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[caption id="attachment_6266" align="aligncenter" width="696"]cosenza-colta-accogliente-non-per-i-viaggiatori La statua del filosofo Bernardino Telesio a Cosenza[/caption]

La storia dei luoghi è fatta dagli uomini e dalle donne che li hanno abitati, dalla loro passione, dall’impegno, dal coraggio di imprimere la spinta verso il cambiamento.
Gli articoli che sono racchiusi in questa sezione del giornale raccontano queste storie. Parlano di personaggi cui spesso è intitolata una strada o un edificio, ma che nella memoria reale della società sono nomi legati a tempi lontani, di cui si è smarrita l’importanza, di cui qualche volta si ignora perfino il contributo alla costruzione di una comunità.

Si tratta di un lavoro storiografico che non perde di vista la contemporaneità, perché i mutamenti del presente sono il frutto di ciò che è venuto prima.

L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani, committente di questo progetto, è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Eugene Gaudio, un cosentino ventimila leghe sotto i mari

    Eugene Gaudio, un cosentino ventimila leghe sotto i mari

    Lì dove finanche la potenza dell’oceano aveva fallito, riuscì una banale appendicite mal curata. E così, l’1 agosto del 1920, Hollywood si ritrovò a piangere l’ancora 33enne Eugene Gaudio. Non era il suo vero nome, ma l’americanizzazione – dopo lo sbarco nel nuovo continente – di quello ricevuto alla nascita dai genitori Francesco Gaudio e Marietta Severini a Cosenza: Eugenio. Anche suo fratello aveva fatto la stessa cosa quando, insieme ad Eugene, avevano solcato l’Atlantico in cerca di fortuna. Da Gaetano Antonio si era trasformato nel più yankee Tony Gaudio. Non sapevano ancora che il loro cognome sarebbe entrato nella Storia del cinema.

    Eugene e Tony Gaudio, da Cosenza agli Usa

    Stabilimento-Gaudio-Cosenza-200x300Eugene e Tony Gaudio erano nati rispettivamente nel 1886 e nel 1883 per poi crescere a pane e fotografia tra le vie del centro storico di Cosenza. Il fratello maggiore, Raffaele, era già da tempo tra i professionisti più affermati della città in questo campo, con tanto di titolo di Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia ottenuto per i suoi meriti sul lavoro.
    Fu proprio nei laboratori di Raffaele Gaudio in via Sertorio Quattromani e, in seguito, su corso Telesio che Eugene e Tony appresero a cavallo tra ‘800 e ‘900 i primi rudimenti dell’arte “inventata” da Joseph Nicéphore Niépce.
    Ma c’era un’altra invenzione che, più di ogni altra al mondo, sembrava attrarre i due “piccoli” di casa Gaudio. Anche lì c’entravano dei fratelli, solo che erano francesi: Auguste e Luis Lumière. Il loro cinematografo era la novità del momento, il presente, ma da subito fu chiaro che avrebbe rappresentato anche il futuro della messa in scena. E, come per molte altre cose, l’America sembrava la terra promessa dove realizzare i propri sogni. Anche (e soprattutto) quelli da imprimere su pellicola e proiettare su uno schermo.

    Il cinema dei pionieri

    Fu così che Eugene e Tony Gaudio, come tanti altri in quegli anni, si imbarcarono su un piroscafo diretti a Ellis Island. Hollywood non era ancora quella che avremmo imparato presto a conoscere e anche sull’East Coast erano parecchi i cinematografari. Erano gli anni dei pionieri del grande schermo. L’epoca d’oro in cui – racconterà in un’intervista del 1933 proprio Tony – «non c’erano costosi staff di sceneggiatori… registi, produttori, cameramen, e persino il garzone dell’ufficio, suggerivano storie destinate a diventare dei film». Quella in cui «gli attori principali di ogni studio erano al tempo stesso falegnami, pittori, scenografi, addetti alla sicurezza, nonché le star dei loro film».

    new-york-1910
    Angolo tra la 5th Avenue e la 42nd Street (New York, 1910)

    Il più “artista” tra i due emigrati cosentini era proprio Tony – complici gli studi a Roma all’Istituto d’Arte, appunto, e alcuni corti girati per la torinese Ambrosio Film a inizio secolo – ma Eugene, seppur più giovane e inesperto, non era da meno. Grazie alle loro capacità trovare lavoro fu semplice e veloce. Agli impieghi nelle agenzie fotografiche seguirono presto quelli per le prime case di produzione cinematografiche: quella di A. L. Simpson; i Vitagraph Studios; la Life Photo Film Corporation, l’Independent Moving Pictures, con le sue dive come Mary Pickford.

    Dall’East Coast alla West Coast

    È proprio alla IMP che Tony ed Eugene Gaudio iniziano a farsi davvero un nome, il primo come capo fotografo (e autore di sceneggiature), l’altro come supervisore del laboratorio. Tony inizia a viaggiare tra l’East Coast e la West Coast, Eugene accumula successi professionali a New York lavorando per la Rex Factories e la Commercial Motion Pictures Company. Poi nel 1916 i fratelli cosentini si trasferiscono definitivamente in quella California che somiglia sempre più alla Mecca della settima arte. Eugene lo assume la neonata Universal, ma poco dopo prende servizio con Tony alla Metro. Pochi anni dopo, nel ’24, la casa si unirà ad altre due entrando nell’immaginario collettivo grazie al ruggito del leone che introdurrà per i decenni a seguire ogni pellicola della Metro Goldwin Mayer.

    Lion of Metro-Goldwyn-Mayer, 1929 (b/w photo)
    Operatori della MGM filmano il celebre leone che introduce i film prodotti dalla casa hollywoodiana

    Eugene Gaudio, il mago del chiaroscuro

    Eugene, che per l’antenata della MGM fa il direttore della fotografia, è balzato agli onori delle cronache già un anno prima del suo arrivo ad Hollywood, nel 1915, grazie ai riuscitissimi chiaroscuri in The House of Fear del regista Stuart Paton. È lo stesso anno in cui, insieme ad altri 14, fonda la American Society of Cinematographers. La società ancora oggi accoglie tra i suoi membri  direttori della fotografia e tecnici degli effetti speciali che hanno saputo distinguersi nell’industria cinematografica, compreso un calabrese da Oscar come Mauro Fiore. Ma è il 1919 l’anno della sua consacrazione. E anche l’ultimo di cui vedrà la fine.

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    La locandina di Out of the fog

    A portargli le lodi delle cronache culturali dell’epoca sono soprattutto due film diretti da Albert Capellani. Il primo, The Red Lantern, gli dà modo di mostrare tutto il suo talento con le luci durante riprese che vedono coinvolte fino a 800 comparse in contemporanea. Il secondo, Out of The Fog, lo consegna alla storia come – scriverà la stampa di quegli anni – «il primo cameraman a fotografare con successo una nebbia». Eugene Gaudio è ormai, riporta il settimanale newyorkese The Leader-Observer, «uno dei maghi del chiaroscuro» e lo conferma in pellicole come The Man Who Stayed at Home o The Notorius Mrs. Sands (1920), presente nel catalogo dei film muti della Biblioteca del Congresso di Washington.

    Ventimila leghe sotto i mari

    La pietra miliare della sua carriera, però, è Ventimila leghe sotto i mari. Le riprese sono lunghe, il film arriva in sala nel 1916. Si tratta del primo lungometraggio ispirato al celebre romanzo di Jules Verne, anche se la sceneggiatura pesca negli altri due libri dello scrittore nantese sulle gesta del Capitano Nemo a bordo del sommergibile Nautilus. I costi della pellicola – a seconda dei resoconti – superano i 200mila dollari o sfiorano addirittura il mezzo milione, facendone uno dei primi kolossal della storia del cinema. Gli incassi non saranno altrettanto sostanziosi. Eppure 20.000 Leagues Under The Sea non resta negli annali per il flop in sala. Lo fa perché è il primo lungometraggio di sempre con riprese sottomarine ed effetti speciali incredibili per l’epoca. Per girare le gesta dell’equipaggio del Nautilus Eugene Gaudio mette a repentaglio la sua stessa vita.

    Il set del film sono le Bahamas, scelte dalle produttrici Universal Studios e Williamson Submarine Film Corporation per la trasparenza delle loro acque. La WSFC è la casa di John Ernest Williamson, che insieme a suo fratello George, ha appena inventato la photosphere. È una sfera di metallo da oltre 4 tonnellate, con un oblò davanti e un tubo sopra che la collega a una barca in superficie e la rifornisce dell’ossigeno necessario alla sopravvivenza del cameraman. Ma mentre Eugene Gaudio riprende l’attacco di uno squalo gigante dalle viscere dell’Atlantico qualcosa va storto. È lo stesso cosentino a ripercorrere quei momenti in un’intervista al New York Tribune.

    Eugene Gaudio e l’incidente durante le riprese

    «Il braccio telescopico con cui ero stato calato si era rotto nei pressi della chiatta quando la camera d’acciaio dentro la quale lavoravo colpì un cumulo di sabbia e vi si conficcò. Trainata dal nostro yacht, la chiatta si mosse, piegando il braccio telescopico al punto tale che tutti i tubi che convogliavano l’ossigeno finirono schiacciati, privandomi dell’aria. Sigillato in quella bara marina, telefonai freneticamente in superficie fornendo informazioni sulla mia situazione».

    Ma la barca si trova quasi venti metri più su e la telefonata risolve poco. I soccorritori non arrivano. Peggio: durante le manovre per disincagliare la photoshere e sostituire il collegamento tra Eugene Gaudio e il resto della troupe il braccio telescopico da cambiare si rompe definitivamente. Dal tubo che doveva portare ossigeno adesso entra l’oceano.

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    Un’illustrazione d’epoca mostra il funzionamento dell’invenzione dei fratelli Williamson

    È ancora il cosentino a raccontare il seguito: «La mia unica speranza era quella di uscire da quella camera prima che si riempisse d’acqua. Non c’era alcuna scala. Allora mi arrampicai all’interno di quel camino d’acciaio, aggrappandomi alle sue giunture, mentre l’acqua mi respingeva indietro con forza crescente. Ne ho ingoiato ansimando mentre cercavo di respirare, lottando lungo quei cinquantacinque piedi (una quindicina abbondante di metri, nda) di tubo pieno di acqua di mare, finché sembrò che i miei muscoli avrebbero presto smesso di rispondere ai miei frenetici sforzi».

    Nove vite

    Quando dall’estremità in superficie del tubo sbuca tra le onde la testa insanguinata di Eugene sulla barca hanno perso ormai le speranze. Ma il direttore della fotografia è ancora vivo, sebbene svenga pochi istanti dopo per lo sforzo immane compiuto in assenza d’aria.
    «Abbiamo lavorato come delle furie, ma non ci aspettavamo di vederti vivo quando ti abbiamo tirato su: hai sicuramente nove vite, come un gatto», gli dirà il regista Paton vedendolo riprendersi dopo la disavventura sottomarina.

    Troupe e cast di “20.000 Leagues Under The Sea”: Eugene Gaudio è l’ultimo in alto a destra

    Se davvero erano nove, quella rischiata alle Bahamas per Eugene Gaudio è l’ultima vita a disposizione.
    L’Oscar non esiste ancora, ma i risultati ottenuti con Ventimila leghe sotto i mari gli portano premi e apprezzamenti da tutti gli addetti ai lavori. Gli resta poco tempo per goderseli però. Nell’estate del 1920 un attacco di appendicite acuta lo porta in ospedale quando ormai è già troppo tardi. La peritonite lo uccide il primo agosto, quando ha ancora soltanto 33 anni. Alla notizia del decesso la diva Alla Nazimova – protagonista di più film con Eugene Gaudio alla fotografia – infrangerà la regola che la vedeva sempre assente alle première delle pellicole di cui era protagonista. Invita centinaia di colleghi all’anteprima di Madame Peacock (1920) all’Hollywood Theatre e dona l’intero incasso dell’evento alla vedova del cosentino, Vincenzina Pietropaolo, anche lei calabrese emigrata da Amantea.

    Il “fotografo violinista”

    E Tony Gaudio, il fratello di Eugene? Sarà il primo premio Oscar italiano qualche anno dopo, da direttore della fotografia di Avorio nero (1937). Otterrà anche altre cinque nominations agli Academy Awards durante una carriera che lo consacra tra gli indimenticabili della Settima arte. A lui si devono innovazioni tecniche come “l’effetto notte”, quella nuit américaine celebrata decenni dopo da Truffaut nel suo più sentito e famoso omaggio al mondo del cinema d’oltreoceano. Ma anche dispositivi per la messa a fuoco, tecniche di utilizzo delle luci, le prime riprese in Technicolor.

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    Eugene e Tony Gaudio

    Questa però è un’altra storia, andata avanti fino al 1951, trentuno anni dopo la morte del fratello Eugene. Quello che – come scrisse nel 1922 The American Cinematographer – «guardava la propria macchina da presa come un violinista guarda il suo strumento, con tenerezza e affetto».

  • Luigi Fera: il primo superbig della politica calabrese

    Luigi Fera: il primo superbig della politica calabrese

    Un predestinato dallo strano destino. Luigi Fera è, con tutta probabilità, il politico cosentino di maggior rilievo dell’età liberale.
    Tuttavia, ha subito i capricci di una toponomastica un po’ disordinata: già intestatario, per quasi un cinquantennio, della piazza con cui termina Corso Mazzini, è ora titolare dell’ex Corso d’Italia, la strada che porta dalla ex Piazza Fera al Tribunale di Cosenza.
    Questo cambiamento è il prodotto di una decisione urbanistica unica: l’intestazione di una piazza a un vivo, qual era a inizio millennio il mecenate Domenico Bilotti.
    Pochi ricordano che Fera ha comunque lasciato qualche impronta sulla città: il primo piano regolatore e il vecchio palazzo delle Poste, un esempio bello (e poco valorizzato) di architettura di età giolittiana.
    Ovviamente i meriti di Fera non si fermano qui.

