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  • ‘Ndrangheta stragista: ergastolo a Graviano e Filippone

    ‘Ndrangheta stragista: ergastolo a Graviano e Filippone

    Un accordo tra Cosa Nostra e ‘ndrangheta, per colpire lo Stato, per destabilizzare il Paese. La sentenza di secondo grado del processo “Ndrangheta stragista” riscrive la storia d’Italia.  La Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria (Bruno Muscolo presidente, a latere, Giuliana Campagna) ha infatti confermato gli ergastoli già emessi in primo grado nei confronti del boss di Cosa Nostra, Giuseppe Graviano, e dell’uomo forte della ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, Rocco Santo Filippone, nell’ambito del procedimento “Ndrangheta stragista”. I due sono stati condannati anche in secondo grado quali mandanti del duplice omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, fatto avvenuto nei pressi di Scilla il 18 gennaio del 1994.

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    Il pubblico ministero, Giuseppe Lombardo

    Una notte della Repubblica

    I giudici di secondo grado, quindi, hanno avvalorato l’impianto accusatorio portato avanti dal pm Giuseppe Lombardo (applicato anche nel procedimento d’appello) circa l’esistenza di un accordo tra le due principali organizzazioni criminali del nostro Paese nella strategia stragista che doveva cambiare gli equilibri d’Italia, in una fase di passaggi tra la Prima la Seconda Repubblica, dopo l’annus horribilis, il 1992, con l’uccisione dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nelle stragi di Capaci e via D’Amelio.

    Il piano di Totò Riina

    L’inchiesta, mastodontica, ha ricostruito il ruolo delle principali cosche della ‘ndrangheta, i Piromalli e i De Stefano, che, attraverso alcuni summit (il più famoso dei quali, a Nicotera Marina), avrebbero aderito al piano eversivo voluto da Totò Riina, in quel momento capo indiscusso della mafia siciliana. Infatti, nel complessivo attendismo della ‘ndrangheta, dove molte famiglie e molte cosche, abituate ad una pacifica e fruttuosa convivenza con lo Stato, erano restie ad azioni eclatanti, le famiglie più potenti invece, quelle che ruotano intorno ai Piromalli/Molè ed ai De Stefano-Tegano-Libri – che, non a caso avevano, ad un tempo, i più profondi legami con Cosa Nostra e con la massoneria deviata di Licio Gelli – si muovono nell’ombra, all’insaputa del resto della consorteria.

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    Totò Riina dietro le sbarre

    Una sentenza di secondo grado che, quindi, inserisce questi fatti in un disegno complessivo, quando, invece, per anni, gli attentati ai militari dell’Arma erano stati inquadrati come episodi sganciati da contesti più grandi. Per gli assalti ai Carabinieri, infatti, vengono utilizzati due giovanissimi criminali, Consolato Villani e Giuseppe Calabrò, certamente fedeli, efficienti e spregiudicati, ma non immediatamente riconducibili alle famiglie di ‘ndrangheta che erano alle spalle dell’azione. L’ennesimo, geniale, depistaggio della ‘ndrangheta.

    Franco Pino e gli altri collaboratori di giustizia

    Una inchiesta che si basa, soprattutto sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, tra cui quelle di Franco Pino, del 2018. Frasi commentate da due soggetti vicini alla famiglia Piromalli in una intercettazione che ha rappresentato il colpo di scena finale nel procedimento di secondo grado. In quelle captazioni del 2021, divenute pubbliche solo in queste ultime settimane, si faceva infatti riferimento al volere dei vertici della cosca di Gioia Tauro di insanguinare anche la Calabria. Apparentemente con azioni scollegate (proprio come gli attentati ai carabinieri) ma, di fatto, inserite in un medesimo e inquietante disegno criminale.

