche la ripartizione di quei posti letto, perché in realtà non sono mai stati attivati. Giugno 2020. Il documento di riordino della rete ospedaliera certifica l’amara verità. Ma non tralascia l’ottimismo: dopo la prima ondata la Calabria si ritrova ancora con 146 posti letto di Terapia intensiva. Però sono «incrementabili con ulteriori 134». Anche in questo caso segue uno schema con la ripartizione che (non) verrà.

    I fondi Covid non utilizzati

    Ritorniamo all’oggi. Prima di Natale la Regione ha da approvare il Bilancio e per farlo deve passare dal Giudizio di parifica della Corte dei conti. I magistrati contabili di Catanzaro però non si limitano a usare il pallottoliere. Ma indugiano, impietosamente, sulla situazione della sanità. Che con i conti ha in realtà molto a che fare visto che assorbe circa 3,9 miliardi di euro all’anno (il 62,4% del bilancio regionale).

    La presidente della Sezione di controllo della Corte, Rossella Scerbo, concludendo la sua relazione apre un «doveroso» squarcio sulla gestione del Covid in Calabria. Viene fuori che nel 2020 sono stati trasferiti alle Aziende sanitarie calabresi circa 115 milioni di euro di fondi Covid. E che «la gran parte di queste somme, ossia circa 77 milioni di euro, giace accantonata nei bilanci delle Aziende al 31 dicembre 2020 senza che sia stata riorganizzata la rete ospedaliera».

    Non prima del 2022 inoltrato

    Spiega, la relazione, che era stato il ministero della Salute – con circolare del 29 maggio 2020 – a prevedere che ai 146 posti letto di terapia intensiva «già attivi prima dell’emergenza» se ne aggiungessero altri 134, oltre alla riconversione di ulteriori 136 in semi-intensiva. Numeri lontanissimi da quel che poi è stato effettivamente fatto. Pochi nuovi posti letto – pochissimi secondo la Corte dei conti, 43 in due anni secondo Agenas – e interventi tutti ancora da avviare, il cui completamento è previsto «non prima del 2022 inoltrato (in alcuni casi del 2023)».

    Nessun rinforzo per i pronto soccorso, mentre tutte le altre prestazioni sanitarie hanno accumulato ritardi «più significativi rispetto alla media nazionale». Le azioni indicate dal commissario ad acta per recuperare questo gap sono state «pianificate in modo generico». E, di nuovo, i fondi messi a disposizione dallo Stato (circa 15 milioni di euro) «non sono stati spesi dalle Aziende sanitarie, che li hanno ancora una volta accantonati in bilancio».

    La Corte dei conti boccia la Regione

    Le conclusioni della Corte non hanno bisogno di appendici retoriche. «Nel complesso, risulta di tutta evidenza che la Regione Calabria – si legge nel documento – è ben di là da rafforzare effettivamente la propria rete territoriale». Ancora: «Le risorse distribuite dallo Stato non sono state impegnate in modo efficace». E inoltre: «Deve evidenziarsi che il contributo dei privati alla gestione dell’emergenza sanitaria pare essere stato minimo». E la Regione «non ha ancora contezza della rendicontazione delle prestazioni rese».

    Assunzioni? Troppo poche o non pervenute

    In questo lasso di tempo, struttura commissariale e dipartimento regionale hanno garantito al Tavolo interministeriale di verifica del Piano di rientro che nel Programma operativo (che ancora non c’è) sarebbero state inserite le nuove assunzioni di personale. Il commissario ha detto al Tavolo che nell’emergenza sono state assunte 1.080 unità di personale a tempo determinato. Si tratta di 139 dirigenti medici, 30 dirigenti non medici, 771 non dirigenti-comparto sanità, 140 altro personale. Circa la metà (563 unità) è stata impiegata nei 5 Hub regionali.

