Tutto sommato è facile raggiungere Mammola. Puoi arrivarci da una statale che taglia l’Aspromonte, oppure da sotto, lasciando la 106 Jonica a Marina di Gioiosa. E ci vai essenzialmente per due motivi. Uno per tenere a bada lo stomaco mangiando stocco in una delle due capitali calabresi (l’altra è Cittanova) del predetto prelibato; oppure per nutrire l’anima fermandoti al MuSaBa di Hiske Maas e Nik Spatari, artista di fama internazionale, amico di gente come Pablo Picasso e morto nel 2020.
Un documentario diretto da Luigi Simone Veneziano ha raccolto il testamento poetico di questo personaggio fuori dal comune. Il lungo lockdown ha frenato la distribuzione dell’audiovisivo prodotto dall’associazione Le sei Sorelle. Da alcuni mesi è tornato ad emozionare il pubblico. In Calabria soprattutto nei cinema storici come il Santa Chiara a Rende.
Una veduta aerea del MuSaBa (foto sito www.musaba.org)
Nik Spatari: un doc per Il sogno di Jacob
Appena vedi uno come Veneziano, capisci subito che ha buone storie da raccontare. Con Il sogno di Jacob ha riannodato un pezzo di Calabria capace di produrre meraviglia. Regia attenta, fotografia accurata, recitazione appropriata e musiche al passo con la narrazione. E una sceneggiatura affidata alle sapienti mani di Alessia Principe, scrittrice e giornalista de LaC. Con un’incursione-cameo di Gioacchino Criaco, autore di libri come Anime nere e Le Maligredi. Criaco dialoga con Spatari, due sensibilità stregate dalla luce accecante dell’Aspromonte. Una luce in grado di riprodurre la gamma di colori utilizzata da Michelangelo, spiega Nik in una sequenza dell’intervista.
Lo scrittore Gioacchino Criaco intervista Nik Spatari e Hiske Maas al Musaba
Nei manuali si dice metacinema. In realtà la parola è entrata nel vocabolario dei giornali e degli appassionati da tempo memorabile. Veneziano porta sul grande schermo un regista impegnato a realizzare un lavoro per la tv su Spatari e sul Musaba. Sarà un motivo per riflettere su se stesso insieme alla troupe.
Quando il bambino era bambino
In principio era un bambino di una Reggio Calabria sotto le bombe sganciate dalle Fortezze volanti. Ai più attenti ricorderà in parte il ragazzino del cult movie The Wall, il film di Alan Parker ispirato al capolavoro musicale e concettuale dei Pink Floyd.
Uno di quegli ordigni ruba per sempre l’udito a Nik. Da allora sentirà il mondo solo attraverso le tonalità uniche delle sue opere.
Nel documentario una precisa scelta stilistica mescola il bianco e nero con il colore. Come fa Wenders ne Il Cielo sopra Berlino. Veneziano dice di essersi ispirato espressamente alla cifra narrativa del regista tedesco approdato, non molti anni fa, proprio in Calabria a pochi chilometri da Mammola. A Riace ha girato un film-documentario sul paese dell’accoglienza e la forza del messaggio di Mimmo Lucano.
Particolare de “Il sogno di Jacob” di Nik Spatari (foto sito www.musaba.org)
L’utopia di Nik Spatari
Nik non dimenticherà mai la bibbia a puntate sulla rivista religiosa letta dalla madre. Le illustrazioni di Gustave Doré e il messaggio universale di quelle storie. Il sogno di Jacob nasce da lontano per poi diventare un’opera d’arte lunga 14 metri. Fogli di legno e colori «alla Spatari» direbbe Hiske Maas per il racconto di Giobbe abbandonato da Dio e dagli uomini.
Lucano, Spatari e Tommaso Campanella. Tre utopie che si mescolano, si inseguono, percorrono strade poco battute. Non è un caso se un capitolo del documentario del regista cosentino si chiama: “La città del sole”. E Stilo non è lontana da Mammola.
Il regista Luigi Simone Veneziano e l’artista Hiske Maas al MuSaBa di Mammola durante le riprese de “Il sogno di Jacob”
Il furto di Jean Cocteau
Nik Spatari espone a Parigi negli anni Sessanta quando il grande Jean Cocteau gli ruba una tela. Il fatto non sfugge alla stampa della capitale francese. L’episodio è raccontato dal filmaker calabrese nel documentario. Con la sua compagna, l’artista Hiske Maas, alla fine di quel decennio Nik decide di tornare a Sud. Stregati dai ruderi del complesso monastico di Santa Barbara e da un paesaggio ammaliante, mettono radici alle pendici dell’Aspromonte.
Trasformeranno questo posto in un museo-laboratorio unico. Qualcuno, più di uno, cerca di mettere il bastone tra le ruote a questa coppia di visionari. Tanti ostacoli superati; compresa la superstrada che doveva passare a pochi metri dal MuSaBa. L’ostinazione di Iske contiene pure un messaggio per chi non crede in un futuro quaggiù: «Ci sarebbero mille cose da fare in questa Calabria».
Dopo una prima parte di inverno in sordina, gelo e neve sembrano volersi fare strada e l’Aspromonte si colora di bianco a quote via via più basse. D’altronde il bianco da queste parti rimane colore dominante in ossequio ad una radice linguistica greca dove asper non vuole essere abbreviazione di asperrimo, quanto invece eloquente riferimento cromatico.
Fu infatti proprio il bianco dei calanchi e quello delle nevi nell’immediato entroterra il colore che accolse i primi greci sulle nostre coste. E fu perciò proprio da quel primo sguardo, da quel colpo di fulmine, che prese origine l’appellativo che oggi in tanti erroneamente accostano alla natura impervia dei luoghi.
Il bianco dei calanchi di Palizzi accolse i marinai greci in Calabria
È strana la neve, fenomeno meteorologico accompagnato sempre da una dicotomia: tormento per i pastori di alvariana memoria – assai meno per quelli 2.0 – e occasione di gioia per i bambini e di comprensibile sollievo per gli operatori turistici. Ma, se vogliamo, la neve ha anche un’altra sua valenza che in questa fase storica in cui il concetto di educazione al bello è spesso abusato, assume un valore pratico a cui si aggiunge un retrogusto poetico. È quasi come se la neve conservasse nella forma dei suoi cristalli, una cifra stilistica spesso sconosciuta all’uomo. Copre, uniforma, rende tutto uguale la neve, cancellando le storture prodotte dall’uomo.
L’Aspromonte delle cattedrali nel deserto
E di storture ne ha viste nel tempo questa montagna, violentata nello spirito e nella forma, nell’immagine e nei contenuti. Le ferite sono in superficie e ben visibili. Non si fatica, infatti, a trovare in un contesto di rara e ancora selvaggia bellezza elementi che parlano di degrado, di abbandono, di incuria. Cattedrali nel deserto che rimangono a perenne testimonianza di scelte scellerate, di miraggi mai realizzati, di improbabili intuizioni naufragate prima ancora di prendere il largo.
Uomini della Polizia nella Locride durante la stagione dei sequestri di persona (foto Gigi Romano)
Dalla ghost town di Cardeto Sud, apoteosi di speculazione edilizia nata verso la metà degli anni Settanta, ai ruderi di Piani Moleti in territorio di Ciminà. Dall’ex base NAPS dei Piani di Stoccato in territorio di Oppido Mamertina poco più su della frazione di Piminoro (nata per ospitare i nuclei speciali antisequestri), alla struttura sportiva di Canolo nuova, sui pianori di Zomaro, concepita negli anni Ottanta con la velleità di ospitare la preparazione atletica di squadre di calcio professionistiche, mai entrata in funzione e divenuta nel tempo luogo di pascolo per mandrie più o meno sacre.
È lungo l’elenco di incompiute, lunga la classifica di ecomostri rimasti a deturpare, a segnare in calce un’epoca che piaccia o meno, va accettata e riconosciuta. Sappiamo bene come utopia e poesia spesso debbano cedere il passo ad una realtà che quasi mai è come vorremmo.
Monte Nardello, un luogo strategico
Qualche mese fa, prima che l’inverno si decidesse a fare sul serio, ho rivisitato un luogo, che al pari di quelli prima indicati, testimonia di una incuria e un degrado che reclamano giustizia. Questa storia, fa riferimento ad un punto geografico preciso dove si cristallizza un’epoca, una fase storica a molti sconosciuta e assai particolare, durante la quale l’Aspromonte diventa crocevia di rotte internazionali. Il luogo di cui parliamo è monte Nardello. Siamo a circa 1.750 metri di quota in territorio del comune di Roccaforte del Greco. Risalendo il crinale di qualche centinaio di metri, siamo a ridosso del Montalto, da dove lo sguardo abbraccia idealmente lo Ionio e il Tirreno, facendo cogliere in tutta la sua maestosità la misura di una collocazione geografica strategica.
La zona in cui sorge la base
Per capire cosa succede a Nardello, facciamo un passo indietro. È il 1965, sull’Aspromonte succede qualcosa che, fino a qualche anno prima, in una montagna ancora quasi completamente in bianco e nero sembrava impensabile: su quei monti arrivano gli americani.
Il progetto, mai del tutto realizzato, si chiamaAspromont Horizon. È il nome dello studio che, fin dalla fine degli anni ’50, elaborano gli Stati Uniti, pensando proprio all’Aspromonte, ma anche alla Sicilia con le basi di Catania e Trapani, come crocevia strategico in tema di raccolta ed elaborazione di dati sensibili.
Un’Area 51 in salsa calabrese
Dall’altra parte del mondo siamo in piena guerra fredda ed in ballo c’è il controllo delle telecomunicazioni nell’area del Mediterraneo. In questo contesto geopolitico prende vita la storia di Nardello, divenuto nell’immaginario collettivo di quegli anni, luogo quasi mistico. Su di esso aleggiava una lunga serie di storie più o meno fantasiose che andavano dagli esperimenti con gli ufo, all’utilizzo di missili. Insomma, una sorta di Area 51 in salsa calabrese.
La cosa più fantascientifica da quelle parti, però, pare avere poco a che fare con guerre e invasioni aliene. Nei giorni in cui la base apre alcuni spazi al pubblico sono tanti i ragazzi che dalla città e i paesi vicini si avventurano sul Monte Nardello per ascoltare la musica americana, altrimenti inaccessibile per loro, dal juke box insieme ai soldati.
Dopo circa vent’anni di attività, si arriva al 1985, quando l’utilizzo sempre più massiccio dei satelliti determina ufficialmente la fine dell’operatività della struttura.
