Avevano promesso fuoco e fiamme. Volevano portare la rivoluzione nel Sud e da qui, estenderla a tutto il Paese. Gianfranco Viesti era il loro mito, Pino Aprile la loro musa. Adesso, dopo circa due anni di vita, il Movimento 24 agosto-Equità territoriale, annunciato nell’estate 2019 al Parco nazionale della Grancia, in Basilicata, fondato a Scampia con regolare atto notarile e presentato a Cosenza, è evaporato.
Di tanti entusiasmi, esplosi soprattutto nei social, è rimasto poco: sei candidati spalmati nelle liste di Luigi de Magistris, l’unico interlocutore con cui il partitino meridionalista guidato da Aprile era riuscito a quagliare. Nessuno dei sei ha il simbolo e, se non fosse per le polemiche esplose su Facebook, sembra quasi che il M24a-Et non sia davvero esistito.
La versione di de Magistris
Sull’evaporazione del partito di Aprile de Magistris ha detto la sua in maniera poco equivocabile: non sono io che ho “divorziato” da Pino, ma viceversa.
Poi, il quasi ex sindaco di Napoli ha rivelato un dettaglio: il no dello stato maggiore del Movimento 24 agosto sarebbe arrivato alla fine dello scorso mese, proprio mentre era in corso una manifestazione di de Magistris nel Lametino.
Il no alla coalizione col primo cittadino di Napoli si è risolto in un boomerang: gli aderenti a M24a-Et sono passati armi e bagagli col candidato Masaniello e il partito si è svuotato.
Questo travaso è il terminal di mesi di frizioni, polemiche e dubbi.
I terroni in trincea
Prima di raccontare la storia è il caso di capire chi siano i sei candidati, alcuni dei quali non proprio sconosciuti.
Nella circoscrizione nord ci sono Mario Bria, noto per i suoi trascorsi di sindaco a Rose e di consigliere provinciale durante la prima giunta Oliverio, e Marianna Avolio, che corrono in ticket in de Magistris presidente.
Nella circoscrizione centrale c’è Amedeo Colacino, ex sindaco di Motta Santa Lucia, candidato in Dema. Con lui è in ticket Francesca Gallello. Poi c’è Bruno Aversa, candidato in Per la Calabria con de Magistris.
Nella circoscrizione sud c’è, invece, Maria Stella Morabito, che corre in de Magistris presidente.
Una postilla è doverosa: Amedeo Colacino, già vicino a Orlandino Greco e legato da anni agli ambienti neoborbonici, fu protagonista, all’inizio dello scorso decennio, di una lunga battaglia giudiziaria contro il Museo Lombroso di Torino, accusato nientemeno che di razzismo antimeridionale.
Insomma, un avanguardista del terronismo, che legò con Aprile sin dai tempi d’oro del bestseller “Terroni” (2010).
La campagna elettorale
In politica i pesci piccoli partono per primi. Così è stato per M24a-Et.
I primi colloqui sono iniziati a novembre e si sono svolti con Carlo Tansi, che subito dopo ha litigato di brutto con Aprile sulla questione delle candidature.
Solo l’ingresso di de Magistris ha placato gli animi, ma per poco.
Le cose sono precipitate con la fine del Tandem, l’effimera liaison tra Tansi e de Magistris e con l’ingresso di una buona fetta di sinistra scontenta del Pd.
Sono cose note: Aprile è diventato direttore di testata proprio in Calabria e il Movimento ha iniziato a perdere colpi.
I capi terroni
I movimenti non sono solo i loro leader. Con loro operano sempre dei dirigenti che si danno da fare nei territori. Ciò vale anche per M24, che qui in Calabria contava su quattro “colonnelli”.
Due non sono volti nuovi: Paolo Spadafora e Paolo Mandoliti, per citare i cosentini, erano vicini ai fratelli Occhiuto.
Per quel che riguarda gli altri, uno solo è un neofita del terronismo: Mario Cosenza, un medico fisiatra cosentino. L’altro, il reggino Pasquale Zavaglio, ha un’estrazione neoborbonica simile a quella di Colacino.
Tolto Spadafora, uscito dal Movimento circa un anno fa, gli altri tre sono rimasti alla guida.
La ribellione
I “terronisti” si sono divisi in due blocchi: da una parte chi non ha gradito il nuovo impegno professionale del leader, dall’altra chi lo ha giustificato.
Le cose si sono aggravate in seguito alle difficoltà incontrate nella compilazione delle liste, perché i candidati disponibili erano solo undici.
Il tentativo è naufragato di fronte alla decisione dei vertici di non appoggiare de Magistris e di correre da soli.
Questo proposito è collassato perché la lite interna, era deiventata pesantissima. Tant’è che è mersa il venticinque agosto sulla pagina Fb del Movimento, grazie a un post firmato dai suoi fondatori, tra cui lo stesso Colacino: sono volate accuse di scarsa democraticità e insulti. Tanto più rumorosi quanto più è piccolo l’ambiente che li ha prodotti. E la rivoluzione? Un’altra volta.
Iniziamo coi numeri, tutt’altro che rassicuranti: chi amministrerà la Calabria, dal 4 ottobre, dovrà misurarsi con un dato pesantissimo, espresso da due cifre, calcolate con prudente approssimazione e, probabilmente in difetto.
La prima ammonta a 2 miliardi e 600 milioni. È il passivo totale della Sanità, la croce a cui dal 2009 sono inchiodati i calabresi, che subiscono le aliquote regionali più alte d’Italia per coprire quel che si può di questa voragine senza ottenere un’assistenza sanitaria decente.
La seconda cifra ammonta a un miliardo circa. È meno inquietante di quella sanitaria, ma fa paura lo stesso, perché è il totale dei passivi delle società partecipate.
Tuttora, la Regione è presente in sei società: Ferrovie della Calabria, Fincalabra e Terme Sibaritide (delle quali è socio unico), Banca Popolare Etica, Sorical e Sacal.
Questo miliardo di passivi mette a rischio tutte le leve attraverso le quali la Regione influisce nelle attività degli enti locali e, quindi, pesa in maniera diretta sulla vita dei cittadini.
In altre parole, è confermato, anzi di sicuro aggravato, il deficit della Sanità, che nel giudizio di parificazione della Corte dei Conti del 2019, blocca il 79% del bilancio regionale. Ma tutto il resto (trasporti, gestione idrica e rifiuti) rischia di finire gambe all’aria o, alla meno peggio, di zoppicare parecchio.
Un’ecatombe di Comuni
Se si stringe il campo visuale sui territori, il dramma calabrese emerge alla grande e ha per protagonisti e vittime i Comuni, quasi tutti messi malissimo dopo la sentenza della Corte Costituzionale 80 del 28 aprile 2021.
Questa sentenza, che di fatto vieta di spalmare i debiti nel generoso lasso di trent’anni previsto nel 2015 dal governo Renzi, si è abbattuta come una mazzata sugli enti locali, che ora rischiano di brutto. Stando all’allarme lanciato dal sindaco di Rende Marcello Manna i Comuni in pericolo di dissesto sarebbero duecento circa. Ma, a ben vedere, la differenza tra chi è dissestato e chi non lo è ancora è solo una questione di dettagli: per i cittadini i tributi sono al massimo in entrambi i casi e i servizi risultato ridotti o a repentaglio.
Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza
Questo in Calabria, perché in altre realtà, ad esempio Torino, il livello dei servizi è qualitativamente sostenuto, a dispetto delle condizioni finanziarie del Comune, che non sono proprio il massimo.
Tra gli ottantadue Comuni che vanno al voto, i due più importanti consentono un paragone calzante: sono Cosenza, che è in dissesto dal 2019, e Lamezia Terme, che è in riequilibrio finanziario ma barcolla non poco, visto che non può più approfittare della “rateazione” trentennale. Nelle linee di fondo, la situazione delle due città è piuttosto simile: tributi a palla e servizi in calo o insufficienti.
Il decreto sostegni non basta
Ma non serve proiettarci verso il futuro per intuire la portata dell’Apocalisse, perché la catastrofe c’è già.
Dei Comuni che vanno al voto il 3 ottobre assieme alla Regione, otto sono nei guai. Si va dai guai gravissimi di Cosenza, Badolato, Casabona e Bova Marina, al caos di Chiaravalle, che oscilla tra dissesto e riequilibrio da circa sette anni, alla situazione grave di Lamezia e di tutti gli altri paesi in riequilibrio.
Ma se si considera il totale dei Comuni nei guai, la cifra è terribile: sono ottantasette.
L’unica speranza è il decreto sostegni, che ha stanziato circa 600 milioni per alleviare il deficit strutturale. Questi soldi potrebbero fare molto per i Comuni in riequilibrio, soprattutto Reggio. Ma possono sì e no alleviare i conti dei municipi dissestati, cioè Cosenza.
La domanda, a questo punto, sorge spontanea: che c’entra il dissesto dei municipi coi passivi della Regione, visto che Comuni e Regioni fanno cose diverse, quindi hanno regimi finanziari separati?
Un cane di debiti che si morde la coda
Con rara crudezza, il presidente della Sezione regionale della Corte dei Conti Vincenzo Lo Presti aveva lanciato un monito alla Regione, che come tutti gli enti pubblici della Penisola ha il vizio di “lavorare” le cifre per ridimensionare l’annaspamento: i residui attivi sono sovrastimati, quelli passivi sottostimati.
