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  • I gran rifiuti: Reggio e provincia in cerca di una discarica

    I gran rifiuti: Reggio e provincia in cerca di una discarica

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    Una discarica “di servizio” da realizzare ma ancora in attesa dell’individuazione di un comune disposto ad accollarsela. Un’altra in costruzione da oltre un decennio ma sospesa nel limbo per il rischio di infiltrazioni nell’acquedotto che serve il centro più popoloso della provincia. Poi un impianto di trattamento dei rifiuti profondamente trasformato e (quasi) in consegna. E un altro che resta appeso al braccio di ferro tra la città metropolitana – che lo ha inserito come parte integrante dell’Ato provinciale – e il Comune di Siderno.

    Quest’ultimo, invece, teme i rinculi ambientali che l’opera provocherebbe e si è rivolto ai giudici amministrativi per ottenere una sospensiva ai cantieri. E, ancora, i lavori al termovalorizzatore di Gioia Tauro – l’unico in Regione – che da anni va avanti a mezzo servizio. In questo marasma disordinato e costoso, Reggio e la sua provincia annaspano sotto il peso di un miserrimo 32% di raccolta differenziata. Sono circa 15 punti percentuali in meno della media regionale.

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    Il termovalorizzatore di Gioia Tauro

    Guarascio re dei rifiuti e le proroghe

    È un disastro che pone la città più grande della Calabria appena sopra il fanalino di coda Crotone e che è andato peggiorando – certifica il report annuale di Arpacal – negli ultimi due anni. Un disastro gestito “a monte”, di proroga semestrale in proroga semestrale, da Ecologia Oggi, il gruppo che fa capo al “re dei rifiuti” Eugenio Guarascio. Gruppo che, dopo avere preso in mano l’intero comparto al dileguarsi della multinazionale francese Veolia, ha gestito, di fatto da monopolista, tutti gli impianti presenti nel Reggino. Ma è uscito sconfitto nella gara – l’unica finora espletata dalla Città metropolitana – per la gestione dell’impianto di Sambatello, i cui lavori di rewamping dovrebbero essere completati entro fine anno.

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    L’ingresso dell’impianto di Sambatello

    Reggio città e l’ecodistretto

    Reggio città ha contabilizzato negli ultimi anni una perdita percentuale di quasi 6 punti sul dato della raccolta differenziata. Il suo ecodistretto – tre in totale quelli previsti per tutta la provincia, con Siderno e Gioia – se la passa meglio, almeno in prospettiva: i lavori appaltati nel 2020 per l’impianto di Sambatello dovrebbero essere consegnati entro fine anno. I 41,5 milioni di euro finanziati con fondi Por hanno consentito una profonda trasformazione del sito.

    Si è passati da tecnologia meccanica-biologica a una piattaforma di recupero dei rifiuti con una linea per il secco e una per il trattamento anaerobico dell’organico con produzione di biometano. Un passo avanti importante, per un impianto che si appoggerà alla discarica di Motta San Giovanni per i materiali di scarto frutto della lavorazione del differenziato. Scarti che ad oggi, per la mancanza di siti attualmente attivi, finiscono fuori dai confini provinciali, con inevitabile aumento delle tariffe.

    Melicuccà: la storia infinita

    La mancanza di discariche finali rappresenta uno dei punti più dolenti dell’intera vicenda legata al trattamento dei rifiuti in Calabria e ancora di più nel reggino. In attesa di una ancora lontanissima autosufficienza, sono state previsti i lavori per la realizzazione di due siti distinti: il primo, individuato nel territorio di Melicuccà e destinato a servire gli scarti del termovalorizzatore di Gioia, è diventato, suo malgrado, simbolo ormai storico dell’inefficienza dell’intero comparto.

    Posto a 550 metri di quota sul versante tirrenico d’Aspromonte, il sito di contrada La Zingara “vanta” una storia antica di violenze ambientali. Sede per decenni della vecchia discarica comunale, nel 2006 arrivò l’ordine di dismissione per una serie di violazioni alle leggi di tutela dell’ambiente. Poi, nel 2009, la Regione anche nell’ottica dell’eterna emergenza rifiuti, individuò, proprio accanto alla vecchia discarica dismessa, un altro sito dove costruirne una nuova.

    L’interno del sito di trattamento dei rifiuti di Melicuccà

    Falde a rischio inquinamento

    La scelta portò in piazza centinaia di persone in protesta. «Sotto il sito individuato dalla Regione – dicevano i rappresentanti delle associazioni di cittadini che si oppongono all’opera – scorrono le falde che alimentano l’acquedotto Vina che serve Palmi e Seminara». La successiva denuncia presentata da Legambiente portò al sequestro dell’area. Siamo nel 2014, quando i lavori erano già iniziati da un pezzo.

    Per uscire dallo stallo servirebbe un’approfondita analisi geologica del terreno, ma nessuno se ne occupa e l’indagine decade per decorrenza termini. Passano gli anni ma quello di contrada La Zingara è sempre il sito su cui Regione e città Metropolitana puntano per costruire la discarica di servizio, e così nel 2021, con un finanziamento di 15 milioni di euro, i lavori per una discarica “monstre” da 400 mila tonnellate ripartano.

    Le indagini (e lo stop) a cantieri quasi pronti

    Prima però che le indagini tecniche affidate al Cnr (incaricato dalla Città Metropolitana) e all’Ispra (chiamata in causa dal comune di Palmi) possano stabilire se esista un rischio di inquinamento delle falde acquifere. E così, come da migliore paradosso calabrese, quando arrivano i risultati delle due indagini, i cantieri – siamo nel dicembre dello scorso anno – sono quasi pronti.

    Ma le conclusioni dei due istituti di ricerca concordano nel ritenere possibile il rischio di inquinamento delle falde. Per entrambi gli studi, infatti, la conformazione geologica del terreno, fatto di sabbie e rocce granitiche frammentate, ha creato una serie di sacche d’acqua. E queste potrebbero alimentare, a valle, i torrenti sotterranei che alimentano la sorgente Vina.

    Una sorta di pietra tombale scientifica sulla possibilità dell’entrata in esercizio del sito (e conseguentemente sul completamento delle strutture previste dall’Ato 5 Reggio Calabria) a cui Regione e metrocity proveranno a mettere una pezza attraverso Arpacal che dovrebbe realizzare la «perimetrazione della fonte» mettendo così una parola definitiva all’ennesimo rischio ambientale.

    L’emergenza rifiuti…che nessuno vuole

    Se sul Tirreno il tira e molla sulla discarica va avanti da quasi venti anni, sul versante jonico della provincia, il sito destinato a servire l’impianto di trattamento dei rifiuti di Siderno, non è stato nemmeno individuato. Nonostante la possibilità di incassare le royalties per la presenza del sito sul proprio territorio comunale (Siderno incassa 7 euro per ogni tonnellata di monnezza trattata nel Tmb) nessuno dei 42 sindaci infatti si è fatto avanti per avanzare la propria candidatura.

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    I capannoni dell’impianto di Siderno

    Questo stallo imbarazzante dura da anni. Non si è fermato nemmeno davanti alla nomina dell’ennesimo sub commissario regionale che, nel 2020, avrebbe dovuto d’imperio individuare un sito. Alla soluzione dall’alto, però, si preferì una scelta condivisa tra tutti gli amministratori della Locride che, da allora, non sono riusciti a trovare un’intesa. Sul rinvio della scelta del luogo, va detto però che almeno in questa occasione si è preferito, al contrario di quanto successo a Melicuccà, attendere la relazione sui territori che rispondono alla caratteristiche tecniche necessarie ad un intervento di questa portata.

    Ne resterà solo uno

    Arrivata la mappa, ora ci si concentrerà sui comuni da escludere: quelli che non rientrano per conformità del terreno così come quelli che ospitano, o hanno ospitato in passato, impianti o siti destinati ai rifiuti. Escluse quindi Caulonia, Bianco e Melito, che ospiteranno i centri di smistamento di zona. Fuori anche Casignana, nel cui territorio ricade la terrificante discarica dismessa. E fuori quindi anche Siderno, dove è presente il Tmb su cui a giorni si attende la pronuncia del Tar che dovrà decidere sui lavori di rewamping che prevedono nuove costruzioni per oltre 60 mila metri quadri. Di quanti ne mancano, ne resterà soltanto uno. E dovranno sceglierlo gli stessi sindaci.

  • Gioffrè: «Lobby masso-bancarie e colletti bianchi creano così il buco nei conti della Sanità»

    Gioffrè: «Lobby masso-bancarie e colletti bianchi creano così il buco nei conti della Sanità»

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    La metafora veicola una suggestione da scrittore, ma la sostanza restituisce il pragmatismo del managerSanto Gioffrè nella vita ha fatto e fa entrambe le cose. Dunque, se gli si chiede cosa pensi della creazione dell’Azienda Zero come cura per la sanità calabrese, risponde così: «Mi sembra un tentativo di prendersi la carne e lasciare le ossa alle Asp».

    La lobby masso-bancaria e la Sanità calabrese

    Lui un’Asp l’ha guidata. Nel 2015 è stato commissario straordinario dell’Azienda più inguaiata di Calabria, quella di Reggio, raccontando poi quell’esperienza in un libro-testimonianza sulla «grande truffa nella sanità calabrese» . Quanto il suo sguardo sul «sistema» sia disincantato lo si intuisce subito: «C’è, almeno dal 2005, una lobby masso-bancaria che in combutta con i colletti bianchi ha creato un meccanismo attraverso il quale si è reso impossibile conoscere o risalire alla vera contabilità delle Asp».

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    L’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria

    Il nodo, secondo Santo Gioffrè, sta tutto lì: «Se non ricostruiscono il debito, portando a galla tutti gli interessi che ci sono dietro, possono inventarsi pure la luna». Dunque l’Azienda zero «in linea di principio potrebbe anche funzionare, ma in un contesto sano». In quello attuale, «se non sai se ciò che stai pagando è già stato pagato, come fai?». C’è poco da girarci attorno: «Bisogna accertare chi si è preso i soldi, quanti ne ha presi e come li ha presi. Un’operazione di questo tipo si vuole fare? Serve una volontà di ferro».