    La vecchia piazza Fera

    Un notabile predestinato

    Luigi Fera è stato il primo politico calabrese ad avere ruoli ministeriali di spicco e a mantenerli a lungo. Dopo di lui avrebbero fatto meglio, durante il fascismo, Michele Bianchi e, dopo, Riccardo Misasi e Giacomo Mancini.
    Una carriera così solida e forte non si costruisce per caso né per soli meriti. Contano tantissimo il contesto familiare e l’appartenenza sociale.
    Ciò vale anche per Fera, che nasce a Cellara, un borgo tra il Savuto e la Sila, il 12 giugno 1868 nella classica buona famiglia, almeno secondo gli standard dell’epoca.
    Infatti, suo papà Michele è medico (una stimmata del notabilato meridionale più autentico), professore di Scienze naturali al Liceo Telesio e presidente del Comizio agrario cosentino. Sua madre, Rachele Crocco, proviene da una famiglia di proprietari.
    Il giovane Luigi frequenta il Telesio, in una classe piuttosto privilegiata, dove divide i banchi con Pasquale Rossi e Nicola Serra, altri due futuri big della storia contemporanea calabrese.
    I legami col notabilato non finiscono qui: in una fase importante della sua carriera, Fera incrocerà altre due famiglie che contano, i Morelli di Rogliano e i Quintieri di Carolei, nel contesto piccante di uno scandalo d’epoca. Ma andiamo con ordine.

    Luigi Fera avvocato rampante

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    Luigi Fera

    Luigi Fera sale con zelo tutti i gradini della carriera dei notabili. Finito il Liceo, si iscrive all’Università di Napoli, dove frequenta Giurisprudenza e Filosofia.
    È allievo, piuttosto bravo, di Giovanni Bovio e Filippo Masci e ama il giornalismo: non a caso è intimo di Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, fondatori e cervelli de Il Mattino.
    Una volta laureato, Fera torna a Cosenza. Prima (1892-1893) insegna Filosofia al Telesio e poi si dà all’avvocatura penale. Per non farsi mancare niente, aderisce alla loggia “Bruzia”. Ricapitoliamo: professore, penalista e massone. Gli ideali trampolini per la carriera politica. Che inizia dal gradino base: il municipio.
    Infatti, diventa consigliere comunale nel 1895, dopo aver redatto per un anno articoli di fuoco sul settimanale La Lotta.
    Da consigliere, dedica le sue attenzioni alla riapertura della Biblioteca Civica. Tanto impegno gli vale la nomina a segretario perpetuo dell’Accademia Cosentina. Fera riprende, inoltre, le polemiche culturali. Al riguardo, fonda con Nicola Serra e Oreste Dito il giornale Cosenza Laica, con cui dà battaglia agli ambienti cattolici più ultrà.

    Sindaco per pochi giorni

    Ricapitoliamo ancora: professore, avvocato, pubblicista, consigliere comunale e accademico cosentino. A Luigi Fera manca solo la carica di sindaco.
    Che arriva nel 1900, col rinnovo del consiglio comunale. Ma il trionfo dura pochissimo: il nuovo consiglio, squassato da faide interne e da compromessi instabili, non ha una maggioranza. Fera diventa sindaco per pochi giorni, poi deve mollare la presa.
    Ma l’appuntamento col successo vero è solo rimandato. Arriva nel 1904, grazie a uno scandalo che il notabile cosentino risolve brillantemente da avvocato.

    Morelli vs Quintieri: due casate a confronto

    Non è una storia di corna, sebbene ci vada vicino. Né un drammone shakespeariano. La contesa familiare tra i Morelli di Rogliano e i Quintieri di Carolei, ricostruita con grande efficacia dal giornalista Luigi Michele Perri nel romanzo storico Il Monocolo (Eri-Rai 2011), è una storiaccia di provincia dai contorni boccacceschi.
    I protagonisti sono Caterina Morelli, figlia unica di Donato, patriota risorgimentale e padrone politico di Rogliano, e suo marito Salvatore Quintieri, fratello minore di Angelo, imprenditore e finanziere caroleano e astro nascente della politica cosentina.
    Deputato nel 1890 e seguace di Francesco Crispi, Angelo Quintieri passa con Giovanni Giolitti nel 1891. Giusto in tempo per candidarsi alle Politiche del 1892.
    Non prima di aver stretto un accordo con Morelli, che nel frattempo è diventato senatore e gli lascia il suo collegio di Rogliano. L’alleanza tra le due famiglie è sancita dal classico matrimonio dinastico: appunto, quello tra Caterina e Salvatore.
    Proprio da questo matrimonio nasce lo scandalo, tuttora gustoso da raccontare.

    Francesco Crispi

    Il figlio della discordia

    La giovane coppia (lei poco più che quattordicenne, lui poco più che ventenne) si stabilisce a Carolei.
    Per un certo periodo, le cose sembrano filare: Salvatore ha qualche propensione extraconiugale di troppo, parrebbe, ma coccola la moglie. Il problema emerge quando non arriva il figlio, il super erede che dovrebbe fondere le casate.
    Nel tentativo di sbloccare la situazione, i due si trasferiscono a Napoli, dove si fanno visitare dal celebre medico Antonio Cardarelli. Il responso non è bellissimo per Angelo: l’infertilità sarebbe responsabilità sua, perché affetto da ipotrofia ai testicoli.
    Nel 1900, tuttavia, Caterina annuncia di essere incinta. Il bambino nasce a Napoli ed è battezzato col nome di Giovanni Donato. Ma la serenità della coppia finisce qui.
    Il piccolo ha appena sei mesi, quando Salvatore denuncia la moglie di due reati pesanti, che avrebbe commesso in alternativa l’uno all’altro: o l’adulterio o la simulazione di parto. Per difendersi, Caterina deve provare di non aver simulato il parto né di aver fatto ricorso alla fecondazione “alternativa”. E che, quindi, come tutti gli orologi rotti, anche Salvatore è in grado di azzeccare l’ora due volte al giorno.
    A questo punto, entra in scena Luigi Fera, che difende la giovane e la fa vincere, anzi stravincere. Non solo Caterina è prosciolta da ogni accusa, ma ottiene la separazione da Salvatore, che è comunque costretto a riconoscere il figlio.
    Questa brillante performance forense diventa un balzo in avanti per la carriera di Fera, che entra nelle grazie del vecchio Morelli.

    Un monumento di Donato Morelli

    Luigi Fera in Parlamento

    Donato Morelli muore nel 1902. Ma l’alleanza dinastica coi Quintieri è evaporata da tempo.
    Luigi Fera approfitta di questa rottura e si candida alle Politiche del 1904 proprio nel collegio di Rogliano, sgomberato tra l’altro anche da Angelo Fera, che ha mollato la politica un anno prima per motivi di salute.
    La competizione elettorale resta comunque uno scontro tra le due casate: i Morelli, o quel che ne resta, rappresentati da Fera, e i Quintieri che tentano di riempire la casella vuota con Luigi, il secondogenito della famiglia caroleana.
    Luigi Quintieri è un giolittiano e perciò gode del favore dei prefetti. Fera no e si candida con il Partito radicale. Ciononostante vince alla grande, anche perché i roglianesi, dopo lo scandalo, non vedono di buon occhio i Quintieri. A questo punto, il neodeputato cosentino ha la strada spianata per una carriera parlamentare brillante, che lo porta a ricoprire importanti cariche ministeriali in fasi a dir poco drammatiche: gli anni della Grande Guerra e l’ascesa del fascismo.

    Giovanni Giolitti

    Un riformista in carriera

    La parabola parlamentare (e poi ministeriale) di Luigi Fera si può definire con un aggettivo: riformista.
    Tutto il resto – il consueto trasformismo, i tentennamenti, i cambi di idee a volte repentini – fa parte senz’altro dello stile dei notabili tardo ottocenteschi. Ma è anche un comportamento quasi obbligato per i centristi laici e moderati come Fera, che rischiano di restare schiacciati tra le due nuove tendenze della politica italiana: l’allargamento del corpo elettorale, che emargina pian piano la borghesia liberale, e i partiti di massa (socialisti e popolari e poi comunisti e fascisti).
    Fera si muove con grande abilità e ottiene grossi risultati. La sua è una politica essenzialmente progressista. Ad esempio, quando promuove la costruzione della tratta ferroviaria Sibari-Crotone (1905) o quando spinge per l’approvazione della legge sulla Calabria (1906).
    Discorso simile a livello urbanistico: è sua la legge che fissa il piano regolatore che amplia il territorio di Cosenza (1912) e lo estende fin quasi dentro i casali e fino quasi a Rende.
    Di particolare rilievo, al riguardo, le polemiche con Francesco Saverio Nitti sull’assetto della proprietà fondiaria, che meritano una rapida riflessione a parte.

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    Francesco Saverio Nitti

    Nitti vs Fera: due meridionalisti a confronto

    Il dibattito tra i due big è fortissimo ed è giocato tutto in casa. Cioè nelle file del Partito radicale, da cui provengono entrambi.
    Riguarda, come anticipato, la situazione delle proprietà agricole e riflette il diverso background dei due.
    Nitti è un economista e parla da tecnocrate: il mercato, tramite libere contrattazioni tra proprietari e contadini, deve risolvere da sé il problema.
    Luigi Fera, al contrario, esprime preoccupazioni sociali e politiche: lo Stato deve intervenire con riforme opportune e deve regolare il mercato, piuttosto selvaggio in questo settore.
    Inutile dire, in questo caso, che le preoccupazioni di Fera risultano più aderenti alla realtà calabrese: sono le stesse cose che, circa quarant’anni prima, diceva Enrico Guicciardi, primo prefetto della Cosenza postunitaria, col supporto di Vincenzo Padula. Ma questa è un’altra storia. La si cita solo per far capire come in Calabria le cose fossero cambiate poco, dall’Unità alle soglie della Grande Guerra.

    Luigi Fera “conservatore”?

    Ci sono due episodi della vita politica di Luigi Fera in apparente controtendenza all’impostazione progressista: l’affossamento alla mozione di Leonida Bissolati per l’abolizione del catechismo nelle scuole elementari e l’appoggio alla conquista della Libia, promossa da Giolitti.
    Il primo, cioè l’affossamento della mozione Bissolati, fu probabilmente un tentativo di evitare la crisi che si profilava nella massoneria, a cui Fera e Bissolati appartenevano.
    La mozione Bissolati è appoggiata dal gran maestro Basilio Ferrari, che propone la censura nei confronti di tutti i deputati massoni che rifiutano l’appoggio alla mozione. Al contrario, è osteggiata da Saverio Fera, sovrano gran commendatore del Rito scozzese e pastore protestante. Luigi Fera e Giolitti provano a evitare il dibattito parlamentare per evitare due cose: la spaccatura del mondo laico e la crisi della massoneria. Non ci riescono.
    Per la guerra di Libia, è doverosa un’altra considerazione: il colonialismo, all’epoca di Fera, non è considerato un male. Anzi. Fera vede come tanti, nell’impresa nordafricana un modo per alleggerire le pressioni sociali che provengono dalle masse contadine del Sud, a cui la conquista di nuovi territori può offrire sbocchi alternativi.

    Truppe coloniali italiane in Libia nel 1912

    Luigi Fera ministro

    Una stranezza di Luigi Fera è l’atteggiamento di fronte alla guerra. Il politico calabrese è di sicuro interventista. Ma non si capisce subito bene con chi. Ovvero se con Austria e Germania o con Inghilterra e Francia.
    Ad ogni modo, in seguito all’ingresso dell’Italia in guerra, Fera fa l’ultimo salto di qualità. Diventa ministro delle Poste nei governi di Paolo Boselli e di Vittorio Emanuele Orlando. Poi, alla fine della guerra, diventa ministro di Grazia e giustizia sotto Giolitti (1919).
    Questa sequenza ministeriale è il massimo del potere e del prestigio raggiunto da un politico calabrese dall’Unità alla crisi del sistema liberale.

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    Vittorio Emanuele Orlando

    Un altro mondo

    L’ascesa politica del fascismo è l’ultima spallata a quel mondo in cui si è formato Luigi Fera. Ma il big cosentino non lo sa. O forse lo sa fin troppo, ma vede nelle squadre di Mussolini il male minore.
    Infatti, Fera appoggia i fascisti e ottiene, in parte i loro consensi nel 1921, quando si candida e risulta eletto per l’ultima volta. Per lui i comunisti sono il vero pericolo, a cui i fascisti si limitano a reagire. Di più: Fera non dispera in una successiva evoluzione democratica del movimento di Mussolini.
    Tuttavia, la situazione precipita col delitto Matteotti (1924) e il parlamentare cosentino, che intuisce di non poter proseguire oltre la propria carriera, si ritira a vita privata.
    Rifiuta la candidatura offertagli dai fascisti e si limita a fare l’avvocato a Roma. Muore nella capitale il 9 maggio 1935, nel momento di massima forza del regime. È decisamente un altro mondo, in cui per Fera e quelli come lui non c’è più posto.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Nicola Serra, un big socialista per tre generazioni

    Nicola Serra, un big socialista per tre generazioni

    La dedica di una strada importante nel centro di Cosenza, il titolo altisonante (e un po’ vintage) di antifascista, ma soprattutto il ruolo di sottosegretario alla Marina nel governo Facta del 1922, pochissimo prima dell’inizio del Ventennio. Non male per un socialista come Nicola Serra, partito come politico “contro”, anche con una certa determinazione.
    Ma il “contro”, nel suo caso, vale fino a un certo punto: Serra è uno di quei notabili che, prima o poi, emergono. Il che non si può dire di altri omonimi del Nostro, notabili o non.
    Ad esempio, non si può dire per Antonio Serra, studioso cosentino d’età barocca e padre dell’economia moderna, che muore in carcere, a dispetto di meriti non proprio leggeri. Né di un altro Nicola Serra, un giovane partigiano ligure morto di stenti a Mauthausen nel 1944.
    Ma torniamo al Serra sottosegretario e, soprattutto, alla sua Cosenza.