Era il 10 dicembre 2020 e, come già anticipato, i magistrati contabili valutavano il Bilancio regionale del 2019, che è l’ultimo documento utile, visto che la Corte non si è ancora pronunciata sull’esercizio 2020.
È il caso di mettere da parte la Sanità, il cui debito è calcolabile solo in maniera presuntiva, visto che mancano dati certi dall’Asp di Reggio.
Occorre concentrarsi, piuttosto, sulle partecipate, una delle quali è un punto di contatto tra la finanza regionale e quelle dei Comuni.
Ci si riferisce alla Sorical, la società mista detenuta al 54% dalla Regione e al 46% da Acque di Calabria, una spa con socio unico, la francese Veolia.
I crediti mai riscossi
La Sorical non morirà di debiti, che pure ci sono (si ipotizzano 370 milioni circa, ma i vertici della società giurano di aver tagliato del 68%). Ma di crediti: la società avanza una somma impressionante, circa 200milioni, dai Comuni, quasi tutti morosi, in particolare Cosenza, Reggio e Catanzaro.
I residui attivi, cioè i crediti non ancora riscossi, condizionano l’attività corrente. In altre parole, la vita quotidiana dell’ente e dei cittadini che vi si rivolgono per ottenere servizi.
Vengono senz’altro “appostati” nel Bilancio, ma non sono liquidità. Anzi, molti di questi diventano inesigibili perché si prescrivono o possono essere recuperati solo con molta fatica e, spesso, non nelle quantità sperate.
La catena perversa è facile da ricostruire: i cittadini pagano poco e in pochi ai Comuni, i quali pagano quel che possono o non pagano affatto (nel caso della Sorical, c’è chi spera, come Cosenza e Vibo, che nasca la società unica di gestione delle acque, che esoneri i Comuni anche dalla gestione diretta delle reti idriche).
Risultato: la Regione deve intervenire a ripianare i passivi delle partecipate che non riescono a recuperare i crediti. Ciò vale anche per Sacal, piegata dal Covid, che ha messo in ginocchio le compagnie aeree che fanno scalo soprattutto a Lamezia, e per Ferrovie della Calabria, letteralmente ostaggio del trasporto su gomma e oberata da clientele.
Non ci salverà l’Europa
Non fidiamoci troppo dei fondi europei, che abbiamo dimostrato di non saper utilizzare o di utilizzare male il più delle volte, né dei 9 miliardi del Pnrr.
Questi finanziamenti, come ribadisce l’articolo 119 della Costituzione, possono essere impiegati solo per investimenti. E sperare che questi investimenti producano utili (e quindi imponibile su cui far cassa) è fantascienza, almeno al momento: significherebbe sperare che i calabresi diventino ricchi a tempi record per poter risanare la Regione.
Ma come può diventare ricca una popolazione strangolata a livello fiscale da una Regione che, al massimo, è in grado di riscuotere poco più del 60% delle tasse che impone?
L’alternativa alla capacità di impiego dei fondi europei, ordinari e di emergenza, richiederebbe capacità politiche che al momento non ci sono: la piena attuazione del federalismo fiscale, che attiverebbe gli automatismi del fondo di perequazione calcolato sulla differenza di gettito tra i territori.
Capitale economico e umano
Già: il problema vero della Calabria è la sua povertà endemica, che, unita alla costante decrescita demografica, ha creato un mix micidiale. I Comuni e gli utenti non “guadagnano” abbastanza, quindi non possono pagare a dovere i servizi regionali e la Regione, con poco meno di un miliardo di utili l’anno, deve tappare le falle.
La situazione ordinaria è questa. Il resto (cioè i finanziamenti promessi, in particolare quelli dell’estate appena trascorsa) è propaganda.
Ma il vero capitale che manca è quello umano: i Comuni, oberati anche da personale non sempre qualificato, non possono permettersi i progettisti per attingere ai fondi europei e la Regione è ancora lontana dall’avere le competenze necessarie per la piena informatizzazione dei servizi. Deve ancora “smaltire” il personale prodotto dal vecchio Concorsone del 2004 e i dirigenti diventati tali in seguito alle vecchie “verticalizzazioni”, prima di procedere a un turnover adeguato.
La situazione attuale
Il 2019 terminò con un “onore delle armi” all’amministrazione Oliverio, che riuscì a malapena a rattoppare qualche buco nella riscossione e, finalmente, a conteggiare quasi come si sarebbe dovuto (e come avrebbe dovuto anche lui nei primi quattro anni di mandato) i debiti e i crediti.
Ora c’è il rischio di un salto nel buio. E forse non sbaglia chi promette rivoluzioni alla Calabria: non c’è davvero quasi altro da fare.
È un ingombrante Mr X, piazzato in una lista regionale del centrodestra non troppo forte e in una posizione che non dà nell’occhio: è il cosentino Alfredo Iorio, classe’66, candidato in Coraggio Italia.
Essere Mr X non vuol dire essere trasparenti, invisibili o, addirittura incorporei. Infatti, Iorio, che ha una passione smodata per la politica estrema, è uno che lascia tracce. E queste tracce diventano vistose in un partito come Coraggio Italia, nato a maggio da un allargamento di “Cambiamo!”, il partitino del governatore ligure Giovanni Toti a cui hanno aderito Luigi Brugnaro, il sindaco di Venezia, più una pattuglia di parlamentari azzurri, centristi ed ex pentastellati.
Non è un caso che Coraggio Italia, ora come ora, sostenga Draghi, al pari della Lega e del Pd, per capirci. E allora, che ci fa un fascista, orgoglioso di essere tale, in questo partito? Non era meglio Fdi?
L’enigma Iorio
Diciamo pure che è stata sciatteria, attribuibile alla formazione recente del partito: il sito web di Coraggio Italia è piuttosto avaro di informazioni sui suoi candidati calabresi.
Su Alfredo Iorio appare solo una banale didascalia, da cui si apprende che ha cinquantacinque anni, fa l’imprenditore ed è nato a Cosenza. Più, ovviamente, una foto.
Null’altro. Alla faccia non solo della trasparenza ma anche della propaganda.
Ma per fortuna le foto non mentono e il web ha una memoria storica difficile da aggirare.
Cosentino de’ Roma
Iorio, che si occupa di immobili, ha un solido legame con la Calabria: va al mare tutti gli anni a Torremezzo (una delle spiagge cult dei cosentini), dove ha una casa, e frequenta Cosenza piuttosto spesso.
Ma vive stabilmente a Roma, dove lavora e coltiva la sua passione politica estrema, che lo ha elevato all’onore delle cronache nazionali perché questa passione l’ha sviluppata nella Capitale, con due candidature a sindaco contornate da episodi rumorosi, più legati a certo folclore politico a cavallo tra il vecchio neofascismo e la destra radicale che ad altro.
Candidature e saluti romani
Nel 2013, cioè l’immediato post Alemanno, Iorio si candida alle amministrative con la destra che più destra non si può: Forza Nuova.
Iorio è anche il leader storico di Trifoglio, il gruppo politico di destra (sempre estrema) che rivendica l’eredità della storica sezione del Msi a via Ottaviano, nella parte settentrionale della Capitale.
Iorio non ha mai fatto mistero del suo credo politico, almeno fino alle Regionali 2021
Finita l’effimera amministrazione di Ignazio Marino, il Nostro ci riprova, non prima di aver sistemato un po’ le cose di casa. Cioè, di essere venuto a capo di una scissione fastidiosa, in seguito alla quale il Trifoglio si è diviso in due. Da una parte il Fronte della Gioventù, formato dai militanti più giovani che hanno rispolverato per l’occasione la vecchia sigla del movimento giovanile missino, dall’altra quelli che hanno seguito Iorio, ribattezzatisi per l’occasione Patria.
Stavolta è il momento del salto: il calabroromano si candida come sindaco a capo di una lista civica chiamata, appunto, Patria. E prende lo 0,22%. Nulla di fronte all’ecatombe che devasta tutti e porta al Campidoglio Virginia Raggi.
Tafferugli a Roma Nord
Prima della sortita amministrativa, Iorio si è segnalato alle cronache per un altro episodio: la protesta del 2015 contro il centro d’accoglienza in via Casale di San Nicola, all’estrema periferia nord di Roma, dove la prefettura aveva deciso di accogliere i migranti.
Iorio capeggiò una manifestazione di cittadini italiani, che presidiarono questo centro in tenda. Le proteste, così raccontano le cronache, degenerarono e, il 17 luglio di quell’anno, ne seguirono dei tafferugli. Per fortuna senza conseguenze serie.
Prima gli italiani
Mettere i cittadini italiani (meglio ancora se disagiati) contro i migranti è un escamotage efficace delle destre radicali, che si è trasformato in arma propagandistica vincente nel 2018.
«Prima gli italiani» lo dicevano i “camerati de’ Roma”. «Prima gli italiani», lo ha ripetuto con grande successo Matteo Salvini, che non a caso ha appoggiato le estreme destre e si è appoggiato a loro.
A Roma Iorio non sembrava avere grande stima per Salvini, salvo poi supportare i leghisti in Calabria
E non è un caso che Iorio abbia deciso di fiancheggiare la Lega, che aveva quasi completato la metamorfosi in destra radicale nel trionfo del 2018 e si preparava a riproporre la formula alle Europee del 2019.