La base di Monte nardello in una immagine di qualche decennio fa
Abbandonata sul finire degli anni ottanta, nel 1993 viene ufficialmente dismessa e trasferita al Ministero della Difesa italiano, cadendo in totale stato di abbandono. Nei decenni successivi si è assistito ad un saccheggio selvaggio di tutto ciò che poteva essere sottratto, in sfregio a qualsiasi riguardo, a conferma di come nel sentire comune, la res publica si trasformi spesso e facilmente in res nullius.
Oggi i luoghi dell’ex base USAF, un’area di circa tre chilometri e mezzo di diametro, in un contesto lunare, disegnato da centinaia di alberi abbattuti dagli incendi degli ultimi anni, si presenta come una distesa desolata.
Nardello, cosa resta dopo Aspromont Horizon
A preoccupare, più degli alberi abbattuti, sono i residui di amianto che suggeriscono lo spauracchio del disastro ambientale. Da anni le associazioni ambientaliste segnalano il pericolo. Ma Nardello, nell’indifferenza generale, continua a rimanere là, silenzioso testimone di un sogno americano che ha ceduto il passo ad un neorealismo postmoderno calabrese.
È stato uno dei terremoti più disastrosi della storia d’Italia, nonché quello che più ha segnato la narrazione recente e l’identità stessa della Calabria, ultimo sud della Penisola. È praticamente impossibile, infatti, partecipare a una conferenza, un intervento pubblico sulla storia della Calabria – dal punto di vista culturale, religioso, artistico o architettonico che sia – e non giungere a un certo punto al terribile sisma che duecentoquaranta anni fa sconquassò e cambiò per sempre le sorti e il volto della regione. Parliamo del Terremoto della Calabria meridionale del 1783.
Le macerie dopo il terremoto del 1908
Conosciuto pure come Terremoto di Reggio e Messina del 1783 – nome sempre meno utilizzato dopo il più noto e vicino sisma del 1908 che cancellò le due città affacciate sullo Stretto –, l’evento sismico fu tra i più prolungati della storia del Paese.
“Un giudizio universale l’aspettava, ma brutale e cieco, poiché era per ravvolgere nel medesimo abisso indistintamente e chi era bianco d’innocenza e chi era nero di delitto.
[“Storia d’Italia” di Carlo Botta, volume ottavo, da “Biblioteca scelta di Opere italiane antiche e moderne”, volume 464, Silvestri 1844]
Anticipata secondo gli scritti dell’epoca da un autunno e inizio d’anno piovosissimi – presagio di sventura, e che già aveva provocato alluvioni e smottamenti in molti centri –, la prima catastrofica scossa si verificò poco dopo mezzogiorno del 5 febbraio 1783. Ma nell’arco dei successivi cinquanta giorni se ne registrano altre cinque violentissime, momenti campali di un orrendo tremolio che fino al tramonto di marzo accompagnò l’esistenza dei calabresi.
Quelli di febbrajo esercitarono principalmente il loro furore sopra le città più vicine al Faro, l’ultimo su quelle che verso lo strangolamento d’Italia tra i golfi di Sant’Eufemia e di Squillace sono poste. [Ibidem]
Calabria, 5 febbraio 1783: terremoto a Oppido
Mercoledì 5 febbraio 1783. Il paese epicentro della prima devastante scossa fu Oppido, antichissimo abitato compreso fra la Piana di Gioia e l’Aspromonte. La montagna si spaccò sfracellando case, campagne, il castello e la cattedrale: un sussulto di magnitudo 7.1 (undicesimo grado della scala Mercalli) che rase totalmente al suolo la cittadina del Reggino, mietendo circa cinquemila anime.
Alexandre Dumas padre
In visita – fortuita, ché fu costretto ad approdarvi a causa di una tempesta marina che gli aveva reso impossibile lo sbarco in Sicilia – in Calabria alla metà degli anni trenta dell’Ottocento, Alexandre Dumas padre scrisse di Oppido che «ebbe la sorte di tutte le belle donne: oggetto di desiderio nella loro giovinezza, di disgusto nella loro decrepitezza, d’orrore dopo la loro morte» [Viaggio in Calabria, Rubbettino 1996].
Dopo quella di mezzodì del 5 febbraio che cancellò Oppido, le scosse proseguirono nelle ore immediatamente successive. Se ne registrarono 949 fino al 7 febbraio quando un nuovo rabbiosissimo sisma – magnitudo 6.7 – annichilì Soriano e il suo Convento di San Domenico, fra i più maestosi del Continente, già distrutto e poi ricostruito dopo il terremoto del 6 novembre 1659.
Nove giorni dopo l’ecatombe
Gli aiuti arrivarono dopo lunghi giorni d’attesa. Le notizie del tremuoto – come si diceva al tempo – raggiunsero Napoli, sotto la cui corona borbonica soggiaceva la Calabria, solamente a nove giorni dai primi eventi. A recapitarle fu l’equipaggio della fregata Santa Dorotea, partita dal porto di Messina il 10 febbraio. Le prime missioni di soccorso giunsero nella regione quando la stessa continuava a tremare.
Come detto, di fatti, il sommovimento tellurico imperversò sulla Calabria – la parte Ulteriore, dall’Istmo di Marcellinara allo Stretto di Messina, interessando in maniera ferale anche la città siciliana – fino agli ultimi giorni di marzo, precisamente il 28. In quella data si verificò un ultimo orribile episodio sismico sulla trasversale fra Feroleto e Borgia, interessando i centri di Maida, Marcellinara, Girifalco e Cortale.
Un’illustrazione mostra il maremoto sullo Stretto del 1783
I paesi demoliti dalla furia del terremoto furono tantissimi. A causa del cosiddetto Flagello, più di centottanta abitati andarono distrutti. Fra questi, oltre ai già citati, Palmi, Seminara, Santa Cristina, Castelmonardo (l’odierna Filadelfia), Mileto, Serra San Bruno, Polistena, Cinquefrondi, Casalnuovo e Terranuova (oggi, rispettivamente, Cittanova e Terranova Sappo Minulio), Stalettì, Bagnara e Scilla. Il susseguente maremoto colpì queste ultime e travolse fatalmente le genti che avevano trovato riparo sulla spiaggia.
Oltre a ciò e al numero elevatissimo di vittime – la stima dell’insigne storico e saggista Augusto Placanica, contenuta nel suo L’Iliade funesta (Casa del Libro Editoriale, Roma 1982), attesta oltre trentamila morti, pari al «10 per cento della popolazione dell’intera provincia» della Calabria Ultra dell’epoca. Altre stime si spingono fino alla cifra di cinquantamila vittime con alcuni paesi che videro perire sotto le macerie oltre sei abitanti su dieci.
Il terremoto del 1783 cambiò volto alla Calabria
Si verificò un mutamento radicale della morfologia della regione. Una sequenza sismica così lunga e devastante portò infatti alla rivoluzione dell’aspetto paesaggistico della Calabria che da quei giorni non sarà più lo stesso. Tra le frane, gli scivolamenti e la liquefazione delle terre – uno scenario, riportano le cronache del tempo, da fine del mondo – la sella di Marcellinara, punto centrale dell’omonimo Istmo, si abbassò, numerosi torrenti e fiumi – come l’importante Mesima – cambiarono il proprio corso, si rovesciarono intere colline e presto si notò un po’ dovunque la comparsa di ampie fenditure, profondi crateri colmi d’acqua e sabbia, acquitrini e laghetti. Interessati dal fenomeno del bradisismo – vale a dire l’innalzamento o abbassamento della terra, assai visibile lungo le coste – furono inoltre i centri di Reggio Calabria, Bagnara e Scilla.
Formazione di crateri di depositi sabbiosi nella Piana di Gioia Tauro (Atlante iconografico allegato alla “Istoria de’ Fenomeni del Tremoto avvenuto nelle Calabrie, e nel Valdemone nell’anno 1783 posta in luce dalla Reale Accademia delle Scienze, e delle Belle Lettere di Napoli”, Michele Sarconi, 1784)
Il Terremoto del 1783 fu una ecatombe talmente colossale che non se ne trovarono eguali a memoria d’uomo, se non in epoche remote. Michele Torcia, membro dell’Accademia regia, nella sua relazione coeva dal titolo Tremuoto accaduto nella Calabria, e a Messina alli 5. Febbrajo 1783 paragonò la sciagura calabro-sicula al violentissimo sisma che nel 17 portò morte e distruzione in dodici città della provincia romana dell’Asia Minore, avvenimento riportatoci da Tacito e da Plinio il Vecchio.
La riscoperta della “penisola della Penisola”
Sancendo, dopo il devastante terremoto del 1638 e altri di minore entità a cavallo fra la fine del Seicento e i primi del Settecento, la posizione altamente sismica della Calabria, l’apocalisse del 1783 fu importante per riaccendere la luce sulla “penisola della Penisola”.
Priva di vere strade che la collegassero al resto del Regno, luogo di transito caldamente sconsigliato ai viaggiatori delGrand Tour – che proprio in quella seconda metà del Settecento andava trasformandosi in una moda irrinunciabile per i giovani letterati e aristocratici della Vecchia Europa e che, sull’onda delle eccezionali scoperte di Ercolano (1709) e Pompei (1748), stava investendo anche il resto del Meridione –, “grazie” al Flagello la misterica e pericolosa finibus terrae di Calabria fu infatti “riscoperta”. Nel senso che si prese coscienza delle sue antiche problematiche, della sua fragilità ambientale, dell’arretratezza del suo disegno abitativo e del suo sistema economico e sociale.
In Calabria il primo regolamento antisismico
Così, oltre al ritorno della nobiltà calabra soggiornata a Napoli – più che altro preoccupata dei disordini scoppiati presso i propri feudi –, conversero in Calabria scienziati, medici, geologi e tecnici da tutto il mondo. Assieme a essi, dalla fine del Settecento e per tutto l’Ottocento, raggiunsero la regione anche scrittori, letterati, osservatori, membri dell’aristocrazia europea; uomini come Johann Wolfgang Goethe, Stendhal, Edward Lear, George Gissing che ne parlarono, ne scrissero, fecero da cassa di risonanza, avvicinando la Calabria al resto del Continente cui, pure inconsciamente, apparteneva.
Lo scrittore e viaggiatore George Gissing
La mal conosciuta punta dello Stivale si trasformò in un cantiere di futuro. I nuovi paesi furono edificati secondo innovativi criteri urbanistici, cosicché in Calabria si assistette alla messa in atto del primo regolamento antisismico d’Europa che certamente contribuì a limitare i danni derivati dai continui terremoti che angustiarono la Calabria anche nell’Ottocento – ben otto quelli con magnitudo superiore a 5.5 registrati dal 1832 al 1894.