    Nicola Serra: un notabile tra due secoli

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    Nicola Serra

    Nicola Serra è un esponente tipico dell’alta borghesia postunitaria. Nasce a Cosenza il 24 maggio 1867, quindi a distanza di sicurezza dal Risorgimento e dalla sua forte carica retorica.
    Questo aspetto anagrafico non è proprio secondario: consente a lui e ai suoi coetanei una visione critica della vecchia guardia.
    Serra, figlio di Gaetano e di Vincenza Carbone, proviene da una famiglia benestante. E segue il percorso di vita tipico della classe sociale di appartenenza (o, se si preferisce, dei figli di papà): frequenta il Liceo Telesio, dove ha per compagni di classe Luigi Fera e Pasquale Rossi. Una volta conseguita la maturità, prende la laurea in Giurisprudenza a Napoli: l’ideale biglietto da visita per il notabilato cittadino.
    Infatti, prima ancora che in politica, si fa notare soprattutto nel foro, di cui diventa subito un big.

    La passione socialista

    Un altro segno di appartenenza al notabilato cosentino è l’orientamento politico, quasi sempre rigorosamente a sinistra.
    E Nicola Serra non se ne priva: infatti è un socialista convinto. A fine 1892 fonda, assieme a Pasquale Rossi il primo circolo socialista di Cosenza. E scalda i motori in vista del primo appuntamento politico importante: le Amministrative cittadine del 1893.
    Proprio per preparare il terreno, Serra, dà vita – assieme a Rossi, a Luigi Caputo e a Domenico Le Pera – a Il Domani, un settimanale di cultura e propaganda socialista.
    Ma né il circolo né il giornale riescono a darsi una linea precisa ed entrambi durano poco. Va meglio alle elezioni, dove l’avvocato prende 423 voti e risulta il quarto degli eletti: non male in una città che ha poco più di 15mila abitanti e vota poco meno della metà dei maschi maggiorenni. Il successo elettorale galvanizza i socialisti, che ricostituiscono il circolo e provano a fare un altro giornale, senza riuscirci.
    Ma non per colpa loro: i socialisti cosentini sono un gruppo di élite che pesca consensi, ma non sono radicati nella città. In più, subiscono le pressioni e le repressioni del governo, guidato dall’ex garibaldino ed ex repubblicano Francesco Crispi, che dà un giro di vite proprio agli ambienti socialisti.
    Quale migliore occasione per cacciarsi in un guaio, per fortuna non grosso?

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    Francesco Crispi

    La prima condanna e le seconde elezioni

    A rileggerle col senno del poi, certe disavventure giudiziarie sembrano incidenti creati apposta per ottenere l’aureola del martire.
    È il caso di Humanitas, il giornale socialista fondato dall’agitatore roglianese Giovanni Domanico, forse la testa più calda dei socialisti cosentini.
    Domanico, figlio di un grosso proprietario terriero, è abituato agli incidenti e alle manette. Ma non si può dire la stessa cosa di Serra, che inizia a collaborare a Humanitas nel 1894, assieme ai soliti Rossi e Caputo e a Luigi Milelli, e il primo aprile di quell’anno firma un manifesto in cui rivendica con orgoglio la propria militanza socialista.
    La provocazione funziona sin troppo: Serra finisce sotto processo e si becca una condanna per aver violato le norme di pubblica sicurezza imposte dal governo crispino.
    Forte di questa “medaglia”, stringe un accordo politico col notabile amanteano Roberto Mirabelli e si candida nella sua lista per le Amministrative del 1895.
    Prende 945 voti e rientra in Consiglio comunale assieme a Rossi. Ma le polemiche sono dietro l’angolo.

    Nicola Serra e i compagni col grembiule

    La candidatura di Mirabelli è il prodotto di una resa dei conti interna alla loggia “Bruzia-De Roberto” del Grande Oriente d’Italia, che entra in guerra contro Luigi Miceli, notabile longobardese della sinistra storica e parlamentare di lungo corso.
    A dire il vero, all’epoca negli ambienti socialisti la massoneria non è così malvista. Ad esempio, Pasquale Rossi è iscritto al Goi.
    Ma c’è chi polemizza con le scelte di Rossi e Serra. Ne è un esempio la lettera anonima pubblicata dal periodico La Vigilia, in cui l’avvocato è accusato di voler sacrificare il gruppo socialista alle proprie ambizioni. Il circolo cosentino reagisce compatto, ma la polemica sortisce comunque un suo risultato: Rossi lascia la carica di assessore comunale dopo pochi mesi.
    Tuttavia, la rielezione spiana la strada a Serra in un’altra importante istituzione cittadina: l’Accademia Cosentina, di cui l’avvocato diventa socio corrispondente nel dicembre 1895 e socio ordinario pochi mesi dopo.

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    Pasquale Rossi

    Nicola Serra in crisi col Psi

    Risalgono al 1897 le prime avvisaglie della crisi dei socialisti cosentini. Infatti, Crispi ritorna al potere e riprende le sue abituali repressioni, che polverizzano il circolo cosentino.
    Ma pure nel resto della provincia le cose non vanno benissimo, perché Giovanni Domanico subisce un’accusa infamante almeno a livello politico: sarebbe stato, nientemeno, che un confidente della polizia.
    Nicola Serra si ritrova nel mezzo della polemica. Prima, per amore di partito sostiene la candidatura di Domanico nel collegio di Rogliano alle Politiche del 21 marzo 1897. Poi, a dicembre dello stesso anno, fa parte del collegio di probiviri che espelle Domanico dal Psi.
    Il resto sono colpi di coda: nel 1899 Serra ricostituisce assieme a Rossi e a Luigi Aloe, il circolo cosentino. Poi si candida alle Amministrative del 1900 e risulta eletto assieme al solito Rossi, al giornalista Antonio Chiappetta, ad Aurelio Tocci e ad Aloe. Ma la giunta cade poco meno di un anno dopo e la città rivà alle elezioni.
    Stavolta Serra non ce la fa. Ma, forte del ruolo acquisito nel notabilato locale, cambia partito e se ne va coi radicali.

    Un notabile di sinistra

    A questo punto, è doverosa una riflessione sul ruolo di Nicola Serra nel notabilato (non solo) cosentino. Giusto per capire come certi rapporti sociali superano da sempre le appartenenze politiche.
    Un primo rapporto forte è con gli esponenti di punta della massoneria cosentina. Ci si riferisce, in particolare, a Luigi Fera, parlamentare di lungo corso nel Partito radicale e poi ministro giolittiano, e a Oreste Dito, storico e maestro venerabile della loggia Bruzia-De Roberto. Serra, nel 1898 fonda assieme ai due big in grembiule la rivista Cosenza Laica, con cui polemizza contro gli ambienti cattolici cittadini.
    Anche i legami familiari hanno il loro peso: nel 1906 Serra sposa Maria La Costa, baronessa di Malvito. Dal matrimonio nasce Lydia, che diventa la prima avvocata calabrese.

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    Lydia Toraldo Serra

    Nicola Serra e i legami coi cattolici

    Dopo essersi laureata a 23 anni a Napoli, Lydia lavora assiduamente nello studio paterno. Ha come collega un altro praticante di talento: Gennaro Cassiani, il classico ragazzo di belle speranze. Originario di Spezzano Albanese, Cassiani è nipote per parte di madre di Ambrogio Arabia, un altro principe del foro. Di orientamento cattolico-popolare, Arabia diventa sindaco di Cosenza nel 1913.
    Per Gennaro è solo questione di tempo: nel dopoguerra è uno dei primi deputati Dc e diventa sottosegretario e ministro a più riprese.
    Torniamo a Lydia, che è l’altro tassello dei legami tra Serra e il mondo cattolico. Nel 1933 la giovane avvocata sposa un altro promettente cattolico: Pasquale Toraldo, ingegnere e marchese di Tropea. Lydia segue il marito nella cittadina vibonese, dove viene ben accolta. Al punto di diventare, nell’aprile ’46, sindaca di Tropea in quota Dc.
    È la seconda sindaca della Calabria. La batte di un mese Ines Nervi Carratelli, prima cittadina di San Pietro in Amantea.

    Nicola Serra parlamentare e poi ministro

    Chi cambia partito trova un tesoro. Nicola Serra, diventato nel frattempo anche vicepresidente dell’Accademia Cosentina (1906), si candida alla Camera nel 1909.
    Il risultato non è male: 964 voti al primo turno e 1.883 al secondo. Ma non bastano e l’appuntamento è rinviato.
    Per la precisione, al 1913, quando l’avvocato prende 5.497 preferenze e diventa deputato col Partito radicale.
    Ci riprova nel 1919 e prende più voti: 5.686, che tuttavia non gli bastano per il bis. Il quale arriva due anni dopo, quando cambia collegio (non più Cosenza ma Catanzaro) e lista (l’Unione nazionale democratica, di ispirazione giolittiana), prende 19.660 voti e partecipa da “governativo” ai lavori dell’ultimo Parlamento dell’età liberale.
    Chiude la carriera come sottosegretario alla Marina mercantile nel secondo governo Facta. La sua parabola politica finisce qui.
    Già: i fascisti decidono di non aver bisogno di Serra e non lo includono nel listone coi liberali.

    Gennaro Cassiani

    Interludio: la strage di Firmo

    È il 29 gennaio 1923. Siamo a Firmo, paese arbëreshe dell’entroterra cosentino.
    Un’antica rivalità divide due gruppi di famiglie. Il primo, guidato dal sindaco e segretario del fascio Celeste Frascino, è composto da ceti emergenti, che hanno trovato nel fascismo un notevole ascensore sociale. Il secondo, invece, è composto da alcuni notabili, che – da abitudine cosentina – militano a sinistra o addirittura nel Psi.
    Tra questi due gruppi il sangue è cattivissimo e i malumori sono esasperati dalla contrapposizione fascismo-antifascismo, che sfocia in provocazioni e atti di violenza continui. Il 29 gennaio Frascino provoca di brutto l’appaltatore Angelo Feraco, che per tutta risposta gli dà un pugno in faccia e fugge.
    Il sindaco lo raggiunge, afferra la pistola e spara. Ferisce Feraco e Raffaele Lo Tufo, un contadino che passa per caso. E uccide Domenico Gramazio, un ufficiale in pensione, arrivato sul posto per aiutare Feraco.
    Da questo fattaccio scaturisce un processo durissimo, che termina con la condanna di Frascino. Tra gli accusatori, nel ruolo di avvocato di parte civile, c’è Nicola Serra.

    Nicola Serra e il fascismo

    Serra va giù durissimo, nel processo contro Frascino e accusa direttamente il fascismo che, a suo giudizio, è responsabile del clima di violenza diffuso.
    In realtà, il fascismo, subito dopo la presa del potere, inizia a scaricare i vari Frascino e tenta la pesca nel notabilato di età liberale. Chi non si espone, è cooptato e prosegue la carriera, come il deputato liberale Tommaso Arnoni, che diventa podestà di Cosenza.
    I notabili che si sono esposti, invece, finiscono sostanzialmente nel freezer. Di solito, perdono gli incarichi pubblici ma non i ruoli professionali né il prestigio sociale. È quel che capita a Serra, che continua la carriera da avvocato ma perde il ruolo di presidente dell’Accademia Cosentina.
    Tuttavia, questo notabilato riemerge nel secondo dopoguerra, spesso grazie alla mediazione della Dc, che recupera una buona fetta della classe dirigente liberale, e la fa coesistere con gli antifascisti ma anche coi fascisti meno compromessi.
    Nicola Serra non partecipa a questo recupero solo per raggiunti limiti di età.

    Luigi Facta

    Una celebrazione particolare

    Inizialmente duro col regime, Serra modera i toni. Ma comunque non cerca cariche né tessere.
    Muore a Cosenza il 22 aprile 1950 all’età importante di 83 anni.
    Quattro giorni dopo, lo ricordano in una seduta alla Camera Fausto Gullo, Gennaro Cassiani e Adolfo Quintieri, altro astro nascente della Dc cosentina.
    Classe 1887, Quintieri proviene dal mondo dell’associazionismo cattolico. Non è antifascista, ma a-fascista e, tranne per il solito giro di parentele che ammorbidisce tutto, non ha legami sostanziali con la classe dirigente liberale di cui fa parte Serra.
    Con l’ascesa di questa nuova dirigenza (e la contemporanea estinzione anagrafica di quella precedente) la politica, anche calabrese, volta pagina.
    Ma questa è un’altra storia.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Pasquale Rossi: un medico dei poveri al servizio del socialismo

    Pasquale Rossi: un medico dei poveri al servizio del socialismo

    Medico per professione, studioso per vocazione, rivoluzionario per tradizione (familiare) e missione. Pasquale Rossi è una figura forte del panorama socialista, non solo calabrese, di fine ’800, grazie a una vita intensa, anche se non proprio avventurosa, divisa tra attività politica e produzione intellettuale.
    Cultore curioso e profondo di sociologia, può essere considerato una versione italiana di Gustave Le Bon, l’iniziatore degli studi sulla psicologia di massa.
    Peccato solo che Le Bon sia stato praticamente rimosso dalle riflessioni culturali (e politiche) contemporanee. Altrimenti Pasquale Rossi avrebbe avuto di più delle consuete dediche toponomastiche.

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    Pasquale Rossi

    Pasquale Rossi, la rivoluzione in famiglia

    La dedica per eccellenza è la strada che porta all’ingresso dell’autostrada di Cosenza: la mitica via Pasquale Rossi, che i più conoscono per essere obbligati ad attraversarla quando entrano in città o ne escono.
    Il Nostro nasce a Cosenza il 12 febbraio 1867. Il cognome è piuttosto comune, molto meno le tradizioni familiari.
    È il terzo dei quattro figli di Francesco, classe 1807 e avvocato di grido, e di Cornelia Via, possidente più giovane di 25 anni del marito, tra l’altro sposato in seconde nozze.
    I Rossi sono la classica famiglia altoborghese cosentina dell’epoca, per estrazione economica e culturale e per attitudini politiche.