In quest’occasione, il Nostro appoggia Vincenzo Sofo, ex enfant prodige della destra milanese (è stato dirigente del movimento giovanile de La Destra di Storace), che fa il pieno di voti nel collegio meridionale, anche grazie all’aiuto di Iorio, diventato il suo uomo ombra in Calabria.
L’anno successivo il Nostro continua l’esperienza vincente col partito di Salvini in Calabria e fiancheggia Pietro Molinaro, che fa il pieno di voti alle Regionali. Poi arriva il mal di pancia.
2021, fuga da Salvini
Il mal di pancia di Iorio è stato fortissimo. Prima si esprime in maniera polemica nei confronti di Christian Invernizzi, all’epoca commissario calabrese della Lega, “colpevole” a suo dire di eccessiva debolezza politica per essersi accontentato di un solo assessore, cioè il vicepresidente Nino Spirlì. Poi, dopo aver fondato il movimento Calabria prima di tutto, annuncia uno sciopero della fame.
Tempo pochi mesi e la scomparsa prematura di Jole Santelli mette in discussione tutto. Nel frattempo, anche la Lega è cambiata e Vincenzo Sofo, che non gradisce il nuovo corso moderato di Salvini, aderisce a Fratelli d’Italia.
La scelta di Iorio desta qualche sorpresa, tanto più che la sua ultima uscita pubblica prima dell’attuale campagna elettorale è avvenuta a maggio, in occasione di un dibattito organizzato a Spezzano Albanese da “Calabria protagonista”, il nuovo movimento del Nostro, a cui, tra gli altri, ha partecipato lo stesso Sofo.
Moderato Iorio, presente!
Sono solo piccole curiosità che la dicono lunga: è quasi impossibile trovare i dettagli anagrafici di Iorio. Giusto uno screenshot delle Amministrative romane del 2016 informa che il “camerata” è nato a Cosenza il 9 marzo 1966.
Ma questo dato non appare su nessun’altra testata, neppure Repubblica e il Corriere della Sera, i più prodighi di informazioni.
Le date non mentono e le foto neppure: essere nati nel ’66 significa avere oggi 55 anni e la foto del prode Alfredo è identica a quelle apparse in occasione delle contese romane.
Perché tanti misteri? Solo sciatterie? Oppure c’è il desiderio di rifarsi una verginità, politica e territoriale, per correrenon più in camicia nera, ma con la coppola da calabrese amante della Calabria?
Un fascista è per sempre, tranne se si vota
Il rifugio nelle braccia di Toti è comprensibile per tre ragioni.
La prima è elettoralistica, perché le liste di Fdi sono piene di candidati forti e sono costruite attorno agli uscenti.
La seconda è di strategia politica: serve a recuperare al centrodestra i voti dei “duri” che hanno mollato la Lega e non si sentono di fiancheggiare la Meloni.
La terza è di opportunità, da cui hanno da guadagnare almeno in tre: Occhiuto che mantiene l’elettorato, la Lega che si svuota dei “fasci” e si accredita come “moderata” e lo stesso Iorio, che può affrontare la campagna elettorale senza doversi misurare coi Moloch.
Insomma, un fascista è per sempre e Roma o Cosenza, destra radicale o nuovi centristi non importa: quando si va al voto, tutto fa brodo.
Da un porto che non c’è (e che forse non sarà mai realizzato) a uno che c’è (e serve tantissimo) ma è pieno di problemi.
Ci si riferisce al progetto di Paola, vagheggiato dagli anni ’90 e di cui sopravvivono solo le tracce iniziali sul lungomare, e alla struttura di Bagnara Calabra, realizzata a fine anni ’80 e ora in mezzo a due guai, uno più grosso dell’altro: i danni ai moli provocati dal mare e il disastro ambientale, provocato dall’uomo, su cui indaga tuttora la Procura di Reggio.
Gianluca Gallo, assessore all’Agricoltura della Regione Calabria
Questi due porti, quello che non c’è e quello che è pieno di guai, hanno in comune una cosa: l’attenzione propagandistica della giunta regionale uscente che ha annunciato, lo scorso Ferragosto, due maxifinanziamenti, 20 milioni per Paola e 9 per Bagnara. In quest’ultimo caso, si sono spesi in prima persona l’assessore al Turismo Fausto Orsomarso e quello all’Agricoltura e alla pesca Gianluca Gallo.
Fausto Orsomarso, assessore regionale al Turismo (foto Alfonso Bombini)
Tanto impegno è doveroso, perché la pesca è una delle voci principali dell’economia bagnarese e poi perché il porto è utilizzato, d’estate, anche dalle imbarcazioni da diporto.
Ma siamo sicuri che questi 9 milioni, stanziati dall’amministrazione Spirlì su iniziativa dell’assessora alle Infrastrutture Domenica Catalfamo, potranno essere spesi?
Un’estate calda
Molti annunci, tanti applausi (rigorosamente bipartisan) e altrettante polemiche, rivolte alle istituzioni per accelerarne le pratiche. L’estate bagnarese è stata calda non solo per la latitudine. Il dibattito sul porto – danneggiato gravemente dai marosi nell’inverno del 2019 e poi sequestrato dalla Procura di Reggio lo scorso febbraio per un presunto disastro ambientale – è iniziato a giugno. Con le esternazioni di Nino Spirlì che è intervenuto a un incontro istituzionale assieme al sottosegretario alle InfrastruttureAlessandro Morelli. I due, in questa occasione, hanno ribadito il loro interessamento per sbloccare il sequestro e si sono impegnati a fare le doverose pressioni istituzionali.
Il leghista si rivolge alla magistratura
Siccome due leghisti non bastano, buon ultimo è giunto Giacomo Saccomanno, il commissario regionale della Lega, che si è rivolto direttamente alla magistratura il 6 giugno per chiedere il dissequestro. A dire il vero, una risposta è arrivata: l’autorizzazione, concessa dalla sostituta procuratrice Giulia Maria Scavello, all’uso delle banchine sigillate durante l’inverno.
Ma è una risposta parziale, riservata ai soli pescatori, che possono ormeggiare le barche. Ma non possono farci la manutenzione e, soprattutto, devono smaltire i rifiuti del pescato attraverso una ditta specializzata. Poco, ma meglio che niente.
La presenza del disastro ambientale non ha fermato, tuttavia, la propaganda. Infatti l’ultimo atto politico dell’agosto bagnarese è stato una conferenza stampa tenuta il 20 agosto da Catalfamo e da suo cugino, il deputato azzurro Francesco Cannizzaro. Entrambi hanno ribadito il finanziamento milionario.
Già: ma i quattrini sono stanziati per la messa in sicurezza del porto e per il rifacimento della strada di collegamento. Cioè per rimediare i danni provocati dalla natura. Ma per il disastro ambientale chi paga? Soprattutto: chi pulisce?
Il generale inverno
La botta finale l’hanno data i marosi di fine 2019, che hanno devastato in due ondate (il 14 e il 21 dicembre) il molo di sopraflutto – cioè il braccio esterno del porto, diventato da allora in parte inagibile – e distrutto le scogliere di protezione.
Da quel momento in avanti, chi usa quel molo lo fa a suo rischio e pericolo. Anzi, potrebbe non usarlo più: secondo gli addetti ai lavori i danni sono tali che potrebbe bastare un inverno simile a quello pre Covid per finire di distruggere tutto.
Non è un caso, quindi, che il porto di Bagnara sia subito entrato nell’agenda della Regione, sin dai tempi di Jole Santelli, la prima a promettere l’impegno delle istituzioni poco prima delle elezioni 2020 assieme a Cannizzaro, su invito del vicesindaco Mario Romeo, eletto nella lista civica guidata dal dem Gregorio Frosina, ma azzurro anche lui.
La promessa in presenza di Tajani
Subito dopo, la promessa è stata ribadita dai tre in presenza dell’eurodeputato Antonio Tajani. E poi è arrivato il turno della Lega, con l’interessamento di Salvini, giunto nella cittadina tirrenica, proprio a ridosso della pandemia, assieme alla fedelissima Tilde Minasi.
L’interesse propagandistico è innegabile, ma senz’altro il porto è vitale: coi suoi circa 150 posti barca è l’estensione nel mare del quartiere Marinella, il cuore pulsante di un’imponente flotta peschereccia di oltre 100 natanti.
Non solo: grazie ai moli mobili, l’estate vi ormeggiano anche le barche da diporto dei privati e quelle per il trasporto dei turisti che visitano la Costa Viola.
Gli sporcaccioni anonimi
Per una cittadina non grande, poco meno di 10mila abitanti, una struttura così è oro.
Peccato solo che molti utenti non se ne siano resi conto. E, soprattutto, peccato solo che chi doveva vigilare in maniera continuativa non l’abbia fatto. Siamo in Calabria, lo sfasciume pendulo sul mare, come diceva Giustino Fortunato.
Ma in Calabria l’uomo riesce a far peggio della natura. Se ne sono accorti (eccome!) i carabinieri, che hanno messo i sigilli al porto il 14 febbraio, dopo aver trovato di tutto e di più sulle banchine e, soprattutto, nei fondali: pezzi di scafi e relitti interi, vecchi motori abbandonati, fusti di olio per motori o di carburante, pezzi di reti e di lenze. Di tutto e di più.
La terza volta che il porto subisce un sequestro
Lo spettacolo dei fondali, in particolare, è tutt’altro che rassicurante: grazie all’interramento, fisiologico in tutti i porti, si sono ridotti dagli originari quindici metri di profondità agli attuali poco più che sei e c’è da scommettere che la sabbia celi altri “tesori” simili a quelli trovati dagli inquirenti.