Terremoto del 1783: la Calabria e la Cassa Sacra
A coordinare le operazioni di risanamento della parte centromeridionale della regione fu il maresciallo Francesco Pignatelli, marchese di Laino, che Ferdinando IV di Borbone nominò Vicario generale delle Calabrie. Pignatelli si spostò in lungo e in largo per le aree più sconquassate, per i vari stati della Calabria Ulteriore, come il nobiluomo ebbe a titolare, nei resoconti spediti al sovrano, le molteplici zone visitate.
Nuova Pianta della città di Palmi (RC) proposta dai Borboni per la ricostruzione dopo il terremoto in Calabria del 1783
C’è da dire che i soccorsi usufruirono anche della Giunta di Cassa Sacra, un organo straordinario che si occupò di trovare fondi per la ricostruzione anche attraverso la vendita di beni ecclesiastici, mobili e immobili, espropriati a chiese, conventi e monasteri. L’ufficio della Cassa Sacra – che, in aggiunta, non nascondeva l’ambizione di riscattare dal punto di vista economico e sociale la regione (un refrain intramontabile) – ebbe alterne fortune: oltre alla spoliazione del patrimonio culturale regionale, favorì infatti l’arricchimento dei possidenti e dei nobili, lasciando ai margini i ceti meno abbienti.
E mentre l’Europa alimentava una nuova curiosità per la Calabria, i calabresi, stravolti dalle costanti calamità naturali e abbattuti dalla loro incerta e malagiata condizione, cominciarono man mano a perdere interesse verso la propria terra ferita e ostile, a staccarsi da essa e a dichiararsi vinti. Proprio nel momento in cui, forse… ma questa, come dicono quelli bravi, è un’altra storia.
«La mafia nasce con la questione meridionale che ne è presupposto inscindibile. Non esiste frattura tra vecchia mafia romantica dai nomi misteriosi e romanzeschi che ha solo qualche ambizione di protesta sociale, e nuova mafia delinquenziale aggiornata ai modi del profitto e della rendita dell’economia capitalistica. La mafia ha sempre avuto necessità di surrogarsi ai governi ed alla classe dirigente con responsabilità nella gestione del potere e c’è continuità tra passato e presente, connivenza non interrotta tra mafia e Stato, uomini del Parlamento e del governo, magistratura, polizia e carabinieri. In questi anni abbiamo parlato di ministri, di mammasantissima, di senatori, di picciotti, di onorevoli incappucciati, abbiamo fatto nomi e cognomi ma le nostre interrogazioni sono sempre rimaste senza risposta».
I recenti fatti di cronaca segnati dalla cattura di Messina Denaro, con i relativi effetti collaterali, mi hanno sollecitato una rilettura di questo breve testo. È nella relazione presentata del deputato socialista Salvatore Frasca alla conferenza promossa dal Consiglio regionale della Calabria tra il 10 ed il 12 aprile del 1976. E mi suggerisce l’attualità di un tema mai fuori moda.
Ripensare ad una serie di letture più o meno recenti mi ha fatto riaffiorare alla mente la figura di Costantino Belluscio, che conobbi ad Altomonte nel lontano 1997. Il ricordo di quell’incontro mi ha spinto a riprendere in mano alcuni testi che non leggevo da tempo analizzando un profilo su cui mi sono soffermato a lungo negli anni. Tento di capire quale fosse la verità, alla ricerca di un perché a tanta divisione di pensiero.
Don Stilo: icona del male o parafulmine?
Mi accorgo di come, ancora oggi, parlare di Don Giovanni Stilo significhi scoperchiare un vaso di Pandora che molti hanno preferito interrare, impegnati in un grottesco tentativo di ricostruzione della verginità perduta. Anche a distanza di tanti anni, la figura di Don Stilo rimane tra quelle più discusse in questa parte di Calabria dove Locride e Area grecanica si toccano in una contiguità territoriale che si sostanzia specie attraverso la via di una montagna che incarna stereotipi e contraddizioni. Il mondo di Don Stilo è un microcosmo dai contorni quasi mai netti, dove il mare guarda l’entroterra da vicino ma sempre con distacco. C’è un’aura ionica di fascino e mistero che avvolge questa terra brulla, arsa e scoscesa dove la roverella e la macchia mediterranea in un continuum indefinito cedono il passo alla ghiaia delle fiumare, alle scogliere, alle argille colorate ed alla sabbia finissima.
Corrado Stajano
Tornando agli scritti di Belluscio e Stajano, noto, oggi più che in passato, come siano complementari nonostante l’uno sia contraltare dell’altro per filosofia di pensiero e chiavi di lettura. Complementari perché nella loro dicotomia trovi il senso di una terra controversa come poche.
Il primo, Belluscio, mosso nel giudizio da un personale rapporto di amicizia e forse anche dalla convinzione che un solo uomo non possa essere portatore di tutte le storture della società, possa invece più facilmente essere parafulmine, agnello sacrificale più o meno consapevole.
L’altro, Stajano sembra invece catalizzare l’attenzione sulla figura del sacerdote di Africo che diventa icona del male. Nel suo Africo (Einaudi, 1979) non si limita a parlare di un prete padrone che suggerisce la via del trasferimento dalla montagna al mare. Va ben oltre Stajano. Lo eleva ad anello di congiunzione tra ndrangheta, chiesa, malaffare, politica e pezzi deviati delle istituzioni.
Tanta carne al fuoco
Certo, è vero, è assai chiacchierato il prete di Africo. La sua figura è accostata per quasi mezzo secolo alla massoneria, alla politica, alla magistratura, ai servizi segreti deviati, alle pagine più scure di una Calabria – in generale, e di una Locride più in particolare – che proprio negli anni di Don Stilo cambiano pelle attrezzandosi in vista dei grandi business miliardari. L’abigeato fa spazio alla droga, alla speculazione edilizia ed ai sequestri di persona. Facile intuire come la carne al fuoco, quando si parla, di lui sia talmente tanta che ci sarebbe da discutere per giorni, senza peraltro riuscire mai a mettere tutti d’accordo. Ecco perché ritengo che la “questione Don Stilo” necessiti di una giusta riflessione.
Costantino Belluscio
«Mai, dico mai, ho fatto parte del coro di aguzzini, più o meno ispirati, che hanno invaso la strada della libertà precludendone, anche solo con le parole, la disponibilità ai diretti interessati. Sempre, sottolineo sempre, ho creduto nella presunzione di innocenza, mai mi ha appassionato lo sport, purtroppo molto praticato, della colpevolezza decisa a tavolino e trasmessa a mezzo stampa».
Questo breve frammento è tratto dal lavoro di Belluscio Il Vangelo secondo Don Stilo(Klipper, 2009). Belluscio, giornalista con una lunga esperienza da parlamentare dal ‘72 all’87, si è spento nella sua casa romana l’11 febbraio del 2010, neanche due mesi dopo la pubblicazione del lavoro su Don Stilo, quello cui teneva tanto.
Don Stilo e il trasferimento dall’Aspromonte al mare
Anche di Belluscio si sussurrò tanto. Si disse ad esempio della sua appartenenza alla P2, quasi a suggerire un legame occulto che avrebbe mosso la strenua difesa del prete.
Ma rileggere le poche righe che ho riproposto tra virgolette è stato come riaccendere la luce su una storia lunga e travagliata, una di quelle a tinte fosche tipiche di un Paese dove le linee di confine sono assai sfumate e spesso facilmente confondibili. Storie tutte italiane cui la Calabria non si sottrae affatto, mettendoci anzi un marchio di fabbrica quasi a volerle rendere originali e riconoscibili nel bailamme del bel Paese.
Il Vangelo secondo Don Stilo è un titolo che Belluscio aveva voluto fortemente per il suo valore simbolico, per ricordare la figura del sacerdote di Africo protagonista deltrasferimento di quella comunità dall’Aspromonte al mare nel 1951. Il volume, giunto a trent’anni esatti da quello di Stajano, suona quasi come un estremo tentativo di ristabilire un giusto equilibro in un frangente storico dove le analogie si sprecano.
Un copione che si ripete, ma da rileggere
Rivisitando in chiave attuale l’essenza dell’uomo e del prete Giovanni Stilo – non solo attraverso le letture, ma anche e soprattutto attraverso i racconti di chi lo ha conosciuto con sentimenti opposti – ad essere sincero non trovo differenze in un copione che si ripete puntualeogni qualvolta si parla di personaggi che nel bene e nel male hanno segnato un’epoca.
Sulla sua figura si è detto di tutto, quasi come se sotto il crocefisso avessero trovato spazio anche tante altre cose, dai grembiuli della massoneria, alle pistole della ‘ndrangheta, dai servizi deviati alle agende della politica nazionale. Insomma, più che un prete, un catalizzatore di interessi oscuri, un deus ex machina di disegni complessi, capace di intrattenere rapporti tanto con i vertici di Cosa Nostra, quanto con i salotti buoni della politica romana.
Africo vecchia ai tempi dell’alluvione
Oggi di Don Stilo, di Belluscio, di Stajano non si parla quasi più. Gli anni sembrano avere cancellato con le persone anche i ricordi. Ma certe figure meriterebbero invece un’opera di rivisitazione critica ed asettica da estendere ai ragazzi delle scuole della Locride e più in generale della regione, anche e soprattutto perché l’analisi attenta di uomini e fatti restituisce in modo plastico i contorni dello scenario storico sullo sfondo.
Il tempo che passa ha il pregio di offrire un’occasione di analisi più distaccata ed imparziale sul passato. E spiega di conseguenza anche molto del presente di questa terra, mutata nei volti e in larga parte anche nello spirito della sua gente, rimasta per contro quasi identica nel fascino del suo paesaggio.
Quella di Melia è una storia di rigenerazione. Una rigenerazione che parte dal basso, da piccoli passi compiuti sui territori da cittadini che, da una parte, si battono contro l’abbandono e l’isolamento e, dall’altro, fanno squadra per valorizzare le proprie comunità ed i tesori che custodiscono. In altri termini trasformano un disastro in opportunità. Vediamo come.
Melia, provincia di Reggio Calabria, è una borgata di Scilla abbarbicata sulle pendici dell’Aspromonte, appena fuori dall’area di competenza del Parco. Non si tratta di un dettaglio perché le grotte di Trèmusa, ad oggi ancora inaccessibili per la frana di cui parleremo, hanno fornito un contributo essenziale per i riconoscimenti guadagnati dal Parco Aspromonte in ambito Unesco.