    Nel 2020, secondo la struttura commissariale, risulterebbero assunte 830 unità e altre 250 circa nel 2021. Roma ha chiesto conferma di questi dati sollecitando ulteriori aggiornamenti e il commissario che ha preceduto Occhiuto si è riservato di trasmettere una relazione. Il Tavolo ha comunque ricordato le autorizzazioni concesse «da anni» per le assunzioni. Quelle che ancora oggi «non risulterebbero effettuate o risulterebbero in grande ritardo attuativo».

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    La sede dell’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza

    Si tratta di valutazioni che emergono dalla versione integrale, depositata agli atti, della requisitoria del Procuratore regionale della Corte dei conti. Che ha anche raccolto ulteriori dati, concludendo che l’impatto delle spese complessive legate al Covid nelle Asp e nelle Ao calabresi, almeno stando a quanto comunicato alla magistratura contabile a metà del 2021, è stato di circa 14 milioni di euro.

    Il caso Belcastro

    In questo periodo alla guida del dipartimento Salute della Regione si sono avvicendati diversi manager. C’è stato prima Antonio Balcastro, nominato da Mario Oliverio a dicembre del 2018 e rimasto in carica fino ai primi mesi dell’era Santelli. La presidente poi prematuramente scomparsa lo scaricò ai microfoni di Report, dopo il caso dei tamponi preferenziali a Villa Torano, dichiarando: «Se Belcastro ha fatto degli abusi, va verificato. Non l’ho nominato io». Poi però lo ha comunque mantenuto come «soggetto attuatore dell’emergenza Covid».

    Da Bevere alla Fantozzi

    Gli è succeduto Francesco Bevere, oggi di stanza ai piani alti della Regione Sicilia, da settembre consigliere in materia di sanità del Ministro per gli Affari regionali e le autonomie. In carica alla Cittadella dal 29 giugno 2020 al 31 marzo 2021, Bevere era stato dg di Agenas (Agenzia nazionale dei servizi sanitari regionali) e, prima ancora, del Ministero Salute. Oggi Occhiuto – dopo una reggenza di Giacomino Brancati – ha messo al suo posto Iole Fantozzi da Cosenza, che dal 2019 era commissario del Grande ospedale metropolitano di Reggio.

    Longo sostituisce il tragicomico Cotticelli 

    Fantozzi è l’unica manager rimasta in carica nonostante la girandola dei commissari innescata dal decreto Calabria che, con il primo governo Conte, ha dato il via a un supercommissariamento certamente non risolutivo come l’alleanza M5S-Lega dell’epoca preventivava. Basterà, allo scopo, solo accennare alle tragicomiche vicende di Cotticelli, che fu poi affiancato dalla mitologica Maria Crocco – forse proprio la stessa Maria che ci ha tenuti «in braccio» – e a cui, dopo un balletto poco edificante di nomi e rinunce, succedette a novembre 2020 il non indimenticabile Guido Longo.

    Le nomine 

    Era stato proprio quest’ultimo, d’intesa con l’allora facente funzioni Nino Spirlì, a nominare i commissari che attualmente guidano le Aziende calabresi: Vincenzo La Regina (Asp Cosenza), Maria Bernardi (Asp Vibo), Domenico Sperlì (Asp Crotone); Jole Fantozzi (sostituita a marzo da Gianluigi Scaffidi all’Asp di Reggio), Isabella Mastrobuono (Ao Cosenza), Giuseppe Giuliano (passato dall’Asp vibonese al “Mater Domini”), Francesco Procopio (Ao “Pugliese Ciaccio” Catanzaro). Mentre dopo la scadenza del mandato di una terna prefettizia (Luisa Latella, Franca Tancredi e Salvatore Gullì) l’Asp di Catanzaro – che come quella di Reggio era stata commissariata per infiltrazioni mafiose – è retta dal dg facente funzioni Ilario Lazzaro.