    Il debito mai quantificato

    Proprio in questi giorni Roberto Occhiuto si è mostrato sicuro: «Abbiamo messo su una procedura – ha annunciato su Facebook – per accertare il debito entro il 31 dicembre 2022». Se ne occuperanno dei «gruppi di lavoro» che, tra il Dipartimento regionale e le Aziende del servizio sanitario, dovrebbero avere il supporto della Guardia di finanza per provare a capire quanto sia grande il buco nei conti. E così riuscire dove hanno fallito, in 12 anni di commissariamento, fior di generali delle stesse Fiamme gialle e dei carabinieri.

    Fin dall’avvio del Piano di rientro (era la vigilia di Natale del 2009) sono stati macinati commissari e spesi miliardi senza cavare un ragno dal buco. Con l’aggravante che ci si è avvalsi di una società, la Kpmg Advisory, che doveva appunto dare una mano nella ricognizione e riconciliazione del debito pregresso. È finita malissimo. Carlo Guccione ha dichiarato in consiglio regionale che, dal 2008, questa società ha ricevuto compensi per 11 milioni di euro. Ma l’entità del debito ancora non la sappiamo.

    La Kpmg e quell’ufficio regionale

    La storiaccia calabrese della Kpmg si incrocia, a questo proposito, con quella di una sigla poco nota ai non addetti ai lavori, BDE, che significa Bad Debt Entity. «Si trattava di un ufficio creato in Regione nel 2010 con l’intento di ripianare i debiti delle Aziende sanitarie e ospedaliere», spiega il manager-scrittore. I soldi, circa 500 milioni di euro, arrivavano da un mutuo contratto dalla Regione. «I debiti si pagavano in base alla certificazione delle fatture effettuata da Kpmg. Dopo 4 anni (fine ottobre del 2014) le somme residue sono state date, con una specie di forfait, alle Aziende: “pagate voi”, dissero da Catanzaro. E le Aziende cominciarono a fare le transazioni in base alle tabelle fornite da Kpmg».

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    Una delle sedi dela Kpmg, colosso internazionale della revisione contabile

    Il meccanismo si inceppa

    In uno schema di transazione utilizzato spesso dalle Aziende si sostiene che grazie alla BDE ci sarebbe stata «una riduzione del livello di indebitamento verso gli istituti tesorieri e un decremento dei relativi interessi passivi sulle anticipazioni di cassa nel corso dell’esercizio 2015». Qualcosa però deve essersi poi inceppato visto che negli anni successivi sono emerse «varie difficoltà da parte delle Aziende Sanitarie nell’efficace utilizzo delle risorse ricevute per il pagamento del debito pregresso, dovute principalmente alla carenza di figure professionali e competenze tecnico specialistiche nello svolgimento delle attività amministrative per il perfezionamento con i debitori di transazioni e nella emissione dei mandati di pagamento, nonché a difficoltà connesse alla verifica delle partite debitorie già pagate in esecuzione di assegnazioni giudiziarie, al fine di evitare pagamenti multipli per medesime fatture».

    Le origini del bilancio orale secondo Santo Gioffrè

    Ecco, le fatture pagate due volte ai privati. È proprio ciò che si è puntualmente verificato – come di recente confermato dalla Corte dei conti – e che Gioffrè ha denunciato. Da anni va ripetendo, carte alla mano, cosa si celi dietro i «pignoramenti non regolarizzati» a cui «mai nessuno, dal governo a ogni istituzione che ne avrebbe il dovere, ha voluto mettere mano». Come funzionava il sistema? «Le aziende creditrici si rivolgevano al giudice, che ordinava il pignoramento presso terzi, cioè alla banca che svolgeva il servizio di Tesoreria per l’Azienda. L’istituto bancario però non trasmetteva all’Asp le minute delle fatture che pagava. È questa l’origine del famigerato “bilancio orale” che ha sconquassato tutto. L’Asp non negativizzava quel debito, che rimaneva sempre attivo, anche se i soldi se li erano presi».

    Dietro ci sarebbe la «lobby» che, grazie ai mancati controlli e a qualche complicità nelle stanze delle Asp, avrebbe provocato una lievitazione spropositata di pignoramenti non regolarizzati. Che quando Gioffrè si è insediato, a marzo del 2015, ammontavano a «circa 400 milioni di euro», ai quali va aggiunto il resto del contenzioso. «Quando ho capito il meccanismo mi sono messo in testa di ricostruire il bilancio, per farlo però avevo bisogno di venti persone che esaminassero ogni tipo di pagamento fatto. E lì mi hanno fermato».

    In nove anni 600 commissari ad acta

    Questo fa capire perché nessuno, dal 2013, sia riuscito ad approvare il bilancio dell’Asp di Reggio, dove in due anni si sono insediati «ben 600 commissari ad acta per il recupero crediti». Gioffrè legge incredulo la relazione in cui un suo predecessore parlava – era il 2014 – di «quasi 349 milioni corrispondenti a mandati di pagamento effettuati ma non ancora contabilmente imputati e regolarizzati». Vi si aggiungeva che «nel passaggio di consegne dal vecchio al nuovo tesoriere non sarebbero state fornite le carte e tutto ciò che veniva pagato non veniva inserito nel sistema di contabilità».

    Tutte fuori dal Piano di Rientro, Calabria esclusa

    Questa sarebbe l’origine di un disastro debitorio che, negli anni successivi, sarebbe arrivato a sfiorare, solo a Reggio, il miliardo di euro. Tutto a causa di una «complicità verticale» che ha reso «marcio» l’intero settore. La controprova? Semplice: «Su 10 Regioni entrate in Piano di rientro ormai oltre un decennio fa 9 ne sono uscite. La Calabria invece rimane in questa condizione e rischia di non uscirne mai. Perché il Piano di rientro ha a che fare con la finanza e l’economia. I calabresi sono numeri».

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    La sede della Regione Calabria a Germaneto

    «Tutto ciò – conclude amaramente Gioffrè – ha prodotto un blocco delle assunzioni che ha fatto saltare due generazioni di professionisti e ha ridotto la capacità di dare risposte terapeutiche e di prevenzione. Con un aumento di mortalità pari al 4% rispetto alle regioni che non sono più in Piano di rientro. Non ci sono medici. C’è una sola università. Intanto paghiamo 330 milioni all’anno alle regioni del Nord per la mobilità passiva. Il sospetto che da Roma vogliano mantenerci in questa condizione sorge, eccome».

  • Tra Azienda zero e Corte dei Conti, la sfida di Occhiuto plenipotenziario (ma non troppo)

    Tra Azienda zero e Corte dei Conti, la sfida di Occhiuto plenipotenziario (ma non troppo)

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    L’ultima doccia di realtà è arrivata, bella fredda, dalla solita Corte dei conti. Che proprio nei giorni scorsi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha aggiunto alla vergogna dei fondi Covid non spesi – 77 milioni di euro di cui si era già parlato a fine anno – quella, ugualmente nota, degli importi pagati per prestazioni già remunerate (quindi pagati due volte), per prestazioni extrabudget, per interessi e indennità non spettanti. Somme «veramente notevoli» che ammontano, in totale, ad «almeno 61/65 milioni di euro». Cioè a oltre due terzi del disavanzo sanitario (91 milioni di euro) emerso dall’ultimo Tavolo “Adduce”.

    La strigliata della Corte dei Conti

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    Il passato e il presente della sanità calabrese sono questo. Li ha descritti impietosamente il procuratore regionale Maria Rachele Anita Aronica parlando del «frequente ricorso, da parte dei creditori delle Aziende sanitarie e, in particolare da parte degli Enti accreditati, allo strumento della cessione di credito a società deputate istituzionalmente al recupero crediti, senza però che il credito sussista o perché già pagato o perché non esistente, per di più, talora, anche sovrastimato».

    Le transazioni si sono spesso concluse con il pagamento di crediti in realtà già saldati o di interessi «con conseguenze devastanti in caso di mancato pagamento anche di una sola rata residuale e d’importo notevolmente inferiore rispetto a quanto già pagato». Sono inoltre stati corrisposti «abnormi importi (svariati milioni di euro) per interessi, rivalutazione e spese di giudizio, a seguito di decreti ingiuntivi non opposti e alla nomina dei Commissari ad acta per l’esecuzione del giudicato».

    L’Asp di Reggio, si sa, non ha presentato i Bilanci dal 2013 fino al 2018. L’Asp di Cosenza non lo fa dal 2017. Anche le altre Aziende (sanitarie e ospedaliere) non se la passano bene: nel 2020 tutte hanno chiuso in perdita. Le Asp di Reggio e Catanzaro sono state pure commissariate per mafia. E i vari commissari alla Sanità nominati dal governo «non sono riusciti a porre fine al caos contabile e organizzativo né, d’altra parte, hanno potuto contare su un valido reale supporto di personale».

    Il deficit della Sanità aumenta

    Questo aspetto lo ha evidenziato la Corte Costituzionale in una sentenza del 2021 sul Decreto Calabria. In quel verdetto la Consulta ha scritto: «Solo nella Regione Calabria (…) le irregolarità registrate nella gestione regionale della sanità hanno assunto livelli di gravità mai riscontrati in precedenza». La Corte dei conti ci ha messo sopra il carico: «Purtroppo il caos contabile e la disorganizzazione sono inevitabilmente fonte di mala gestio e terreno fertile per la criminalità organizzata che trova nutrimento in questi fenomeni, prosperando ancor di più».

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    La Corte Costituzionale

    Un quadro «desolante aggravato dal deficit che, come è stato detto in sede di parifica, non si è ridotto in misura sensibile dopo oltre dieci anni – dal 2009 – anzi è sicuramente di molto superiore, considerato che non si dispone di alcuni dati/Bilanci certi». Per il procuratore regionale è «evidente che se non si pone fine a questa insensata situazione attraverso un’adeguata programmazione, un congruo monitoraggio e utilizzo di idonei strumenti informatici nonché di personale, qualitativamente e quantitativamente appropriato, il rientro dal disavanzo sanitario non potrà avvenire».