    «Il colpo di grazia allo Stato»

    Collaboratori di giustizia, tanto calabresi, quanto, soprattutto, siciliani. Come Gaspare Spatuzza, per anni braccio destro del boss Graviano. La voce di Spatuzza postula dunque l’esistenza di una intesa fra Cosa Nostra ed i calabresi che avevano disposto, ordinato ed organizzato gli assalti ai carabinieri avvenuti fra il dicembre 1993 ed il febbraio 1994 nel reggino. In questo contesto la frase di Graviano «… bisognava agire per dare il colpo di grazia allo Stato e che i calabresi già si erano mossi…» pronunciata per fare comprendere a Spatuzza (cioè a colui che più di ogni altro aveva collaborato con lui, coordinando e svolgendo materialmente le attività criminali connesse alla esecuzione delle stragi continentali) che non si poteva più indugiare oltre e che si doveva procedere e colpire ancora.

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    Il collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza

    Da Moro a Berlusconi

    I lunghi, lunghissimi, dibattimenti di primo e secondo grado hanno allargato quasi all’infinito il raggio d’azione, coinvolgendo nella narrazione dei collaboratori figure influenti della politica italiana: da Bettino Craxi a Silvio Berlusconi. Ma il procedimento ha attraversato decenni di storia italiana e locale: dal ruolo che la ‘ndrangheta avrebbe potuto avere nel sequestro del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, alla carriera politica di Giuseppe Scopelliti, ex governatore calabrese, che spiccò il volo dopo l’attentato a Palazzo San Giorgio del 2004, fasullo secondo l’impostazione accusatoria.

    Crimine, servizi segreti e massoneria

    Il quadro inquietante nella commistione tra organizzazioni criminali, politica, massoneria, viene completato dal ruolo rivestito dai servizi segreti. Impegnati per decenni in attività volte ad assicurare la permanenza del paese nel blocco occidentale, prevenendo ed impedendo infiltrazioni del blocco avverso, venuto meno, per l’appunto, la controparte, sentivano di avere perso la loro missione e con essa gli enormi spazi di manovra – talora illegali –  che la stessa gli garantiva. Così come per Cosa Nostra il procedere del maxi processo verso le condanne definitive era stato il preoccupante annuncio dell’inizio di un declino inarrestabile, così, per alcuni settori di tali apparati, lo smantellamento di Gladio (autunno 1990) era stato il segnale di un intollerabile ridimensionamento del proprio potere.

    Insomma, le mafie e le schegge infedeli di apparati statali sembrerebbero accomunati, in quegli anni, ad uno stesso destino: i nuovi equilibri geo-politici stavano mutando i meccanismi di un sistema in cui erano prosperate. La loro sopravvivenza era quindi legata alla necessità di impedire che quei cambiamenti travolgessero quel sistema: entrambe avrebbero concorso per il mantenimento dello status quo. La strategia stragista doveva proprio permettere di individuare i nuovi referenti politici, in grado di portare avanti i piani granitici elaborati ed eseguiti nel corso della Prima Repubblica. Perché più le cose cambiano, più restano le stesse.

  • Mafia Spa: se il Pil italiano lo gonfia la criminalità

    Mafia Spa: se il Pil italiano lo gonfia la criminalità

    «Le provincie italiane con un più alto indice di presenza mafiosa sono concentrate in Calabria, in particolare Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia». Una frase lapidaria nella sua durezza che diventa ancora più significativa se si pensa che non è della Dia o del Viminale. E nemmeno del ministero di Giustizia o della Dna. A pronunciarla, infatti, è stata la Banca d’Italia nel dossier del dicembre del 2021 La criminalità organizzata in Italia: un’analisi economica.
    Nei giorni scorsi il documento è tornato alla ribalta grazie alla Cgia di Mestre, che ha inteso stigmatizzare alcuni aspetti legati al Pil e al fatturato di quella che viene definita “Mafia spa”. Già, perché, stando ai dati e numeri di Bankitalia, il fatturato annuo delle mafie italiane, stimato al ribasso in 40 miliardi di euro all’anno, entra nei numeri dello Stato, concorrendo addirittura ad aumentare il prodotto interno lordo.