  • «Commissari alla Sanità? Clientela calabrese gestita dal Ministero»

    «Commissari alla Sanità? Clientela calabrese gestita dal Ministero»

    «I piccoli ospedali chiusi non dovrebbero essere riaperti». Suonano paradossali le parole del presidente dell’Ordine dei medici di Cosenza, Eugenio Corcioni, intervistato dal direttore de I Calabresi, Franco Pellegrini. Strane, perché arrivano nei giorni in cui alcuni presidi sanitari soppressi, compreso quello di Cariati, tornano ad essere operativi per combattere il Covid. Il virus corre e morde.

    Pandemia e sistema sanitario

    La pandemia ha trovato in Calabria un sistema sanitario in condizioni già di per sé pietose. Per due ragioni, sostiene Corcioni. Innanzitutto «un’offerta incongrua e inappropriata con ospedaletti sparsi nella nostra difficile regione». Poi «40 anni di politica distruttiva nel settore».

    Generare voti e clientele

    La medicina territoriale non se la passa benissimo quasi ovunque in Italia. Comparto strategico dove c’è ancora oggi un «marcatissimo interesse per generare voti e clientele». Corcioni, dopo la legnata, suggerisce un percorso: «Ripartire dai concorsi». Su «scala nazionale come un tempo, con 7 prove scritte e orali».

    Il Pnrr non risolverà tutti i problemi

    Il Pnrr non basta. Serve chiedersi: «quale modello assistenziale si vuole costruire, quale personale utilizzare, come organizzare? Come fare i concorsi?». Di certo la posizione di Corcioni sull’edilizia sanitaria è chiara: «Ristrutturare i piccoli nosocomi conviene a chi fa i lavori». Al contrario, pensa sia necessario costruire, e in tutta fretta, il nuovo ospedale di Cosenza: «Da ubicare vicino all’Università della Calabria, in una zona strategica e raggiungibile, perché deve servire tutta la provincia, non una sola città». Boccia, quindi, le idee di chi vuole edificare la nuova Annunziata partendo dal vecchio sito (l’ex sindaco Mario Occhiuto). E al contempo mostra una forte contrarietà verso il progetto caro al centrosinistra cosentino “stregato” dal sito di Vaglio Lise.

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    Striscioni di protesta davanti all’ospedale di Cariati (foto Alfonso Bombini)

    Sanità privata, soldi pubblici

    «Non esiste la Sanità privata in Calabria, nemmeno in Italia». Corcioni precisa: «Salvo qualcosa in alcune città come Roma e Milano e per prestazioni fuori dai Lea (Livelli essenziali di assistenza)». In realtà è una «una gestione privata ma con soldi pubblici, tutta un’altra cosa». La solita regola del capitalismo italiano, dalle Pmi alle grandi imprese: abbeverarsi alle mammelle del settore pubblico.

    Privati e famelici

    Per Corcioni il problema della sanità privata è la gestione: «Non possiamo prendercela con chi esercita un suo diritto». Semmai «la responsabilità è del pubblico che ha il potere e il dovere di programmare, individuare e controllare».
    Ma se diventa orientabile e condizionabile, soprattutto in una regione come la nostra, favorisce le grandi famiglie della sanita cosiddetta privata. Che muovono un sacco di voti.

    La girandola dei commissari alla Sanità

    Nel variegato mondo dei commissari al Piano rientro sanitario in Calabria, Corcioni opera delle distinzioni: «Quelli non eletti dal popolo e quelli osteggiati dalla politica». Si riferisce a Scura. Che non ha avuto un rapporto proprio idilliaco con l’ex presidente della Regione, Mario Oliverio. Corcioni, si capisce, salva solo Scura.
    In generale i commissari sono persone «venute quaggiù per avere una piccolo budget in pensione e una piccola carica onorifica». Il presidente dell’Ordine dei medici di Cosenza definisce il loro operato «un disastro totale». La colpa «è di chi li ha inviati». Al fondo è sempre la politica a volere che non funzioni il sistema: «Con la gestione commissariale può fare quel che vuole». Uno «sport troppo facile prendersela con persone inadeguate al ruolo». Invece, nel grande capitolo della sanità commissariata Corcioni chiama in causa il ruolo del ministero della Sanità che «ha gestito la clientela cosentina e calabrese nelle poche cose che contavano».