L’antefatto: Melia isolata
A giugno 2021 si verifica una frana sulla strada interpoderale nel territorio della frazione scillese. Ne segue, il successivo dicembre, una seconda che lascia praticamente il territorio isolato. Si tratta dello smottamento della Strada Provinciale 15, Scilla-Melia. Qualche anno prima la Città Metropolitana aveva stanziato 300 mila euro per interventi di messa in sicurezza in un cantiere partito e abbandonato da tempo.
La frana sulla Sp 15 Scilla-Melia
La frana del giugno 2021 ha consentito di organizzare una ricognizione archeologica nell’area immediatamente adiacente alle grotte di Trèmusa. La ricognizione è stata promossa dall’associazione Famiglia Ventura, supportata dall’associazione La Voce dei Giovani e dalla parrocchia di Melia, finanziata dai Lions e diretta dall’archeologo Riccardo Consoli. Due i gruppi di lavoro: il primo coordinato dal topografo Antonio Gambino, che si è occupato di effettuare i rilievi e la pulitura paesaggistica nella zona delle gole; il secondo da Consoli, che ha effettuato una prima indagine stratigrafica del suolo.
Risultati superiori alle aspettative
Doveva trattarsi di una semplice attività didattica con gli studenti dell’Università di Messina e di Firenze, ma i risultati hanno superato le aspettative.
Ne è emerso un quadro affascinante: sotto il manto stradale sono state individuate diverse stratificazioni, risalenti a diverse epoche che vanno dal periodo tardo ellenistico a quello borbonico. Riemersi parte del percorso di epoca romana e un ciottolato di età borbonica. Le ricerche hanno permesso di individuare il tracciato della vecchia Popilia proprio presso il valico del Vallone Favazzina su cui affacciano le gole di Trèmusa. Non era scontato che fosse così: non vi era certezza che la strada consolare romana passasse da quell’area.
La Storia è passata da Melia
Lo spiega Riccardo Consoli, archeologo dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Assieme a Lino Licari, guida paesaggistica e archeologo ante litteram, e a Gambino, Consoli ha compiuto i rilievi. Secondo il ricercatore quello delle grotte di Tremusa «è l’unico passaggio per attraversare il territorio venendo da Nord. Superati i piani di Corona, giunti e oltrepassati i piani di Solano, sorpassato il Vallone di Bagnara e arrivati a Favazzina, sarebbe stato difficoltoso dirigersi a Sud scendendo verso il mare per poi risalire. Dato che è accertato che il percorso della via Popilia passasse dai piani, l’unica via percorribile doveva passare per il Vallone di Tremusa che collega la via del Nord con l’altopiano di Melia per poi scendere da Campo Calabro fino a giungere a Reggio».
L’antica via Popilia
«All’altezza del vallone di Tremusa – prosegue Consoli – insiste una lingua di terra che consente un attraversamento dolce tra le due sponde della vallata. Dai primi rilievi effettuati sull’area, abbiamo rinvenuto diverse tracce di questa strada, attraverso alcuni elementi visibili: fontane, canalette e una serie di dettagli che fanno riconoscere che si tratta di un percorso tracciato in epoca romana. Ed in effetti fino all’Ottocento, ossia fin quando non si è iniziato ad adottare il cemento armato, quel percorso è rimasto tale. Anche la strada regia passava da lì».
«Melia, per la sua posizione, era il trait d’union tra la Sicilia e il varco per il Nord. Un crocevia. Questo – conclude l’archeologo – ci fa affermare senza ombra di dubbio, anche sulle tracce del passaggio di Sant’Antonio da Padova che risalì verso Nord dopo il naufragio a Milazzo, che la Storia è passata da Melia. Questi dati non sono solo importanti a livello archeologico, ma possono rappresentare l’avvio di nuovi percorsi turistici e di trekking per rivalutare un’area di indubbia importanza storica».
Devoti di Sant’Antonio da padova in pellegrinaggio a Milazzo
L’importanza delle grotte di Trèmusa
Si tratta dei primi rilievi effettuati dopo duecento anni. Nell’ambito della ricognizione, il gruppo di Gambino è riuscito a sviluppare un modello in 3D misurabile delle grotte, combinando la fotografia terrestre a un GPS. Le grotte, che fanno parte del bacino idrografico della fiumara Favazzina – in particolare del suo affluente, il Trèmusa – si sono rivelate molto più ampie e profonde di quello che possono apparire. L’area è molto vasta, scende nel ventre della montagna per diverse centinaia di metri con fenomeni carsici visibili e ben percepibili. All’ingresso c’è una sorta di arco, o semicerchio. Sulla destra, un grande spazio aperto, che affaccia sul Vallone Trèmusa, da dove iniziano i cunicoli che si tuffano nella montagna. A sinistra, invece, c’è una sala altrettanto ampia dove è più evidente la carsicità del luogo.
Conchiglie fossilizzate nelle viscere delle grotte di Trèmusa
Proprio all’ingresso è stato rilevato un accumulo di terra non indifferente su cui effettuare analisi stratigrafiche più approfondite che potrebbero portare a scoprire nuovi elementi. La presenza dell’acqua, che in passato doveva essere molto più abbondante, e la possibilità di trovarvi riparo ha rafforzato l’ipotesi che potesse trattarsi di un luogo di passaggio battuto e utilizzato in passato, grazie anche alla presenza di numerosi terrazzamenti intorno. Si dovrà stabilire con studi più approfonditi se abbia avuto altre destinazioni d’uso, quale eventuale luogo di culto.
Melia e il Parco dell’Aspromonte
L’attività svolta, senza essere stata concordata preventivamente, si inserisce in modo naturale nel rinnovato impulso che l’Ente Parco Aspromonte dedica alla speleologia con una serie di progetti già in cantiere. Gli esiti della ricognizione collocano Melia sotto una lente di rinnovato interesse, sia dal punto di vista speleologico, sia da quello squisitamente storico-culturale. Motivo per cui è nata l’idea di inserire il borgo nella rosa di luoghi dove portare gli alunni delle scuole che aderiscono ai progetti di formazione del Parco dell’Aspromonte.
Uno scorcio del Parco dell’Aspromonte
Qualche giorno fa la Città Metropolitana ha annunciato lo stanziamento di 600 mila euro per il recupero della SP 15: un provvedimento atteso da tempo e rafforzato anche dall’emergere di una valenza culturale del borgo ancora inaccessibile da Scilla. Valenza costituita dalle scoperte emerse dalla ricognizione archeologica e dalla presenza di quelle gole che hanno contribuito, pur se fuori Parco, al riconoscimento dell’Aspromonte come geoparco Unesco. L’attività ha permesso non solo di scoprire importanti tracce del passato, ma ha richiamato studiosi, esperti, istituzioni, associazioni locali a lavorare per la comunità. La stessa Soprintendenza per i Beni Culturali ha aperto uno specifico dossier.
L’unione fa la forza
Le forze si sono unite e in tutta Melia sono partite forme di collaborazione e compartecipazione. L’intera comunità ha aperto le proprie porte, un tam-tam che ha supportato le attività di ricognizione, lasciando gli studiosi liberi di passare tra i poderi per puntellare la loro ricerca. Elemento, anche questo, non scontato. La stessa associazione Voce dei Giovani ha fatto da megafono, ribadendo l’importanza di un progetto che mira a rendere Melia nuovo punto di attrazione turistico-culturale.
La campagna di ricognizione ha fatto dunque da vero e proprio collante di comunità. A cascata, e grazie al rinnovato interesse, è stato ripubblicato su iniziativa dell’associazione Famiglia Ventura lo storico testo del 1908 Cenni storici dal borgo di Melia. Sembrava perduto ma una copia è stata ritrovata presso la biblioteca di Palmi, consentendo così l’uscita di una nuova edizione. E rinvigorendo quello che spesso manca in Calabria: la cura e la tutela della memoria storica, elemento essenziale per il recupero dell’identità del borgo. In questo solco va inserito anche il recupero di una cartolina raffigurante un melioto fatto prigioniero in Egitto nel 1941 che è stata consegnata agli eredi dell’uomo.
Partire dai territori, restare sui territori
L’operazione di Melia pare seguire lo stesso ragionamento fatto a Bova con il progetto Se mi parli, vivo. Lì, tramite l’azione dell’Associazione Jalo to Vua e, grazie alle competenze di alcuni ricercatori originari del luogo, il greco di Calabria è diventato un attrattore che ha richiamato linguisti da tutta Europa.
Nel caso di Melia, il lavoro dell’associazione Famiglia Ventura è stato importante: dal 2011 l’organizzazione promuove la cultura attraverso la lettura e l’arte su tutto il territorio metropolitano, perseguendo la valorizzazione e il coinvolgimento delle comunità locali.
Scritte in grecanico su un portone a Bova
«Melia è una borgata con cui si è creata una relazione speciale. Concentrare l’attenzione degli archeologi in un’area periferica come quella delle Grotte di Trèmusa è un modo sia per promuovere la ricerca in località poco studiate, sia per accendere un riflettore sulle problematiche e sulle opportunità di territori spesso dimenticati dalle istituzioni o dai grandi circuiti economici e turistici. Territori che possono rappresentare ulteriori nodi di sviluppo per il comprensorio di Reggio», ha spiegato Francesco Ventura, ex presidente dell’associazione e promotore dell’iniziativa.
Prenderla con filosofia non significa affrontare le cose con troppa leggerezza. Almeno a Roccella jonica la pensano così. Qui un gruppo di ex studenti dell’Unical nel 2010 ha dato vita a una scuola estiva di alta formazione proprio in filosofia. Tutto così serio da portare nella cittadina marittima gente anche dall’estero. E questa volta non per il rinomato festival del jazz.
Remo Bodei è stato direttore della Scuola estiva a Roccella
Il prof Nizza
Angelo Nizza è uno dei cervelli che ha costruito questo presidio culturale. Oggi insegna storia e filosofia in un liceo di Oppido Mamertina. Il progetto nasce tra i cubi dell’Università della Calabria. Più precisamente nello studio di Mario Alcaro, allora docente nell’Ateneo di Arcavacata e direttore del dipartimento di Filosofia. Un manipolo di ragazzi brillanti butta giù un’idea che conquista anche il professore Giuseppe Cantarano. Complice il mare di Roccella e la capacità organizzativa di un gruppo affiatato, nel cuore della Locride arriva gente come Remo Bodei, nome noto della filosofia italiana. Allora insegnava alla prestigiosa Ucla di Los Angeles. Avrebbe diretto la scuola estiva per tanti anni. Un appuntamento fisso. Diventando cittadino onorario di Roccella. Un posto particolare. Dove approdano le carrette del mare coi migranti. E la gente è ospitale alla maniera greca.