È la terza volta che il porto subisce un sequestro. La prima è stata nel 2013, la seconda nel 2018, a causa di rifiuti pericolosi trovati su una banchina interna.
Sono le tappe di un’esistenza intensa e tormentata, da cui si ricavano due dati.
Il primo: il porto è stato utilizzato moltissimo (e vivaddio); il secondo: questo porto è stato molto trascurato o, comunque, non tutelato a dovere.
Una storia tormentata
Ciò che serve, spesso, fa anche gola. E tanto. Il porto di Bagnara non sfugge a questa regola: non ha fatto in tempo a sorgere, a fine anni ’80, ché subito è entrato nel mirino dei “picciotti” catanesi legati a Nitto Santapaola.
Ma questa è storia vecchia, consegnata a cronache, nere e giudiziarie, altrettanto vecchie.
La parte più travagliata delle vicende portuali inizia nel 2011, con la gestione della Compagnia portuale Tommaso Gullì, di Reggio Calabria.
La società reggina resta fino al 2018, quando l’attuale amministrazione comunale rescinde il contratto per una serie di inadempienze non proprio leggere: tra queste, l’omessa pulizia e l’insufficienza dei sistemi di sorveglianza (solo sei telecamere al posto delle undici previste).
Il Comune assume la gestione del porto
Subentra una società, Marina di Porto Rosa di Milazzo, che resiste pochi mesi, perché succedono due fatti inquietanti: un incendio colpisce la residenza estiva dell’amministratore della società siciliana e un ordigno danneggia una barca, sempre della società. Segnali chiarissimi, che costringono il Comune ad assumere la gestione diretta. Un compito non facile, visto che il municipio è oberato dal dissesto finanziario, terminato solo di recente con l’approvazione del bilancio 2020.
Nel 2019 la gestione passa alla cooperativa bagnarese Onda Marina, che resiste tuttora, a dispetto del duplice disastro. Tanto impegno, evidentemente, piace non solo alla giunta di Frosina ma anche alle minoranze consiliari, visto che il Comune ha proposto un appalto di cinque anni e vuole estenderlo a dieci.
Il disastro ambientale ferma la ricostruzione
L’idea di finanziare il porto, come si è visto, non è una trovata dei cosentini Orsomarso e Gallo, che semmai l’hanno capitalizzata a fini propagandistici. È un tormentone iniziato con l’insediamento di Jole Santelli, che si è sviluppato in crescendo: i milioni promessi sono stati dapprima cinque, poi sette e, a partire dall’estate appena trascorsa, sono diventati nove.
Tutto questo, senza tener conto del disastro ambientale, visibile a tutti i cittadini prima ancora che agli inquirenti, i quali hanno fatto il classico atto dovuto.
Il decreto di sequestro, confermato il 21 febbraio dalla gip Vincenza Bellini, è tuttora vigente perché funzionale all’inchiesta, ancora in corso, per disastro ambientale e illecite attività cantieristiche.
Il sindaco Frosina è intervenuto a maggio con un’ordinanza di bonifica, proprio mentre gli inquirenti continuavano gli accertamenti. La pulizia delle banchine e dei fondali dovrebbe essere a carico delle società che hanno avuto a che fare col porto, cioè la Gullì, Marina di Porto Rosa e Onda Marina. Inoltre, le cooperative di pescatori e le associazioni di sub hanno offerto il loro aiuto.
I dubbi restano
Ma i dubbi restano e sono fortissimi: è possibile bonificare senza un piano di caratterizzazione, cioè senza conoscere l’entità reale del disastro e, quindi, poter quantificare i costi degli interventi?
Queste risposte le potranno dare solo gli inquirenti, non appena concluderanno le indagini, al momento a carico di quattordici soggetti.
Ancora: è possibile procedere alla ristrutturazione del porto senza aver fatto prima la bonifica necessaria? Evidentemente no, almeno a rigor di logica.
I due disastri, quello provocato dal mare e quello causato dall’uomo, si incrociano e si ostacolano a vicenda, perché dalla soluzione dell’uno dipende la possibilità di affrontare l’altro.
È il cane che si morde la coda. E rischia di sbranare o rendere inutilizzabili i 9 milioni, che fanno così gola da aver messo d’accordo maggioranza e opposizioni. I fatti raccontano questo. E il finanziamento? Rischia di trasformarsi in un’altra supercazzola propagandistica, che la fine della bella stagione rischia di spazzare via.
«Ci sono due modi di non essere né di destra né di sinistra: un modo di destra e uno di sinistra». La frase è dello scrittore francese Serge Quadruppani ed è citata in un datato ma interessante articolo scritto da Wu Ming 1 sul blog del collettivo di scrittura diventato un punto di riferimento per la sinistra radicale italiana. Per indagare a quale dei due modi appartenga il non essere né di destra né di sinistra dell’ex pmLuigi de Magistris non vale la pena scomodare Norberto Bobbio e nemmeno Giorgio Gaber.
Può però essere interessante mettere insieme un po’ di fatti e dichiarazioni. E misurare, ognuno col proprio metro di giudizio, quanto sia ascrivibile alla categoria della paraculata politica ammiccare un po’ di qua e un po’ di là. O se, invece, sia giusto superare le categorie tradizionali per parlare alle persone al di là delle appartenenze.
Liste rosse
Il dato di fatto è uno: le liste che sostengono la corsa di de Magistris alla Regione sono piene di gente di sinistra. Ma di sinistra sinistra, che rivendica orgogliosamente non solo l’appartenenza ma anche una militanza vera che – va dato atto a molti di loro – sui territori si fa, proprio fisicamente, sempre più difficile. Non solo la lista di Mimì Lucano – così lo chiama, e non Mimmo, chi lo conosce da prima che diventasse una star e che venisse travolto dall’inchiesta della Procura di Locri – ne è piena. Lo è anche il movimento “Calabria resistente e solidale” che raccoglie molta Rifondazione comunista e buona parte di Potere al popolo. E pure quelle direttamente riferibili all’aspirante presidente sono zeppe di chi non ha timore a dichiararsi di sinistra.
Uno di questi, per esempio, è il reggino Saverio Pazzano, apprezzato esponente di quella società civile impegnata in politica che qualche tempo fa, in riferimento alle elezioni comunali della sua città, scriveva: «Se fossi di destra – e non lo sono –, vorrei capire che significa dire “né di destra né di sinistra”. Perché, se è giusto e comprensibile che lo pensi un cittadino, sarei preoccupato se lo dicesse un amministratore. Un conto è il dialogo con tutte e tutti, un conto è non avere un’identità politica e stare esposto al vento degli accordi e delle convenienze».
Una nuova declinazione
Lo stesso de Magistris, intervistato dall’agenzia Dire il 23 gennaio 2018, espresse – erano prossime le elezioni politiche – pubblico apprezzamento per la lista di Potere al Popolo. Per essere più aggiornati, e andare proprio all’oggi (in senso letterale), è di questa mattina l’annunciata partecipazione all’incontro pubblico “Problemi territoriali, malapolitica, sanità” organizzato dal circolo “Antonio Gramsci” di Carolei. L’appartenenza di de Magistris al campo della sinistra ha però assunto una nuova declinazione proprio con l’avvio della sua campagna elettorale calabrese.
Voti da destra
A febbraio di quest’anno, in diretta a Tagadà su La 7, se ne sono scorti i primi segnali: «Io sono un uomo di sinistra che parla alle calabresi e ai calabresi. La nostra è una candidatura di alternativa al consociativismo che finora ha governato nei decenni la Calabria. Ci rivolgiamo a tutti, con una coalizione civica che ora si sta allargando sempre di più, c’è grande entusiasmo. Ci rivolgiamo a elettrici e a elettori che stanno tanto nel centrodestra quanto nel centrosinistra».
Gli interventi di questi mesi hanno confermato l’andazzo. Intervista al Manifesto, 29 gennaio 2021: «La mia è una candidatura alternativa a quel ceto di destra e di sinistra che ha depredato una regione». E ancora: «Il mio è un discorso indirizzato a tutti i calabresi, senza recinti o gabbie».
Intervista alla Gazzetta del Sud, 2 settembre: «Noi non abbiamo residenza nel campo del centrosinistra, abbiamo fondato un Polo civico e popolare». E giù a polarizzare: «Mi pare che in campo ci siano due schieramenti: da una parte Occhiuto-Bruni e i loro trasversalismi, dall’altra parte noi».
Da una Napoli all’altra
Di pari passo sono andati gli ammiccamenti anche a una “certa” destra. È noto l’appoggio di Angela Napoli, cinque legislature in Parlamento e un percorso politico all’insegna dell’intransigenza legalitaria iniziato conl’Msi. In un’intervista al Quotidiano del Sud il 7 agosto Napoli spiega: «Lo conosco da quand’era magistrato a Catanzaro e fin da allora ho sposato le sue inchieste. Eravamo amici e lo siamo ancora oggi. So che è di sinistra, le mie idee sono differenti, ma ci sono valori comuni che vanno al di là».