    E adesso? Corcioni promuove i i primi passi del neo presidente della Regione e commissario alla sanità, Roberto Occhiuto. Perché? «Ha chiesto la redistribuzione dei soldi nella conferenza Stato-Regioni, qui si decide il budget». Senza soldi non si cantano messe, ma non si fa nemmeno buona sanità.

  • Dad o non Dad? Scuola in Calabria di nuovo al bivio

    Dad o non Dad? Scuola in Calabria di nuovo al bivio

    Forse è perché ci si abitua a tutto, o forse perché abbiamo poca memoria, ma i tempi che stiamo vivendo sono – per molti aspetti – non meno difficili di quelli già affrontati nei momenti di massima recrudescenza dell’epidemia. Al netto dell’acutizzazione dello scontro tra le fazioni no/pro vax, con annesse reciproche gentilezze su morti premature, gli argomenti restano gli stessi: la capacità della sanità di reggere l’impatto del Covid e che fare con la scuola.

    Su questo tema a dominare la scena è una certa demagogia, non priva di dogmatismo, mancando invece una certa dose di buon senso. Insomma si torna in aula con la scorta di una serie di norme piuttosto macchinose e fragili, ma soprattutto con un approccio: vediamo che succede. E non pare il miglior inizio possibile.

    Occhiuto delega

    In Calabria Roberto Occhiuto si accorge finalmente che abbiamo una sanità vacillante e sulla scuola, essendo più scaltro di Spirlì che chiudeva gli istituti ogni settimana per poi farseli riaprire dai tribunali che accoglievano i ricorsi delle famiglie, annuncia che pure lui vorrebbe chiudere, ma non può. E così delega, strizzando l’occhio ai sindaci nella migliore tradizione dello schivare decisioni difficili. È partita in questo modo una specie di “fai da te” localistico, con primi cittadini e dirigenti che decidono per conto loro.

    Tra Jan Palach e don Milani

    Anche a Cosenza il sindaco Caruso ha avviato una consultazione tra i presidi della città per conoscere la situazione dei contagi e valutare assieme che fare. Subito è partita la crociata, la guerra di religione tra chi considera possibile e perfino utile un breve periodo di didattica a distanza e quanti invece annunciano di essere pronti ad immolarsi come novelli Jan Palach sull’altare della cattedra per non far ripartire la Dad.

    È tutto un fiorire di frasi e concetti cui è impossibile opporsi, considerata la loro universale solidità: «La Dad interrompe il dialogo educativo, spezza il legame docente-studente»; «La Dad acutizza le differenze sociali e discrimina i più deboli»; «La Dad impoverisce la trasmissione del sapere e la formazione del pensiero critico». E se ciò non bastasse, ecco riesumate frasi di don Milani e don Sardelli, che di scuola democratica ne capivano eccome.

    Tempi moderni

    In effetti è difficile immaginare i ragazzi di Barbiana alle prese con collegamenti a Internet e l’esperienza dell’Acquedotto Felice fatta con i tablet, ma i due preti eretici combattevano contro l’ingiustizia, non anche contro il Covid. L’impressione è che quanti sparano bordate contro la Dad guardino il mondo attraverso la stretta feritoia del loro bunker ideologico. Che accarezzino una idea di scuola in gran parte sbiadita, minacciata da tempo dal mutamento complessivo delle cose.

    I luoghi dentro cui si afferma la formazione dei ragazzi, oltre alla famiglia e alla scuola, oggi sono soprattutto i new media (ma pure i vecchi). E il tempo che gli studenti trascorrono ascoltando i prof è piccola parte rispetto a quello che passano guardando programmi spazzatura. Così la capacità di seduzione educativa dei primi è rattrappita e questo senza che la causa sia la Dad.