    Passato, presente e… Azienda zero

    Ecco, proprio questo è il punto: come se ne esce? Il presidente/commissario Roberto Occhiuto ha individuato la soluzione – non l’unica ma certamente finora la più rilevante – nella creazione di un nuovo ente, l’Azienda zero. Esiste già in altre Regioni, in cui la situazione è certamente meno grave, e dovrebbe sovrastare tutti gli altri organismi del Servizio sanitario regionale accentrando funzioni molto importanti. Per Occhiuto questo è il futuro della sanità calabrese.

    Con l’Azienda zero, e con un aiutino della Guardia di finanza, è convinto di poter tagliare sprechi, doppi pagamenti e altre varie nefandezze mettendo ordine nei conti del sistema sanitario, con tanto di sospirata quantificazione del debito complessivo della sanità calabrese entro la fine del 2022. Dall’istituzione della nuova creatura a oggi si sono però consumati dei passaggi politici e legislativi che probabilmente, tra rimandi normativi e modifiche di articoli e commi, ai cittadini sfuggono nel loro significato reale.

    Concentrato di poteri

    La legge istitutiva è stata approvata dal consiglio regionale lo scorso 14 dicembre. Tra le competenze assegnate c’è la centralizzazione degli acquisti e l’espletamento delle procedure di selezione del personale delle Aziende del Servizio sanitario. Spese e concorsi, insomma, li gestisce direttamente l’Azienda zero. Che si prende anche gli accreditamenti delle strutture sanitarie e sociosanitarie. Non proprio bazzecole, se si pensa a cosa hanno significato e significano tuttora le assunzioni e gli interessi dei privati per la sanità calabrese.

    Ci sono poi le funzioni della Gestione Sanitaria Accentrata (GSA). Si tratta di un cervellone che tiene la contabilità di tutti i rapporti economici, patrimoniali e finanziari intercorrenti fra la Regione e lo Stato, le altre regioni, le Aziende sanitarie, gli altri enti pubblici e i terzi. Pure questa non è esattamente robetta. Viene da chiedersi cosa rimanga alle Asp e a cosa serva mantenere in vita il dipartimento regionale Sanità.

    Le prime modifiche ad Azienda zero

    Comunque: un altro passaggio legislativo si è consumato lo scorso 28 febbraio. Il consiglio regionale ha approvato due proposte di legge che modificano quanto era stato previsto a dicembre per il nuovo moloch della sanità calabrese. La prima porta la firma di due fedelissimi del presidente, Pierluigi Caputo e Salvatore Cirillo. Tra gli «interventi di manutenzione normativa» hanno inserito l’assegnazione all’Azienda zero di tutto il sistema regionale dell’emergenza urgenza 118 ed elisoccorso e il numero unico di emergenza 112.

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    Roberto Occhiuto con il fedelissimo Pierluigi Caputo

    Ma non solo: il nuovo ente attuerà «la programmazione, il controllo e il monitoraggio dei Lea in materia di emergenza urgenza e pre e intraospedaliera in linea con gli indirizzi regionali e nazionali». Anche questa non una cosa da poco: i Lea (Livelli essenziali di assistenza) risultano decisivi ogni qual volta il governo verifica lo stato di attuazione del Piano di rientro.

    Il baratto tra Governo e Occhiuto

    L’altra proposta approvata a fine febbraio porta invece la firma dello stesso Occhiuto. È composta da una serie di modifiche che, con ogni evidenza, il governo ha chiesto in cambio della decisione benevola di non impugnare la legge istitutiva. In alcuni casi si tratta di refusi o di chiarimenti interpretativi. In altri proprio no. Come nel caso della cosiddetta norma di salvaguardia.

    Questa ha lo scopo di «garantire le prerogative spettanti al commissario ad acta fino al termine del periodo di commissariamento, nonché a salvaguardare l’applicazione delle norme nazionali». Sembrano passaggi tecnici, ma sono sostanziali. La norma specifica che fino a quando sarà in atto il commissariamento sono «fatte salve, nell’attuazione della presente legge, le competenze attribuite al Commissario ad acta».

    Il pallino resta in mano a Roma

    La seconda aggiunta prevede che la legge su Azienda zero si applichi «laddove non in contrasto con quanto disposto dal decreto-legge 10 novembre 2020, n. 150 (il “Decreto Calabria”, ndr). È chiaro, insomma, che il governo si è tutelato: ha messo dei paletti all’Azienda zero e ha richiamato la centralità del commissario. Che sì, al momento è sempre Occhiuto, ma ove mai si incrinasse qualcosa nei suoi rapporti con Roma, Palazzo Chigi potrebbe nominare qualcun altro togliendo il pallino della sanità dalle sue mani. La nomina del direttore generale dell’Azienda zero, che ne è il legale rappresentante ed esercita le funzioni della GSA, spetta infatti al commissario ad acta.

    Azienda zero: un nuovo carrozzone?

    Il governatore/commissario, nel dare vita alla sua creatura, si è comunque guardato dal ricalcare la frettolosità di chi guidava la Regione nel 2007. Era l’epoca Loiero-Lo Moro e, a sorpresa, il consiglio regionale, con un emendamento al collegato alla Finanziaria, cancellò le 11 Aziende sanitarie locali per creare, al loro posto, le attuali cinque Asp provinciali. L’articolo 1 della legge sull’Azienda zero dispone invece che l’ente entri in funzione solo nel momento in cui la giunta regionale approverà una delibera che ne disciplini i tempi di attuazione.

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    La sede dell’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza

    Dunque al momento esiste solo sulla carta. E resta da vedere se la creazione di questa Azienda, che come ogni nuovo ente pubblico in Calabria è ad alto rischio carrozzone, possa davvero rivelarsi la cura giusta per le purulenti ferite della sanità calabrese. Che continuano a sanguinare debiti e disavanzo. E assorbono, come da ultimo bilancio approvato dalla Regione, il 62% delle risorse a disposizione: 3,9 miliardi di euro solo per il 2022.

  • Con la cultura si mangia, ma la Regione non lo sa

    Con la cultura si mangia, ma la Regione non lo sa

    Nella Calabria delle aspiranti capitali deluse (Diamante e Capistrano), di quelle che ce l’hanno fatta ma si sono impelagate nelle polemiche (Vibo) e di quelle che sognano a occhi aperti facendo finta di non vedere la realtà (la Locride), la cultura resta una chimera. Per lo più se ne fa materiale da brochure o da programma elettorale, e a decretarne gli indirizzi sono spesso personaggi mitologici, metà direttori artistici e metà amministratori locali, in una promiscuità di rapporti e funzioni che prescinde quasi sempre dalle reali competenze.

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    La squadra fortissima di Primavera dei teatri: da sinistra Settimio Pisano, Dario De Luca e Saverio La Ruina

    Nell’attuale giunta regionale nessuno detiene la tradizionale delega perché se n’è scelta una più modernista («Attrattori culturali»). Il marketing però è un’altra cosa. E molto di ciò che si spaccia per arte e cultura è in verità commercio puro: nomi altisonanti usati per fare quantità, bandi discutibili e progetti di dubbia consistenza a drenare finanziamenti. Ma va anche sfatato il luogo comune della mancanza di risorse: i soldi, per la cultura in Calabria, ci sono. Lo conferma Settimio Pisano, che da anni si occupa di curatela nel campo del teatro e delle arti performative. È quello che si dice un addetto ai lavori (direttore generale e responsabile della programmazione internazionale del festival Primavera dei Teatri di Castrovillari, nel 2019 ha ricevuto il Premio UBU come “Miglior curatore/organizzatore”) e, per questo, gli abbiamo posto qualche domanda.

    Molto banalmente: in Calabria, con la cultura, si mangia?

    «Certo. Nel comparto lavorano migliaia di persone e intorno si genera un indotto importante. Bisognerebbe fare molto di più, non soltanto immettendo più denaro nel settore ma gestendolo meglio. Il punto non sono le risorse, ma come vengono impiegate».

    Che tipo di problemi riscontrano i lavoratori del settore nel rapporto con gli enti pubblici calabresi, in particolare con la Regione?

    «Bisogna prendere atto di una situazione evidente: la Regione Calabria non è in grado di gestire efficacemente il settore artistico-culturale e non potrà farlo finché non si doterà di specifiche competenze professionali. In oltre vent’anni di attività ho visto decine di assessori, dirigenti e funzionari. Molti sono stimati professionisti e si sono spesi con rigore e sensibilità per svolgere al meglio il proprio lavoro. Tuttavia i problemi permangono, anzi si aggravano col tempo».

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    La sede della Giunta e degli uffici regionali a Germaneto

    Perché?

    «La scarsa considerazione di cui gode il settore artistico e la conseguente trascuratezza gestionale, le pastoie burocratiche e l’incapacità della politica di governarle, sono questioni che hanno un peso determinante. Ma la faccenda è più complessa».

    Come sempre. Ma provi a spiegarlo…

    «C’è un problema strutturale. L’organizzazione della Regione e le sue competenze interne non sono adeguate costitutivamente a governare il settore. Serve un ente intermedio, sul modello delle Film Commission regionali, che abbia al suo interno le professionalità e le competenze adeguate. Una Calabria Live Commission, un’istituzione a partecipazione pubblica e privata in grado di produrre una visione corretta, tempi di programmazione certi, conoscenza specifica e sul campo delle varie discipline artistiche, un alfabeto comune con gli addetti ai lavori, regole impermeabili all’invasività della politica e ai cambi di amministrazione, avvisi pubblici redatti in base a obiettivi reali con adeguate azioni di monitoraggio e valutazione dei progetti.