    Pasquale Rossi sr: il nonno carbonaro di Tessano

    Anzi, la politica fa parte della storia di famiglia: Pasquale Rossi, il nonno e omonimo di Pasquale, è stato un cospiratore antiborbonico. Maestro venerabile della vendita carbonara (l’equivalente di una loggia massonica) di Dipignano, Pasquale senior aderisce alla Repubblica Napoletana del 1799. A questo punto, la sua vicenda si intreccia con quella di Vincenzo Federici, detto il Capobianco, rivoluzionario e carbonaro di Altilia, dapprima filofrancese e poi oppositore di Gioacchino Murat.
    Federici, che finisce al patibolo nel 1813, è un raro caso di un rivoluzionario giustiziato per eccesso di zelo liberale.
    Finita anche l’esperienza napoleonica, nonno Pasquale continua a cospirare, anche in maniera piuttosto seria: la sua ultima esperienza forte avviene nei moti costituzionali del biennio 1820-21. Questi cenni dovrebbero far capire il background socio-culturale di Pasquale: sinistra altoborghese ma non fighetta, caratterizzata da un certo amore per la cultura, merce sempre più rara nelle classi politiche calabresi.

    Maria de Medeiros interpreta Eleonora Fonseca Piementel, l’eroina della Repubblica Napoletana

    L’esordio telesiano di Pasquale Rossi

    Tappa obbligata della Cosenza bene (non solo) dell’epoca: il Liceo Telesio. Secondo una certa retorica cosentina dura non solo a morire, ma persino a star male, ci sarebbe una differenza tra i “telesiani” e tutti gli altri: i primi sarebbero dei predestinati, pronti a diventare classe dirigente, gli altri, anche se più bravi no.
    Oggi non è vero: per accorgersene basta un’occhiata, anche distratta, ai curricula della Cosenza-che-conta, non pochi dei quali risultano addirittura carenti di titoli. A fine ’800, invece, è più che vero: Pasquale Rossi si diploma nel 1885, assieme a due compagni di classe destinati a carriere importanti. Cioè Nicola Serra e Luigi Fera. E scusate se è poco.
    Sembra l’identikit di un leader della sinistra contemporanea: figlio di papà con storia familiare alle spalle, studi importanti e amicizie altolocate.
    Ma nel caso di Pasquale Rossi, la differenza vera la fanno altri fattori: l’impegno e la capacità.

    Laurea e primi guai a Napoli

    Anche l’iscrizione all’Università di Napoli e la scelta della Facoltà, Medicina e Chirurgia, confermano lo stile molto cosentino di Pasquale Rossi.
    Forse è cosentina anche la passione politica. Ma, soprattutto, la propensione ai guai.
    Il Nostro studia con profitto. Ma, nel tempo libero, segue anche delle lezioni extra facoltà. Ad esempio, quelle di Silvio Spaventa, filosofo, deputato ed ex ministro dei Lavori pubblici e zio di Benedetto Croce. Oppure quelle di Giovanni Bovio, filosofo, storico del diritto e deputato repubblicano.
    Giusto una curiosità per gli amanti della musica: Bovio è anche il papà di Libero Bovio, poeta e paroliere della grande canzone napoletana. Suoi i testi di superclassici come Guapparia, Reginella, Lacreme Napuletane, ’O paese d’o sole, ’O marenaro, Zappatore e Signorinella.

    Il filosofo e politico Silvio Spaventa

    Torniamo a Pasquale Rossi, che in quegli anni si occupa poco di musica e molto di politica. Proprio a Napoli, l’aspirante medico incontra il socialismo. Infatti, fonda due circoli politici, il primo di studenti repubblicani e socialisti, il secondo di socialisti e anarchici. Con un pizzico di Calabria in più: ci si riferisce al ferroviere di Fiumefreddo Bruzio Francesco Cacozza e al cosentino Antonio Rubinacci, tipografo e poi segretario della Camera del lavoro della sua città.
    Tanta passione porta i primi guai: nel 1891 finisce in manette e subisce una condanna per aver partecipato ai disordini del Primo Maggio. Ma questo disguido non gli impedisce di laurearsi l’anno successivo col massimo dei voti. E, da buon notabile, di tornare a Cosenza.

    Medico e socialista in prima fila

    C’è una differenza tra i figli di papà di allora e quelli odierni: per molti dei primi, il socialismo o l’ultra-sinistra erano cose serie, capaci di marchiare a fuoco tutta la vita.
    Così è stato per Pasquale Rossi, che, una volta rincasato, apre un ambulatorio medico per i poveri e fonda un circolo socialista a Cosenza.
    Per la precisione, è il secondo della provincia, perché il primato cosentino spetta a Celico, dove sorge un circolo nel 1892, praticamente a ridosso della nascita del Psi.
    Ma ciò non toglie nulla al ruolo di Rossi, che nel 1893 è delegato dei due circoli al congresso di Reggio Emilia e finisce sotto l’ala di Filippo Turati. A questo punto, il Nostro si lancia alla grande, sia come intellettuale sia come politico.

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    Il leader socialista Filippo Turati

    Giornali ed elezioni

    Appena tornato dall’Emilia, Pasquale Rossi lancia due testate giornalistiche: Il Domani, un settimanale pensato per spingere i socialisti nelle elezioni suppletive di luglio 1893, e Rassegna Socialista, un mensile di alto profilo cultural-ideologico.
    Più borderline l’attività politica vera e propria. Nel 1895 Rossi gestisce un’operazione delicatissima: l’appoggio alla candidatura alla Camera del repubblicano amanteano Roberto Mirabelli contro il longobardese Luigi Miceli, ex garibaldino e supernotabile della sinistra.
    L’operazione riesce, ma ha un prezzo: l’alleanza, per le Amministrative di Cosenza, con il blocco liberaldemocratico. Quest’altra operazione è, addirittura, mediata dalla massoneria cosentina, in guerra con Miceli.
    Ma l’alleanza è innaturale e Rossi si ritrova isolato. Diventa assessore comunale ma è costretto a scegliere: o il municipio o il partito. Infatti, si dimette.
    Ma ha ruoli di primo piano nei successivi congressi regionali socialisti: quello di Paola (1896) e quello di Catanzaro (1897), a cui partecipa addirittura il mitico Andrea Costa.

    Andrea Costa, il pioniere del socialismo italiano

    La psicologia delle folle

    Il Pasquale Rossi studioso lascia almeno un’opera importante: L’animo della folla (Cosenza, 1898), che riprende e aggiorna La psicologia delle folle (1895), il superclassico di Le Bon.
    Al riguardo, è doverosa una riflessione: il socialismo italiano della seconda metà dell’Ottocento ha poco idealismo e non (ancora) molto marxismo. In compenso, è zeppo di positivismo, che è la corrente culturale egemone, almeno fino all’avvento di Gentile e Croce. Questo mix di socialismo e positivismo è tipico della sinistra dell’epoca e, per fare un esempio, condiziona anche i big successivi, a partire da Gramsci (che, non a caso, si forma a Torino, la capitale del positivismo italiano).
    Tuttavia, questo socialismo ha due caratteri particolari. È più umanitario che militante, più dialogante che rigido. Soprattutto, è aperto allo studio dell’irrazionalità.
    Che è poi il nodo centrale della psicologia delle masse, che riguarda Le Bon e il suo allievo italiano, cioè Pasquale Rossi.
    Il problema di Le Bon nella successiva storia della cultura socialista, è essenzialmente uno: le sue riflessioni non hanno alcuno sbocco “progressista”, ma si prestano davvero a tutti gli usi. E non è un caso che proprio Le Bon abbia influenzato la metamorfosi intellettuale e politica di un altro socialista, destinato a ben altra carriera: Mussolini.
    Forse anche questi motivi stanno dietro alla “rimozione” dell’intellettuale parigino dal panorama culturale Novecentesco. Una guerra tra egemonie, insomma, che ovviamente travolge i pesci più piccoli, anche se di grande spessore. Come Rossi, appunto.

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    Gustave Lo Bon

    La morte prematura di Pasquale Rossi

    Dalla fine del XIX secolo, la parabola di Pasquale Rossi è condizionata da una domanda: dove sarebbe arrivato, se non fosse morto a soli 38 anni?
    Le premesse per fare ancora molto, per lui c’erano tutte. Nel 1898 subisce un doppio processo, a Portici e a Reggio Calabria, con un’accusa particolare: aver incitato all’odio sociale nella rivista Calabria Nuova, in cui commenta i moti di Milano e la pesantissima repressione. Il rischio è grande, ma il tipo di reato (d’opinione), è un gol per un socialista.
    Che in effetti ritenta il colpaccio: una candidatura alla Camera nel 1904, che va male per un soffio. Tra una cosa e l’altra, il medico cosentino, si sposa (1898) e diventa padre cinque volte.
    Poi la morte improvvisa, a Tessano, la frazione di Dipignano da cui proveniva la sua famiglia, il 23 febbraio 1905.
    Una brusca interruzione per una vita intensa e non sempre in linea con i canoni del notabilato.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Bonaventura Zumbini: l’autodidatta che conquistò Napoli

    Bonaventura Zumbini: l’autodidatta che conquistò Napoli

    Oggi ci si ricorda di Bonaventura Zumbini con un timore un po’ prosaico: a lui è dedicata la piazza che collega il centro di Cosenza al Tribunale.
    Una zona dov’è quasi impossibile parcheggiare e, al contrario, è facilissimo beccarsi una multa.
    Zumbini, a cui è dedicata anche una scuola, è uno degli intellettuali più prestigiosi di Cosenza e del Sud a cavallo tra l’Unità d’Italia e la Prima guerra mondiale. Soprattutto, è un intellettuale che ha fatto carriera più per meriti culturali che politici.
    Cosa non facilissima nella Calabria di tutti i tempi. Ma andiamo con ordine.

    Bonaventura Zumbini: un figlio di papà con l’amore per i libri

    La biografia di Bonaventura Zumbini non è troppo diversa da quella di altri notabili meridionali della sua epoca.
    Nasce a Pietrafitta, un paesone alle porte di Cosenza, il 10 maggio 1836. È un figlio di papà di famiglia numerosa: è il primo dei sette figli di Tommaso, un facoltoso terriero, e di Maria Orlando. E, a quel che risulta, l’unico della nidiata col pallino dei libri.
    Una passione che coltiva nella biblioteca di casa. Infatti, Zumbini non frequenta le scuole ma fa la classica trafila dei precettori domestici, tipica dei rampolli della società-bene. Infatti, il suo unico titolo di studio è la laurea, conseguita a trentadue anni a Napoli (1868).

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    Bonaventura Zumbini

    Il ragazzino e il professore

    Nel 1848 Francesco de Sanctis, professore di letteratura alla Nunziatella di Napoli, è il classico intellettuale di belle speranze finito in bassa fortuna.
    Infatti, proprio in quell’anno, l’intellettuale irpinate finisce nel mirino della polizia borbonica per la partecipazione ai moti liberali al seguito di un altro intellettuale “radical”, almeno secondo i criteri dell’epoca: Luigi Settembrini.
    Quest’ultimo, avvocato mancato e letterato di grido, finisce in galera assieme ai patrioti antiborbonici. Invece de Sanctis ripara in Calabria, prima a San Marco Argentano e poi a Cervicati, dove fa il precettore a casa del barone Francesco Guzolini.
    Proprio in questo periodo, conosce il giovane Bonaventura, che ha appena quattordici anni, e resta colpito dalla sua intelligenza precoce e dalla sua erudizione, a dispetto della mancanza di titoli.
    È l’inizio di una lunga amicizia, testimoniata da un corposo epistolario.

    Intermezzo: l’odissea di de Sanctis

    A dispetto delle protezioni altolocate, de Sanctis finisce nelle maglie della polizia, che lo spedisce a Castel dell’Ovo, all’epoca temutissima galera borbonica, dove resta fino al 1853, quando re Ferdinando II lo espelle con una destinazione da cui non dovrebbe più nuocere alla monarchia delle Due Sicilie: gli Stati Uniti d’America.
    Ma il destino – o, più prosaicamente, l’equipaggio della nave su cui è imbarcato – vuole altrimenti: complice una tappa a Malta, il campano se la batte e si rifugia a Torino, che per i patrioti e i liberali è un po’ come la Parigi tra le due guerre per gli antifascisti.
    Lì si dedica alla grande alla politica e all’attività culturale, prima come mazziniano e poi come garibaldino. La conquista delle Due Sicilie apre a de Sanctis nuove prospettive: prima Garibaldi lo nomina governatore di Avellino. Subito dopo, diventa ministro della Pubblica istruzione del neonato Regno d’Italia.
    A questo punto, torniamo a Zumbini.

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    Francesco de Sanctis

    Bonaventura Zumbini: prima prof poi preside

    Mentre de Sanctis passa i suoi bravi guai e poi fa carriera, Zumbini fa l’intellettuale ricco, come dopo di lui avrebbe fatto Benedetto Croce. Studia e, soprattutto, scrive.
    Pubblica un bel po’ di articoli per Il calabrese rigenerato, l’ambiziosa rivista culturale di un altro supernotabile: Alessandro Conflenti.
    Al foglio, che vanta il primato di essere l’unico periodico non napoletano del Regno delle Due Sicilie, collaborano altri due pezzi grossi: il poeta acrese Vincenzo Julia e il nobile e intellettuale cosentino Mariano Campagna. E scusate se è poco.
    Poi Zumbini decide di mettersi in proprio e fonda La Libertà, una testata dedicata anche alle analisi socio-politiche.
    Negli anni travagliati dell’Unità, lo studioso cosentino entra nell’Accademia Cosentina, altro trampolino importante che, assieme all’amicizia di de Sanctis, si rivela fondamentale. Infatti, il neoministro nomina l’amico cosentino ispettore delle Scuole primarie del Regno.
    Poi, a partire dal 1865, Zumbini diventa prof e direttore della Scuola normale maschile di Cosenza (per capirci, l’antenata dell’attuale Liceo Lucrezia della Valle). Infine, decide di andare a Napoli per conseguire la laurea in Lettere, che ottiene a tempi di record.