    Lo scrittore Daniel Pennac sul palco del Teatro Rendano di Cosenza qualche anno fa
    Lo scrittore Daniel Pennac sul palco del Teatro Rendano di Cosenza qualche anno fa

    Perfino il prof raccontato da Pennac, quello che svuotava la borsa di libri e esponeva “la vita” ai suoi studenti farebbe fatica a contrastare questi mostri. C’è davvero chi pensa che l’impoverimento educativo, l’analfabetismo funzionale che assedia le nostre comunità siano causate dalle lezioni davanti ad un monitor? Una poesia di Hikmet o una pagina di Debord sono meno affascinanti se lette in remoto?

    Invalsi, prima e dopo

    La fotografia crudele della condizione della nostra scuola ci viene ancora dai criticatissimi risultati Invalsi. Negli anni 2018/19 e 20/21 (nell’anno scolastico 2019/20 i test non vennero effettuati) ci consegnano una Calabria in coda alla qualità dell’istruzione italiana. Prendendo solo in considerazione i risultati nell’uso scritto e nella comprensione dell’Italiano, la scuola calabrese dopo l’esperienza della Dad (quindi 2020/21) arretra di quattro punti sulla media nazionale (da 191 dell’anno scolastico 19/20 a 187).

    invalsi-test
    Test Invalsi

    La situazione peggiora anche in matematica, dove nei Licei ci si attesta sui 190 punti, che scendono nei professionali a 150, mentre la media punteggio nazionale è 210. Reggono le elementari, i cui risultati sono assai simili a prima dell’avvio della didattica a distanza, ma la condizione precipita marciando verso la maturità. Il dato maggiormente preoccupante è l’aumento della dispersione scolastica, che dopo la Dad riguarda circa un quinto degli studenti. Al netto di quanto siano adeguati i metodi di rilevamento Invalsi, resta l’immagine di un Paese diviso, senza che si intravedano strategie utili a rinsaldarne i destini attraverso la scuola.

    Dad, buoni propositi e ipocrisia

    La Dad dunque è il demonio? Sarebbe troppo facile liquidare una problematica così complessa cercando di banalizzarne la soluzione. La pandemia si è abbattuta come un maglio su ogni espressione della società, non risparmiando la scuola, ovviamente. Ma cosa sarebbe accaduto se una epidemia come quella che stiamo vivendo si fosse manifestata prima della diffusione capillare di dispositivi di collegamento a distanza? Semplicemente avremmo davvero chiuso le scuole, che invece con la Dad hanno tenuto vivo il senso di comunità scolastica e resistito al rischio di una vera e totale disfatta educativa. Senza la Dad, il disastro sociale sarebbe stato immane.

    Intanto nel nulla sono finiti, prevedibilmente, i buoni propositi che avevano accompagnato la chiusura del passato anno scolastico: lo smantellamento delle aule pollaio e il potenziamento delle risorse destinate all’istruzione. La scuola resta luogo di potenziale contagio con aule piccole e sovraffollate e tra chi esalta i docenti pronti a fare scuola «in qualunque condizione» come fanti sul Piave a fermare l’invasore e chi immagina tamponi a tappeto a vincere è l’ipocrisia di quanti raccontano che la scuola è una priorità nazionale. La scuola è solo un campo di battaglia.

  • L’autismo è un pianeta ignoto per le istituzioni calabresi

    L’autismo è un pianeta ignoto per le istituzioni calabresi

    Dopo la colazione con tre biscotti della sua marca preferita e un bicchiere di latte riempito fino all’orlo, Lorenzo vorrebbe andare al cinema. Mentre suo fratello si veste per non arrivare tardi a scuola, lui rimane in pigiama sul divano a guardare cartoni animati di cui conosce a memoria ogni battuta. I suoi coetanei sono in classe e lui riempie quel tempo vuoto di richieste bizzarre, domande difficilissime e pensieri solitari, alcuni lo fanno sorridere altri lo immalinconiscono fino a farlo piangere. Lorenzo è un ragazzo autistico, di quelli che lo guardi e dici «ma sembra normale!» in una società in cui l’etichetta deve sempre accompagnare un giudizio. Lorenzo è un normalissimo ragazzo autistico ormai maggiorenne.