    Mafia Spa, un giro d’affari inferiore solo ad Eni ed Enel

    Si legge infatti nel documento della Cgia di Mestre: «In massima parte questo business, e relativo fatturato, è gestito dalle organizzazioni mafiose e conta un volume d’affari pari a oltre il 2 per cento del nostro Pil. Stiamo parlando dell’economia criminale riconducibile alla “Mafia spa” che, a titolo puramente statistico, presenta in Italia un giro d’affari inferiore solo al fatturato di Gse (gestore dei servizi energetici), di Eni e di Enel». Numeri di per sé degni di nota, ma «che sono certamente sottostimati, in quanto non siamo in grado di dimensionare anche i proventi ascrivibili all’infiltrazione di queste organizzazioni malavitose nell’economia legale».

    Il Paese soffre ma dice di arricchirsi

    La Cgia di Mestre non usa troppi giri di parole per condannare questo tipo di contabilità: «È quanto meno imbarazzante che dal 2014 l’Unione Europea, con apposito provvedimento legislativo, consenta a tutti i paesi membri di conteggiare nel Pil alcune attività economiche illegali come la prostituzione, il traffico di stupefacenti e il contrabbando di sigarette». Basti pensare che «grazie a questa opportunità, nel 2020 (ultimo dato disponibile) abbiamo gonfiato la nostra ricchezza nazionale di 17,4 miliardi di euro (quasi un punto di Pil)». Uno stratagemma utile per far quadrare i conti, forse, ma anche «una decisione eticamente inaccettabile».

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    Un sequestro di sigarette di contrabbando

    La distribuzione delle mafie sul territorio nazionale

    Misurare l’intensità del fenomeno mafioso è complesso perché le azioni e le attività delle mafie sono nascoste per definizione. Sfuggono spesso alle attività investigative, figurarsi alle rilevazioni statistiche. Inoltre, hanno confini labili che rendono difficile individuare le singole fattispecie criminali. Ecco perché per questo genere di analisi si punta su «un approccio multidimensionale, che consente di estrarre informazioni da indicatori diversi e di catturare le diverse modalità con cui le mafie agiscono su un territorio». L’indice della presenza mafiosa si calcola, quindi, considerando quattro diversi domini, ciascuno, a sua volta, composto da quattro diversi indicatori elementari.

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    Gli indicatori utilizzati da Banca d’Italia per la sua analisi

    Il dossier passa, poi, ad analizzare la distribuzione della mafie nel Paese secondo criteri geografici. Ed è qui che emerge il peso della criminalità organizzata nella punta meridionale dello Stivale. «Le provincie con un più alto indice di presenza mafiosa sono concentrate in Calabria (in particolare Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia)». Sono comunque in “buona” compagnia. L’elenco dei territori più a rischio comprende, infatti, anche la Campania (Caserta e Napoli in particolare), la Puglia (principalmente il Foggiano) e Sicilia (specie la parte occidentale dell’isola). Ritenere che il fenomeno riguardi soltanto il Mezzogiorno sarebbe, però, fuorviante. Nel Centro Nord, ad esempio, spiccano per indice di “mafiosità” dell’economia locale Roma, Genova e Imperia. I territori dove la presenza della criminalità organizzata si sente meno sarebbero, invece, le province del Triveneto, la Valle d’Aosta e l’Umbria.

    Mafia Spa: più criminalità, meno crescita

    La presenza della criminalità organizzata in un territorio ne condiziona in misura profonda il contesto socioeconomico e ne deprime il potenziale di crescita. Scrive, infatti, Bankitalia «che le province che sono state oggetto di una più significativa penetrazione mafiosa hanno registrato, negli ultimi cinquanta anni, un tasso di crescita del valore aggiunto significativamente più basso». Inoltre, andando oltre la sfera economica, la presenza di attività illegali inquina il capitale sociale e ambientale.

    Ci sono studi – Peri (2004), ad esempio – che mostrano come la presenza delle 20 organizzazioni criminali (approssimata con il numero di omicidi) sia associata a un minore sviluppo economico. Altri – Pinotti (2015) – sostengono che «l’insediamento di organizzazioni mafiose in Puglia e Basilicata nei primi anni Settanta avrebbe generato nelle due regioni, nell’arco di un trentennio, una perdita di Pil pro capite del 16 per cento circa».