    Autodidatti di successo

    A questo punto, è necessaria una riflessione sull’autodidattismo di Zumbini. Possibile che una persona come lui, coltissima ma analfabeta per lo Stato, potesse fare una carriera così notevole?
    All’epoca sì. E questo dettaglio deve far riflettere anche sul presunto analfabetismo del Sud nell’epoca preunitaria.
    In realtà, nel Regno delle Due Sicilie non è carente l’istruzione in sé ma il sistema scolastico pubblico. Detto altrimenti: le scuole sono poche, rispetto alla popolazione, ma gli alfabetizzati sono comunque di più perché, chi può, anche i “piccoloborghesi”, va dal precettore.
    Di questo aspetto curioso della società meridionale si è accorto a suo tempo lo storico Alessandro Barbero che nel suo Prigionieri dei Savoia analizza le corrispondenze dei militari borbonici e nota, anche con un po’ di meraviglia, che quello delle Due Sicilie non è in realtà un esercito di contadini analfabeti ma è pieno di artigiani, commercianti e piccoli professionisti, con un tasso di alfabetizzazione non proprio disprezzabile.
    Ciò fa presumere, come ha notato anche lo studioso Lorenzo Terzi, che i dati sull’analfabetismo meridionale al momento dell’Unità potrebbero essere falsati, perché basati solo sull’istruzione pubblica, forte al Nord, ma carente in tutto il resto del Paese.
    Come mai lo scarso interesse dei Borbone verso l’istruzione pubblica? La risposta è banale e poco retorica: l’allergia ai debiti e alle tasse della monarchia napoletana.

    Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie

    Borbone oscurantisti? No, tirchi

    I Borbone, soprattutto Ferdinando II, basano molto del loro consenso sul fisco piuttosto mite. Quindi investono poco e si indebitano poco. Al momento dell’Unità, l’ex Regno delle Due Sicilie ha le casse solide, una riserva aurea apprezzabile e, soprattutto, titoli finanziari ben quotati (ad esempio, il Neapolitan Bond). Peccato solo che tutto questo non giovi molto alla popolazione, che produce a livelli di sussistenza senza una reale prospettiva di sviluppo.
    Lo Zumbini intellettuale di carriera autodidatta non è, come sarebbe stato Croce, l’eccezione che conferma la regola. È la regola, in quel tipo di società.

    Bonaventura Zumbini accademico in carriera

    Subito dopo la laurea, Zumbini pubblica Le lezioni di letteratura del prof. Settembrini e la critica italiana, che lo fa notare positivamente, grazie anche a una recensione articolata dell’amico de Sanctis.
    Come tutti i notabili, anche il Nostro si fa tentare dalla politica e si candida alla Camera in Calabria nel 1870 ma fa un passo indietro a favore di Luigi Miceli, ex garibaldino e astro nascente della politica calabrese.
    Non demorde, invece, a livello intellettuale: nel 1874 diventa presidente dell’Accademia Cosentina, nel 1877 fa carriera all’Università di Napoli grazie all’interessamento del solito de Sanctis e di Bertrando Spaventa, fratello maggiore del ministro Silvio e zio di Benedetto Croce.
    Anche in questo caso, la carriera è “lampo”: prima ottiene la libera docenza alla Scuola di Magistero (l’antenata dell’odierna Scienza della formazione), poi azzecca il concorso a professore ordinario, infine (1878), succede a de Sanctis nella cattedra di Letteratura. Non finisce qui: il cosentino, forte di appoggi ma capace anche di farsi benvolere, fa il colpaccio e, nel 1881, diventa rettore.

    Castel dell’Ovo

    Un cosentino giramondo

    Ormai Zumbini è napoletano al cento per cento: si è stabilito a Portici ma non dimentica Cosenza, dove va di tanto in tanto.
    Soprattutto, non dimentica l’Accademia Cosentina, dove fa conferenze e presso la quale promuove, in qualità di presidente, la creazione di una biblioteca. Detto altrimenti, è anche merito suo se è esistita la Civica.
    Anche l’appuntamento con la politica, rimandato negli anni ’70 dell’Ottocento, riprende alla grande: fa parte di varie commissioni ministeriali (sua l’istituzione degli esami delle Scuole medie) e viene nominato senatore nel 1901.
    Viaggia tanto, per approfondire lo studio delle letterature straniere, in particolare quelle tedesca e inglese. Al netto di ogni altra disquisizione estetico-letteraria, si può attribuire a Zumbini una specialità accademica: la letteratura comparata.
    Muore a Portici il 21 marzo del 1816 alla ragguardevole età, per l’epoca, di ottant’anni. Uno di suoi ultimi pensieri è rivolto a Cosenza e alla sua Accademia, a cui regala la propria biblioteca. Che purtroppo, finisce in cenere durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.
    Restano di lui un busto marmoreo realizzato dallo scultore Mario Rutelli, esposto ancora nei locali dell’Accademia Cosentina, più varie dediche toponomastiche. A Cosenza, di cui si è già detto, e a Pietrafitta.
    Il minimo, per un intellettuale illustre, esponente di una élite di livello europeo. Forse l’ultima che abbia avuto Cosenza.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Lucrezia della Valle: una poetessa nella Cosenza di Telesio

    Lucrezia della Valle: una poetessa nella Cosenza di Telesio

    Di lei resta poco: la dedica di una scuola importante di Cosenza, un sonetto e qualche elemento biografico, tra l’altro non proprio preciso. Eppure, Lucrezia della Valle, una nobildonna vissuta a cavallo tra XVI e XVII secolo, vanterebbe almeno un primato (in assenza di documentazione contraria): è la prima intellettuale cosentina di cui si hanno tracce. Non proprio solide, ma pur sempre tracce. Ricostruiamole un po’.

    Lucrezia della Valle, l’enigma della nascita

    La data di nascita di Lucrezia della Valle è pressoché sconosciuta. A tentoni, si può ipotizzare che la poetessa sia venuta alla luce attorno al 1565.
    Lo si apprende da una lettera indirizzata da Sertorio Quattromani, lo zio di Lucrezia, al patrizio cosentino (e barone di Brunetto) Celsio Mollo.
    La missiva è datata 1597. In essa, il celebre letterato e presidente dell’Accademia Cosentina, invita l’amico Mollo a tranquillizzare Lucrezia, preoccupata del carattere a dir poco esuberante di suo figlio, Teseo Sambiasi, che si è ficcato in una bella rissa a Napoli. «Persuadela a non prendersi molto affanno di queste cose, che produce la fanciullezza», scrive Quattromani all’amico.
    È quanto basta per un calcolo presuntivo: se per “fanciullezza” s’intende la post adolescenza, Lucrezia all’epoca doveva avere almeno trentadue-trentatré anni per poter essere madre di un sedicenne.

    Sertorio Quattromani

    Una poetessa di buona famiglia

    Riavvolgiamo il nastro: sappiamo, da queste informazioni, che Lucrezia della Valle fa parte della Cosenza-che-conta del tardo Cinquecento.
    Sappiamo che suo zio è l’illustre accademico Sertorio Quattromani (infatti, è figlia di Giulia Quattromani, sorella minore di Sertorio, e di Sebastiano della Valle, proprietario e giurista legato ai Sanseverino di Bisignano).
    Suo marito è un altro accademico e, va da sé, nobile: Giambattista Sambiasi.
    Si apprende, da altre testimonianze, a partire da quelle contenute nell’epistolario dello zio, che Lucrezia ha una vita tutt’altro che irrequieta: è mamma di sei figli e, a parte la letteratura e gli impegni nell’Accademia Cosentina, dove è iscritta con il nome d’arte di Olimpia, non ha altre passioni.
    Insomma, la classica notabile d’epoca senza grilli per la testa ma con un amore solido per la cultura. Non propriamente un’aspirante Eleonora Fonseca Pimentel.

    Il giallo della morte

    Anche sulla morte di Lucrezia della Valle c’è un piccolo giallo. Nulla di grave, intendiamoci: riguarda solo le date.
    Al riguardo, trae in inganno proprio la ricca corrispondenza di Sertorio Quattromani con i colleghi accademici. In particolare, è fuorviante una lettera di Sertorio a Francesco Mauro, in cui il letterato piange la morte di una nipote, avvenuta nel 1602.
    L’incomprensione è acuita da un sonetto di Fabrizio Marotta, composto per consolare Sertorio della perdita di una donna di nome Olimpia. L’equivoco c’è tutto.
    Ma basta poco a dissiparlo. Innanzitutto, i due testamenti di Sertorio Quattromani. I documenti risalgono entrambi al 1603, il primo a ottobre, il secondo al 19 novembre, un mese prima della morte dell’accademico.
    In quest’ultimo è compreso un inventario della biblioteca dell’illustre critico e, soprattutto, la nomina ad erede di Lucrezia.

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    Il duomo di Cosenza, ultima dimora di Lucrezia della Valle

    Lucrezia della Valle riposa nel Duomo

    Il secondo dato toglie ogni dubbio: riguarda il luogo di sepoltura della poetessa, il Duomo di Cosenza.
    Questo dato è presente nel volume Cosenza Sacra (1933), di Cesare Minicucci. L’autore riporta anche la data precisa della morte di Lucrezia: 26 settembre 1622.
    Entrambi gli elementi, data della morte e luogo di sepoltura, tornano in I libri di un letterato calabrese. Sertorio Quattromani 1541-1603, un saggio dello storico napoletano Carlo De Frede (1999). E torna tutto il resto: cioè che la Lucrezia sepolta nel Duomo fosse proprio quella e non un’omonima.
    A questo punto, sappiamo che la poetessa ha vissuto poco meno di cinquant’anni a cavallo tra Cinque e Seicento, che è parte integrante del “generone” cosentino e milita nell’Accademia Cosentina. E poi?

    Solo una poesia per dire brava?

    Di Lucrezia della Valle resta solo un sonetto. Lo ha trascritto il giurista e storico cosentino Salvatore Spiriti nel suo Memorie degli scrittori cosentini (1750), in cui traccia una breve biografia della poetessa.
    Nelle due pagine (102-104) del suo libro dedicate alla poetessa, Spiriti tramanda varie notizie, tra cui quelle sulla produzione letteraria di della Valle, che comunque si riduce a poco. Un Canzoniere composto da quarantadue sonetti, una canzone, tre sestine, sei ballate e un capitolo dedicato all’amore di ispirazione platonica.
    Il tutto, in stile petrarchesco. Ma ci sta: da degna nipote e allieva, la Nostra si ispira molto a zio Sertorio che, guarda caso, è un patito di Petrarca.
    Comunque, Spiriti attribuisce a della Valle anche un’opera latina: De elegantiis latinae linguae melioribus scriptoribus excerpitis. Peccato solo che sia andato tutto perso, anche perché alle soglie dell’età moderna non esistono i file epub e pdf che possono dare l’eternità a tutto.

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    Il liceo Lucrezia della Valle

    Fu vera gloria?

    Ovviamente c’è chi polemizza e mette in discussione un po’ di cose. È il caso del napoletano Pietro Napoli Signorelli, che nel suo Vicende della coltura nelle due Sicilie
    (1810) mette in guardia i lettori dalle «congetture» di Spiriti su Lucrezia.
    Forse Signorelli non ha proprio tutti i torti: Spiriti, animato da orgoglio di appartenenza, cerca di riportare l’Accademia ai suoi vecchi fasti e perciò scrive le Memorie, che contengono un bel po’ di propaganda.
    Ma ciò non toglie che la poetessa cosentina resti una intellettuale di punta del Sud che scivolava (e non sempre bene) dal rinascimento al barocco. Lucrezia della Valle è stata paragonata ad altre letterate della sua epoca, come la laziale Vittoria Colonna, che appartiene alla generazione precedente.
    Al netto di qualche esagerazione retorica o di critiche postume c’è un dato, da non sottovalutare: Lucrezia della Valle è un’esponente di una élite di grande caratura, inserita a pieno titolo nelle classi colte europee. Il che, per una città come Cosenza, che a malapena tocca all’epoca i 10mila abitanti non è davvero poco.
    Un risultato notevole, che la città non avrebbe più ripetuto.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Quattromani: il padre cosentino della letteratura italiana

    Quattromani: il padre cosentino della letteratura italiana

    Nobile, benestante quindi con possibilità di studiare cose “astratte” e “inutili”. E sarebbe un modo per liquidare Sertorio Quattromani in poche battute.
    Ma oltre che ingenerosa, questa liquidazione sarebbe inutile: non spiegherebbe perché una via importante del centro storico di Cosenza è dedicata a lui. E non spiegherebbe perché questo umanista cosentino riceve ancora tanto interesse fuori dalla Calabria dagli addetti ai lavori.
    Filologo e filosofo, Quattromani ha diviso la maggior parte dei suoi 62 anni di esistenza tra la critica letteraria e la divulgazione del pensiero del suo maestro: Bernardino Telesio. E ha un altro merito: aver tolto l’ego dall’Accademia della sua città, nata come Parrasiana, diventata poi Telesiana e, solo sotto la sua gestione, Cosentina.
    Un modo per dire che l’Accademia è della città. Ma anche per affermare che i cosentini che l’avevano fondata erano una élite coi controfiocchi.

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    Il frontone dell’Accademia Cosentina

    Quattromani: un notabile del ’500

    Sertorio Quattromani non è un pioniere come Aulo Giano Parrasio. Le sue biografie, che si basano essenzialmente su un epistolario professionale degno di dieci grafomani longevi, lo raccontano come un personaggio pignolo, metodico e zelante.
    Come uno di quei professori di cui si subiscono i metodi e l’antipatia da studenti ma che non si finisce mai di ringraziare dopo.
    Non è neppure un pensatore della statura di Telesio, il primo grande rinascimentale. Anzi, tutto lascia pensare che Quattromani non abbia osato troppo anche perché schiacciato dalla mole intellettuale del filosofo cosentino. Che tra l’altro figura tra i suoi maestri e nella sua parentela.
    Notabilato e cultura: sono i primi due elementi utili per inquadrare il Nostro.