Luigi de Magistris e Angela Napoli posano insieme a un candidato durante un’iniziativa elettorale
Il 9 settembre arriva l’appoggio ufficiale del movimento “Buona destra”: «Bisogna operare scelte decisive e schierarsi con quelle forze sane, che presentino Uomini e Progetti che militino dalla parte della Legalità, della Competenza, del Merito. Formulare Patti Civici che siano fondati sulla Professionalità e non sull’interesse, che provengano dal “basso”, dalla Società Civile e non dalle ville lombarde o, ancora peggio, dai salotti romani. Per questi motivi, senza ombra di dubbio, ci schieriamo ‘Apertis Verbis’ con Luigi De Magistris, a cui riconosciamo: Coerenza, Impegno, e Capacità di Governo».
Contro il populismo a elezioni alterne
“Buona destra” è un partito, già centro studi, fondato da Filippo Rossi, giornalista e ideologo di Gianfranco Fini ai tempi di Futuro e Libertà. Le sue idee si rifanno a una destra repubblicana, antisovranista, contro gli estremismi, europeista, liberale ma che non nasconde il suo sguardo conservatore. «Autorevole ma non autoritaria, in grado di dare risposte concrete senza semplificare la realtà in italiani e stranieri, “onesti” e corrotti», si legge nella descrizione del libro di Rossi “Dalla parte di Jekyll: Manifesto per una buona destra”).
Filippo Rossi, ex ideologo di Gianfranco Fini
Il suo manifesto prevede, tra le altre cose, di «contrastare il “Partito Unico della Spesa” che da destra a sinistra insegue demagogicamente gli elettori», di «difendere e servire sempre i diritti e mai i privilegi e rifuggire la demagogia, il populismo e il sovranismo ingannevoli e strumentali», di «chiarire che il sacro dovere di salvare vite umane in mare non coincide con il dovere dell’accoglienza sempre e comunque». Alle Comunali di Roma è stato reso noto il sostegno di “Buona destra” a Carlo Calenda.
I dubbi da sinistra
Ora, può essere utile magari interrogarsi su cosa pensino Lucano o i tanti rifondaroli dell’approccio “oltre” la destra e la sinistra di de Magistris. Ma visto che nel discorso sulla contestata doppiezza politico-morale dell’ex pm ricorre spesso anche la contrapposizione giustizialismo/garantismo, aggiunge certamente un valido elemento di riflessione l’opinione che un altro magistrato non certo di destra – è esponente di Magistratura democratica – ha espresso circa la campagna calabrese del sindaco di Napoli.
Emilio Sirianni, in passato incolpato dal Ministero della giustizia (e poi assolto dalla sezione disciplinare del Csm) per aver dato consigli proprio all’ex sindaco di Riace mentre questi era sottoposto a indagini, nei mesi scorsi ha scritto di de Magistris: «Che un simile campione possa essere acclamato da politici di destra, più o meno camuffati, non stupisce. Ma la possibilità che possa esserlo anche a sinistra, atterrisce».
Come si arriva a 869 aspiranti consiglieri in una città come Cosenza, di 65mila e rotti abitanti, per un massimo di 40mila elettori?
Essenzialmente in un modo: reclutamenti più o meno “selvaggi”per controllare i voti di amici e parenti e fare quindi massa critica per spingere solo alcuni nomi e confermare la presenza diretta di simboli o l’influenza di alcuni big, che hanno mire ben diverse dal seggio in consiglio comunale.
Il guazzabuglio è voluto e fa comodo, tant’è che finora nessuno ha mai messo mano alla legge elettorale per rendere i criteri di candidatura più restrittivi, s’intende nel rispetto della Costituzione.
Cosenza, proprio per le sue dimensioni ridotte, fa scuola in questo modo d’agire. Lo dimostrano due casi, entrambi nella coalizione diFrancesco Caruso.
Ci si riferisce alle liste della Lega e di Coraggio Cosenza.
Tutto iniziò da Vincenzo Granata
Nonostante il declino demografico ed economico, Cosenza fa ancora gola. Ne faceva e ne fa tuttora a Matteo Salvini, perché ogni postazione acquistata nelle istituzioni meridionali rafforza il suo “nuovo corso”, di destra prima “radicale” e poi “moderata”, e limita il peso dei bossiani nelle fortissime nicchie del Nord profondo.
Non a caso, Vincenzo Granata, eletto nel 2016 con la lista Democrazia Mediterranea, passò con la Lega e ne creò il gruppo consiliare.
Vincenzo Granata, passato dalla Lega al movimento di Toti e Brugnaro (foto Alfonso Bombini)
Quello di Granata, tra l’altro fratello di Maximiliano Granata, presidente del Consorzio Vallecrati, è il primo tentativo di radicamento del partito di Salvini in città.
Tutto è filato liscio fino a pochi mesi prima delle elezioni, quando col cambio dei commissari sono iniziate le frizioni interne che hanno provocato l’uscita dalla Lega di circa trecento militanti, a partire proprio da Granata.
Ed ecco che il Carroccio si è trovato un problemone: come colmare il buco?
Una “cura medica” per la Lega
Il vuoto nel Carroccio è pesante e si tenta di colmarlo in tutti i modi. In una primissima battuta, ci hanno provato alcuni volti noti della politica cittadina, che in passato avevano fatto parte della maggioranza della giunta di Salvatore Perugini, finora l’ultimo sindaco cosentino espresso dal centrosinistra: Francesca Lopez, Salvatore Magnelli, Gianluca Greco e Roberto Sacco. Nessuno dei quattro è rimasto a bordo del Carroccio (Lopez e Magnelli sono candidati in Fdi e Sacco è finito a sinistra con l’altro Caruso, cioè Franz).
Il secondo intervento salva Lega è opera di Franceschina Brufano, leghista vicina a Spirlì e congiunta dell’ex presidente dell’Ordine degli avvocati Emilio Greco. Assieme a lei si mette in moto anche il consigliere uscente Pietro Molinaro.
Quest’ultimo chiede un aiuto eccellente: quello di Simona Loizzo, anch’essa candidata nel Carroccio, ma per le Regionali.
Simona Loizzo tra Nino Spirlì e Matteo Salvini
Ed ecco individuato il primo puntello: Roberto Bartolomeo, ex consigliere comunale emerso alla fine dell’era Mancini e dotato di un solido pacchetto di consensi. Con lui correrà in ticket Federica Pasqua, giovane medico dal cognome importante: è figlia di Pino Pasqua, primario all’Ospedale dell’Annunziata.
Nella corsa a riempire è senz’altro scappato qualche svarione: il giovane Mattia Lanzino, nipote dell’ex “primula” della ’ndrangheta cosentina. Nulla da eccepire sulla persona, perché il ragazzo è incensurato. Tuttavia, il tono delle polemiche seguite alla “rivelazione” ha confermato che i cosentini sono meno garantisti e meno propensi a distinguere tra persone e cognomi di quanto si creda.
La trasfusione
Il problema, per il Carroccio è tirare a bordo almeno gli 800 voti utili per avere pedine in Consiglio. Se il sangue non basta, ci vuole una bella trasfusione. Così hanno senz’altro pensato gli Stati Maggiori della Lega, che hanno trovato una lista pronta da assorbire: il Pls, che sta per Partito liberal socialista, un gruppo dal nome glocal ma dalle ambizioni di quartiere, organizzato da Massimiliano Ercole, ex maresciallo dei carabinieri dalle vicende giudiziarie piuttosto turbolente (a suo carico c’è un’inchiesta per traffico di rifiuti).
Secondo i beneinformati, Ercole ha trasfuso la sua lista del Pls, di diciotto nominativi, nella Lega. Non è dato sapere se ci siano tutti e diciotto i nominativi, ma gli addetti ai lavori ne confermano cinque: Francesca Broccolo, Antonio Citro, Sergio Moretti, Marianna Lo Polito e Michael Zappalà.
Affari di famiglia
Finora si è parlato delle mogli (di Luca Morrone, ad esempio), dei figli e dei parenti dei big.
Ma ci sono anche famiglie normalissime che si sono date generosamente per completare le liste. Una, in particolare, spicca nella coalizione di Caruso: sono i Bruno (nessuna parentela con Davide Bruno, ex assessore di Mario Occhiuto), che si sono inseriti in blocco nella lista Coraggio Cosenza, organizzata da Vincenzo Granata per puntellare a Cosenza il movimento (Coraggio Italia) di Giovanni Toti e Luigi Brugnaro, il sindaco di Venezia.
In questa lista, infatti, è possibile distinguere tra due Giuseppe Bruno solo grazie all’anno di nascita: il primo è classe ’53, il secondo è classe 2001. Il salto anagrafico non è un caso, perché sono nonno e nipote.
Tra i due, figurano Ettore Bruno e Silvana Bruno, rispettivamente papà e zia di Giuseppe jr.
Non finisce qui: in lista ci sono anche le consorti di Giuseppe senior e di Ettore. E c’è Federica Chiari, la fidanzata di Giuseppe jr.
Cosa non si fa per riempire una lista…
Il regno del casino
A guardare bene i santini elettorali si capisce che molti, al massimo, sono abituati a fare selfie e risultano a disagio col look supercompassato e imbellettato dei politici professionisti.
E si capisce che i dirigenti politici hanno agito in maniera “pasoliniana”, cioè hanno preso di peso le persone dai quartieri e dalle strade senza andare troppo per il sottile, ovvero senza informarsi sulla reale vocazione (o preparazione) politica dei candidati.
Oggi vince chi fa più casino. E a Cosenza lo si è capito benissimo. Chissà che anche in questo il Sud profondo non faccia scuola.
Un documento credibilissimo rivela lo stato d’animo con cui il Pd affronta le imminenti Regionali.