    Lorenzo era un genio della matematica

    A lui, nel pomeriggio, piace andare in giro. Sarebbe bello se lo facesse con i ragazzi della sua età, ma non ha amici. Soltanto suo nonno vuole uscire con lui e nonostante l’età e gli acciacchi vanno su e giù insieme, a guardare i treni che arrivano alla stazione o a leggere una per una e poi daccapo tutte le offerte esposte all’ingresso del supermercato. Lorenzo era un genio in matematica. Alle scuole elementari davanti alla porta della sua aula si formava sempre un capannello di curiosi che voleva assistere alle sue performance: risolveva le espressioni algebriche a mente, rimaneva immobile, osservava quei numeri scritti sulla lavagna e poi diceva: «50. Fa 50!». Ed era esatto, e tutti applaudivano e lui si tappava le orecchie perché Lorenzo odia il rumore degli applausi.

    Un superlativo Dustin Hoffman interpreta un autistico nel film “Rain man”
    Un ragazzone che trascorre tante ore da solo

    Poi la matematica è scivolata via, insieme alla passione per la scrittura, per la lettura delle storie, alla meticolosità nel disegno, all’amore per il pianoforte. Era un bambino pieno di talento, adesso è un ragazzone che trascorre tante, troppe ore da solo e che a scuola non ci va quasi più. Perché? Perché non è facile comunicare con lui se non si è ha ben chiaro il suo “funzionamento”, perché è cresciuto e intorno a lui sono cresciuti i limiti e le barriere mentali.

    A partire dall’asilo ha cambiato un insegnante di sostegno ogni anno, ha provato a fare equitazione, nuoto, a unirsi a gruppi di preghiera, di artigianato, di trekking, non c’è nulla che i suoi genitori non abbiano tentato per regalargli una vita sociale ma non è servito e oggi, sulla soglia dell’età adulta, a tenere compagnia a Lorenzo – oltre ai suoi familiari – ci sono solo educatori a pagamento e qualche ora di svago in un centro diurno per persone con disabilità.

    Le mille sfumature dell’autismo

    La vita di Lorenzo è come un vestito che si potrebbe incollare così com’è al volto di molti altri ragazzi autistici, perché cambiando scenario e città la situazione rimane simile. Solitudine e interminabili giornate da strutturare, famiglie sfasciate, madri e padri esausti che hanno dovuto mettere da parte tutto, spesso anche il lavoro, per dedicarsi ai loro figli. L’autismo include moltissime sfumature, ci sono persone non verbali e persone molto loquaci, ma è comune la difficoltà nelle relazioni e l’assenza quasi totale di supporto alle famiglie, con l’adolescenza e l’età adulta tutto diventa esponenzialmente più complicato.

    La felicità di stare insieme agli altri

    «Ha mai visto un ragazzo autistico che va a mangiare una pizza con gli amici?». Angela Villani, presidente dell’associazione “Il volo delle farfalle” di Reggio Calabria evita giri di parole e va dritta al punto. «I nostri figli crescono senza la gioia di condividere qualcosa con i loro coetanei. La mancanza di socialità è un grande vuoto nella loro vita. Noi genitori facciamo il possibile, chi può spende molti soldi per permettergli di fare sport o altre attività, ma c’è qualcosa che nessuno di noi può comprare: la felicità di stare insieme agli altri». E gli interrogativi di un genitore sono lame affilatissime che inchiodano la politica e le amministrazioni, a partire da quelle locali.