    Ritratto di Aulo Giano Parrasio

    Quattromani e la Cosenza che conta

    Come per molti notabili, anche nel caso di Quattromani le date sono incerte.
    Nasce, comunque, a Cosenza nel 1541. E vale subito la pena di spendere due paroline sulla genealogia che, per lui, fa tutt’uno con l’araldica.
    Suo padre Bartolo, feudatario della Sila Grande cosentina, è a sua volta rampollo di una famiglia di nobiltà “privilegiata” (cioè di borghesi nobilitati) originaria di Aprigliano e piena zeppa di giuristi, soprattutto notai, e vescovi. Una volta nobilitati, i Quattromani si stabiliscono a Cosenza e fanno parte in maniera stabile del Sedile, cioè il Senato cittadino. Dove siedono spesso assieme ai Telesio, con cui si imparentano. Infatti, Elisabetta D’Aquino, la mamma di Sertorio, è lontana parente di Bernardino Telesio. Ma non finisce qui: la moglie di Bernardino Telesio, nonno del filosofo, è Giovanna Quattromani.
    Fin qui, non c’è una vera differenza tra il patriziato cosentino e le altre nobiltà di provincia della Penisola, perché tutte le famiglie che “nascono” tendono a legarsi fino all’endogamia. La vera differenza è il livello culturale, decisamente alto, dell’élite bruzia dell’epoca, che si divide tra le cariche e le biblioteche e, soprattutto, ha un ruolo sociale davvero forte.
    Già: Antonio Telesio, figlio di Bernardino senior e quindi zio del filosofo e parente in doppia linea di Sertorio, è un accademico di grido, che lascia il Sedile solo per far carriera a Roma.

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    Sertorio Quattromani

    Una provincia cosmopolita

    Non c’è nulla di meglio che acculturarsi in famiglia. Per Sertorio Quattromani l’espressione vale alla lettera: appena quindicenne, frequenta le lezioni che il cugino Telesio tiene periodicamente all’Accademia.
    È in buona compagnia: tra gli uditori ci sono Agostino Doni, medico e filosofo che avrebbe fatto carriera a Basilea, e, giusto per restare in famiglia, il filosofo (un po’ oscuro e decisamente dimenticato) Giovan Paolo d’Aquino, cugino di Sertorio per parte di madre.
    Da buon intellettuale cosentino, il giovane Quattromani ha un imprinting progressista (quasi cattocomunista, secondo gli standard dell’epoca): prima di ascoltare il grande Telesio, ha come precettore Onorato Fascitelli, un benedettino molisano dalle simpatie valdesi che, tuttavia, fa carriera. Infatti, diventa vescovo di Isola Capo Rizzuto a metà ’500 e a dispetto delle sue idee.
    Con questo popò di bagaglio, che la Cosenza bene non avrebbe mai più raggiunto, al Nostro non resta che cambiare aria, per migliorare. Infatti, va a Roma.

    Quattromani supertopo di biblioteca

    A Roma, Quattromani dimostra il suo talento eccezionale di topo da biblioteca. Si esercita nella Biblioteca Vaticana, dove divora di tutto, dai classici greci e latini ai grandi poeti italiani, Petrarca in particolare.
    Su quest’ultimo, il cosentino ha un’intuizione geniale, con cui riscrive la storia, allora nascente, della letteratura italiana. Secondo lo studioso, infatti, Petrarca si sarebbe ispirato ai poeti provenzali e volgari per comporre il suo Canzoniere.
    Per provare la propria intuizione, Quattromani non esita a ricorrere alle “pastette”. Quelle dei compatrioti, come l’alto prelato e nobile Vincenzo Bombini, allora impegnato nel Concilio di Trento assieme a Tommaso Telesio, arcivescovo e fratello del filosofo.
    E quelle, forse più efficaci, dell’editore Paolo Manuzio, che convince papa Pio IV a mettere a disposizione di Quattromani tutte le biblioteche capitoline. Dopo aver ingurgitato questa impressionante mole di opere, il Nostro decide di raggiungere Bernardino Telesio, che nel 1565 si trova a Napoli per divulgare e difendere la sua opera.

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    Papa Pio IV

    Telesio nei guai con la Chiesa

    Si è già capito che la Chiesa ha avuto un’influenza determinante anche nella nascita dell’umanesimo più laico.
    Tuttavia, la Chiesa dell’epoca di Telesio e Quattromani, non è più quella cosmopolita e, a modo suo, progressista della generazione precedente.
    È una Chiesa irrigidita e incalzata dalla Riforma, che sceglie, col Concilio di Trento, il razionalismo e punta tutte le sue fiches su Aristotele. Non proprio l’ideale per i nuovi filosofi alla Telesio, che invece si ispirano ai presocratici per costruire i propri sistemi di pensiero, più o meno “rivoluzionari” e comunque di rottura proprio con l’aristotelismo.
    Nello stesso periodo, il pensatore cosentino inizia la riedizione delle sue opere e tutto lascia pensare che Quattromani sia andato a Napoli per aiutare il maestro.
    Ma stavolta le amicizie e le parentele che contano possono poco: i libri di Telesio, ripubblicati nella Capitale nel 1570, finiscono all’Indice. Quattromani si dà da fare per evitare la condanna e fa pressioni su Bombini, diventato nel frattempo protonotaro apostolico della Curia romana sotto Pio V e Gregorio XIII.
    Ne esce un compromesso superclericale: le opere restano all’Indice dei libri proibiti, ma con la formula ambigua “Donex expurgentur”, cioè fino a quando non saranno ripuliti. Da vietati, i libri telesiani diventano “vietatini” (quindi leggibili più o meno sottobanco). Analoga fortuna non l’avranno gli altri grandi pensatori dell’epoca, Bruno e Campanella, molto più espliciti del cosentino e, soprattutto, molto meno protetti.

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    La statua del filosofo Bernardino Telesio a Cosenza in piazza XV Marzo

    Quattromani torna a Cosenza

    Finalmente il Nostro rientra a Cosenza per restarvi, salvi vari viaggetti a Roma e Napoli, puntualmente registrati nelle sue lettere.
    Da buon rinascimentale, Quattromani coltiva un epistolario monumentale, dove racconta sé stesso e i suoi studi. Scrive a tutti e dappertutto: da Roma, Cosenza, Cerisano ecc. E fa l’intellettuale a tempo pieno. Traduce (o “volgarizza”, come si diceva allora) i classici latini in quantità industriali, come se non ci fosse un domani.
    E si dà un gran da fare nell’Accademia Telesiana (già Parrasiana), dov’è braccio destro del suo maestro.
    Alla morte di Telesio (1588), che aveva trasformato l’Accademia in un club filosofico, Quattromani prende le redini dell’istituzione, la riorganizza e le dà un’impronta più letteraria, forse meno rischiosa della filosofia.
    Ma la filosofia comunque non sparisce: né dall’Accademia né dalle preoccupazioni di Sertorio, che omaggia il suo maestro con La filosofia di Bernardino Telesio ristretta in brevità, un “bignamino” del pensiero telesiano, dedicato per l’occasione a Ferrante Carafa, il duca di Nocera.

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    Immagine di Cosenza all’epoca di Sertorio Quattromani

    La fine e l’eredità

    La biografia di Sertorio Quattromani non è particolarmente emozionante. L’intellettuale cosentino non è un “rivoluzionario” né un “riformista”: è solo uno studioso acuto e capacissimo, che ha fatto (bene) il proprio mestiere al riparo del notabilato a cui apparteneva e non ha mai messo in discussione il “sistema”. Non in maniera pubblica, almeno.
    La data precisa della morte, causata dai soliti acciacchi dei benestanti (tra cui l’immancabile gotta) è incerta. Lo studioso Luigi De Franco ipotizza il 10 novembre 1863, che è poi la data del testamento.
    A dispetto di un’immagine piuttosto polverosa, Quattromani ha un merito serio: aver contribuito all’affermarsi della lingua italiana, che identifica nella parlata dell’alta Toscana (per capirci, la stessa utilizzata dagli speaker più bravi).
    L’eredità fisica più importante è costituita dalla sua biblioteca, lasciata alla nipote, figlia della sorella Giulia: la poetessa e accademica cosentina Lucrezia della Valle.
    Ma questa è un’altra storia.

     

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Parrasio: il papà giramondo dell’Accademia Cosentina

    Parrasio: il papà giramondo dell’Accademia Cosentina

    Di Aulo Giano Parrasio si sa molto. Ma non tutto quel che si sa è preciso.
    Ad esempio, il luogo di nascita, che di solito è autorevolmente indicato in Figline Vegliaturo, un paese di poco più di 1.200 abitanti a sud-est di Cosenza.
    Tuttavia c’è chi ipotizza che il luogo di nascita dell’intellettuale cosentino fosse, invece, Serra Pedace, che ora fa parte di Casali del Manco e non confina neppure con Figline. E non manca chi pensa a Cosenza.
    Più certi il giorno di nascita, 28 dicembre 1470, e i dati familiari, che forniscono un identikit socio-economico piuttosto dettagliato di Parrasio.
    Nato come Giovanni Paolo Parisio, il Nostro era figlio di Tommaso, un giurista molto apprezzato e discendente dei feudatari di Figline, e della nobildonna Bernardina Poerio.
    Si tratta, nel suo caso, di una nobiltà decaduta, in seguito alle lotte feroci tra angioini e aragonesi, e costretta a riciclarsi nelle professioni liberali.

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    Ritratto di Aulo Giano Parrasio

    Parrasio umanista mediterraneo

    Per papà Tommaso la scappatoia è la laurea “in Utroque”, per Giovanni Paolo, invece, è la filologia.
    Infatti, va a lezione di latino e greco da Crassio Pedacio e da Tideo Acciarino Piceno, un illustre studioso marchigiano arrivato a Cosenza nel 1880 al servizio dei Sanseverino e rimastovi per dieci anni.
    Poi, come tutti i rampolli delle famiglie bene, cambia aria e va prima a Lecce e poi a Corfù, per approfondire il greco. Quindi ritorna a Cosenza, dove prova ad aprire una scuola sull’esempio dei suoi maestri. Ma, evidentemente, le cose non vanno troppo bene. Ed ecco che Parisio, il quale nel frattempo ha latinizzato il suo nome in Parrasio, cambia di nuovo aria e nel 1491 va a Napoli. E lì scopre un mondo.

    La cultura al Sud

    A questo punto, serve una piccola operazione verità. Innanzitutto, non è vero che nel medioevo la cultura classica fosse scomparsa.
    Si era, più semplicemente, inabissata la letteratura greco-romana. Ma il latino e il greco sopravvivevano, anche a livello di massa, perché i due più grandi best seller dell’epoca erano scritti in latino e greco. Ci si riferisce alla Bibbia e al Corpus Juris Civilis.
    Ancora: nel Sud Italia il greco restava piuttosto diffuso, sia nelle classi colte sia a livello religioso. Si pensi, giusto per fare un esempio, al ruolo del monaco basiliano Barlaam di Seminara (che, tra le varie, fu anche maestro di Boccaccio).
    Il Sud, a cavallo tra medioevo e rinascimento, è ancora un territorio importante e conteso: è il centro del Mediterraneo, ancora non “scavalcato” dalle rotte atlantiche. Napoli e Palermo sono due capitali di tutto rispetto che surclassano Roma e non hanno nulla da invidiare a Firenze. Le élite meridionali sono in genere aperte e cosmopolite e scommettono non poco sulla cultura. Parrasio è uno degli ultimi esponenti di questa nobiltà che lancia le ultime fiammate prima di declinare.

    Il monaco Barlaam di Seminara

    Parrasio nella Napoli degli Aragona

    Vuoi per le origini nobili, vuoi per sensibilità culturale della nobiltà napoletana, vuoi perché Napoli è accogliente, Parrasio si sente subito a casa.
    Si lega a Giovanni Pontano, un umanista umbro al servizio degli Aragona. Pontano vuol dire senz’altro cultura: riscuote un grande successo nei circoli “dotti” ed è il fondatore dell’Accademia Pontaniana. Ma significa anche politica.
    Parrasio approfitta di entrambi gli aspetti: entra nell’Accademia e, soprattutto, a corte, dove riceve la protezione di re Ferdinando II di Aragona, che lo riempie di riconoscimenti e quattrini.
    Troppo bello per essere vero? Forse. Soprattutto, troppo bello per durare: Ferdinando muore nel 1496 senza eredi. Gli succede lo zio Federico, che di sicuro non simpatizza con lo staff del nipote. Infatti, l’intellettuale cosentino abbandona Napoli e si rifugia a Roma. Ci resta giusto il tempo di farsi notare dal clero-che-conta e, soprattutto da Pomponio Leto, un umanista che lavora per il papa ma vuole restaurare la religione imperiale. Leto iscrive Parrasio nella sua Accademia Romana. Per fortuna sua, quest’ultimo lascia la città dei pontefici per tempo, cioè nel 1498. Altrimenti sarebbe finito nella retata dei papalini contro l’Accademia.
    La meta successiva di Parrasio è Milano. Un must per i calabresi di tutti i tempi…

    Ferdinando II d’Aragona, re di Napoli e duca di Calabria

    Parrasio e i veleni tra intellettuali

    Il cosentino arriva nella Milano degli Sforza, dove domina Ludovico il Moro, a inizio 1499.
    Qui conosce Alessandro Minuziano, un foggiano di origini oscure, che fa l’editore. In realtà, Minuziano è un superfaccendiere. Filologo geniale e – secondo i critici – un po’ arronzone, il pugliese gestisce una biblioteca e un pensionato di studenti. Ha buone entrature a corte, ma fa troppe cose. Perciò ha bisogno di un collaboratore.
    Assume quindi Parrasio, di cui nota l’estrema abilità nella scrittura latina, e lo usa come ghost writer.
    Tuttavia il rapporto tra i due si incrina, a causa di un terzo incomodo: il cattedratico Emilio Ferrario, che disistima Minuziano e non lo nasconde affatto. Anzi, arriva ad accusare il pugliese di aver stravolto Cicerone e si fa beffe di lui con dei versi micidiali.
    Parrasio, all’inizio si schiera con Minuziano.

    Una carriera in ascesa

    L’arrivo dei francesi a Milano cambia le carte in tavola. Ferrari, legatissimo agli Sforza, deve lasciare la città e la cattedra di Eloquenza. Parrasio, che gode del favore dei francesi, ne prende il posto. E inizia a far concorrenza al suo ormai ex mentore.
    Minuziano, che evidentemente è la classica malalingua, mette in giro calunnie pesantissime. A suo dire, Parrasio sarebbe scappato da Napoli perché colpevole di omicidio. E non basta: lo accusa anche di pederastia.
    Ma il cosentino, per quanto amareggiato, tira dritto. Anzi, si lega all’ateniese Demetrio Calcondila, una specie di Machiavelli dei Balcani rifugiatosi a Milano in seguito a gravi problemi politici, e ne sposa la figlia Teodora. E ottiene la protezione di Étienne Poncher, vescovo di Parigi e membro influente del Senato meneghino.