Questa carta “canta” sin troppo: è una lettera inviata da Graziano Di Natale, consigliere regionale uscente, ai circoli del Pd della provincia di Cosenza.
Per la precisione, intona un’aria tragica, da resa dei conti interna, che rende piuttosto bene un dato: gli equilibri interni dei dem sono saltati. E, al momento, la situazione risulta di difficile ricucitura.
Tutto lascia pensare che gli stati maggiori calabresi del partito di Letta vogliano usare le Regionali (e, in subordine, le Amministrative di Cosenza) come se fossero le primarie che non si celebrano più da un pezzo. In parole povere, per ristabilire gli assetti di potere e i nuovi equilibri.
Non saranno elezioni, ma un referendum
Veniamo ai passi salienti della recente missiva con cui Di Natale chiede il voto per sé non a danno degli avversari, come sarebbe logico, ma dei colleghi di lista.
Scrive, infatti, l’esponente paolano: «Quante volte ci siamo dovuti “giustificare” con amici e conoscenti o chiedere il voto per un candidato che puntualmente poi disattendeva ciò che aveva promesso durante la campagna elettorale??!! Quante volte ci siamo vergognati per questo? Quante volte hanno preso i nostri voti e sono spariti?».
Sono due domande retoriche, chiarite da un terzo quesito: «È questo il Partito Democratico che vogliamo?»
Ed ecco che Di Natale spiega i motivi della sua candidatura, con termini simili a quelli con cui Carlo Tansi ha giustificato l’alleanza con Amalia Bruni: «Ho scelto di candidarmi nel PD per “lottare dall’interno”, restando coerente con il mio percorso ricco di battaglie, denunce, legalità, dignità, ascolto e presenza sui territori. Per “lottare dall’interno” intendo cambiare il modo di gestire il partito nella nostra regione».
La lettera inviata da Graziano Di Natale
Un paradosso curioso: quando, nel 2020, si candidò in Io resto in Calabria, la lista presidenziale di Pippo Callipo, l’esponente paolano dem non proferì parola sul suo partito, né i maggiorenti dem la proferirono su di lui.
Ma tant’è: nella compilazione delle liste le appartenenze possono diventare optional.
Stavolta le cose sono andate diversamente: Di Natale si è “dovuto” candidare nel Pd, dove i suoi quasi cinquemila voti potrebbero non pesare abbastanza in una lista piena di big.
Quattro galli in un pollaio
Non occorre essere analisti dei flussi elettorali per capire che nella coalizione della Bruni c’è uno squilibrio piuttosto marcato, tra la lista del Pd, concepita come macchina macinavoti, e le altre.
Secondo i beneinformati, sarebbe stata determinante, in questa scelta. la volontà del commissario Francesco Boccia, ansioso di ottenere comunque un risultato “di bandiera” in linea col trend nazionale, che oscilla attorno al 17%, anche in Calabria e soprattutto nel caotico partito cosentino.
Così la lista dem è diventata un pollaio in cui quattro pezzi da 90 si contendono uno spazio piuttosto ridotto: oltre Di Natale, sono in lizza Giuseppe Aieta – che si è deciso per il suo partito dopo aver traccheggiato un bel po’ con Mario Oliverio – Mimmo Bevacqua, il campione più forte dell’area popolare dem, e Franco Iacucci, che gode in questa corsa di due forti postazioni di tiro (la provincia di Cosenza e il Comune di Aiello, di cui è tuttora sindaco) e dell’appoggio di Nicola Adamo e Carlo Guccione.
Ne resterà solo uno
Di Natale avrebbe provato a sottrarsi a questa logica, che rischia di trasformare l’attuale competizione in un bagno di sangue anche per i consiglieri uscenti, di cui potrebbe passarne uno solo.
Infatti, stando ai bene informati, il big paolano avrebbe provato a compilare la lista del presidente, ma con scarsi risultati, perché pochi sarebbero stati disposti a fare i portatori d’acqua per un consigliere uscente. Con un rischio ancora maggiore: trovarsi alla guida di una lista debole.
Questo spiega la logica da guerra civile interna con cui è redatta la lettera inviata ai circoli. «Ascoltate il mio appello: ogni singola preferenza per me, sarà un avviso di sfratto per chi ha distrutto questo partito», scrive il consigliere regionale, che rincara la dose senza accorgersi di aver copiato uno slogan usato dai seguaci di de Magistris, tra l’altro proprio a Paola: «Il 3 e 4 Ottobre non sarà una semplice elezione. Il 3 e 4 ottobre sarà un referendum tra NOI e loro».
Dalle parti di Masaniello
Il riferimento ai Masanielli del quasi ex sindaco di Napoli non è casuale: nelle loro file milita la vera spina nel fianco degli aspiranti consiglieri regionali del Tirreno cosentino, cioè Ugo Vetere, sindaco di Santa Maria del Cedro dotato di un forte seguito.
Infatti, pur essendo legato al Pd, Vetere avrebbe scelto di schierarsi prima con Carlo Tansi e poi avrebbe ceduto alle lusinghe di de Magistris proprio per non finire schiacciato da Di Natale, che a differenza sua vanta comunque un legame di primo piano con il Pd “che conta”, essendo genero del notabile amanteano Mario Pirillo, ex assessore all’Agricoltura dell’era Loiero ed ex europarlamentare.
Secondo gli addetti ai lavori, Vetere, che è candidato in Dema, ha una grossa carta a proprio favore: l’appoggio elettorale di Giuseppe Giudiceandrea, che si è chiamato fuori all’ultimo dalla competizione elettorale anche per non correre lo stesso rischio di Di Natale. Cioè competere all’interno della lista ammiraglia di de Magistris con Vetere e Mimmo Talarico (col quale condivide, almeno in parte, il bacino elettorale).
La chiamata alle armi
Alla candidatura praticamente obbligata nel Pd, Di Natale risponde con una chiamata alle armi, rivolta non tanto contro l’attuale commissario ma per «mandare a casa chi ha praticamente azzerato il partito, facendolo addirittura commissariare per l’ennesima volta». Di Natale farà senz’altro il portatore d’acqua, ma la porterà avvelenata. E guai a berla.
Il quadro ormai è delineato: Occhiuto fila più o meno liscio, con la sola eccezione di alcune “sviste” (del suo staff o della Commissione parlamentare antimafia?) nel collegio Sud, mentre i suoi avversari a sinistra si contendono la palma del “nuovo” e della “purezza”.
Ma Amalia Bruni e Luigi de Magistris possono aspirare, al massimo, alla certificazione dell’usato sicuro, tipica dei venditori d’auto degli ultimi anni dello scorso secolo.
Uno sguardo più approfondito rivela che, in realtà, tra le due coalizioni c’è una certa permeabilità, costituita da personaggi di primo piano, spesso con storie e provenienze simili, che si sono collocati più a seconda della convenienze (cioè per massimizzare i propri voti) che in base a istanze reali di rinnovamento. Questa transumanza è visibile nel collegio di Cosenza, che è il più determinante sia per le dimensioni sia perché gli equilibri del capoluogo, in cui si svolgeranno le Amministrative, risulteranno centrali negli assetti futuri della politica regionale.
Le contraddizioni di de Magistris
La voglia del nuovo deve fare sempre i conti con la realtà, che in Calabria genera contraddizioni vistose.
La prima contraddizione riguarda lo schieramento di De Magistris, che nel collegio Nord ha due nomi: Giuseppe Giudiceandrea e Felice D’Alessandro.
L’ex consigliere regionale Giuseppe Giudiceandrea
Iniziamo da Giudiceandrea, ex consigliere regionale e figura forte della sinistra cosentina, passato dalla sinistra radicale al Pd.
La sua candidatura era data per certa fino a meno di una settimana dalla presentazione delle liste del re di Napoli. Poi, quasi a sorpresa, il ritiro, annunciato dallo stesso Giudiceandrea dalla propria bacheca Facebook con una motivazione a dir poco ambigua: lui avrebbe troppi voti, che impedirebbero la quadra tra i candidati in più liste.
Giudiceandrea fuori per fare spazio ad altri
In altre parole, l’ex consigliere sarebbe stato candidato in Dema, dove già ci sono due candidati piuttosto forti: Mimmo Talarico, sodale del quasi ex sindaco di Napoli sin dal 2010, e Ugo Vetere, sindco di Santa Maria del Cedro, già in quota Pd e poi vicino a Carlo Tansi. L’alternativa, per lui, sarebbe stata la candidatura in de Magistris presidente, con il rischio di far ombra ad Anna Falcone, costituzionalista, ex accademica dal passato socialista e dall’attuale impostazione vicina alla sinistra radicale.
Che sia così lo ribadisce la doppia candidatura della stessa Falcone a capolista nel collegio Nord e in quello Centro. È evidente che lo staff dei Masanielli miri a farla passare comunque.
Il dietro le quinte che riguarda Giudiceandrea, autoesclusosi con grande intelligenza politica, sarebbe anche un altro: il suo passato legame con Mario Oliverio e il Pd. Nulla di male in questo, riferiscono i bene informati, tanto più che l’ex consigliere dell’amministrazione Oliverio ha bene operato e non ha strascichi giudiziari.
Anzi, è stato protagonista di strappi anche coraggiosi: chi non ricorda, al riguardo, la lite sui vitalizi con Nicola Adamo?
La sua esclusione sarebbe stata quindi dettata dalla voglia di proporre novità all’elettorato.