Il professore dell’Unical Mario Alcaro si intrattiene con i ragazzi durante una vecchia edizione della Scuola estiva a Roccella
Scholé in trasferta
Alla morte del prof Mario Alcaro, la famiglia offre i soldi vinti con il premio Sila ai ragazzi di Roccella. Grazie a questa donazione nel 2011 nasce l’associazione culturale Scholè per dare continuità alla organizzazione della scuola estiva (oggi diretta da Bruno Centrone e Salvatore Scali) che raddoppia, diventando pure invernale. Le attività si moltiplicano. Compresi i seminari nelle superiori. Non solo in Calabria. Nel 2023 sono già in programma due trasferte a Mirandola in provincia di Modena e Civitanova Marche. «Fare filosofia con i ragazzi, – sostiene Angelo Nizza – approfondimento con relatori di altissimo livello leggendo direttamente i testi è un’operazione non solo culturale e didattica ma anche politica. Le scuole e l’università sono sotto attacco da 30 anni. Aziendalizzare è la parola d’ordine da abbattere».
Lezione all’aperto durante una della passate edizioni della Scuola estiva di filosofia
Un tè con Platone
Socrate e Platone non bastano. Arrivano corsi di fisica, latino e greco. L’Ora del tè è un appuntamento dedicato a letture e conversazioni su argomenti di varia natura, filosofia compresa. Un giardino consente di portare all’esterno gli incontri in primavere e in estate. Qualche film da proiettare e una fisiologica attività ricreativa completano l’offerta. Anche per aggiungere un po’ di spensieratezza. Non fa mai male.
Pochi soldi molta passione
Scholé si regge sull’autofinanziamento. «Se si organizzano attività – spiega il prof Nizza – il nostro progetto comunitario vive e prosegue, altrimenti è un problema. Tessera, contributo spontaneo, cene sociali consentono di fare le cose liberamente, senza dipendere da nessuno».
Durante il primo lockdown il meccanismo va in tilt. «Abbiamo rischiato di chiudere senza attività in presenza. Non basta il web che abbiamo pur utilizzato». L’unico contributo fisso viene dal Comune di Roccella. Un capitolo di bilancio è dedicato a Scholé. Non è una cifra altissima. Ma è già una gran cosa.
Il consiglio regionale per alcuni anni ha dato un contributo alla scuola estiva quando era presidente Nicola Irto. Oggi è tutto finito. E con i bandi della Regione pensati per grandi eventi è davvero difficile ottenere finanziamenti.
Arianna Fermani insegna Storia della filosofia antica all’Università di Macerata, è condirettore della scuola estiva a Roccella
Il legame con l’Università di Macerata
Un protocollo di intesa lega Scholé all’Università di Macerata. Dove insegna Storia della filosofia antica Arianna Fermani, condirettore della scuola estiva a Roccella. L’Unical, solo ateneo in Calabria ad avere facoltà umanistiche, non ha un rapporto formale con Scholé. Ma una serie di suoi prof tra cui Fortunato Cacciatore (altro condirettore della scuola estiva), Guido Liguori, Felice Cimatti, Luca Parisoli, Giuliana Commisso hanno dato, e in alcuni casi continuano a dare, il loro contributo. Tanti altri sono passati dalla suola estiva. Del comitato scientifico fa parte «Gianni Vattimo, uno dei padri del Pensiero debole, che ha soggiornato per un’intera settimana a Roccella jonica, vagando all’interno della cittadina e conversando con la gente. Ha percorso in macchina tutta la Locride». Racconta Nizza.
Fortunato Cacciatore insegna Teoria della Storia all’Università della Calabria, è condirettore della scuola estiva a Roccella
La filosofia diventa pop ma non è show
«Se per pop intendiamo popolare allora sì, siamo pop». Angelo Nizza ci tiene a precisare: «Un pubblico variegato partecipa alle nostre iniziative. Per esempio molti adulti frequentano il corso base di filosofia. Non serve essere già esperti di Hegel. Basta una sana curiosità e il gioco è fatto.
Non è un pubblico di soli specialisti. Così la filosofia parla a più persone possibile in un senso democratico; anche a chi nella vita si occupa di altro. Tutto senza puzzetta sotto il naso e arroganza da intellettuali.
Ci guadagnano tutti a Roccella. Non mancano le ricadute positive sul commercio. «La cultura innesca l’economia – sottolinea Nizza – e non il contrario. Fare alcune cose in un piccolo centro ha vantaggi relazionali. Penso ai fornitori, alla gente, la città, tutti i componenti di una comunità».
Studenti prendono appunti durante una sessione della scuola di filosofia a Roccella Jonica
Marx a Roccella jonica
Scholé ha un taglio chiaro, netto. Si capisce dagli argomenti trattati: una scuola estiva dedicata alla rivoluzione, un’altra a Marx. «È apartitica ma fortemente politica» – confessa Nizza: «Non è un festival di filosofia. Non è spettacolo, non è intrattenimento. Non c’è consumo, ma c’è uso. Uso che implica la cura, l’aver cura». Non è un caso se i prossimi appuntamenti sono dedicati a un pensatore rivoluzionario come Spinoza con un week end filosofico in programma dal 26 al 29 gennaio.
Gianni Vattimo, filosofo e teorico del Pensiero debole e Giuseppe Cantarano, prof dell’Unical, a Roccella Jonica
Caro collega Pino Certomà
Ci siamo quasi. La biblioteca di Scholé sta per partire. C’è una persona che ha contribuito più di tutti alla sua nascita. È Pino Certomà, originario di Roccella. Ha lavorato come assistente sociale nelle carceri. Abitava a Roma. Ha studiato la filosofia da autodidatta. Al punto da possedere una biblioteca piena di testi fondamentali della materia. Tornava ogni anno in occasione della scuola estiva. Partecipando attivamente agli incontri. Uno di casa a Scholé. Un «caro collega» come lo definì Gianni Vattimo. Oggi Pino non c’è più. La sua famiglia ha donato tantissimi suoi libri ai ragazzi di Roccella jonica. Altri sono stati regalati da Remo Bodei e Pietro Montani. Un bel gruzzolo che aumenta di giorno in giorno. Una specie di «resistenza culturale», dice Angelo Nizza. In una Calabria che ne ha sempre più bisogno.
Lo chiamano Terzo polo: è la compagine nata dalla federazione del partito di Matteo Renzi con quello di Carlo Calenda. Qualche giorno ad un convegno di Renew Europeil primo ha annunciato che non vi è alternativa al “partito unico”. Il secondo ne ha tracciato l’orizzonte: entro primavera per un manifesto comune e a settembre una costituente del contenitore liberaldemocratico italiano. Con una postilla: «Se incominciamo a fare a chi più è liberale, i liberali rimangono un circolo di sfigati che fanno training autogeno tra di loro. Il circolo più è esclusivo meno persone ci sono dentro».
Le ultime parole famose
Insomma, al solito, l’ex europarlamentare del Pd e oggi senatore del Terzo Polo non le manda a dire. Così come è chiaro nel rapporto tra la sua forza politica ed il M5S.
«Lo dico agli amici del Pd, c’è solo un modo per gestire i 5 Stelle: cancellarli!» twittava Calenda lo scorso luglio. «Penso che il M5s dovrebbe sparire» affermava ad agosto. Mentre lo scorso mese, alla domanda se andrebbe al governo con il M5S, ha risposto: «Manco morto». Un disamore politico corrisposto, questo. Il presidente del M5S, Giuseppe Conte, giusto qualche giorno fa ha dichiarato: «Dico al Pd che il M5S non starà mai con Renzi e Calenda».
Con tutti tranne…
Insomma, quello che ha dettato Calenda pareva un percorso lineare. Lo ha ribadito anche sui territori, tant’è che lo scorso marzo annunciò a Catanzaro: «Ci sarà anche una lista di Azione nella competizione elettorale per le amministrative di Catanzaro di tarda primavera (…) Siamo pronti a dialogare con tutti, salvo che con l’estrema destra e il Movimento Cinque Stelle (…) non ci alleiamo con i 5 stelle e con la destra estrema perché è contrario ai nostri valori e ai nostri principi. Non lo facciamo a livello nazionale, non lo faremo a livello locale».
Raffaele Serò
Pochi mesi dopo alle Amministrative del capoluogonon vi fu traccia della lista di Azione. Divenne consigliere comunale, però, il segretario provinciale Raffaele Serò. Era nella lista Io scelgo Catanzaro della coalizione civica di Antonello Talerico, quest’ultimo poi approdato, invece, in Noi con l’Italia di Maurizio Lupi. Entrambi sostengono la maggioranza di Nicola Fiorita (esprimendo anche un assessore in Giunta, Antonio Borelli), così colorita e variegata che contempla anche il M5S, con buona pace dei niet di Calenda.
Donato in Azione
Non è l’unico grattacapo per Azione nel capoluogo, patria del trasformismo politico e della liquidità (se non liquefazione) dei partiti.
Ad agosto, dopo la scoppola elettorale alle Amministrative catanzaresi di giugno, il candidato sostenuto dalla Lega e da Forza Italia (e al ballottaggio anche da Fdi), Valerio Donato, già dirigente cittadino del Partito Democratico, ha aderito ad Azione, specificando di aver avuto una lunga interlocuzione «con i dirigenti nazionali e regionali di Azione».
A dicembre, poi, insieme ai consiglieri comunali Gianni Parisi e Stefano Veraldi, Donato ha annunciato la costituzione del gruppo consiliare “Azione-Italia Viva-Renew Europe” con egli stesso come capogruppo.
Alle spalle del segretario
Piccolo particolare: il collega consigliere-segretario provinciale di Azione, Serò (loro avversario elettorale fino a pochi mesi prima), non è stato nemmeno avvertito. Tant’è che ha sbottato: «Nella mia veste di coordinatore provinciale di Azione con Calenda comunico che alcun gruppo di Azione è stato costituito in Consiglio comunale da parte di terzi. Pertanto, non si comprende l’iniziativa dei consiglieri Valerio Donato, Giovanni Parisi e Stefano Veraldi, autori di una nota stampa con la quale danno atto di avere costituito il gruppo di Azione, addirittura estromettendo il sottoscritto e senza consultare lo scrivente».