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    Demetrio Calcondila

    I meriti di Parrasio

    Un piccolo intermezzo per rispondere a una domanda banale: quale fu l’importanza vera di questa generazione di umanisti, di cui Parrasio fu la classica punta di diamante?
    Con non poca retorica, parecchi storici attribuiscono a questi intellettuali il merito di aver recuperato il meglio della cultura classica.
    In realtà, le cose sono più complicate, perché quella cultura non era mai andata persa. L’aveva salvata la Chiesa, in particolare i monaci, che per secoli avevano copiato e conservato manoscritti.
    Parrasio e i suoi colleghi hanno, semmai, un altro merito: la divulgazione di questa cultura in chiave laica. E attenzione: a questo processo non è estranea la stessa Chiesa, che si serve volentieri dell’opera di questi umanisti.
    Lo prova il rapporto tra Parrasio e Poncher. Grazie ai buoni uffici del vescovo francese, il cosentino cura le riedizioni di Ovidio e Claudiano ed entra nei giri politici che contano. Ovviamente, questo tipo di rapporti tra Chiesa e intellettuali contiene il classico boccone avvelenato: questi filologi laici sono più spregiudicati e pubblicano di tutto, a partire dai presocratici e proseguendo con opere esoteriche.
    Questa spregiudicatezza darà le basi al pensiero filosofico successivo, che prenderà direzioni di rottura con il sistema ecclesiastico (Telesio) o sconfinerà nell’eresia e nell’anticlericalismo (Campanella), con conseguenze a volte tragiche (Bruno). Ma questa è un’altra storia.

    L’odierna piazza Parrasio, nel centro storico di Cosenza

    Parrasio intellettuale girovago

    A Milano l’aria diventa pesante per Parrasio: Poncher è richiamato in Francia. Gli subentra Jeoffroy Charles, che prende a benvolere il cosentino, ma ha meno potere per tutelarlo.
    Per questo, Parrasio decide di tagliare la corda. Girovaga tra Vicenza, Pavia e Venezia. Poi, stanco e acciaccato dalla gotta, nel 1511 torna a Cosenza con molti libri e pochi quattrini. Perciò, per sbarcare il lunario fonda una scuola privata: è l’Accademia Parrasiana. Questa istituzione ha un bel successo che, forse, va oltre le intenzioni del fondatore: una generazione dopo la prende in mano Telesio e la ribattezza Accademia Telesiana. Poi la gestione passa a Sertorio Quattromani, che le dà il nome con cui è tuttora nota: Accademia Cosentina.
    Ma i quattrini scarseggiano e il Nostro deve rimollare Cosenza. Stavolta per Roma, dove papa Leone X gli affida una cattedra di eloquenza.
    Stavolta Parrasio non ha nemici, tranne la salute, che lo costringe a tornare a Sud, prima a Napoli, dove gode della protezione di Isabella d’Este, infine a Cosenza, dove arriva moribondo e si spegne il 6 dicembre 1821.
    Ha cinquantuno anni portati malissimo e, alle spalle, un’esistenza passata tra biblioteche e politica che ne vale almeno quattro.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Bernardino Alimena: il sindaco che inventò la Criminologia

    Bernardino Alimena: il sindaco che inventò la Criminologia

    Il ricordo più visibile che gli ha dedicato Cosenza è una strada abbastanza importante, di cui condivide l’intestazione con suo padre Francesco. I più la conoscono perché c’è la sede dell’Azienda sanitaria provinciale e perché la sera ci si ritrovano i ragazzi, come si faceva una volta a piazza Kennedy.
    Altri ne ricordano il nome per averlo incrociato nella Parte generale di qualche manuale di Diritto penale, ma non ricordano il perché, tranne qualche giurista più anziano e colto. In realtà, Bernardino Alimena meriterebbe di più. Anche della retorica con cui lo celebra in qualche circolo .
    Per capire perché, partiamo da alcune domande banali (e basilari): delinquenti si nasce o si diventa? Perché si delinque? È vero che la tentazione fa l’uomo ladro?

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    Bernardino Alimena

    Emergenza criminale fin de siècle

    Rispondere, più che impossibile, sarebbe ridicolo: tuttora i criminologi si scervellano su questi argomenti. Ma a fine Ottocento, quando Alimena elaborava le sue teorie giuridiche, questi problemi erano ancora più pressanti: l’Italia non aveva fatto a tempo a nascere, che subito fu costretta ad affrontare la sua prima emergenza criminale.
    Il banditismo, già endemico in parecchie zone, si politicizza ed evolve in brigantaggio, la prima forma di criminalità organizzata. Soprattutto al Sud, ma anche in alcuni ex territori pontifici (Emilia e basso Lazio) e in Toscana.
    Anche il resto del Paese non scherza: le grandi città (Napoli, Milano e Palermo) sono insicure, i centri di provincia pullulano di microcriminalità e le carceri si riempiono.

    A complicare il tutto, c’è l’enorme pressione demografica: dall’Unità al 1890 gli italiani aumentano del 40%.
    Quel che è peggio, il Paese non ha strumenti adatti per affrontare quest’emergenza. Si pensi che per avere il primo Codice penale italiano ci vuole il 1871. Stesso discorso per l’omologazione del sistema carcerario e della Pubblica sicurezza.
    Questo basta a far capire l’importanza della generazione di giuristi (e non solo) di cui Bernardino Alimena fu un elemento di spicco.

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    Maria Oliverio detta Ciccilla, celebre brigantessa calabrese

    Bernardino Alimena figlio di patriota

    Alimena, classe 1861, nasce praticamente con l’Italia e respira da subito il Diritto penale: suo padre Francesco, oltre che patriota risorgimentale e deputato per tre legislature (dal 1882 al 1892), è un avvocato famosissimo, dall’oratoria travolgente. Il tipico principe del foro, insomma.
    Dopo aver studiato Giurisprudenza a Napoli (un classico per gli aspiranti giuristi dell’epoca) ed essersi laureato a Roma nel 1885, Bernardino prende un’altra strada. Frequenta poco i Tribunali, a cui preferisce la ricerca e si dà alla politica, dove, grazie anche al peso del suo cognome, ottiene risultati apprezzabili: diventa prima consigliere comunale di Cosenza e poi, nel 1889, sindaco. Il primo non di nomina regia ma eletto direttamente dai cittadini.

    Ma la teoria giuridica resta il suo pallino, come testimoniano le tante pubblicazioni e, soprattutto, gli incarichi accademici. Nel 1889 ottiene la libera docenza di Diritto penale a Napoli a cui aggiunge, l’anno successivo, quella in Procedura penale. Ma, a causa degli impegni della ricerca e (soprattutto) della politica, inizia i corsi solo nel 1894, con una prolusione dal titolo significativo: La scuola critica di diritto penale. Non la citiamo a caso: sin dal titolo, contiene l’abc dell’Alimena-pensiero.
    Il salto di qualità avviene nel 1898, quando il giurista cosentino ottiene la docenza straordinaria in Diritto penale all’Università di Cagliari e, infine, quella ordinaria nella medesima materia a Cagliari.
    Nel mezzo, c’è un popò di pubblicazioni dai titoli (e dai contenuti) pesanti. Più una serie di polemiche che hanno un bersaglio ben preciso: la Scuola positiva del Diritto penale, che in quel momento va per la maggiore, e, soprattutto, il suo fondatore, Cesare Lombroso.

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    Il monumento a Cesare Lombroso

    Il primo fu Lombroso

    La tradizione penale italiana ha avuto almeno tre grandi iniziatori: i milanesi Cesare Beccaria e Pietro Verri e il napoletano Gaetano Filangieri.
    Sono i capicorrente della Scuola classica, che concepisce il diritto penale come un sistema di difesa dell’individuo dal potere. A fine ’800 le loro tesi non servono più, se non a motivare le arringhe degli avvocati.
    Di fronte alla criminalità di massa, occorre altro. Vi provvede per primo, appunto, Cesare Lombroso, che formula la celebre tesi dell’atavismo criminale.

    Lombroso, che è un medico e non un giurista, ha essenzialmente un merito: sposta l’attenzione dal reato al reo. In altre parole, studia i delinquenti e mette in secondo piano i delitti. Il delinquente, secondo la teoria lombrosiana, è tale o perché costretto dalle circostanze, o perché ha tendenze naturali (innate ed ereditarie) a delinquere.
    Il primo è una persona normale, a cui si può applicare il diritto; il secondo è un deviante per nascita, che al massimo può essere isolato dalla società per il suo stesso bene.

    E qui arrivano gli aspetti più “piccanti” e controversi del pensiero lombrosiano. Innanzitutto, l’atavismo criminale, che si riconosce da alcuni difetti fisici del reo (la fronte bassa, gli arti tozzi, la celebre “fossetta occipitale mediana”, gli zigomi pronunciati, il mento troppo sfuggente o troppo prominente, ecc.).
    Da qui al rischio di un razzismo sotto mentite spoglie il passo sarebbe breve. Ma, ad onor del vero, va detto che Lombroso non l’ha mai fatto: non ha mai detto che un popolo o una razza è potenzialmente più criminale di un’altra.

    Il Museo Lombroso di Torino

    I limiti del positivismo

    I limiti di questo pensiero, semmai sono altri. Il positivismo, innanzitutto, minimizza il ruolo della volontà e del libero arbitrio: il delinquente nato non può che delinquere per vocazione. Poi riduce la funzione della pena a una sola cosa: la difesa sociale.
    In questa visione determinista, quasi meccanica, il ruolo del giurista è ridimensionato a favore di quello dell’antropologo.
    Il giurista, in altre parole, serve a punire o ad assolvere la persona normale, che è punibile (e quindi rieducabile) perché dotato di volontà e capacità di scelta. Lo scienziato serve a identificare il delinquente nato che, ripetiamo, può solo essere isolato. Fine della storia.
    Le teorie lombrosiane, per quanto celebri e dibattute, hanno inciso poco nel mondo giuridico. La loro vera utilità è stato lo stimolo alla polizia scientifica, inaugurata in Italia da Salvatore Ottolenghi, allievo di Lombroso. A questo punto, torniamo a Bernardino Alimena.

    Bernardino Alimena e la Terza scuola

    Reprimere i reati non è roba da medici o antropologi. Tocca ai giuristi. È, in parole povere, il concetto sostenuto da Alimena che, assieme a Emanuele Carnevale e Giovanni Battista Impollimeni, fonda la Terza scuola o Scuola critica.
    Questa è un mix tra le due correnti precedenti. In pratica, Alimena&Co saccheggiano qui e lì ed elaborano una visione più avanzata e meno rigida sia del garantismo settecentesco sia del positivismo lombrosiano.
    Il primo concetto su cui agisce Alimena è il libero arbitrio, che per lui è la capacità di fare ciò che si vuole. Per Lombroso, al contrario il libero arbitrio è capacità di volere una cosa anziché un’altra. Nello specifico di delinquere o meno, cosa che è preclusa al delinquente nato.

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    Salvatore Ottolenghi

    Bernardino Alimena vs Cesare Lombroso

    Ancora: per i positivisti lombrosiani, il comportamento antisociale del delinquente è tale solo in rapporto alle regole della società. Per Bernardino Alimena, invece, i comportamenti antisociali sono valutabili in due modi: filosofico e morale, perché esiste comunque un senso assoluto del bene e del male, e sociale. Di questo aspetto, appunto, si occupa il Diritto penale.
    Ma quando un delinquente è davvero imputabile? Per Lombroso sono imputabili, cioè possono rispondere dei reati ed essere puntiti, solo le persone sane. Per Alimena, invece, sono imputabili tutte le persone capaci di autodeterminarsi e suscettibili di essere dirette anche attraverso la pena. In altre parole: chi teme la pena può sempre essere punito (e, se possibile, recuperato). Ciò vale anche per le persone con tendenze naturali a delinquere. Quindi i criminali atavici, secondo Alimena, sono una minoranza borderline e non la maggioranza dei delinquenti, come invece sostengono i lombrosiani.

    Un duello internazionale

    Tutto questo, oggi sembra facile perché è acquisito. Ma nella seconda metà del XIX secolo è una novità dirompente.
    Non a caso, il dibattito tra lombrosiani e terza scuola si svolge dappertutto: in particolare all’estero. Bernardino Alimena partecipa a vari congressi che si svolgono a Parigi (1889 e 1895), San Pietroburgo (1890), Bruxelles (1892 e 1900) e a Budapest (1905).
    In questi dibattiti, l’intellettuale cosentino non si limita a criticare Lombroso e la sua scuola. Ma formula proposte pratiche interessanti: tra queste l’istituzione delle giurie popolari e la riforma delle carceri minorili. Tra i tanti altri impegni di Alimena, val la pena di segnalare la partecipazione alla commissione incaricata di redigere il Codice penale del Regno del Montenegro, che nel 1910 proclama l’indipendenza dall’Impero Ottomano.

    Nicola I del Montenegro

    Un notabile in carriera

    La parte più conosciuta della vita di Bernardino Alimena è essenzialmente la carriera politica, che tuttavia è poca cosa rispetto all’attività intellettuale.
    Oltre alla presenza di lungo corso nel consiglio comunale di Cosenza – che Alimena non ha mai mollato, nonostante la sua attività frenetica in giro per il Paese e in Europa – si segnalano due sue candidature alla Camera.
    La prima è del 1909. Alimena vince nel collegio della sua città con l’appoggio dei cattolici, che gli assicurano 999 voti al primo turno e 1.598 al secondo. Tuttavia, il neodeputato non fa in tempo a sedere alla Camera che la giunta per le elezioni gli contesta presunte irregolarità elettorali e annulla il voto.
    Ci riprova nel 1913 e becca più voti: 3.737, che però non gli bastano, perché nel frattempo il corpo elettorale si è allargato.