    Gli operatori del settore artistico sono professionisti e meritano una governance all’altezza. Alla guida del settore servono profili professionali precisi: curatori, mediatori culturali in grado di coniugare sensibilità artistica e competenze manageriali, riconosciuti e attivi in ambito nazionale ma ancorati al territorio regionale. Soprattutto non servono artisti: gli artisti facciano gli artisti».

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Con Roberto Occhiuto alla Cittadella non è cambiato niente?

    «È un po’ presto per valutare l’operato della nuova Giunta. Certamente la cultura non è stata tra le priorità di questi primi mesi. Adesso però è urgente darsi una mossa. Ma sono certo che il presidente Occhiuto abbia la giusta sensibilità per affrontare e migliorare la situazione, del resto da consigliere regionale nel 2004 ha redatto e firmato la prima Legge regionale sul Teatro».

    Ma ci saranno anche delle lacune dall’altro lato, quello di chi “produce” arte, no?

    «La lacuna più grave è l’incapacità di produrre un’offerta artistica plurale e di alta qualità. A guardare i principali cartelloni è evidente un’omologazione su un tipo di offerta mainstream, commerciale, di puro intrattenimento. Offerta assolutamente legittima per la quale, al limite, si può discutere della reale necessità di sostegno con soldi pubblici. Ma è possibile che i calabresi restino esclusi da quanto accade nel panorama artistico contemporaneo nazionale e internazionale? In Europa il paesaggio artistico è in continua evoluzione, è in atto un ricambio generazionale che sta portando innovazione nei linguaggi, nei contenuti, nelle estetiche».

    Mentre qui a che punto siamo?

    «Beh… mi chiedo con quale orizzonte artistico, culturale, estetico stiamo crescendo i nostri figli. Gli stiamo offrendo le stesse possibilità di visione, di formazione del gusto, di riflessione sulle nuove forme d’arte e di cittadinanza, di partecipazione al dibattito culturale che hanno i loro coetanei italiani ed europei? La risposta è no. E non è semplicemente responsabilità di cattive politiche pubbliche, che pure sono determinanti. Il punto è la qualità di un’offerta che, nella maggioranza dei casi, è fortemente provinciale e sempre uguale a sé stessa. È un problema, ancora, di profili professionali non adeguati a produrre un rinnovamento nella proposta artistica. È un problema di mancato confronto col resto del mondo, di mancata conoscenza di quanto accade oltre i confini regionali nelle arti contemporanee. Vero, ci sono le eccezioni: esistono alcune realtà che spingono in direzioni nuove, ma sono poche e limitate a contesti dai quali fanno molta fatica ad uscire per raggiungere un pubblico più ampio».

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    Il TAU, Teatro auditorium dell’Unical

    Come si può sprovincializzare la cultura in Calabria?

    «Confronto, confronto e ancora confronto con quello che succede fuori da casa nostra. Visione, conoscenza, ibridazione: per i cittadini e per gli artisti. Per questi ultimi anche di più: gli artisti sono i primi a chiudersi nel loro studio o nel loro teatro e a ignorare quanto accade fuori. E questo è un problema serio per la Calabria, dove quasi tutti gli operatori del settore si definiscono artisti. Dal punto di vista politico, poi, è necessario rafforzare le poche esperienze che stanno dimostrando di aprirsi all’esterno e al nuovo, accompagnarle verso una crescita che le affranchi dalla condizione di isolamento e subalternità».

    Il rapporto tra politica e cultura, in Calabria, sembra ancora passare per altre dinamiche…

    «È necessaria un’inversione del paradigma secondo il quale la proposta “istituzionale” è quella mainstream, mentre il resto è sperimentazione per pochi eletti. La prima, pur legittima e gradevole, è tuttavia il passato, è un orizzonte limitato che ci impedisce di guardare oltre. “Il resto” è il presente e il futuro, è la strada per riavvicinarci al resto d’Italia e d’Europa, per contribuire alla crescita di una generazione di cittadini più consapevoli e critici in grado di desiderare, immaginare e infine costruire un futuro diverso. È necessaria una rottura, un ribaltamento di prospettiva, un cambio di passo deciso e improvviso. La comunità artistica calabrese deve farsene carico».

  • Tutti gli uomini di Valeria Fedele: il socialista, il pentito, il… Delfino

    Tutti gli uomini di Valeria Fedele: il socialista, il pentito, il… Delfino

    Valeria Fedele è una politica dal basso profilo, che ama accentuare il suo lato da tecnica giurista e burocrate. Attuale consigliera regionale di Forza Italia, in campagna elettorale in uno spot inneggiava a scegliere la competenza. Catanzarese, dei suoi quasi ottomila voti di preferenza, la metà li ha ottenuti nella provincia di Vibo Valentia.
    Nel suo background politico si rileva una candidatura al Senato nel 2018 con gli azzurri, mentre è consigliera comunale del suo paese, Maida (CZ) dal 2007.
    Se nella sua prima consiliatura comunale è stata vice sindaca e assessora, sia nel 2012 che nel 2017 Valeria Fedele puntava invece a diventare sindaca con una lista civica. Ma è arrivata sempre terza.

    Tornando ai primi anni in politica, è stata coordinatrice cittadina, componente della direzione regionale e responsabile nazionale della segreteria femminile del movimento “Italiani nel mondo” dell’ex senatore Sergio De Gregorio.
    Quest’ultimo, lo si ricorderà, è stato indagato per corruzione nell’ambito del procedimento sulla compravendita dei senatori da parte di Berlusconi che portò alla caduta del secondo Governo Prodi. Il Cavaliere se la cavò con la prescrizione, De Gregorio patteggiò una pena di 20 mesi nel 2013. «Tra il 2006 e il 2008 Berlusconi mi pagò quasi 3 milioni di euro per passare con Forza Italia» affermò.

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    Berlusconi e De Gregorio

    La società dei D’Addosio

    Il braccio destro storico del senatore in questione, nonché coordinatore organizzativo nazionale e componente dell’ufficio di presidenza del movimento “Italiani nel mondo”, era Gennaro D’Addosio. È un ex politico locale socialista in quel di Napoli e, soprattutto, il compagno di Valeria Fedele. D’Addosio è il proprietario della Energy Max Plus srl, società di famiglia nata nel 2007. L’azienda ha sede in Campania e in Calabria (dove ha molte commesse pubbliche), si occupa di impianti tecnologici e di produzione di energia alternativa.

    Tra i proprietari di quote societarie figura il figlio di Gennaro, Gianluca D’Addosio. Quest’ultimo, già giornalista dell’Avanti!, nel 2008 finì in arresto nell’ambito dell’inchiesta “Sim ‘e Napule’” coordinata dal pm della Dda di Napoli Catello Maresca.
    Il magistrato, alle amministrative partenopee dell’anno scorso, fu il candidato del centrodestra alla carica di sindaco, sostenuto dalla ministra per il Sud Mara Carfagna.

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    La ministra Mara Carfagna

    Un’altra proprietaria delle quote della Energy Max Plus è Concetta D’Addosio, detta Conny. Nella tornata elettorale appena citata si candidò contro Maresca nella lista civica “BassolinoXNapoli” ottenendo 90 preferenze. Alle Amministrative 2016 ci aveva già provato, invece, con Forza Italia a sostegno di Gianni Lettieri (con capolista Mara Carfagna) ottenendo 962 voti personali. La D’Addosio era andata a lezione di cambi di casacca da un’autorità indiscussa della materia: nel 2011 era candidata come riempilista alle Comunali di Crotone a sostegno della trasformista per antonomasia Dorina Bianchi.

    Valeria Fedele, Tallini e i subappalti

    In questo asset societario (che comprende anche un altro parente, Leandro D’Addosio) si è inserita anche Valeria Fedele. Nel suo curriculum dichiara, infatti, di aver svolto il ruolo di direttore generale di Energy Max Plus s.r.l. dal dicembre 2015 al gennaio 2019. L’organigramma aziendale pubblicato nel blog personale di Gennaro D’Addosio, tuttavia, non prevede quella figura professionale, ma solo quella di direttore allo sviluppo e direttore tecnico.
    Dal febbraio 2019, comunque, la Fedele è divenuta direttore generale della Provincia di Catanzaro. La società della famiglia del compagno, intanto, ha continuato a vincere gare d’appalto nello stesso territorio, come quella sul servizio di manutenzione del verde dell’Asp di Catanzaro nel 2020 (per 80mila euro).

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    Domenico Tallini (Forza Italia)

    In una interrogazione del 19 novembre 2019 (la numero 521), l’allora consigliere regionale Domenico Tallini (legato politicamente alla Fedele) chiese conto alla Giunta regionale in merito al mancato pagamento di talune ditte subappaltatrici di Manitalidea spa, destinataria di una commessa dalla Regione Calabria. Manco a dirlo, una delle ditte subappaltatrici era la Energy Max Plus del compagno di Valeria Fedele.
    Conflitto di interesse? Se davvero tale, permarrebbe ancora oggi: la società risulta nell’elenco delle ditte registrate presso la Regione Calabria per manutenzione e installazione di impianti termici.

    Le dichiarazioni shock del killer Pulice

    Non solo questioni aziendali. A turbare la Fedele c’è anche un verbale di interrogatorio datato 7 ottobre 2017, acquisito su consenso delle parti, incluso il Pm De Bernardo, all’udienza dibattimentale del processo “Imponimento” dello scorso 17 dicembre. Un documento che potrebbe far non poco scalpore.
    A rendere dichiarazioni davanti ai pm Vincenzo Luberto ed Elio Romano in quel verbale c’è il killer ‘ndranghetista (considerato esponente apicale delle cosche confederate “Iannazzo e Cannizzaro-Daponte”), oggi pentito e collaboratore di giustizia, Gennaro Pulice di Lamezia Terme.

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    Il pentito Gennaro Pulice

    «Conosco Fedele Filadelfio anche perché sono stato fidanzato con la di lui figlia che si chiama Valeria dal ’92 al 2000. È un imprenditore originario di San Pietro Lametino, a Lamezia si occupa di uno scasso e gestisce il porticciolo turistico di Gizzeria. È vicino a tutte le famiglie lametine in quanto è stato sempre dedito alle truffe alle assicurazioni e non ha mai fatto mancare il proprio apporto agli ‘ndranghetisti. Praticava le truffe per il tramite dei suoi legami con periti e con i medici» dichiara a verbale Pulice.