Niente più gruppo
Risultato: nell’ultimo consiglio comunale Donato (che nelle more si è anche auto-candidato come membro del Csm) e i suoi hanno comunicato che non ci sarebbe stata la costituzione del gruppo di Azione. Insomma, un gran caos. Ad acuirlo, i continui punzecchiamenti stampa dell’ex esponente Udc, Vincenzo Speziali, vicino al terzo polo, per cui il “fascicolo Catanzaro” andrà certamente preso in carico. Non pervenuta politicamente e numericamente Italia Viva. Il coordinatore cittadino Francesco Viapiana alle amministrative ha ottenuto, nella lista Riformisti-Avanti!, poco più di cento voti.
Calenda con Donato e Veraldi
L’asse a Vibo
Se la maggioranza variegata a Catanzaro farà storcere il naso a Calenda e disinteressare Renzi, figuriamoci il rassemblement vibonese.
Alle imminenti elezioni provinciali il candidato sarà il segretario provinciale di Italia Viva Giuseppe Condello (sindaco di San Nicola da Crissa). A suo sostegno anche Azione, che vede come leader locale l’ex candidato a sindaco del Pd e oggi consigliere comunaleStefano Luciano (membro anche della segreteria regionale dei renziani).
Luciano nell’assise vibonese ha costituito il gruppo “Al centro” con i consiglieri comunali Giuseppe Russo, ex Pd ed ex Fi, e Pietro Comito, vicino al consigliere regionale di Coraggio Italia Francesco De Nisi.
Giuseppe Condello
A sostenere Condello ci saranno oltre al Pd (con critiche al segretario provinciale Giovanni Di Bartolo e canoniche spaccature) anche il M5S, che a Vibo esprime due consiglieri: Silvio Pisani e l’ex candidato sindaco e candidato regionaleDomenico Santoro, politicamente silente dopo l’ultima disfatta elettorale.
La liaison tra Azione e il M5S nel vibonese non è una gran novità: l’attuale responsabile organizzativo dei calendiani è Pino Tropeano, candidato regionale dei grillini nel non lontano 2020.
Terzo polo in Calabria: i renziani senza bussola
Una nota di colore: nel 2021 Giuseppe Condello, sfidò alle regionali, da candidato del Psi, il segretario provinciale di Iv a Catanzaro, Francesco Mauro, alfiere di Forza Azzurri.
Già, perché il coordinatore regionale di Italia Viva, l’ex senatore Ernesto Magorno, prima dichiarò di aver sostenuto Jole Santelli e, quindi, il centrodestra nel 2020 e poi si lanciò a favore della causa occhiutiana. «Pronto a essere candidato a presidente della Provincia di Cosenza. Data la mia disponibilità al presidente Occhiuto» dichiarò a fine 2021.
Renzi e Magorno in Calabria durante le ultime Politiche
L’anno successivo incontrò il presidente della Regione insieme al presidente di Italia Viva, Ettore Rosato. «Per confermare il sostegno di #ItaliaViva all’azione del governo», dichiararono. Qualche mese fa, nuovamente, Magorno ha aggiunto: «Italia Viva è il primo partito a essere stato ricevuto da quando è iniziata questa consiliatura regionale, un dato non da poco che ci pone come validi interlocutori della Giunta regionale».
Insomma, l’Italia Viva di Magorno è (al pari del capogruppo regionale del M5S, Davide Tavernise) il maggiore spot politico permanente della giunta Occhiuto.
C’è chi dice no
Di diverso avviso l’ex parlamentare grillina Federica Dieni. Giusto l’altro giorno, in riferimento alla pista di pattinaggio a Milano voluta da Fausto Orsomarso, ha dichiarato: «Ma c’è una voce di opposizione in consiglio regionale? Qualcuno che presenti un’interrogazione sulla opportunità di questa scelta? Ecco, se c’è batta un colpo».
Non è la prima volta che Dieni lancia stoccate alla giunta e a Roberto Occhiuto, come quando gli disse: «Occuparsi del territorio non è una concessione». Non proprio in linea con i dettami magorniani.
Federica Dieni
Terzo polo in Calabria, gli strascichi delle politiche
Alle elezioni politiche dello scorso settembre il terzo polo si è fermato in Calabria al 4%, non eleggendo alcun parlamentare. I capilista alla Camera erano Maria Elena Boschi e, a seguire (appunto…) Ernesto Magorno. Già con il deposito delle liste nacque una polemica proprio nell’establishment vibonese che, sentendo odore di disfatta, mise le mani avanti: «Ci è stato spiegato che l’accordo nazionale prevedeva postazioni utili in Calabria solo per il partito Italia Viva di Renzi e pertanto non abbiamo potuto fare altro se non accettare con serenità quanto deciso, rinnovando l’impegno a favore del nostro territorio con la determinazione di sempre ad ascoltare e tentare di risolvere i numerosi problemi dei cittadini vibonesi».
Si salvi chi può
L’affondo dei calendiani sa tanto di sassolino dalla scarpa: «Siamo però con i piedi per terra e dunque affronteremo questa tornata elettorale tentando di guardare oltre il 25 di settembre nella consapevolezza che oggi gli amici di Italia Viva hanno una maggiore responsabilità sul risultato elettorale, posto che hanno avuto il grande privilegio di essere favoriti da un accordo elettorale nazionale che ha penalizzato in Calabria il partito di Azione, riducendone al minimo l’agibilità anche in termini di richiesta del voto». Insomma, si salvi chi può.
Giada Vrenna, ex renziana di Crotone
Terzo polo ma non troppo a Reggio Calabria
E se a Crotone il coordinatore cittadinoUgo Pugliese ha sfiduciato Giada Vrenna, ormai ex consigliera comunale di Italia Viva, non va meglio nel reggino. Il sindaco f.f. di Reggio Calabria, Paolo Brunetti, risulta in quota Iv, mentre quello metropolitano, Carmelo Versace è di Azione. «Brunetti e Versace sono i più capaci, è stata effettuata una scelta saggia. Da parte mia, sarei onorata e orgogliosa di rappresentare la Calabria» disse la Boschi in campagna elettorale. Invece, nessuno slancio in termini di percentuale è venuto dal territorio, con perfidi detrattori che sussurrano: «I due sindaci hanno sostenuto il Pd». Insomma, terzo polo, che pasticcio!
Il più spregiudicato. Ma anche il più visionario. Quello capace di far fare il salto di qualità. Non solo alla sua famiglia. Alla ‘ndrangheta intera. Paolo De Stefano è unanimemente riconosciuto come uno dei boss più importanti della storia delle ‘ndrine.
Quartetto d’Archi
Secondo di quattro fratelli che, insieme ai Piromalli di Gioia Tauro, riusciranno a scalzare la “vecchia ‘ndrangheta” di don ‘Ntoni Macrì, di donMico Tripodo. Quest’ultimo troverà la morte nel carcere di Poggioreale. Ordine di Raffaele Cutolo, leader della Nuova Camorra Organizzata, parrebbe. E su esplicita richiesta proprio di Paolo De Stefano, col quale il boss napoletano intrattiene ottimi e duraturi rapporti.
Secondo i collaboratori di giustizia, Paolo De Stefano fu tra i primi a raggiungere il ruolo di “santista”. Perché è proprio con l’istituzione della “Santa” che la ‘ndrangheta fa il salto di qualità. Passa dalla dimensione agro-pastorale a qualcosa di diverso. Allacciando rapporti con il mondo delle istituzioni, della destra eversiva, della massoneria deviata. Tutti rapporti che De Stefano ha coltivato fino alla sua morte.
Arresto di Mico Tripodo (a destra, in primo piano)
Sopravvive alla prima guerra di ‘ndrangheta, a differenza dei fratelli Giovanni e Giorgio. Sarà ucciso però agli albori della seconda. Ma il casato dei De Stefano continuerà a dettare legge grazie all’opera di Orazio, unico tra i quattro fratelli rimasto in vita. Ma anche tramite i figli di Paolo De Stefano, in particolare Peppe De Stefano, considerato il “Crimine” delle cosche reggine, almeno fino all’arresto, avvenuto nel dicembre 2008.
Questo perché solo la progenie di un capo carismatico come Paolo De Stefano poteva essere “degna” di ricoprire quel ruolo negli anni 2000.
I rapporti di Paolo De Stefano
‘Ntoni Macrì
Emblematico il fatto che nell’aprile del 1975, nemmeno due mesi dopo l’eliminazione del boss di Siderno don ‘Ntoni Macrì, le forze dell’ordine sorprendano Paolo De Stefano insieme al boss della Banda della Magliana, Giuseppe Nardi, Giuseppe Piromalli, Pasquale Condello, Gianfranco Urbani e Manlio Vitale nei pressi del locale “Il Fungo” di Roma. Gli agenti erano appostati lì per arrestare il latitante Saverio Mammoliti, che avrebbe dovuto partecipare ad una riunione mafiosa.
Doveva essere un incontro molto importante, visto che, oltre a De Stefano, partecipano uomini forti della ‘ndrangheta, come Piromalli, ma anche Condello (Il Supremo, negli anni a venire), nonché Urbani, Er Pantera, re delle bische e delle scommesse clandestine. De Stefano, Piromalli, Condello e Nardi giungono su un’autovettura Mercedes e sia Condello che Piromalli si sono allontanati dal luogo di soggiorno obbligato rendendosi irreperibili. Il secondo viene trovato in possesso di una banconota da 50.000 lire proveniente dal sequestro di Paul Getty.
Nero di Calabria
De Porta persino il suo nome uno dei processi più importanti alla ‘ndrangheta negli anni ’70: il processo De Stefano+59, il cosiddetto “Processo dei 60”. Già nel 1979 il Tribunale di Reggio Calabria rilevava l’esistenza di una «ferrea solidarietà che accomuna le cosche dell’intera provincia, nel rispetto del più assoluto principio di giustizia distributiva a fronte di un noto utile finanziario, che bene avrebbe potuto costituire accaparramento della sola cosca della Piana». A decine le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che legano il nome di De Stefano e dei De Stefano alladestra eversiva. A soggetti da “notte della Repubblica”, quali Stefano Delle Chiaie, ma anche Franco Freda. I collaboratori parlano anche degli incontri tra i capi della cosca De Stefano e Junio Valerio Borghese, per il tentativo di realizzare un colpo di Stato in Italia.
Il potere di Paolo De Stefano
Giorgio De Stefano, fratello di Paolo e suo predecessore ai vertici dell’omonimo clan
All’inizio degli anni ’80, quindi, Paolo De Stefano era da considerare l’espressione più tipica del nuovo manager dell’impresa criminale calabrese. Fu lui il primo, proseguendo nell’opera intrapresa dal fratello Giorgio, ad intuire e realizzare il necessario salto di qualità attraverso una serie di cointeressenze operative realizzate con esponenti diversi della malavita nazionale ed internazionale.