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    Un altro grafico dal report di Bankitalia

    I risultati, insomma, mostrano un’associazione negativa tra l’indice di penetrazione delle mafie a livello provinciale e la crescita economica negli ultimi decenni. In particolare, le province con un maggiore livello di penetrazione mafiosa (quindi Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia) hanno registrato un tasso di crescita dell’occupazione più basso di 9 punti percentuali rispetto a quello delle province con indice di presenza mafiosa inferiore. Anche la crescita della produttività risulta inferiore nei territori in questione. In termini di valore aggiunto, lo stesso esercizio produce una crescita inferiore di 15 punti percentuali, quasi un quinto della crescita media osservata nel periodo.

    Mafia Spa e pubblica amministrazione

    Oltre a ridurre la quantità e qualità dei fattori produttivi, la presenza mafiosa incide negativamente sulla loro allocazione e quindi sulla produttività totale dei fattori. In primo luogo essa genera distorsioni nella spesa e nell’azione pubblica. «I legami corruttivi tra associazioni criminali e pubblica amministrazione condizionano la spesa pubblica che viene ri-orientata verso finalità particolaristiche, a discapito dell’interesse generale. In secondo luogo, la presenza mafiosa crea distorsioni anche nel mercato privato. L’infiltrazione mafiosa nell’economia legale, infatti, impone uno svantaggio competitivo per le imprese sane. L’impresa infiltrata da un lato può beneficiare di maggiore liquidità e risorse finanziarie (i proventi delle attività criminali), dall’altro può condizionare la concorrenza usando il suo potere coercitivo e corruttivo, sia nei confronti delle altre imprese sia nei confronti della pubblica amministrazione».

    Le conclusioni della banca centrale italiana

    Banca d’Italia non ha dubbi: gli effetti delle mafie sull’economia sono «una delle principali determinanti della bassa crescita e dell’insoddisfacente dinamica della produttività nel nostro paese». Basti pensare che proprio Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia hanno registrato negli ultimi 50 anni una crescita dell’occupazione e del valore aggiunto più bassa. Un effetto, questo, connesso alle distorsioni nel funzionamento del mercato: «La corruzione e/o l’uso del potere coercitivo sono in grado di condizionare i politici locali e distorcere l’allocazione delle risorse pubbliche; d’altro canto, l’infiltrazione nel tessuto produttivo distorce la competizione nel settore privato, con le imprese mafiose in grado di conquistare quote di mercato significative sfruttando una maggiore disponibilità di risorse economiche, la maggiore propensione a eludere le regole e, non ultimo, il potere coercitivo».

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    La facciata di Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia

    Come uscirne? Non esistono ricette semplici. Banca d’Italia una sua idea, però, la ha: «La misurazione e comprensione del fenomeno mafioso, l’analisi delle determinanti e degli effetti della presenza della criminalità organizzata e un’efficace azione di contrasto richiedono infatti dati granulari e la possibilità di incrociare e integrare, attraverso opportune chiavi identificative, più fonti informative. Ne gioverebbero sia la comunità scientifica, con la possibilità di spostare più avanti la frontiera della conoscenza, sia le autorità investigative che potrebbero sfruttare tali risultati per rendere più efficace la loro attività di contrasto».

  • RITRATTI DI SANGUE | Nino Imerti, il “nano feroce” da 30 anni in silenzio

    RITRATTI DI SANGUE | Nino Imerti, il “nano feroce” da 30 anni in silenzio

    Lo chiamano “Nano feroce”. Sicuramente non in sua presenza. Antonino Imerti è uno dei boss storici della ‘ndrangheta del Reggino. C’è il suo nome sull’evento che, nell’ottobre del 1985 cambia la storia della provincia di Reggio Calabria e, forse, anche dell’intera Calabria. La sua, come tante di quelle dei boss della ‘ndrangheta, è una vita da romanzo noir.

    1985: si parla già del ponte sullo Stretto

    Nino Imerti è originario di Fiumara di Muro ma, ormai da tempo, ha spostato il centro degli affari a Villa San Giovanni: un luogo più redditizio. Villa San Giovanni è un paese in crescita, un centro che ben presto potrebbe diventare una gallina dalle uova d’oro. Questo le cosche reggine lo hanno capito. Lo hanno capito gli Imerti, che tengono parecchio alla leadership nel Villese. E lo hanno capito i De Stefano, di cui Imerti è stato, per tanto tempo, fedele alleato.