    L’amore uccide

    Una storia adolescenziale, quella (secondo le dichiarazioni rese) con l’attuale consigliera regionale di Forza Italia, di poco conto se non fosse che già in tenera età Pulice divenne un assassino. Proprio negli anni da lui indicati come quelli del fidanzamento con la futura politica azzurra, uccise da minorenne in sequenza Salvatore Belfiore nel 1995 (nel giorno in cui ricorreva la data di omicidio del padre, su sollecitazione del nonno), Antonio Dattilo e Gennaro Ventura nel 1996.

    Un amore sgradito in famiglia secondo il pentito. Che a verbale dichiara: «Dopo aver interrotto il fidanzamento, Nino Torcasio mi disse che Fedele aveva, addirittura, cercato di assoldare un killer tra i Torcasio in quanto non sopportava che io fossi fidanzato con la figlia. Fedele aveva chiesto il killer proprio a Nino Torcasio. So che Fedele era legato anche agli Anello per come riferitomi dai fratelli Fruci e dallo stesso Fedele Filadelfio».
    Circostanze e rivelazioni tutte da riscontrare, ma che sono messe nero su bianco e acquisite nel processo in corso.

    L’incontro tra Fedele e Anello

    Il padre della consigliera regionale, Filadelfio Fedele, detto “Delfino”, in passato è stato assolto in vari procedimenti a suo carico. Assolto nel 2015 nel processo Fedilbarc per la vicenda inerente il porticciolo di Gizzeria Lido; assolto nel processo “Medusa” in abbreviato, con le accuse di aver favorito la cosca Giampà dal 2005 al 2012 respinte con formula piena.

    Seppur non indagato, il suo nome compare in altre carte di “Imponimento” in riferimento alle elezioni comunali a Maida del giugno del 2017. Nei documenti si legge che Filadelfio Fedele, detto “Delfino”, padre di Valeria, era pronto ad intercedere per la figlia, allora candidata sindaca, chiedendo aiuto a Rocco Anello, considerato dagli inquirenti (e dal Tribunale di Vibo Valentia) il boss della cosca Anello-Fruci. Il tutto, compreso l’incontro col presunto boss condannato a 20 anni lo scorso gennaio con rito abbreviato, ha a corredo intercettazioni telefoniche ed ambientali della Dda di Catanzaro, in particolare un dialogo tra Anello e Fedele del 24 marzo 2017.

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    Il municipio di Maida

    In quella tornata elettorale Valeria Fedele arrivò ultima tra i candidati sindaci, divenendo consigliera comunale. Lo si ripete, né Fedele padre né la figlia risultano indagati. Ma il faro della Procura sull’intermediazione “politica” del presunto boss Anello in quella tornata amministrativa si evince dalle carte prodotte nel processo Imponimento.
    Difatti, nel capo di imputazione di Giovanni Anello, ex assessore comunale di Polia ritenuto factotum del presunto boss, si legge: “Contribuiva a formare la strategia del sodalizio in ambito politico, come quando promuoveva il sostegno della cosca alle elezioni comunali di Maida del 2017 dei candidati al Consiglio comunale Francesco Giardino cl. 87 (al Consiglio comunale) e Valeria Fedele (candidata alla carica di sindaco)”.
    La vita da politica regionale di Valeria Fedele pare ancora dover decollare. Ma – tra situazioni scomode, conflitti di interesse e atti di processi di mafia – inizia con dei macigni di cui farebbe volentieri a meno.

  • Amalia Bruni e il giudice, le affinità “elettive”

    Amalia Bruni e il giudice, le affinità “elettive”

    «Questo popolo di santi, di poeti, di navigatori, di nipoti e di cognati…» scriveva Ennio Flaiano degli italiani e la frase sembra ancora calzare a pennello, decenni dopo, per una vicenda che riguarda Amalia Bruni. La giudice Francesca Garofalo, presidente di sezione civile al Tribunale di Catanzaro, è stata anche la presidente del collegio giudicante del ricorso di Annunziato Nastasi (M5S) sulla presunta ineleggibilità della Bruni, rigettato con una ordinanza dello scorso 14 febbraio, depositata dieci giorni dopo. Amalia Bruni è rimasta in Consiglio regionale, il pentastellato ha dovuto pagare circa 3.250 euro di spese legali.

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    Commensali abituali

    Le motivazioni dietro quest’esito sono materia per giuristi. Qualche perplessità sulla composizione del collegio potrebbe non essere peregrina, però. Perché, anche di fronte a decisioni pienamente legittime, esistono questioni di opportunità. I magistrati, infatti, devono astenersi dai processi in determinati casi, tra cui quello in cui il giudice o il coniuge sia “commensale abituale” di una delle parti di causa. Ossia quando il magistrato abbia con la parte una frequenza di contatti e di rapporti tale da far dubitare della sua serenità di giudizio.

    La giudice Garofalo è di Lamezia Terme. Suo marito Fabrizio Muraca era nella lista “Oliverio Presidente” alle elezioni regionali del 2014 e ottenne 2.313 voti. Un anno dopo ci riprovò alle Comunali di Lamezia Terme nella lista del Pd, racimolando 363 preferenze personali. Il “suo” candidato sindaco era il dottor Tommaso Sonni, marito di Amalia Bruni.

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    Il santino di Fabrizio Muraca, marito della giudice Garofalo, candidato a sostegno del marito di Amalia Bruni

    Una lunga sfilza di cognati

    Fratello di Fabrizio Muraca e, quindi, cognato della Garofalo è Pierpaolo Muraca. Nel 2010 nella lista del Pd a sostegno di Gianni Speranza ha raccolto un bottino di 390 preferenze personali. Nella medesima lista era diventata consigliera comunale con 315 voti Aquila Villella, cognata di Amalia Bruni (ha sposato il fratello, Mimmo Bruni) e candidata alle ultime Regionali in suo sostegno sempre nella lista del Pd. Pierpaolo Muraca in quella stessa consiliatura divenne assessore comunale all’Ambiente.

    Fabrizio e Pierpaolo hanno una sorella, Maria Gabriella. Genealogista, rientra nel personale dell’associazione per la ricerca neurogenetica che ha Sonni come tesoriere e sua moglie Amalia Bruni nel comitato scientifico. Il marito di Maria Gabriella Muraca, quindi cognato anch’egli della giudice Francesca Garofalo, è il dottor Raffaele Maletta. Quest’ultimo fa parte dell’equipe di medici del Centro regionale di Neurogenetica diretto da Amalia Bruni.

    Meglio astenersi su Amalia Bruni?

    Con tutti questi incroci (e cognati) di mezzo, insomma, e in una città che per popolazione non compete certo con New York è difficile non pensare che l’ex sfidante di Roberto Occhiuto e Francesca Garofalo possano corrispondere all’identikit di commensali abituali o che ragioni di convenienza avrebbero potuto spingere il magistrato ad astenersi dal giudizio in questione. Ma anche i potenziali conflitti d’interessi in Calabria sono abituali e nessuno ha dato loro peso.

  • Il buco nell’acqua, la Calabria mette a rischio i fondi per tutta l’Italia

    Il buco nell’acqua, la Calabria mette a rischio i fondi per tutta l’Italia

    Il rischio che si faccia un enorme buco nell’acqua è direttamente proporzionale alla banalità della battuta. La questione è però molto seria: se le risorse idriche calabresi entro il prossimo 30 giugno non verranno affidate a un soggetto gestore c’è la contreta possibilità che non solo la Regione Calabria, ma anche tutte le altre Regioni italiane, perdano l’opportunità di utilizzare i finanziamenti europei destinati al settore: dal Pnrr ai fondi Ue 2021/2027 fino alla riprogrammazione del React Eu. Un potenziale disastro.

    Quattro regioni mancano all’appello

    Per la fine di giugno è infatti fissata la deadline per l’affidamento a regime del Servizio idrico integrato e, a livello nazionale, l’Italia deve garantire alcune «condizioni abilitanti». Che mancano, o sono solo parzialmente soddisfatte, per 4 Regioni: Molise, Campania, Sicilia e, appunto, Calabria. Le condizioni abilitanti sono i pre-requisiti che gli Stati membri devono soddisfare per poter fruire dei fondi europei. Il dipartimento per le Politiche di coesione della Presidenza del Consiglio dei ministri specifica che «affinché la singola condizione possa ritenersi soddisfatta, è necessario che l’adempimento copra la totalità dei criteri previsti e, per alcune condizioni abilitanti, la copertura dell’intero territorio».

    Conseguenze per tutti

    È proprio il caso del Servizio idrico. «Eventuali carenze, anche parziali in ordine a specifici criteri o ambiti regionali, non permetterebbero di asseverare la condizione come soddisfatta, con conseguenze penalizzanti per l’intero Stato membro». Dunque le spese collegate all’obiettivo specifico, benché certificabili, non potrebbero essere rimborsate allo Stato membro «per quanto riguarda la quota Ue, finché l’adempimento non sia certificato dalla Commissione». La Calabria sconta un pesante ritardo verso l’individuazione del soggetto gestore unico previsto dalla normativa nazionale (D.lgs. 152/2006) e regionale (l. r. 18 del 18 maggio 2017).

    In attesa del servizio idrico integrato

    L’affidamento della gestione del servizio idrico integrato, che è una condizione abilitante per usufruire dei finanziamenti europei, spetta per legge all’ente di governo d’ambito, ovvero l’Autorità idrica calabrese in cui sono rappresentati i Comuni. L’Aic nei mesi scorsi ha indicato una strada: l’affidamento a una società, creata sulle ceneri della “Cosenza Acque”, che si dovrebbe chiamare “Acque Pubbliche della Calabria”, un’Azienda speciale consortile in cui dovrebbero entrare, come soci, tutti i 404 Comuni calabresi ed eventualmente altri enti pubblici.