Morto Giorgio De Stefano, Paolo assume infatti i pieni poteri dell’omonimo clan. Tuttavia, con il passare del tempo, l’enorme potere sapientemente accentrato sulla propria persona, oltre ad indubbi benefici, provoca due effetti collaterali. Si riveleranno fatali per il boss di Archi.
De Stefano, che in verità non ha mai abbandonato l’idea di vendicare l’eliminazione dei fratelli, comincia ad isolarsi e a diffidare di chiunque, anche dei suoi più stretti collaboratori. Tanto che qualsiasi manifestazione di autonomia, anche quella che appare insignificante, subisce una dura repressione.
La sua politica espansionistica, poi, innesca un clima di sospetto nei suoi confronti da parte dei leader degli altri clan affiliati – o, comunque, non in contrasto – che operano nella provincia di Reggio Calabria, timorosi di vedersi relegati a funzioni di secondo piano.
Il braccio armato della Madonna
All’interno dello stesso clan di Archi si determina una situazione non meno esplosiva. Vari affiliati tra i più rappresentativi iniziano a manifestare insofferenza verso il comportamento dispotico di don Paolino, che pretende di sottoporre a controllo qualsiasi attività criminale dei suoi accoliti e punisce duramente chi viola la sua regola.
L’effige della Madonna di Polsi in un bunker della ‘ndrangheta a Platì
Racconta il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro: «Sostenne che per raggiungere il vertice dell’organizzazione aveva dovuto pagare un prezzo altissimo sia perché due suoi fratelli erano stati uccisi sia perché aveva anni di carcere da scontare. Per contro altri vivevano tranquillamente e senza problemi. Capii da quelle parole che qualcosa di grave in seno al clan arcoto si era verificato. Considerata la piega poco piacevole presa dalla discussione, ritenni opportuno sdrammatizzare, sostenendo che da tutti era voluto bene e non soltanto dagli arcoti. La replica fu che tutti erano amici per paura e che, comunque, egli viveva per fare giustizia in quanto era il braccio armato della Madonna di Polsi, la quale si serviva di lui per uccidere ed eliminare tutti gli infami ed i tragediatori della ‘ndrangheta».
Gli equilibri in riva allo Stretto
Proprio a metà degli anni ’80, Paolo De Stefano avverte il pericolo dell’avvicinamento tra due famiglie assai potenti: i Condello, anch’essi originari del rione Archi di Reggio Calabria, e gli Imerti di Villa San Giovanni. Già in quel periodo, infatti, si parla di ponte sullo Stretto. La guerra è alle porte.
Si legge, infatti, nelle carte giudiziarie che ricostruiranno quel periodo: «Attonita e sorpresa all’inizio, successivamente sempre più fatalisticamente rassegnata e quasi indifferente, la popolazione ha assistito all’incalzante succedersi di agguati e sparatorie di cui sicari spregiudicati, quasi sempre infallibili e giovanissimi, si sono resi protagonisti, spingendosi fin nelle strade del centro cittadino, in ore di punta, tra passanti inermi ed atterriti (…) Padroni del territorio e timorosi solo della reazione degli avversari, bande di criminali si sono per anni affrontate in quella che gli inquirenti hanno definito guerra di mafia e che ha mietuto numerose vittime… Di tale feroce guerra è stata individuata una data di inizio ben precisa: l’11 ottobre 1985».
Autobomba e moto
Secondo taluni, Paolo De Stefano teme un arbitrario inserimento nelle “sue” zone da parte di Antonino Imerti, detto Nano Feroce, e che il suo gruppo potesse essere insidiato da quello dei Condello. Avrebbe deciso così di porre fine a quell’alleanza decretando l’eliminazione di Antonino Imerti per poi farne subdolamente ricadere la colpa su altri.
Il boss di Villa San Giovanni, tuttavia, si salva miracolosamente dall’autobomba che invece dilania la sua scorta.
Orazio De Stefano
Per altri, in realtà, Paolo De Stefano con quell’attentato non avrebbe nulla a che fare. Non sembra preoccupato, infatti. Il 13 ottobre, due giorni dopo l’autobomba di Villa San Giovanni, De Stefano è in moto, insieme con uno dei suoi più fidati complici, Antonino Pellicanò. Si trova ad Archi, cuore del suo regno incontrastato, quando i sicari entrano in azione. I due (entrambi latitanti, Pellicanò era colpito da ordine di cattura per omicidio volontario) viaggiano a bordo di una Honda Cross intestata a Bruno Saraceno, noto agli organi di polizia come bene inserito nel clan De Stefano e più volte segnalato quale autista di Orazio (il quarto dei fratelli De Stefano) nel periodo della latitanza di questi.
Paolo De Stefano, il boss dalle scarpe lucide
Così Pantaleone Sergi su La Repubblica in quei drammatici giorni: «Don Paolino De Stefano era uno di quei boss dalle scarpe lucide che con la loro ascesa hanno segnato la storia della ‘ndrangheta calabrese negli ultimi 15 anni. Re di Archi, fatiscente quartiere-casbah alla periferia Nord della città, spregiudicato quanto diplomatico, violento e guardingo assieme, era il punto di riferimento delle mafie internazionali per il traffico di droga, armi e diamanti che ha portato miliardi e miliardi nei forzieri delle cosche. Ma la guerra che si sta combattendo sulle sponde dello Stretto, che in 48 ore ha lasciato sul campo cinque morti eccellenti, non lo ha risparmiato, anzi ha avuto in lui l’obiettivo più alto. La sua eliminazione, plateale perchè avvenuta nel suo regno, conferma che chi ha scatenato questa guerra vuole fare piazza pulita, vuole avere insomma il terreno sgombro per nuovi e più lucrosi affari».
L’arresto di Paolo De Stefano a Cap d’Antibes
Paolo De Stefano viene ucciso nel suo regno. Nonostante due giorni prima sia avvenuto l’enorme attentato a Nino Imerti, il boss di Archi gira tranquillamente per il proprio quartiere. Don Paolino, però, avrebbe inviato alle altre famiglie un messaggio: sebbene tutti sospettino di lui, a mettere la bomba a Nino Imerti sarebbe stato qualcun altro.
Dopo quella che in ambienti di ‘ndrangheta viene definita “ambasciata”, De Stefano si sente dunque al sicuro da possibili attacchi. Ma si sbaglia. La guerra tra clan sta per esplodere in maniera dirompente e drammatica. E, fin da subito, trame e complotti vengono messi in atto, in una vera e propria strategia bellica.
Il racconto del collaboratore
È il collaboratore Giacomo Lauro, nell’interrogatorio reso il 25 ottobre 1993, a ricostruire quei drammatici giorni. «In questa prima fase non si erano definiti gli schieramenti in quanto ancora appariva nebulosa la responsabilità del gruppo di Paolo De Stefano, che peraltro subdolamente accreditava l’attentato di Villa San Giovanni con l’autobomba alla cosca Rugolino di Catona. In tale ottica si spiega la visita di Pasquale Tegano, mandato da Paolo De Stefano la stessa sera dell’attentato, a trovare Giovanni Fontana per invitare il suo gruppo ad una riunione nelle ville site sulla collina di Archi di proprietà del De Stefano. A tale invito il Fontana rispose che non avrebbe preso alcuna decisione sul piano militare se prima non avesse parlato con Pasquale Condello, all’epoca detenuto presso il carcere di Reggio Calabria, col quale avrebbe avuto un colloquio il lunedì successivo (il 14 ottobre, nda)».
Pasquale “il Supremo” Condello
«Fu per detta ragione – continua Lauro – che Paolo De Stefano si spostò liberamente quel fatidico 13.10.1985, quel giorno in cui non si aspettava di essere colpito dai Condello, avendo interpretato nelle parole di Giovanni Fontana un impegno a non iniziare le ostilità prima che Pasquale Condello desse la sua risposta. Lo stesso itinerario seguito dal De Stefano che transitò dinanzi alla casa dei Condello nel rione Mercatello di Archi dimostra la sua totale tranquillità e l’assenza di qualsiasi precauzione almeno sino al lunedì successivo».
La morte di Paolo De Stefano
La situazione, dunque, sembra essere chiara. Paolo De Stefano era tranquillo non solo perché vigeva una sorta di “tregua armata”, come descrive Lauro, che non sarebbe stata sicuramente rotta prima del colloquio con Pasquale Condello. Ma anche perché aveva già avuto assicurazioni dal boss della Piana di Gioia Tauro, Nino Mammoliti, circa la fedeltà dei Condello e dei Fontana. Nella circostanza, contrariamente al solito, non seppe ben valutare i suoi avversari.
È una piovosa domenica pomeriggio. La Honda con in sella Paolo De Stefano e Antonino Pellicanò sfreccia lungo via Mercatello, nel cuore del rione Archi. Quello è il loro ultimo viaggio in moto. A un tratto, proprio nelle vicinanze dell’abitazione della famiglia Condello, una raffica di pallottole li investe. Colpisce prima Pellicanò, che è alla guida. La moto sbanda, i due passeggeri cadono a terra, gli assassini continuano a sparare. L’esecuzione di Paolo De Stefano avviene mentre il boss è per terra e inveisce contro gli assalitori.
Archi, Reggio Calabria
Sul luogo del duplice delitto vengono rinvenute dieci cartucce per fucile da caccia calibro 12 e sei bossoli di pistola calibro 7,65 parabellum. Gli stessi resti verranno trovati all’interno della Fiat Ritmo, utilizzata dai killer per la fuga e distrutta dalle fiamme sul greto del torrente Malavenda.
A circa cinquanta metri di distanza dai corpi di De Stefano e Pellicanò si trova, riversa per terra, la vespa bianca del figlio di don Paolino, Giuseppe, utilizzata probabilmente come “staffetta”. Giuseppe De Stefano ai tempi non ha nemmeno sedici anni. Sarà arrestato il 10 dicembre del 2008 dalla polizia, dopo cinque anni di latitanza. È proprio lui il nuovo “Crimine” della ‘ndrangheta.
La guerra di ‘ndrangheta
Una telefonata anonima informa che i responsabili del duplice omicidio sono Pasquale e Domenico Condello, Antonino Imerti, Giuseppe Saraceno e Antonino Rodà, detto Nuccio. La magistratura reggina li individua e li condanna all’ergastolo in Corte d’Appello. Ma Corrado Carnevale cancella tutto con un colpo di spugna in Corte di Cassazione.