    Le cose però, negli ultimi mesi del 1985, sono cambiate: i rapporti tra le famiglie De Stefano e Imerti non sono più cordiali come lo erano in passato. Da un po’ di tempo, inoltre, si parla con insistenza della possibilità di costruire un ponte sullo Stretto di Messina, che congiunga Calabria e Sicilia: con i soldi a nessuno piace scherzare e gli appalti del ponte mettono sul piatto decine di miliardi. È un’occasione che le cosche non vogliono assolutamente lasciarsi scappare.
    Siamo nel 1985 e oggi, a distanza di oltre trentacinque anni, del famigerato ponte non esiste nemmeno un pilastro. Ma questa è un’altra storia.

    Nino Imerti, “Nano feroce”

    Nino Imerti è un uomo giovane, non ha nemmeno quarant’anni, di corporatura minuta: per questo lo chiamano “Nano Feroce”.  Un soprannome che Imerti non gradisce affatto. E non perché non si riconosca nell’aggettivo “feroce”.
    Nino Imerti è, fin dagli anni ’70, un boss di tutto rispetto: nel 1975 evade dal carcere di Augusta, all’interno del quale è detenuto, e vive da latitante per cinque anni. Poi, viene arrestato. Adesso, nell’autunno del 1985, è libero da un anno e mezzo. Imerti è in libertà vigilata, è un sorvegliato speciale. Non solo da parte delle forze dell’ordine, a quanto pare.

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    Domenico “Micu ‘u pacciu” Condello

    Dichiara il collaboratore di giustizia Giuseppe Scopelliti: «Nel corso della guerra di mafia che ha visto tutte le famiglie di Reggio Calabria schierate su due fazioni contrapposte, posso riferire che per quanto riguarda il nostro gruppo si sono succedute due fasi: la prima concerne il periodo in cui era detenuto Pasquale Condello. In tale fase la direzione delle operazioni militari era stata assunta da Nino Imerti, che si avvaleva della consulenza di Mimmo Condello […] Nel momento in cui uscì dal carcere Pasquale Condello, egli assunse la direzione di tutte le azioni belliche sul territorio del capoluogo, lasciando a Nino Imerti le decisioni sulla zona di Villa San Giovanni e comuni limitrofi. Si costituì una direzione strategica delle operazioni tra Pasquale Condello, Paolo Serraino e Diego Rosmini (senior), lasciando sempre a Nino Imerti la zona di Villa San Giovanni…”.

    I matrimoni prima della guerra

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    Giacomo Lauro

    Il matrimonio che avvicina le famiglie Condello e Imerti segna uno spartiacque fondamentale. Da quel giorno, da quel 16 giugno 1985, il malumore di don Paolino De Stefano cresce in maniera veloce e inesorabile.  Il collaboratore di giustizia, Giacomo Lauro, racconta che De Stefano affermava che «dopo il matrimonio contratto da Nino Imerti con Giuseppina Condello, i medesimi erano diventati arroganti ed irriguardosi nei suoi confronti». Da quel 16 giugno, infatti, Nino Imerti manifesta un’evidente insofferenza rispetto all’autorità di quello che, fino al momento, è stato il capo incontrastato della ‘ndrangheta reggina, Paolo De Stefano, cominciando a gestire autonomamente taluni affari nel territorio di Villa San Giovanni.

    La famiglia De Stefano “risponde”, nello stesso anno, con un altro matrimonio di prestigio: Orazio De Stefano, fratello di Paolo, sposa Antonietta Benestare, nipote di Giovanni, Giuseppe e Pasquale Tegano. La frattura tra i due clan, i De Stefano e gli Imerti, con il passare dei giorni si acuisce, senza possibilità di ricongiungimento. D’altra parte, se la famiglia De Stefano, comandata da don Paolino, è una potenza assoluta, quella degli Imerti non è da meno.