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    Assemblea dell’Autorità idrica calabrese con i sindaci

    Sorical fino al 2034?

    Sorical ha la concessione della grande adduzione dell’acqua fino al 2034. È una partecipata al 53,5% dalla stessa Regione e per la restante quota è in mano privata. Nel tentativo – in corso da quasi un anno e a un decennio dalla messa in liquidazione – di essere ripubblicizzata, si ritrova alle prese con le condizioni poste dal suo principale creditore. Si tratta di una banca irlandese di cui abbiamo scritto che ha ceduto i suoi circa 85 milioni di euro di crediti a un Fondo governativo tedesco.

    Che, stando a quanto riportato dalla Gazzetta del Sud domenica scorsa, pare si stia mettendo di traverso. Dunque, da un lato, se non si supera questa impasse non si può affidare l’intero servizio a Sorical. Ma anche la soluzione, pur indicata come provvisoria, di affidare solo la fornitura al dettaglio alla nuova “Acque Pubbliche della Calabria”, lasciando l’ingrosso alla società mista le cui quote private sono pignorate dai tedeschi, sembra essere altrettanto irta di ostacoli.

    La diga del Menta, gestita dalla Sorical, società partecipata della Regione Calabria

    Chi metterà i soldi?

    L’Aic sta sottoponendo ai Comuni, illustrandole negli incontri delle Conferenze territoriali di zona, le delibere da approvare in consiglio comunale per entrare nella nuova società. Ben pochi però finora lo hanno fatto. Si sta tentando pure la strada dei Contratti di rete, ma i comprensibili dubbi dei sindaci, soprattutto relativi al «chi ci metterà i soldi», si moltiplicano. Così il cronoprogramma iniziale, che prevedeva di arrivare ad avere un Piano industriale entro metà febbraio, e all’affidamento definitivo del servizio il 18 marzo, è già ampiamente non rispettato.

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    La multiutility di Occhiuto

    In mezzo c’è la Regione che, secondo quanto va ripetendo da tempo il presidente Roberto Occhiuto, punta a creare un’unica «multiutility» per gestire tutto: la fornitura dell’acqua dalla captazione fino ai rubinetti delle case, ma anche la depurazione e la riscossione delle bollette. Il tempo però stringe e in pochi mesi è difficile creare un simile soggetto. Le alternative sono due: rendere Sorical pubblica, ma bisogna pagare almeno 85 milioni di euro di debiti e potrebbe anche non bastare. La seconda possibilità è rendere operativa la “Acque pubbliche della Calabria”. Ma servirebbero risorse e personale che al momento non esistono.

    Tra Manna e Calabretta spunta Occhiuto

    Entrandoci, infatti, i Comuni dovrebbero versare 1 euro per ogni abitante nell’arco di tre anni. Poca cosa. I vertici dell’Aic stanno dunque cercando di interloquire con Utilitalia (Federazione che riunisce le Aziende operanti nei servizi pubblici rappresentandole presso le Istituzioni nazionali ed europee) per la redazione del Piano industriale. C’è poi il tentativo di trovare un sostegno economico da parte del Ministero, ma senza l’appoggio politico-istituzionale della Regione è dura.

    Sì, perché dalla Cittadella – che potrebbe anche entrare in “Acque pubbliche” come socio – non pare sia arrivato al momento alcun segnale di accompagnamento a questo percorso, che pure lo stesso Occhiuto aveva detto di voler intraprendere in via provvisoria per non perdere i fondi del Pnrr. È chiaro, allora, che tutto è subordinato a una partita politica: da un lato c’è l’Aic guidata dal sindaco di Rende e presidente di Anci Calabria Marcello Manna, dall’altro Sorical guidata dal leghista Cataldo Calabretta, in mezzo Occhiuto. Che vorrà certamente avere un ruolo di primo piano anche in un settore decisivo come questo.

    Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    I Comuni nella Sorical

    Intanto va detto che la via che porterebbe all’affidamento del servizio a una Sorical interamente pubblica non potrebbe essere percorsa se non mettendo dentro anche i Comuni, perché senza di loro non si può esercitare il controllo analogo previsto dalla gestione in house. Gli stessi Comuni, rispetto alla società “Acque pubbliche della Calabria”, sono d’altronde alle prese con una scelta che appare forzata, perché la legge 233/21 prevede, sostanzialmente, la possibilità dell’ente d’ambito di commissariare le gestioni in economia. Che in Calabria sono attualmente la quasi totalità, con i risultati che conosciamo.

    Chiare, fresche e dolci Acque pubbliche

    Se diventasse operativa la “Acque pubbliche”, che avrebbe sede legale a Cosenza, si instaurerebbe un rapporto di tipo negoziale con Sorical che, come avviene anche oggi, avrebbe competenza fino ai serbatoi comunali. Gli organi della nuova società sarebbero l’Assemblea composta da tutti i Comuni e gli enti pubblici coinvolti, il Consiglio di Amministrazione (composto da quindici membri, compreso il presidente, in rappresentanza delle cinque Province e delle diverse fasce di popolazione), il direttore (che, come il Cda, verrebbe nominato dall’Assemblea) e il collegio dei revisori dei conti.

    I crediti della Sorical

    I problemi storici però resterebbero immutati nella loro gravità. Sorical, nel bilancio 2020, ha inserito alla voce «crediti verso clienti» una somma di 96,5 milioni di euro (31 sarebbero dovuti dalla fallita Soakro, 14 dalla Lamezia Multiservizi, 13,9 dal Comune di Cosenza, 3,3 da Congesi). Nel bilancio di previsione approvato a fine anno dalla Regione, per rischi connessi alla riscossione delle somme relative al servizio idropotabile, vantati nei confronti dei Comuni in dissesto e predissesto e degli enti che non hanno sottoscritto piani di rateizzazione o accordi con la Regione, sono stati previsti 69,7 milioni di euro. I debiti maturati dai Comuni verso la Regione fino al 2004, anno in cui è stata creata Sorical, restano tra le «criticità rilevanti ancora irrisolte».

    Cataldo Calabretta, commissario della Sorical

    L’evasione dei comuni

    Secondo quanto dichiarato negli anni scorsi dagli stessi vertici Sorical, il servizio idrico calabrese registrerebbe un’evasione del 50%, con punte del 70%. A novembre del 2020 l’attuale commissario Calabretta dichiarava che i Comuni dovevano versare ancora 160 milioni di euro «con i quali si potrebbero coprire i debiti della società», che oggi ammontano in totale a 188 milioni. D’altro canto negli anni molti Comuni hanno contestato la determinazione delle tariffe, questione rispolverata in questi giorni anche dal Codacons calabrese.

    Perdite idriche pari al 52,3 %

    Qualche altro dato può essere utile a comprendere la complessità del problema. Le regioni del Mezzogiorno fanno registrare il 52,3% di perdite idriche: più di metà dell’acqua immessa nei sistemi di acquedotto viene cioè sprecata, a fronte di una media nazionale del 43,7% (Relazione annuale Arera 2020). Circa 1 milione e 450mila famiglie meridionali subiscono interruzioni della fornitura idrica (Istat, 2020). Il 20% del territorio italiano è a rischio desertificazione (Anbi, 2021).

    La Calabria senza servizio idrico integrato

    Secondo il governo nazionale la soluzione sta nelle gestioni industriali, che al Sud scarseggiano. Nel Pnrr sono individuate quattro linee di investimento e due riforme che hanno lo scopo di «garantire la sicurezza dell’approvvigionamento e la gestione sostenibile delle risorse idriche lungo l’intero ciclo».

    A questo sono riservate complessivamente risorse per 4,38 miliardi di euro, di cui una quota intorno al 51% secondo il governo sarà indirizzata al Mezzogiorno (circa 2,2 miliardi di euro). Ma la Calabria non ha ancora il servizio idrico integrato né un soggetto gestore che possa intercettare e, come si usa dire molto in questo periodo, mettere a terra questi potenziali finanziamenti. Nonostante si tratti probabilmente dell’unica occasione per mettere mano a reti colabrodo risalenti a mezzo secolo fa.

  • Cono Cantelmi, l’ex leader anticasta M5S portaborse da 150mila euro

    Cono Cantelmi, l’ex leader anticasta M5S portaborse da 150mila euro

    Se la Regione Calabria avesse un suo dizionario politico-antropologico lo si dovrebbe aggiornare, alla voce staff, con continui, sorprendenti innesti: l’ultimo è quello di Cono Cantelmi. Ovviamente non c’è da scandalizzarsi né da farne una questione morale, tanto più che tra i vituperati portaborse spesso – non sempre – ci sono bravi professionisti che non difettano di curriculum e competenze. Probabilmente sarà così anche in questo caso. Ma come si fa a non registrare che la traiettoria di certi percorsi appare, per così dire, quantomeno poco lineare? Cambiare idea è sinonimo di intelligenza, ma forse Cono Cantelmi ha in questo senso un po’ esagerato. Da candidato alla Presidenza della Regione del Movimento 5 Stelle, oggi si ritrova a fare da braccio destro a un esponente di primo piano della Lega.

    Cono Cantelmi, da aspirante governatore a portaborse

    Va detto che tra una circostanza e l’altra sono passati 8 anni. E lui, qualche tempo dopo l’esperienza fallimentare delle Regionali del 2014, si è allontanato dal mondo calabro-grillino. Però va detto pure che il suo era ancora il Movimento dei duri e puri, che mai avrebbero pensato che il loro leader calabrese potesse un giorno diventare il collaboratore esperto al 100% del presidente leghista del Consiglio regionale Filippo Mancuso. Invece nei giorni scorsi il salviniano più influente di Calabria ha indicato proprio Cantelmi per l’incarico di fiducia, che prevede un compenso di oltre 30mila euro all’anno.