L’assassinio di Paolo De Stefano, comunque, è il punto di non ritorno. L’omicidio del boss più potente della città, infatti, squarcia in due il cielo della ‘ndrangheta reggina, ma non solo. Con la famiglia De Stefano, orfana del proprio leader, si schierano le cosche Libri, Tegano, Latella, Barreca, Paviglianiti e Zito. Assai composita anche la fazione degli Imerti, con cui si schierano i Condello, i Saraceno, i Fontana, i Serraino, i Rosmini e i Lo Giudice.
L’arresto di Antonino “Nano feroce” Imerti
Reggio Calabria, ben presto, si trasforma in un campo di battaglia. Numerosi morti, anche nell’arco della stessa giornata. La città vive in un clima infame. La gente, anche quella perbene, ha paura per i propri bambini. Chiunque teme di rimanere coinvolto, inconsapevolmente, in uno dei tanti agguati giornalieri. I boss si guardano le spalle, si nascondono nelle proprie ville, nei nascondigli, veri e propri bunker. I capi sono introvabili. E allora ci vanno di mezzo i gregari, ma anche chi con la ‘ndrangheta non c’entra nulla. Le cosche colpiscono proprio tutti. La gente ha paura di uscire fuori di casa dopo una certa ora. C’è il coprifuoco, proprio come nelle zone di guerra.
Alla fine, si conteranno oltre 700 morti sul selciato. Il primo, proprio come lui voleva essere, fu proprio Paolo De Stefano.
Tempi duri per Eugenio Guarascio. A Cosenza, come presidente della locale squadra di calcio deve fare i conti con le contestazioni dei tifosi. A Reggio Calabria, invece, ha visto sfumare un appalto da quasi 120 milioni di euro potenziali che, soltanto pochi mesi fa, considerava ormai cosa sua. Ecologia Oggi Spa, l’azienda del patron rossoblu, non si occuperà infatti della raccolta dei rifiuti in riva allo Stretto, come pure la ditta dell’imprenditore lametino aveva dichiarato con una nota a fine ottobre. La gestione della spazzatura reggina resterà di competenza della piemontese Teknoservice, che se n’era già occupata negli ultimi tempi e continuerà a farlo per i prossimi 48 (che potranno diventare 60) mesi.
L’appalto finisce in tribunale
L’assegnazione a Teknoservice e non ad Ecologia Oggi del servizio è figlia di una lunga battaglia giudiziaria che ha visto pronunciarsi il Tar prima e il Consiglio di Stato poi. A scontrarsi, da un lato il Comune e l’azienda piemontese, dall’altro quella calabrese. Guarascio contava molto sull’aver fatto un’offerta migliore dal punto di vista economico. La cosa, però, non si era rivelata sufficiente perché da quello tecnico la proposta di Teknoservice risultava decisamente superiore a quella dei rivali. Il problema per i piemontesi, però, era che la commissione chiamata a valutare le offerte e aggiudicare l’appalto non era stata sufficientemente accurata nel motivare le proprie valutazioni. E così, di fatto, le aveva rese contestabili.
Teknoservice già al lavoro
L’aggiudicazione definitiva dell’appalto, pertanto, era rimasta sub iudice. Teknoservice aveva iniziato a lavorare solo grazie a un’ordinanza emanata dal Comune per tamponare l’accumulo di rifiuti che la mancata assegnazione del servizio avrebbe comportato. Poi, nelle scorse settimane, la sentenza del Consiglio di Stato sembrava aver riaperto i giochi per Ecologia Oggi. In realtà, le cose non stavano come Guarascio e i suoi avevano dichiarato. I giudici avevano sì respinto i ricorsi dei piemontesi e Reggio, ma anche chiesto al Comune di motivare meglio i perché della prima scelta pro Teknoservice. E le motivazioni sono arrivate: non c’erano difformità nell’offerta rispetto a quanto richiesto, come lamentava Ecologia Oggi.
Un mezzo della Teknoservice
Il Comune conferma: l’offerta tecnica era regolare
L’ulteriore istruttoria seguita alla sentenza ha consentito – si legge in una determina pubblicata a San Silvestro – di«affermare la validità dell’Offerta tecnica della Teknoservice srl, rispetto alle finalità prefissate dalla stazione appaltante, essendo stato dimostrato, in punto di equivalenza funzionale e di effettiva idoneità al conseguimento dei prefissati obiettivi di raccolta differenziata, che le modalità di raccolta ivi proposte soddisfano pienamente le indicazioni operative recate dalla lex specialis (che di per sé ammetteva varianti ed ottimizzazioni rispetto al progetto posto a base di gara, purché funzionali agli obiettivi dell’Amministrazione comunale».
Costa meno, ma Ecologia Oggi è fuori
Quanto proposto da Teknoservice, insomma, non sarà economico quanto il progetto di Ecologia Oggi (il ribasso rispetto alla base d’asta si ferma a un 1,08%) ma decisamente più efficace rispetto alla concorrenza per ottenere i risultati auspicati dell’amministrazione reggina. «Tant’è vero – si legge ancora nell’atto del Settore Ambiente – che la considerevole diversità quali-quantitativa delle due offerte tecniche si traduce in un forte distacco nei punteggi attribuiti ad esse (59,480 per Teknoservice Srl contro 46,218 per Ecologia Oggi Srl)».
Un estratto dell’atto che assegna l’appalto a Teknoservice
Non esistono, quindi, motivi ostativi all’aggiudicazione della gara, i precedenti rilievi risultano sanati dall’istruttoria extra. A raccogliere i rifiuti per i prossimi 4 anni sarà dunque Teknoservice, in cambio di circa 93,5 milioni di euro, oneri di sicurezza inclusi. Ai quali si aggiungerà un’ulteriore ventina abbondante di milioni nel caso il contratto sia esteso a un quinto anno.
Capita sempre più spesso che a Cardeto arrivino turisti. Una volta chi parlava straniero era un emigrante che aveva quasi dimenticato la strada di casa, non i suoi profumi. Oggi succede di incrociare giapponesi, tedeschi: molto spesso si perdono al bivio che sta all’ingresso del paese. A sinistra si va verso l’Aspromonte, a destra si scende verso la sponda destra del torrente Sant’Agata, terra di cardi e di greco antico.
Giovanna, Marcello e Irene, la famiglia de Il tipico calabrese
Un motivo per questo via-vai c’è, un piccolo ristorante a metri zero, perché l’orto è proprio accanto. Si chiama Il Tipico Calabrese, ed è gestito da Giovanna Quattrone e Marcello Manti. Lui faceva il graphic-designer nelle Marche e poi ha deciso di tornare. Lei è la grande custode delle tradizioni di famiglia.
Cardeto su TasteAtlas
Ora che il loro nome è apparso nelle classifiche mondiali di TasteAtlas, con un lusinghiero 4,8 su 5, forse è il caso di rileggere loro storia, esempio di Calabria resistente, attenta alla memoria e alla cultura contadina, con un piede nel futuro. Io l’ho raccontata nel libro A sud del Sud, ma ogni volta si arricchisce di nuovi capitoli.
È Cardeto un paese di castagneti a filiera con pianori a nord e a sud, fagioli, grano e pere dai mille nomi. Solo Marcello vi spiega le differenze fra una e l’altra, e vengono in mente quei frutti che facevano il profumo nelle case dei contadini, buon augurio nel giorno del matrimonio. E del resto in lingua grecanica capra e albero si possono dire in decine di modi, qui servirebbe Gerhard Rohlfs, il glottologo tedesco che faceva da interprete fra i calabresi di valli diverse.
Si mangia tra pezzi di storia contadina
Alcuni riconoscimenti ottenuti da Il Tipico calabrese
Altri oggetti della tradizione
Fisarmoniche in esposizione
Una chiacchierata con i clienti in sala
Oggetti esposti nel ristorante
Una serata all’insegna della musica
Una parete del ristorante
Una parte del museo all’interno del ristorante
L’interno del locale
Altri oggetti tradizionali
Strumenti della tradizione esposti nel ristorante
Entrare al Tipico disorienta: potrebbe essere un Museo, una Biblioteca (Marcello ha una invidiabile collezione di libri sulla Calabria), una sala di musica dove gli strumenti antichi non sono impolverati ma usati spesso. La cucina? Lì Giovanna e Marcello vi tengono per mano stagione per stagione, la ‘nduja è l’unico prodotto non paesano, quei quaranta minuti che ci vogliono da Reggio non sono mai spesi male, anche per via del panorama. A poco a poco Il Tipico è entrato nelle guide di tendenza, premiato più volte da Slow Food. Ora, addirittura, TasteAtlas.
I canti delle donne di Cardeto
Contadine calabresi (foto Alan Lomax)
Resta una storia da ripetersi, fatevela raccontare da Marcello, perché ha una sua magia. Intorno al ‘53 arrivò a Cardeto dalla montagna uno scassato pullmino Volkswagen: a bordo c’erano Alan Lomax, l’antropologo che aveva scoperto Woody Guthrie, accompagnato dall’etno-musicologo Diego Carpitella.
Avevano sentito parlare dei canti delle donne di Cardeto: loro ogni mattina per andare sui campi a lavorare ci mettevano due ore (quindi 4 a fine giornata). Lomax registrò quelle melodie per studiarle, offrendo dei soldi in cambio. Anche oggi c’è qualche vecchietta che dice: «Vu’ ricordati u’mericanu ch’ ‘ndi pavava m’ cantamu? Vi ricordate l’americano che ci pagava per cantare?».
Il giro del mondo
Poco prima della pandemia, nel gennaio 2020, Anna Lomax, figlia di Alan, anche lei antropologa, è tornata sulle tracce del padre, ha incontrato Marcello e gli ha consegnato i nastri originali. Ha detto: «Ora capisco perché mio padre tornava senza soldi in America». Dentro il ristorante c’è una targa, i canti di Cardeto – come quelli dei pescatori della tonnara di Vibo – sono così di nuovo a casa dopo aver fatto il giro del mondo.
Grazie a quel 4,8, è il momento di fare un brindisi in musica.
Musulupare, stampi di legno impiegati nella preparazione del musulupo, formaggio tipico del periodo pasquale, festività molto sentita dalle comunità grecaniche
L’uva coltivata dai gestori del locale
I frutti prodotti da Marcello e Giovanna
Reggio Calabria vista da Cardeto
L’insegna del locale
Saggezza popolare sui muri del ristorante
Marcello all’opera nell’orto
Antipasti sul tavolo dl ristorante
Marcello mostra orgoglioso i prodotti del suo orto
In cucina è tempo di frittole
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