Felice D’Alessandro, candidato alla Regione nelle file di Luigi De Magistris
Lo stesso principio, tuttavia, non vale per altri. È il caso di Felice D’Alessandro, sindaco uscente di Rovito, candidato in Dema, che può essere definito nuovo solo perché non ha mai fatto parte del Consiglio regionale. Sebbene, c’è da dire, ci avesse provato: si era candidato nel 2020 in Io resto in Calabria, la lista “presidenziale” di Pippo Callipo, in cui aveva ottenuto 3.600 preferenze, di cui più di 700 nel capoluogo.
D’Alessandro per tutte le stagioni
Per il resto, D’Alessandro ha una storia fatta di legami col Pd e i suoi big più forte di quella di Giudiceandrea.
Di lui si ricorda una serie di vicinanze: dapprima a Carlo Guccione, poi a Mario Oliverio, poi a Ferdinando Aiello (il quale, per un certo periodo, è stato vicino a Giudiceandrea, che avrebbe addirittura convinto a entrare nel Pd), quindi a Nicola Adamo, ancora a Franco Iacucci e, infine, a Sandro Principe, che non è più formalmente nei dem ma ne resta un ispiratore carismatico.
Sempre a proposito di Principe, può destare qualche interesse un altro retroscena: D’Alessandro, che non ha mai nascosto il desiderio di diventare sindaco di Cosenza, sarebbe stato indicato dal big rendese per la corsa a Palazzo dei Bruzi.
In pratica, l’aspirante sindaco è stato per un breve periodo il quarto incomodo nel delicatissimo gioco a tre del centrosinistra cosentino, in cui si sono disputati la candidatura a primo cittadinoFranz Caruso, Bianca Rende e Giacomo Mancini.
Sappiamo com’è andata a finire: la quadra è stata ricomposta male, perché sono rimasti in corsa Caruso e Rende e Mancini ha dichiarato l’appoggio all’avvocato di fede socialista.
In questo contesto, a D’Alessandro non sarebbe rimasto che schierarsi con Caruso come aspirante consigliere, col rischio non infondato di finire tra i banchi dell’opposizione. A questo punto, la scelta della Regione, per non stare fermo un giro, è stata quasi obbligata. Ma non nel Pd, dove coi suoi voti avrebbe potuto fare il portatore d’acqua, ma con la coalizione di de Magistris, dove potrebbe invece pesare di più.
Un terrone è per sempre
La seconda contraddizione, verificatasi nel collegio Centro, è più piccola, roba di puro folclore cultura- politico. Riguarda Amedeo Colacino, avvocato molto noto nel comprensorio lametino ed ex sindaco di Motta Santa Lucia.
Il nuovismo di Colacino risale all’inizio del decennio e si risolve nella sua infatuazione per il neborbonismo, sfociato in una battaglia giudiziaria bizzarra contro il Museo Lombroso di Torino. Inutile, per quel che serve qui, ricostruirla nel dettaglio: basti solo dire che il Comune di Motta, fiancheggiato da tutte le associazioni neoborboniche e dallo stesso Aprile, ha perso in Corte d’Apello e in Cassazione e che l’attuale sindaco del paese lametino, ha accantonato ogni velleità combattiva.
Interessa molto, invece, la vicinanza di Colacino a Orlandino Greco, all’epoca consigliere regionale, che per un certo periodo aveva guardato con molta curiosità e altrettanta benevolenza alle battaglie identitarie dei “terronisti”, al punto di far approvare una mozione al consiglio regionale e di interessare il Comune di Cosenza attraverso Mimmo Frammartino, allora suo sodale nei banchi dell’opposizione.
Piccole cose, ci mancherebbe, ma che danno la misura di una certa vicinanza politica. Nel percorso a dir poco originale di Colacino figura anche la successiva adesione al Movimento 24 agosto-Equità territoriale di Pino Aprile, che di recente ha ritirato il proprio appoggio a de Magistris e si è spaccato al suo interno.
Se i presupposti sono questi, tutto lascia pensare che la candidatura di Colacino in Dema sia un modo per sterilizzare la presenza, a dirla tutta non fortissima, degli apriliani.
Stesso discorso, nel collegio Nord, per Mario Bria, medico cosentino che i più ricordano come battagliero consigliere provinciale dei Verdi alla provincia di Cosenza durante la prima amministrazione Oliverio.
Vicinissimo all’epoca all’ex governatore, Bria si è eclissato dagli spalti provinciali per riemergere proprio col Movimento di Aprile, per il quale scaldava già i motori.
Il rifugio in Dema è per lui una scelta quasi obbligata, visto che il suo pacchetto di voti non avrebbe avuto valore in un partitino prossimo alla polverizzazione, almeno qui in Calabria.
Tiriamo le somme
Il concetto chiave su cui sembrano muoversi i due schieramenti a sinistra è quello dei vasi comunicanti: chi è abbastanza forte o ha obblighi politici a cui non si può dire di no va con la Bruni, chi appena può giocarsi la partita è con de Magistris.
Di sicuro, la lista cosentina del Pd è impraticabile per chiunque, perché blindata attorno a tre big: Mimmo Bevacqua, Giuseppe Aieta e Graziano Di Natale.
I tre sono forti, ma dei tre il più forte resta Bevacqua. Aieta, su cui pesa un’inchiesta non proprio irrilevante per corruzione elettorale e voto di scambio, ha perso l’appoggio di Oliverio e il fortino della “sua” Cetraro, di cui è stato a lungo sindaco.
Di Natale, di cui sono più che noti i rapporti parentali con l’ex europarlamentare Mario Pirillo, dovrà misurarsi nella lista principe della coalizione di Bruni, a differenza del 2020, quando aveva potuto valorizzare al massimo i propri voti in una lista fiancheggiatrice.
Tutto questo senza fare i conti con l’oste: il presidente uscente della Provincia di Cosenza Franco Iacucci, che tenta, secondo molti, la corsa di fine carriera con la candidatura alla Regione. Ma, secondo gli addetti ai lavori, saprebbe comunque il fatto suo, potendo contare comunque sull’aiuto di Adamo e Guccione.
Il centrosinistra cosentino è diventato un blob, che condiziona non poco il collegio più grande e popolato della Calabria.
E sortirà un terribile effetto boomerang: la candidatura di Nicola Irto, già consigliere più votato nel 2020, andrà alle stelle grazie a due fattori. Cioè il suicidio dei big cosentini, che rischiano di essere gambizzati dagli ultrà di Oliverio, e il mancato chiacchiericcio antimafia, che di questi tempi non è davvero poco.
C’è sempre uno più puro che ti epura, diceva il compianto Pietro Nenni ai socialisti più intransigenti. Sbagliava: la purezza è scomparsa da un pezzo. Anche in politica.
«Tre gruppi spendono i soldi degli altri: i bambini, i ladri, i politici. Tutti e tre hanno bisogno di essere controllati», diceva l’ex parlamentare texano Dick Armey. Tralasciamo le facili battute sugli ancor più facili accostamenti tra alcuni dei gruppi in questione, tutti i candidati ci spiegano che a spingerli a entrare nei palazzi del potere sono sempre e solo i più nobili degli ideali. Ma proviamo a ragionare sull’assurda ipotesi che, sotto sotto, a qualcuno di loro possa interessare pure il vile denaro. Una domanda a quel punto bisognerebbe farsela: quanti soldi passano dalle tasche dei politici regionali ogni mese una volta eletti?
Differenze tra Consiglio e Giunta
La risposta non è sempre uguale. Sono molte le variabili da considerare quando si parla di emolumenti alla Regione Calabria, tutte relative al ruolo ricoperto dai singoli. Un assessore guadagnerà più di un consigliere, i presidenti delle commissioni o i capigruppo più dei loro colleghi meno “altolocati”, quelli di Giunta e Consiglio più di qualsiasi componente dei medesimi organi. Certo è che tutti loro a fine serata un pasto caldo possono permetterselo senza preoccuparsi di tirare la cinghia per non arrivare al verde a fine mese.
Il primato della politica
In una terra in cui il reddito pro capite medio supera di poco i 15mila euro annui, ai rappresentanti istituzionali dei calabresi spettano infatti ogni mese come minimo circa 12.150 euro. E i Nostri possono arrivare, nel caso dei presidenti di Giunta e Consiglio, anche a quasi 18mila. È il massimo consentito per le Regioni a statuto ordinario. In altri territori italiani dall’economia più florida c’è chi ha scelto di percepire meno, ma qui i politici – visti i brillanti risultati ottenuti in mezzo secolo di regionalismo in salsa calabra – hanno optato per fare bottino pieno. Un omaggio alla meritocrazia che sfugge solo agli osservatori troppo maliziosi, senza dubbio.
Indennità di carica e di funzione
Ma come si arriva a certe cifre? Presto detto: ogni politico regionale ha diritto a una indennità di carica – lo stipendio vero e proprio, per così dire – pari a 5.100 euro. A questi vanno aggiunti i quattrini della indennità di funzione. In questo caso si parte dai 1.500 europer i capigruppo per arrivare ai 2.000 destinati ai presidenti di commissione, gli assessori, i vicepresidenti del Consiglio o quello della Giunta. Se poi si guidano la Giunta o il Consiglio l’indennità di funzione, noblesse oblige, aumenta ancora, toccando i 2.700 euro mensili.