    Rapporti che contano

    Tanta popolarità deriva da due fattori: l’attaccamento alla città e l’impegno culturale, profuso con l’Accademia cosentina, di cui diventa presidente, e attraverso il Circolo di cultura, fondato assieme a Pasquale Rossi.
    Anche l’appartenenza al notabilato dell’epoca ha il suo peso. Al riguardo, non è certa l’appartenenza di Bernardino Alimena alla massoneria. Ma i rapporti che contano li ha tutti. Ad esempio, con Luigi Fera e Bonaventura Zumbini, di cui sposa la nipote Maria nel 1897.
    Muore nel 1915, poco dopo l’entrata in guerra dell’Italia.
    Lascia uno stuolo di ammiratori, tra cui Alfredo Rocco, astro nascente della scienza penale e futuro autore dei codici penale e di procedura penale. Rocco definirà Alimena «soprattutto un cultore di psicologia e sociologia criminale, non giureconsulto in senso stretto». Come dire: troppo colto per essere solo un giurista. Mica male come complimento.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Dalla tonaca al grembiule: vita spericolata di Francesco Saverio Salfi

    Dalla tonaca al grembiule: vita spericolata di Francesco Saverio Salfi

    C’è un modo particolare con cui i massoni si definiscono da sempre (oltre al gettonatissimo Liberi Muratori): Figli della Vedova.
    Nel caso di Francesco Saverio Salfi, l’espressione calza a pennello. Non (solo) per la sua conclamata militanza massonica. Nato il Capodanno del 1759 da una famiglia cosentina umile, Salfi fu adottato e allevato per davvero da una vedova, che lo fece studiare da prete
    Probabilmente risale a questa formazione l’innesco delle contraddizioni di Salfi: la formazione rigorosa, appresa dai gesuiti, e l’anticlericalismo stimolatogli, forse, dalla rigidità di quel tipo di insegnamento.
    Nel quale c’è un’eccezione vistosa, che passa ancora attraverso la Chiesa: l’illuminismo, appreso dal canonico Francesco Saverio Gagliardi, e da Pietro Clausi, suo prof di matematica e filosofia. Clausi, a sua volta, è allievo di un altro illustre prelato: Antonio Genovesi, filosofo e pioniere dell’Economia politica.
    La personalità complessa di Salfi, che inizia la sua carriera di prete nel segno della ribellione, è il prodotto delle contraddizioni della sua epoca. Contraddizioni della società, della Chiesa e della monarchia, in questo caso borbonica.

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    Francesco Saverio Salfi

    Il Re Nasone e le riforme mancate

    I Borbone avevano cominciato piuttosto bene, a Napoli e al Sud. Salfi nacque un anno dopo che don Carlo di Borbone aveva lasciato il Regno per ereditare la corona di Spagna.
    Al suo posto era salito al trono Ferdinando IV (per capirci, ’o Re Nasone), che prometteva niente male per i riformatori dell’epoca. Infatti, sulla scia paterna, re Ferdinando posava a protettore della laicità dello Stato e degli intellettuali. Questo atteggiamento formalmente illuminista divenne esplicito nel 1878, col rifiuto del re di pagare la chinea, un tributo di sottomissione feudale, allo Stato Pontificio.
    Tutta (o quasi) l’intelligentsia napoletana si schierò con la Corona. E il fatto che in questa élite ci fossero molti religiosi, non deve meravigliare: l’attrito tra dinastia borbonica e papato rifletteva la rivalità tra l’alto clero napoletano, di antica tradizione e geloso delle sue prerogative, e l’estabilishment pontificio.
    Discorso simile per l’illuminismo. Questo filone, oggi considerato dal solo punto di vista rivoluzionario, ebbe un ruolo importantissimo nell’Ancien Regime: in Prussia come in Austria e, ovviamente, nella vivacissima Napoli dell’epoca. L’illuminismo nasce in salotto e, solo in seguito al trauma della Rivoluzione, finisce sulle barricate.
    Viceversa, i Borbone furono inizialmente tolleranti e solo la rottura rivoluzionaria li spinse ai terribili giri di vite per cui sono passati alla storia.

    Ferdinando IV di Borbone e Maria Carolina d’Asburgo

    Un pensiero che nasce tra le scosse

    Gli intellettuali seguono, più o meno, lo stesso tragitto. Nascono riformisti e fidano nella forza della Corona per realizzare le proprie idee. Una volta delusi, si danno alla fronda e poi entrano in rottura, fino a farsi tentare dall’esperimento tragico della Repubblica Napoletana.
    E Salfi? Il suo pensiero nasce maturo, grazie a una tragedia senza pari: il terremoto che sconvolge Messina e il sud della Calabria nel 1783.
    Tre anni dopo, il giovane sacerdote, che tiene banco all’Accademia dei Costanti (l’antenata dell’Accademia Cosentina), scrive il Saggio di fenomeni antropologici relativi al tremuoto, in cui stigmatizza il comportamento superstizioso delle autorità religiose e invoca invece politiche urbanistiche, pubbliche e private, di prevenzione.
    È quanto basta per attirare su Salfi l’ostilità dei vertici ecclesiastici, che vorrebbero mandarlo sotto processo. La fa franca, grazie alla protezione di Carlo de Marco, magistrato e ministro degli Affari ecclesiastici di re Ferdinando.
    Ma per lui l’aria a Cosenza si è fatta pesante. Perciò nel 1787 molla le rive del Busento e si trasferisce a Napoli. E lì inizia a fare davvero sul serio.

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    Le devastazioni del terremoto del 1783 in una stampa d’epoca

    Napule è

    Ancora i rigori (e gli eccessi) controrivoluzionari sono lontani a Napoli. Al contrario, c’è un bel giro di intellettuali.
    Tra questi, i giuristi Gaetano Filangieri e Mario Pagano e due religiosi inclini alle tesi liberali: il calabrese Antonio Jerocades e il partenopeo Nicola Pacifico. Tutte teste belle, ma un po’ calde. L’ideale per uno come Salfi. Che subito si fa notare: difende la casa reale di fronte alla Chiesa. E, per tutta risposta, re Ferdinando promuove la sua nomina ad abate.
    Poi le cose cambiano con la Rivoluzione francese, che segna una profonda rottura tra i Borbone e il ceto intellettuale napoletano, e l’intellettuale cosentino si mette a trescare alla grande.

    Salfi e la superloggia di Posillipo

    Un’invasione francese e una cena a Posillipo.
    Nel 1792 il Regno di Napoli e la Francia sono ai ferri corti. E quest’ultima manda una flotta a bloccare il porto e il Golfo per regolare dei gravi incidenti diplomatici. La comanda il francese Luis de Latouche-Treville, eroe dell’indipendenza americana e massone.
    La prova di forza tra la giovane Repubblica e il Regno è impari e la regina Maria Carolina, sebbene odi i jacubbine (responsabili della morte di sua sorella Maria Antonietta di Francia), è costretta a cedere. Latouche resta a Napoli un mese buono, a cavallo tra 1792 e 1793. E ne approfitta per mettere assieme un bel gruppo cospirativo assieme al matematico Carlo Lauberg: la Società patriottica napoletana, costituita durante una cena a Posillipo, in cui confluiscono tutte le logge massoniche della città e a cui si uniscono Salfi, Jerocades, Pagano e via discorrendo. Poi i francesi vanno via e i Borbone iniziano la repressione, che disarticola il gruppo nel 1794. Molti giacobini finiscono in galera (ben 52) e qualcuno al patibolo (8). Chi può scappa: è il caso di Lauberg e Salfi, il quale decide di svernare in Calabria.

    Il contrammiraglio Luis de Latouche-Treville

    Salfi al seguito dei “franzosi”

    In Calabria, Francesco Saverio Salfi resta un annetto buono, giusto il tempo di scampare all’inchiesta. Poi rientra a Napoli, ma è isolato e rischia grosso: la polizia borbonica ha riaperto il dossier e stavolta è uscito il suo nome.
    L’espatrio diventa un obbligo: grazie all’aiuto del diplomatico François Cacault trova lavoro al Consolato francese di Genova. Lì si spreta e riprende a trescare assieme a teste ancora più calde di quelle lasciate a Napoli. Tra queste, il toscano Filippo Buonarroti. I due raggiungono Milano, nel frattempo occupata dai francesi, e si danno al giornalismo e ai complotti, dentro e fuori le logge, assieme a tutti gli esuli del Sud.
    Questa lobby meridionale scommette su un astro nascente: Napoleone Bonaparte e spera, per la prima volta, che le armate rivoluzionarie uniscano l’Italia. Forse la parola Risorgimento nasce in questo ambiente. Di sicuro la usa molto Salfi, negli articoli che redige per il Termometro politico della Lombardia e nelle missive che invia alle autorità francesi.

    Salfi torna a Napoli

    Vedi Napoli e puoi muori, dice l’adagio. E per molti intellettuali che scommisero sull’esperienza esaltante, ma effimera, della Repubblica Napoletana, fu così.
    Salfi, invece, scampò per il rotto della cuffia.
    Ma è il caso di ricostruire con ordine.
    Il rivoluzionario cosentino torna nel Regno, stavolta non da solo, ma al seguito dell’Armata di Napoli, cioè la divisione dell’esercito francese guidata dal generale Jean Étienne Championnet, che sbaraglia i napoletani sotto Roma e poi invade la Capitale del regno.

    Mario Pagano

    Ferdinando IV abbandona Napoli il 21 dicembre 1798. Il 20 gennaio successivo, è proclamata la repubblica a Napoli, che sopravvive grazie alle truppe francesi ed è minacciata da subito dai Sanfedisti del Cardinale Ruffo.
    I francesi, privi della guida di Napoleone, bloccato in Egitto con le sue truppe, sono costretti ad arretrare e, alla fine, abbandonano Napoli, che capitola il 30 giugno 1799.
    In questi sette mesi, tuttavia, la classe dirigente giacobina dà il meglio di sé. Stimola a fondo la vita culturale, grazie al Monitore Napoletano, diretto da Eleonora Fonseca Pimentel, e progetta riforme radicali, tra cui l’abolizione del feudalesimo e una Costituzione, simile a quella francese del 1793, ma con una novità: l’Eforato, una specie di Corte costituzionale avant la lettre.
    Di questa élite, in cui spicca il giurista Mario Pagano, fa parte una nutrita pattuglia di calabresi, tra i quali il grecista Pasquale Baffi e, appunto, Salfi che vi svolge la delicata mansione di segretario.

    Pericolo (di nuovo) scampato

    È nota la tragica fine della Repubblica Napoletana: i giacobini capitolano. E i Borbone si comportano malissimo. Prima danno ampie garanzie di equità e mitezza, poi si rimangiano la parola e scatenano una rappresaglia che assume le forme di un pogrom.
    Processi sommari, esecuzioni in piazza e cadaveri esposti.
    Ma, quel che è peggio, via libera agli eccessi, dei lazzari e dei “calabresi” al seguito di Ruffo. Questi scatenano una caccia all’uomo per le vie di Napoli ai sostenitori, reali o presunti, della fallita rivoluzione. La situazione sfugge al controllo di Ruffo, già contrario elle esecuzioni sommarie, e la città finisce in preda ad orrori di vario tipo, inclusi atti di cannibalismo.
    Anche Salfi finisce nelle retate borboniche, ma dà false generalità e viene liberato. E scappa, stavolta in Francia.

    Maria de Medeiros interpreta Eleonora Fonseca Pimentel ne “Il resto di niente”

    Di nuovo in Italia

    Francesco Saverio Salfi rimette piede in Italia l’anno successivo. Dapprima a Brera, dove insegna storia e diritto al Ginnasio, e poi a Brescia e a Milano, dove si dà un gran da fare nelle logge locali.
    Infatti, milita nell’“officina” Amalia Augusta ed è maestro venerabile della loggia Gioseffina. In questa fase, l’intellettuale calabrese si lega a Gioacchino Murat, di cui diventa consigliere. E ne segue le sorti: la disfatta dei napoleonici lo costringe a tornare in Francia, dove trascorre gli ultimi anni della vita insegnando e scrivendo.
    Il suo ultimo gesto rivoluzionario è il Proclama al popolo italiano dalle Alpi all’Etna, firmato da tutti i fuorusciti, a partire da Filippo Buonarroti.
    In questo documento compaiono tre parole chiave: unità nazionale, libertà, repubblica.
    Le farà proprie un astro nascente del Risorgimento: Giuseppe Mazzini. Ma stavolta Salfi non ha alcun ruolo. Il patriota genovese, infatti, esclude i “vecchi” dalla sua Giovane Italia. Nel farlo, manda una lettera di scuse a Salfi. Ma il calabrese non la leggerà mai, perché muore poco prima che gli arrivi. È il 2 settembre 1832.

    Gioacchino Murat

    Una grandezza misconosciuta

    Celebrato in vita dai circoli rivoluzionari, Francesco Saverio Salfi ha avuto una fortuna postuma “di nicchia”, di sicuro inferiore ai suoi meriti.
    Oggi non c’è comunione massonica che non abbia almeno una decina di logge dedicate a lui e continua a essere oggetto di attenzione degli specialisti.
    Tuttavia, l’intellettuale cosentino non ha mai avuto una fama “pop”.
    Giusto per fare un esempio, si pensi che Salfi è citato solo tre volte e sempre di sfuggita in Il resto di niente, il bel romanzo storico di Enzo Striano (1986) dedicato a Eleonora Fonseca Pimentel, ed è tagliato fuori dal film ad esso ispirato (2004).
    Eppure il cosentino ebbe un ruolo di primo piano nella Repubblica Partenopea e in tutti i movimenti prerisorgimentali. Salfi e la sua generazione scontano una “maledizione” particolare.
    Loro sono gli ultimi esponenti dell’illuminismo in una fase in cui la cultura (rivoluzioni comprese) parlava e pensava con i canoni del romanticismo. Sono intellettuali convertiti alla rivoluzione perché delusi dall’incapacità (e dalla cattiva volontà) riformatrice delle vecchie dinastie. Ma finiscono comunque stritolati dalla Francia rivoluzionaria, che si serve di loro ma li controlla e, quando può, li censura.
    Le rivoluzioni di fine ’800 cambiano registro e velocità di marcia. E per i superstiti come Salfi non c’è più posto.
    Il cosentino è morto rimosso e dimenticato. Al punto che anche della sua tomba si era persa traccia per oltre 150 anni. Finché un altro cosentino, lo storico Luca Addante, l’ha ritrovata a inizio millennio.

     

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.