    L’autobomba di Villa San Giovanni

    Nino Imerti non è né stupido, né, tantomeno, sprovveduto. Per questo si muove a bordo di un’auto blindata, nel caso in cui a qualcuno venisse qualche strana idea. L’11 ottobre del 1985 è un venerdì, sono le 19.10. Nella centrale via Riviera di Villa San Giovanni, a pochi metri dalla caserma della Guardia di Finanza, parcheggiata accanto all’auto blindata di Nino Imerti, c’è una Fiat 500.

    Nessuno, probabilmente, nota quella Fiat 500, un’automobile come tante altre, in sosta in una delle zone più frequentate di Villa San Giovanni. Quell’auto, però, non è un’auto come le altre. Nino Imerti e i suoi uomini di scorta non lo sanno, ma quella Fiat 500 è imbottita di esplosivo.  Imerti e i suoi quattro guardaspalle sono appena usciti dalla sede dell’Italia Assicurazioni, che è gestita proprio dal “Nano Feroce”.

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    La scena dell’attentato a Nino Imerti

    È un attimo. Un boato assordante che riecheggia anche a diversi chilometri di distanza: sul selciato restano in tre e la notizia si diffonde a macchia d’olio, nel giro di pochi minuti. Nino Imerti sarebbe morto sul colpo, insieme con altri due uomini. Altri due individui rimangono feriti. Via Riviera viene isolata, recintata da Polizia e Carabinieri. I rilievi proseguono fino a notte fonda: il commissario Blasco, il tenente colonnello Palazzo, nuovo comandante del Gruppo carabinieri di Reggio Calabria, e il capitano Pagliari si danno da fare per raccogliere possibili prove, elementi anche apparentemente insignificanti.

    Nino Imerti è morto?

    Per tutta la notte il nome di Antonino Imerti è inserito nella lista dei morti. Gli avversari festeggiano, hanno fatto bingo: avendo mandato all’altro mondo un leader così potente e carismatico, potranno adesso gestire a proprio piacimento gli affari di Villa San Giovanni e, soprattutto, gli appalti miliardari del ponte sullo Stretto di Messina.

    La “festa”, però, dura solo poche ore perché, alle prime luci dell’alba, arriva il colpo di scena, la rettifica. Nino Imerti è vivo. È lui, insieme con Natale Buda, uno dei due feriti. Morti, ed irriconoscibili per l’effetto della dinamite, Umberto Spinella e i fratelli Vincenzo e Angelo Palermo, guardie del corpo di Imerti: il “Nano Feroce” usa lo sportello dell’auto, che è blindata, come scudo e rimane illeso.

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    Nino Imerti

    Così Pantaleone Sergi su La Repubblica racconta quel giorno: «Per gli inquirenti è un boss di spicco, di quelli che contano, con legami saldi ed importanti in Calabria e fuori: al suo matrimonio con una maestrina elementare, nella scorsa primavera, sarebbero stati visti gli “ambasciatori” di cosche palermitane, catanesi, della camorra campana. Ora è in stato di arresto. Si rifiuta di collaborare con la giustizia e per gli inquirenti proteggerebbe così i propri mancati killer».

    È forse questo il punto cruciale della scalata criminale di Antonino Imerti, fino ad allora esecutore integerrimo degli ordini impartiti dal di lui cugino Pasquale Condello, e ora oggetto dell’attenzione del contrapposto schieramento destefaniano, che riesce a capire l’effettiva caratura del personaggio.

    La “tragedia”

    L’autobomba da cui si salva miracolosamente Nino Imerti è l’inizio della fine. L’inizio di circa sei anni di guerra di ‘ndrangheta a Reggio Calabria e nella sua provincia. Sei anni cui si conteranno sul selciato circa 700 morti ammazzati.
    L’inizio delle ostilità viene ricordato anche dal collaboratore di giustizia Cesare Pollifroni nel verbale del 14 aprile del 1994 davanti al pm Enzo Macrì: «Tutto ebbe inizio con una “tragedia” organizzata da Paolo De Stefano in danno di Imerti Antonino. Avvenne, infatti, che di un carico di droga o armi, organizzato insieme ai palermitani, non venne dato conto ai palermitani di Cosa Nostra che vi avevano interesse. Richiesto dai siciliani, Paolo De Stefano addossò tutta la colpa su Nino Imerti, contrariamente al vero, aggiungendo che lui non poteva intervenire contro Imerti, in quanto suo alleato, ma che avrebbe appoggiato le decisioni prese da Cosa Nostra. Fu così che venne organizzato l’attentato con autobomba ai danni di Imerti, al quale prese parte qualche uomo di Cosa Nostra. Imerti, però, scampò all’attentato e capì il gioco. In seguito egli riuscì a chiarire con i palermitani la sua estraneità alla vicenda e a diventarne alleato».