Vettura e autisti
Se pensaste che il conto sia finito qui pecchereste d’ingenuità. Non vanno dimenticate, infatti, le spese «per il noleggio e l’esercizio delle autovetture utilizzate per l’esercizio delle funzioni». Da non confondere con il salario per gli autisti inseriti nelle strutture degli eletti: i circa 29.000 euro lordi che vanno ogni anno a uno chaffeur al 100% – se ne possono prendere due volendo, purché si dividano a metà lo stipendio – sono un’altra cosa. Per la loro vettura i politici incassano ancora una volta in base al ruolo ricoperto: segretari questori e vicepresidenti del Consiglio si vedono accreditare ogni 30 giorni 2.355 euro, agli assessori ne toccano 3.115. Quando poi si presiedono la Giunta o il Consiglio la somma sale fino a sfiorare i 3.900 euro.
Massimo cinque missioni, ma soldi ogni mese
Il timore che l’iperattivismo dei nostri rappresentanti possa portarli alla fame fa sì che alle somme appena elencate se ne aggiungano altre. Tant’è che per ogni componente di Giunta e Consiglio ci sono 6.000 euro mensili destinati alle spese per l’esercizio del mandato. Ogni consigliere ha pure diritto a un’ulteriore somma, pari a poco più di 1.035 euro, «a titolo di contributo forfettario mensile per le missioni». E poco importa che le missioni rimborsabili ogni anno siano al massimo cinque, meno della metà dei mesi del calendario.
Dalle narrazioni non ufficiali della notte dei lunghi coltelli vissuta dal Pd catanzarese tra venerdì e sabato emerge uno spaccato inquietante. L’introduzione delle quote rosa ha fatto sì che tre posti, sugli 8 disponibili nel collegio Centro (Catanzaro-Crotone-Vibo), fossero blindati: Aquila Villella, Annagiulia Caiazza, Giusy Iemma.
Posto sicuro anche per un consigliere uscente (Luigi Tassone) e per due che si erano candidati ma non ce l’avevano fatta a gennaio 2020 (Fabio Guerriero e Raffaele Mammoliti). Restavano due posti, ma se li contendevano tre maschietti: il sindaco di Soverato Ernesto Alecci (in realtà a garanzia del suo posto c’era l’appartenenza a “Base riformista”, la corrente di Luca Lotti), l’ex presidente della Provincia Enzo Bruno, l’uscente Francesco Pitaro.
Ernesto Alecci, sindaco di Soverato
Quest’ultimo è entrato in Consiglio regionale con Pippo Callipo, ha fatto quasi tutto lo scorcio di legislatura col Misto e qualche settimana fa si era avvicinato al Pd, forte di un accordo con i vertici provinciali. Apriti cielo. Guerriero ha minacciato di ritirare la candidatura, Alecci pure, Bruno di uscire dal partito. Alla fine sono cadute le teste di Bruno e Pitaro, il posto conteso per uscire dall’impasse lo ha occupato il segretario provinciale Gianluca Cuda e le due “vittime” hanno subito dato sfogo a reazioni al vetriolo.
Lo sfogo di Bruno
L’ex presidente della Provincia ha parlato di «logiche poco trasparenti, perverse e poco rispettose della comunità democratica». Poi con un certo sprezzo del ridicolo ha fatto anche sapere di aver accettato la candidatura a sindaco di Vallefiorita per il «cambiamento e la rinascita» del suo paese, dove era assessore già nel 1988 e vicesindaco nel 1993.
Francesco Pitaro ha descritto un partito di belve feroci che non sarebbe diventato certo una comitiva di educande se avesse accettato la sua candidatura. Pino Pitaro, ex sindaco di Torre di Ruggiero coinvolto nell’inchiesta antimafia “Orthrus” per il quale però la richiesta d’arresto è stata più volte negata, ci ha messo il carico scrivendo sul profilo Facebook del fratello: «La cosca politica si è organizzata contro di te». Secondo i bene informati la regia della loro esclusione sarebbe, almeno in parte, ascrivibile al deputato Antonio Viscomi. Che, così, nel suo collegio di appartenenza ha provato a evitare di farsi fare le scarpe proprio dall’ultimo arrivato.
Francesco Pitaro, consigliere regionale del gruppo Misto
Pd, il mentore e il discepolo
La vicenda (molto pulp) del Pd catanzarese è emblematica dello stato di un partito a cui sembra interessare solo il mantenimento di postazioni da cui dividersi le macerie di ciò che resterà dopo le Regionali. In questo senso dice molto anche un’altra storia di queste ore che viene dall’entroterra, dalle Serre: quella del ricandidato Tassone. Eletto a gennaio 2020 dopo essere entrato in lista all’ultimo minuto grazie alla scure calata da Pippo Callipo sulle candidature proposte dal duo Graziano-Oddati, e del suo mentore di sempre, Bruno Censore, che invece è nella lista di Mario Oliverio.
L’uno era l’ombra dell’altro, diciamo quasi zio e nipote, oggi invece non si parlano nemmeno e puntano al reciproco scalpo da postazioni distanti. Tassone ha dalla sua un piazzamento decisamente migliore. Censore invece è dovuto ricorrere anche a candidature di servizio per riempire le caselle, ma i voti in provincia sono sempre stati del mentore e il delfino sa in cuor suo che gli venderà (politicamente) cara la pelle.
Stupisce dunque che il garantismo storico dei berlusconiani stavolta non sia stato adoperato per un politico che è ritenuto utile al Comune di Vibo. Lì (almeno finora) il suo gruppo sostiene l’amministrazione di centrodestra guidata da Maria Limardo ed è risultato “buono” anche per vincere le elezioni regionali del 2020. Invece ora, all’improvviso e senza motivazioni ufficiali, finisce fuori dalle liste. Per di più proprio quando il coordinatore regionale del partito che esprime il candidato alla Presidenza è lo stesso Giuseppe Mangialavori con cui si era alleato per vincere le Comunali.
Il notaio vibonese con De Magistris
Nel collegio centrale ha puntato forte anche un altro aspirante governatore, Luigi de Magistris, che tra Crotone, Lamezia e Vibo ha scelto candidati ben radicati sul territorio come Filippo Sestito, Rosario Piccioni e Antonio Lo Schiavo. Quest’ultimo, notaio vibonese, ci aveva già provato con Callipo alle passate elezioni ma non ce l’ha fatta per una manciata di voti. All’epoca e anche oggi ha il sostegno dell’ex presidente della Commissione regionale antimafia Arturo Bova, ma stavolta gli mancherà proprio l’appoggio lametino dell’area di Gianni Speranza di cui Piccioni è un punto di riferimento. Fra i tre, alla fine, potrebbe trarne vantaggio solo l’ex pm, forse.
Lamezia rischia di non sedere in consiglio regionale
A Lamezia, come previsto, è partita una nuova carica di candidature – una quindicina solo dalla città, senza contare l’hinterland – che rischiano solo di frammentare i rispettivi campi riducendo le possibilità di avere rappresentanti in consiglio regionale per la quarta città della Calabria, com’è già avvenuto nelle ultime due legislature.
È da segnalare il ritorno in campo di Pasqualino Scaramuzzino, ex sindaco ai tempi del secondo commissariamento per mafia di Lamezia ed ex presidente della Fondazione Terina; di recente si è attirato parecchie polemiche social per un video (sponsorizzato) su Facebook in cui, affiancato da da Mangialavori e Occhiuto, esaltava il “sacrificio” di quest’ultimo per aver deciso, dalla postazione di rilievo della Camera, di venire a “sporcarsi le mani” in Calabria.
Gioca la sua personale partita anche il deputato leghista Domenico Furgiuele, spesso citato per gli imbarazzi giudiziari in cui si è trovato il suocero, che ricandida l’uscente Pietro Raso in “accoppiata” con Antonietta D’Amico, provando così dal suo “feudo” di Sambiase ad allargarsi sia nell’hinterland che nel centro di Nicastro.
Flora e Baldo nella campagna acquisti Udc
Sull’asse Crotone-Catanzaro sembra potenzialmente forte, dal punto di vista dei consensi, la doppia new entry nell’Udc rappresentata da Baldo Esposito, già in area Gentile, e di Flora Sculco, altra figlia d’arte che scalpita come Silvia Parente – il padre Claudio ha rinsaldato l’asse con Mimmo Tallini – e Katya Gentile, forte dell’accordo bifamiliare con gli Occhiuto tra la Regione e il Comune di Cosenza. Nell’Udc ha militato anche Sabatino Falduto, ex assessore comunale vibonese che oggi è candidato nella lista di Fratelli d’Italia e che “vanta” anche un passaggio nel Pd.
Flora Sculco, consigliera regionale del gruppo DP, si candida con l’Udc
Cambi di casacca
Trasversalismi e cambi di casacca sono d’altronde pratiche diffuse e nel collegio si segnalano a questo proposito le seguenti curiosità: Giovanni Matacera, candidato di Forza Italia, è fratello di Pietro, già vicesindaco di Soverato, cittadina jonica il cui sindaco è Alecci (candidato nel Pd); Innocenza Giannuzzi, già Agricoop, Confapi e ora Confartigianato, era candidata a gennaio 2020 con “Io resto in Calabria” di Callipo mentre ora è in lista con Oliverio; Tiziana De Nardo, alle precedenti elezioni candidata con i Democratici e progressisti (centrosinistra), nel giro di un anno e mezzo è passata, via Italia del meridione, a conquistare un posto nella lista “Forza azzurri”.
Gestisci Consenso
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.