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    Filippo Mancuso

    Parola d’ordine: lotta agli sprechi

    Avvocato di Catanzaro, Cantelmi nel novembre 2014 spiegava sul Blog delle Stelle che il primo punto del suo programma per la Calabria era ciò che sarebbe poi diventato una realtà su scala nazionale: il Reddito di cittadinanza. «I soldi – gli chiedeva un anonimo intervistatore – dove li prendete?». Risposta facile: «Attingeremo dal fondo di riserva per i debiti fuori bilancio, ma soprattutto faremo una guerra senza quartiere contro gli sprechi della casta in Regione: e lì i soldi ci sono eccome!».

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    Cantelmi sul palco e Nicola Morra al suo fianco

    Parole scolpite sulla roccia del sacro Blog. Altra domanda: «Da dove comincerà la lotta agli sprechi?». Ancora più facile: «Dai vitalizi dei consiglieri regionali. Ho chiesto agli altri candidati presidenti di sottoscrivere un impegno etico per ridursi lo stipendio a 2.500 euro e restituire i rimborsi elettorali, ma fanno finta di non sentire».

    Meno voti che click

    Con gli anni la furia anticasta si deve essere un po’ placata, ma Cantelmi non sembra aver dimenticato del tutto le sue posizioni di allora. Sul suo profilo Facebook compare infatti qualche post che richiama il grillismo delle origini. Come quello del 20 settembre 2021 con cui – cinque stelline gialle ad aprire e chiudere la frase – ha ricordato che «l’ambiente e la sua cura» sono sempre stati una sua «passione» ed un «impegno» anche durante le sue «precedenti militanze politiche».

    Un manifesto elettorale di Cono Cantelmi per le Comunali 2021 a Borgia

    In quei giorni stava di nuovo prendendo parte a una campagna elettorale, quella per le Comunali di Borgia. Candidato a consigliere a sostegno della riconfermata Elisabeth Sacco, Cantelmi ha preso 135 voti – per essere candidato alla Presidenza della Regione gli erano bastati 183 clic – e non è riuscito a entrare in consiglio comunale. Nel Comune del Catanzarese si è votato proprio il 3-4 ottobre scorso, stessi giorni in cui Mancuso prendeva sotto il vessillo della Lega i quasi 7mila voti che lo avrebbero proiettato sulla poltrona più alta del consiglio regionale. Mentre lui trionfava, il suo futuro collaboratore, già aspirante governatore 5 stelle, era candidato in una lista guidata da un’esponente del Pd: Elisabeth Sacco è componente dell’Assemblea regionale dem.

  • Guccione, il Parlamento può attendere? Tanto c’è il vitalizio

    Guccione, il Parlamento può attendere? Tanto c’è il vitalizio

    C’è marasma nel Pd cosentino, unica federazione provinciale a non aver ancora celebrato i congressi e unica dove il forzato e imposto “unanimismo” generale non ha attecchito. Già in precedenza lo scorso novembre si sfiorò la rissa tra l’assessore comunale della città bruzia Damiano Covelli e il presidente della commissione per il tesseramento Italo Reale. Nei confronti di quest’ultimo l’ex vicepresidente della Regione Nicola Adamo ha sbraitato «sei a Cosenza, non a Sambiase!», causando svariate polemiche social in quel di Lamezia Terme, città dove l’avvocato Reale (vicino ad Amalia Bruni, che si ostina ad autoincensarsi come leader dell’opposizione) è riuscito a “piazzare” come segretario cittadino Gennarino Masi, con buona pace dei Giovani Democratici guidati da Dario Rocca che han presentato più di un ricorso sul punto.

    Guccione, il Parlamento e l’incubo quote rosa

    Tornando in quel di Cosenza, è chiaro che la posta in gioco è quella da capolista alle prossime elezioni politiche, dove al taglio dei parlamentari corrisponde parallelamente il taglio delle aspirazioni di più d’un notabile locale. E se al Senato si vocifera che la partita sia chiusa con il segretario regionale Nicola Irto in testa pronto a dire “bye bye” a Palazzo Campanella, è chiaro che per la Camera dei deputati sarà Cosenza a battere i pugni.
    Ragionando con la legge elettorale vigente, però, se al Senato il capolista è uomo, alla Camera toccherà a una donna.

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    Il santino elettorale di Maria Locanto alle Politiche del 2018

    Forse proprio a quella Maria Locanto (già candidata alle politiche del 2013 con Scelta Civica di Mario Monti e nel 2018 con Civica Popolare di Beatrice Lorenzin) che Francesco Boccia vorrebbe a tutti i costi segretaria provinciale (difficilmente l’uscente Enza Bruno Bossio starà a guardare).
    Nel caos generale, l’ex consigliere regionale e anti-oliveriano di ferro Carlo Guccione col sogno di fare il parlamentare dopo una vita passata in politica, dallo scorso primo novembre incassa un lauto vitalizio, somma che si aggiungerà al suo stipendio mensile da dipendente regionale.

    Oltre 3.000 euro a vita per una legislatura

    La determina 713 del 4 novembre 2021, a firma del dirigente regionale delle risorse umane Antonio Cortellaro, liquida a favore di Guccione un vitalizio di 3.161,30 mensili lordi per il mandato di Consigliere regionale svolto nella IX legislatura, ossia dal 2010 al 2014. Il mandato da consigliere nella legislatura dell’era Oliverio, dal 2014 al 2020 in aggiunta all’anno di legislatura dell’era Santelli 2020-2021, gli “frutterà” invece una pensione differita con metodo contributivo tra qualche anno.

    Nelle more percepirà cifre molto lontane dai 145.642 euro degli eletti a Palazzo Campanella. Parliamo di 22.903 euro l’anno come dipendente regionale di categoria C (istruttore amministrativo), con indennità di struttura (da 10.730 euro annui) a seguito della nomina come componente interno nella struttura di Franco Iacucci, del quale Guccione è stato grande sponsor elettorale.

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    Carlo Guccione e Nicola Adamo nella segreteria di Franco Iacucci durante le ultime elezioni regionali (foto A. Bombini) – I Calabresi

    La carriera da portaborse

    Guccione è diventato dipendente regionale grazie al concorso indetto con la legge regionale 25 del 2002, chiamata nella vulgata “legge parenti”. Una selezione che portò ad essere assunti in pianta stabile parenti e storici portaborse (ben 86!) in Regione.
    Dall’8 giugno del 2005 Carlo Guccione è stato assegnato alla struttura speciale dell’allora capogruppo dei Democratici di Sinistra Franco Pacenza, nello stesso periodo in cui il futuro antioliveriano era segretario regionale degli stessi Ds e componente della direzione nazionale.
    Dal gennaio 2008, invece, è diventato responsabile amministrativo del nuovo capogruppo regionale dei Ds, Nicola Adamo, poco prima di diventare, con la mozione di Pierluigi Bersani, segretario regionale del Pd Calabria e poi iniziare la carriera decennale da Consigliere regionale per poi retrocedere a portaborse (probabilmente in “servizio esterno”, dato che non si vede né a Catanzaro né a Reggio Calabria) dell’ex presidente della Provincia di Cosenza, Franco Iacucci.

    Il sacrificio sull’altare di Tansi e il sogno del Parlamento

    Alle ultime elezioni regionali Carlo Guccione non si è ricandidato. Da molti il passo indietro è stato visto come un “sacrificio” in virtù del codice etico di coalizione «fortissimamente voluto» (così amava ripetere) da Carlo Tansi che imponeva lo stop per chi avesse già svolto tre legislature.
    «Guccione continuerà a portare avanti con un ruolo politico nazionale nel Pd. Il suo impegno di rinnovamento del partito è stato un punto fermo sin dalla sua prima candidatura» dichiarò subito Francesco Boccia. Gli fece seguito l’ormai ex commissario regionale Stefano Graziano «Guccione con il suo impegno sul programma per la Calabria sarà un punto di riferimento nel suo nuovo ruolo politico nazionale che il segretario Letta gli assegnerà».

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    Il geologo Carlo Tansi, leader del movimento “Tesoro di Calabria”

    L’Orlando disamorato

    Lo stesso Enrico Letta, però, che Guccione in segreteria nazionale non lo ha più voluto. Durante la segreteria di Nicola Zingaretti il cosentino aveva incassato, sotto l’auge di Andrea Orlando, l’incarico di responsabile nazionale del dipartimento “crisi industriali” del Pd. Quella casella poi, però, se l’è accaparrata il toscano Valerio Fabiani, probabilmente più orlandiano di lui.
    L’incarico arrivato a gennaio come “responsabile Pd sanità nel mezzogiorno” sa di contentino. Ricorda quello dato a Francesco Cannizzaro dopo la mancata nomina a coordinatore regionale di Forza Italia. E oggi, con Nicola Irto già proiettato su Roma e l’eterno incubo quote rosa, per Carlo Guccione pare che il sogno del Parlamento sia letteralmente sfumato.

  • Regione Calabria, bomba contabile: 24 milioni di euro per le indennità extra dei burocrati

    Regione Calabria, bomba contabile: 24 milioni di euro per le indennità extra dei burocrati

    La Calabria, come è noto, è terra di privilegi sia per i politici, sia per i sodali interni ed esterni ai palazzi. I consiglieri regionali, ad esempio, nella propria struttura, cioè tra le caselle da riempire di nomina strettamente fiduciaria, oltre a portaborse, collaboratori vari e autisti (per i capogruppo e i membri dell’ufficio di presidenza), nominano anche dei componenti interni, ossia dipendenti del consiglio o della giunta regionale chiamati a lavorare direttamente per i politici.

    I fortunati arrivano a guadagnare di più rispetto ai colleghi perché percepiscono una indennità di struttura aggiuntiva allo stipendio che può superare i mille euro mensili. Una indennità illegittima da molti anni, ma che continua a gravare sulle tasche dei calabresi nonostante norme e giudici abbiano dato un chiaro altolà. Per questo si paventa un presunto danno erariale da 24 milioni di euro in cui gran parte degli “storici” dirigenti regionali avrebbe messo lo zampino (o, perlomeno, un visto su una determina). Ma procediamo per gradi.