    Servono più figure specializzate

    «Tutte le vite sono uguali? E allora perché i nostri figli devono rimanere isolati? Questa è la peggiore delle discriminazioni». C’è una soluzione? «La politica regionale deve investire sul capitale umano, deve farsi interprete dei bisogni di chi non ha voce. I ragazzi autistici desiderano stare con gli altri, ma hanno certamente bisogno di “mediatori” che li aiutino a rapportarsi nella maniera corretta, per questo c’è bisogno in tutti gli ambienti sociali di figure specializzate che creino la base per costruire i rapporti».

    Il futuro di un figlio

    Una prospettiva che per un attimo illumina lo sguardo, ma l’ottimismo è un lampo negli occhi di questi genitori. «Come vedo il futuro di mio figlio? Non riesco a vederlo – sospira Villani -. Dobbiamo lottare per il diritto alle cure, abbiamo appena vinto una battaglia per avere il rimborso dei soldi per le terapie. Siamo ancora a questo punto, come potrei riuscire a vedere oltre?». E invece guardare oltre è necessario, lo sostiene Enrico Mignolo dell’associazione “Io Autentico” di Vibo Valentia. «Per i nostri figli dobbiamo pretendere molto di più dei centri diurni, di strutture in cui fare terapia. I contesti esclusivi sono escludenti, dobbiamo invece educare i nostri contesti ad accogliere i ragazzi con autismo, solo così avremo un cambiamento reale e una prospettiva diversa e duratura».

    Le attività di Io autentico prevedono forme di socializzazione legate anche al lavoro
    Costretti a mettersi in gioco

    Io Autentico ha avviato un progetto che mette in pratica tutto questo, si chiama “Aut Out” e coinvolge ragazzi con autismo e a sviluppo tipico che, divisi in piccoli gruppi, svolgono attività di vario tipo. Per esempio durante le feste natalizie hanno confezionato panettoni e li hanno consegnati a domicilio.

    «Abbiamo buttato questi ragazzi fuori di casa – sorride Mignolo – e li abbiamo costretti a mettersi in gioco per conquistare autonomie personali e autonomie sociali che sono indispensabili per il loro futuro. Non è stato facile, lo abbiamo fatto a nostre spese, ci sono stati e ci saranno momenti complicati, ma abbiamo ottenuto grandissimi risultati. Prima venivano visti come “gli autistici”, quelli strani. Adesso abbiamo educato il contesto, lo abbiamo abituato alla nostra presenza e a non mostrarsi diffidente. Domani potremmo abituarli a vedere i nostri figli nella sala di un ristorante sparecchiare i tavoli o lavorare in altri settori in cui si possano sentire a loro agio».

    Il contesto crea la disabilità

    Una buona pratica da replicare, ma il primo obiettivo deve essere «un cambio di paradigma» dice Paola Giuliani, componente del comitato “Uniti per l’autismo Calabria” che racchiude tutte le associazioni di famiglie di bambini e ragazzi con autismo. «I nostri figli non devono restare chiusi in casa e l’alternativa non possono essere soltanto i centri diurni. Questi ragazzi hanno il diritto di vivere nei contesti in cui vivono i loro coetanei, di fare quello che fanno i loro coetanei, ovviamente affiancati da persone formate, educatori. Simone, mio figlio, non è un problema. Il problema semmai è il contesto che non lo accoglie e non lo include: è il contesto che crea la disabilità. Chi come me è madre di un ragazzo che ha superato i 18 anni sa che quando si oltrepassa questa tappa tutto diventa ulteriormente complicato».

    Le mamme rinunciano a lavorare, a vivere

    «Con un figlio adulto perdi la forza, le energie, la speranza  – continua Paola Giuliani – che qualcosa possa ancora cambiare, sopraggiunge la rassegnazione. Spesso le scuole superiori non sono attrezzate e pronte, non hanno personale specializzato e allora inducono all’abbandono scolastico, ti privano di fatto del diritto allo studio. Rinunciare alla scuola significa ritrovarsi ad avere una giornata vuota e sappiamo tutti quanto è importante per le persone autistiche strutturare i tempi perché altrimenti l’ansia e la frustrazione prendono il sopravvento».