    Ogni anno fiumi di soldi

    Il bilancio di previsione 2022-2024 della Regione Calabria contenuto nel Burc dello scorso 12 gennaio stanzia ben 450mila euro l’anno per tre anni per l’indennità di struttura per il personale appartenente ad altre pubbliche amministrazioni e comandato presso le strutture speciali dei politici. Sono ben 950mila gli euro annui per l’indennità di struttura del personale di ruolo del Consiglio regionale assegnato alla politica. «Il rapporto di collaborazione è correlato all’espletamento delle attività istituzionali su indicazione nominativa di ciascun titolare di struttura speciale», specifica la normativa regionale risalente al 1996 (legge regionale numero 8 e sempre la 8, ma del 2007).

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    La sede della Giunta regionale a Germaneto

    Sono un centinaio tra Giunta e Consiglio i dipendenti che vengono incasellati al seguito dei politici regionali. Postazioni ghiotte e ambite che portano a qualche problemino negli uffici regionali, tant’è che nella programmazione triennale dei fabbisogni di personale del Consiglio regionale predisposta dal dirigente Antonio Cortellaro e aggiornata al 2021 c’è scritto nero su bianco che “l’ultima rilevazione dei fabbisogni ha reso evidente che a causa del gran numero di dipendenti di categoria C assegnati alle strutture speciali, sussiste una forte esigenza, manifestata dalla gran parte dei dirigenti dell’ente, di implementare il personale di tale categoria nell’ambito delle strutture organizzative, in particolare di reclutare istruttori amministrativi e contabili. Si tratta di professionalità essenziali per quanto concerne la declaratoria delle funzioni di ogni settore”.

    Benefit anche per chi rimane fuori

    Partiamo da un paradosso: più l’inquadramento del dipendente “prestato” al politico è basso (come le categorie C che sono arrivate a scarseggiare) più alta sarà l’indennità aggiuntiva.
    Se un consigliere regionale chiama nella sua struttura un impiegato del consiglio regionale (categoria C1) che ha una retribuzione annua di circa 21.000 euro, questo prenderà una “indennità di struttura” di 11.500 euro. Un funzionario (categoria D1) con stipendio tabellare di 29.638,84 euro annui, invece, prenderà “solo” 6.456 euro di indennità. Per cui, il personale più qualificato (rispetto all’inquadramento) sarà fortemente disincentivato a dare il proprio apporto alla politica, ma ci guadagnerà comunque.

    Chi rimane fuori (e sono circa 160 unità), però, beneficerà del fondo per la contrattazione integrativa che per il solo 2021 (come da determinazione del dirigente Antonio Cortellaro del 14 dicembre 2021) è stato determinato a 900.401,66 euro. Così come performance (leggasi, premio di produttività) potrà ricevere fino a 5.627,51 euro annui, ben 2.164,43 euro in più rispetto ai 3453,08 euro che arriverebbero a prendere se non ci fosse il “prestito” dei 100 dipendenti ai politici. Insomma, mangiano tutti.

    L’indennità è illegittima… e spunta Roberto Occhiuto

    Tutto nasce, sotto la presidenza di Battista Caligiuri, dalla deliberazione 89 del 22 maggio 2001, avente ad oggetto la regolamentazione delle modalità di trattamento accessorio delle strutture speciali. In quell’occasione l’Ufficio di presidenza di allora ritenne di determinare il trattamento economico accessorio del personale addetto alle strutture speciali dipendente da pubbliche amministrazioni.

    Seguì il contratto collettivo nazionale degli enti locali del 2004 che eliminava l’indennità integrativa speciale (inglobandola nella retribuzione tabellare), ma l’ufficio di presidenza del consiglio regionale a guida Peppe Bova (con vicepresidente Roberto Occhiuto, attuale presidente della Regione Calabria), con la deliberazione 17 del 20 giugno 2005 (che risulta, guardacaso, non essere stata mai pubblicata sul Burc) decise di superare le norme del contratto collettivo nazionale, in quanto prevedeva “termini assolutamente non accettabili”. Confermò così la deliberazione del 2001, facendo muro a favore del privilegio dei dipendenti regionali “prestati” ai politici.

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    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    La citata legge regionale 8 del 2007 e la successiva delibera dell’Ufficio di presidenza numero 16 dello stesso anno (sempre con Bova presidente e Occhiuto vice) specifica che il trattamento economico dei dipendenti regionali “prestati” ai politici «è attribuito in misura fissa ed indipendente dalle dinamiche della contrattazione collettiva». Ciò nonostante l’articolo 40 del decreto legislativo 165 del 2001 imponga che «le pubbliche amministrazioni adempiono agli obblighi assunti con i contratti collettivi nazionali e integrativi». A conti fatti, dal 2005 ad oggi si quantifica una spesa per indennità di struttura di quasi 24 milioni di euro.

    La giurisprudenza è chiara, ma non per la Regione Calabria

    Ad intervenire sono state ben due sentenze della Corte Costituzionale. La prima, la 18 del 2013, ha specificato che il trattamento economico dei dipendenti pubblici deve essere concertato (tra Aran e i sindacati) e non imposto dalla politica. Il principio giuridico secondo cui la disciplina del finanziamento e dei presupposti di alimentazione dei fondi per il trattamento accessorio del personale regionale e della loro erogazione è riservata alle leggi dello Stato e alla contrattazione collettiva nazionale cui le norme statali fanno rinvio è stato suggellato anche dalla sentenza della Consulta 146 del 2019.

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    La Corte Costituzionale

    La Corte mette nero su bianco che «sono illegittimi i fondi aggiuntivi istituiti dalla regione in tema di trattamento economico accessorio dei dipendenti regionali, al di fuori di quanto previsto dalle fonti normative prescritte perché lesivi della competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile e degli equilibri complessivi di finanza pubblica». Da ultimo, un inciso della sentenza 479 del 17 novembre 2020 della Corte d’Appello di Reggio Calabria, ha ricordato che «Il disposto imperativo del testo unico del pubblico impiego impone che il trattamento economico, fondamentale e accessorio, dei dipendenti pubblici debba trovare fonte nella contrattazione di comparto».

    Dirigenti nel caos e l’ombra della Corte dei Conti

    Il sistema è chiaro, ma la misura è colma. La rivoluzione burocratica annunciata da Roberto Occhiuto in campagna elettorale ha dovuto fare i conti anche con questa annosa questione. Già, perché il 1 gennaio con una rotazione degli incarichi dirigenziali, alle risorse umane è spuntata la dirigente Dina Cristiani.
    Rumors interni dicono che quest’ultima avesse chiesto un parere legale sulla legittimità delle indennità di struttura, rifiutandosi di firmare i contratti dei componenti interni delle strutture speciali. Cosa che effettivamente non ha fatto, fino a che non ha chiesto di essere rimossa dal suo incarico a “soli” 18 giorni dalla nomina (ufficialmente per una asserita incompatibilità con il ruolo di responsabile anticorruzione e trasparenza).

    Sta di fatto che colei che l’ha succeduta, la super dirigente Maria Stefania Lauria, confermata segretaria generale del Consiglio dopo il lungo interim, in poco più di un mese di contratti ne ha firmati almeno 15 coadiuvata dalla potente funzionaria responsabile delle strutture speciali Romina Cavaggion. A vistare gli atti ci sarebbe anche il dirigente dell’area gestione Sergio Lazzarino ed il dirigente del settore bilancio Danilo Latella. Il timore della lente di ingrandimento della Corte dei Conti è palpabile nonostante il silenzio tombale (o la copertura?) della politica, compresi i sedicenti gruppi neofiti d’aula come il M5S e lista di Luigi De Magistris.

    Regione Calabria, tanti nomi noti

    È chiaro che tutta la politica è perlomeno consapevole di ciò che accade. Tutti hanno fatto queste nomine, spesso “ereditando” nomi noti da colleghi di precedenti consiliature. Ad ereditare il componente interno dell’ex presidente del consiglio regionale Tonino Scalzo è stato l’esponente del M5S Francesco Afflitto, che ha nominato Santa Crisalli. Per il capogruppo pentastellato Davide Tavernise, invece, si rileva la nomina di Giovanni Paviglianiti, che era componente della struttura dell’ex democratico progressista (oggi sovranista) Peppe Neri.

    A fare incetta di componenti e supporti interni è il capogruppo della lista De Magistris, Ferdinando Laghi, che finora ne ha nominati quattro: Antonino Marra, Miriam D’Ottavio, Giuseppe Vita e Gabriella Maria Targoni, con quest’ultima che ha preso il posto inizialmente occupato da Vita.
    A dar supporto interno al vicepresidente del Consiglio regionale Franco Iacucci c’è l’ex assessore e consigliere regionale del Pd Carlo Guccione, che è dipendente di Palazzo Campanella, pur avendo di recente maturato un lauto vitalizio. Con lui, sempre sotto l’ala di Iacucci c’è la moglie dell’ex assessore regionale Nino De Gaetano, Grazia Suraci.

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    Carlo Guccione e Nicola Adamo nella segreteria di Franco Iacucci durante le ultime elezioni regionali (foto A. Bombini) – I Calabresi

    A destare attenzione è la nomina da parte della capogruppo della Lega Simona Loizzo, come supporto funzionale, di Antonia Pinneri, compagna del leghista Antonino Coco, definito dalla Dda reggina, che lo ha arrestato nell’ambito dell’inchiesta Chirone, “professionista posto al servizio dell’associazione di stampo mafioso”. Si parlava dei clan d’Aspromonte. Presente anche l’ex candidata regionale della Casa delle libertà Antonietta Giuseppina D’Angelis, nominata componente interno della forzista Katya Gentile. L’ex candidato regionale Udc, Riccardo Occhipinti, invece, è supporto funzionale interno della forzista Valeria Fedele.
    Insomma, si dovrà fare i conti con un bubbone contabile che sta per scoppiare e la politica non potrà continuare a mettere la polvere sotto il tappeto.