    Tutto questo ha una ricaduta sulle famiglie che da sole si trovano a dover gestire ogni difficoltà. E allora? «E allora le mamme – quasi sempre loro – rinunciano a lavorare, a uscire, a vivere. L’unico appiglio è pagare un educatore che per qualche ora può darti respiro e consentirti di andare a fare la spesa o una piega dal parrucchiere. È inutile parlare del “dopo di noi”, parliamo del “durante”, parliamo di quello che si può fare per migliorare la qualità della vita dei nostri figli e quindi la nostra».

    Siamo indietro culturalmente

    Il territorio regionale è un deserto, conferma Alfonso Ciriaco dell’associazione “Oltre l’autismo” di Catanzaro. «Gli unici svaghi non possono essere logopedia e psicomotricità per i ragazzi autistici. Mancano le opportunità di socializzazione, ma soprattutto siamo indietro culturalmente, l’autismo è un pianeta sconosciuto e anche le amministrazioni comunali, nonostante la buona volontà, non conoscono le esigenze delle famiglie».

    Certi momenti la desolazione è devastante

    Bisogna sempre mettere insieme tutta la forza di cui si è capaci e continuare a lottare per garantire una qualità della vita dignitosa ai propri figli, lo sa bene Simona Laprovitera dell’associazione “Dimmi A” di Scalea. «Mio figlio Biagio ha 19 anni ed è un ragazzo molto sociale. Gli piace tanto stare insieme agli altri, ma c’è un problema: non ha coetanei con cui possa uscire e trascorrere del tempo. E quindi… io pago per garantirgli questa piccola felicità. In alcuni momenti la desolazione è devastante, noi genitori dobbiamo farci carico di tutto e augurarci di stare bene per continuare a farlo».

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    I palloncini blu, simbolo della giornata della consapevolezza sull’autismo

    Ma lamentarsi non serve, bisogna anche essere propositivi. Pensare ad esempio di coinvolgere attività commerciali, aziende, cooperative, onlus affinché mettano a disposizione piccole opportunità di formazione e occupazione, sulla scorta di esperimenti che in altre parti d’Italia stanno funzionando, come ad esempio il progetto I Bambini delle fate (www.ibambinidellefate.it).

    Valorizzare le abilità di questi ragazzi

    «Biagio frequenta l’Istituto alberghiero – spiega Laprovitera – in estate dà una mano nel nostro piccolo albergo, si occupa di apparecchiare i tavoli per la colazione e per il pranzo. Piccole conquiste di autonomia che potrebbero essere un giorno la base di un’occupazione che gli consenta di vivere dignitosamente». Simona ha le idee chiare su come procedere, per suo figlio e per tutti gli altri: «Bisogna individuare le abilità di questi ragazzi e insistere su quelle per costruirci intorno un lavoro. È su questo che è necessario impegnarsi e investire. Sappiamo tutti quanto i ragazzi con autismo abbiano un’eccellente memoria, siano metodici e precisi. Questi sono punti di forza da sfruttare. Quante biblioteche ci sono, anche nelle scuole, che devono essere riordinate? Ecco si potrebbe pensare a microprogetti che coinvolgano i nostri ragazzi. Farebbero un ottimo lavoro e si sentirebbero utili e integrati».

    Il cinismo della burocrazia

    Sembra fattibile, ma questi genitori conoscono bene il cinismo della burocrazia che smorza ogni entusiasmo. «Chiedere è sfiancante, lottare per affermare i diritti è logorante, come biasimare quelle madri e quei padri che a un certo punto alzano le braccia, si arrendono. Ogni genitore vuole il meglio per suo figlio, a prescindere dalla personalità o dai suoi limiti. E allora perché noi dovremmo accontentarci di dar loro solo delle briciole?».