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    Paolo De Stefano

    La vendetta di Nino Imerti e l’inizio della guerra

    Nino Imerti è vivo, dunque. È stato fortunato, molto fortunato. E, conoscendolo, vorrà sfruttare tale fortuna per vendicarsi di chi lo voleva morto.  Ci sono equilibri da rimettere in discussione, conti da far quadrare e affronti da punire.
    Paolo De Stefano conosce bene Nino Imerti, sa quanto possa essere “feroce”. Non sembra preoccupato, però. Il 13 ottobre, due giorni dopo l’autobomba di Villa San Giovanni, De Stefano è in moto, insieme con uno dei suoi più fidati complici, Antonino Pellicanò.

    La vendetta scatta due giorni dopo, con la morte di Paolo De Stefano. Il 13 ottobre, nel rione Archi di Reggio Calabria e cioè nel cuore del suo regno incontrastato, viene ucciso il boss Paolo De Stefano insieme al quale cade il suo fido picciotto Antonino Pellicanò. I due (entrambi latitanti: Pellicanò era colpito da ordine di cattura per omicidio volontario) viaggiavano a bordo di una moto Honda Cross, intestata a Bruno Saraceno, noto agli organi di polizia come bene inserito nel clan De Stefano e più volte segnalato quale autista di Orazio De Stefano (il quarto dei fratelli De Stefano) nel periodo della latitanza di questi.

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    Corrado Carnevale

    Una telefonata anonima informa che i responsabili del duplice omicidio sono Pasquale e Domenico Condello, Antonino Imerti, Giuseppe Saraceno e Antonino Rodà, detto Nuccio. La magistratura reggina li individua e li condanna all’ergastolo in Corte d’Appello, per quel duplice omicidio. Ma Corrado Carnevale cancella tutto con un colpo di spugna, in Corte di Cassazione.

    Gli ultimi 30 anni di Nino Imerti

    Nino Imerti ha oggi 76 anni. In varie tranche, ne ha trascorsi più della metà in carcere. L’autobomba di via Riviera, peraltro, non è l’unico attentato cui sfugge il “Nano feroce”. Meno di un anno dopo rispetto all’inizio della guerra, Imerti scampa a un altro tentativo di ucciderlo. È il 7 luglio del 1986. Da quel momento si dà alla latitanza.

    Viene arrestato diversi anni dopo, circa trent’anni fa esatti: il 23 marzo 1993, insieme a Pasquale Condello, il “Supremo”. Negli anni, sul suo conto arriveranno diverse condanne: all’ergastolo per omicidio e quindici anni di reclusione per associazione mafiosa.

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    Nino Imerti dopo l’uscita dal carcere

    Poco meno di trent’anni in carcere, di cui quasi dieci in regime di carcere duro, disposto dal Ministero della Giustizia, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, il 27 marzo 2012. Ma non ha mai scelto la via della collaborazione con la giustizia. Il 28 luglio 2021 è stato scarcerato dopo 28 anni dietro le sbarre e sottoposto al regime di libertà vigilata.

  • Lorenzo Calogero, il poeta della solitudine

    Lorenzo Calogero, il poeta della solitudine

    Oltre la morte non si può andare.
    Non si dorme, non si ama.
    Si riposa infinitamente.

    Il riposo infinito che giunge soltanto dopo la fine. Sì, perché la vita dell’autore di questi versi fu tutt’altro che serena e sgombra di affanni. Afflitto dall’angoscia di vivere, Lorenzo Calogero fu un poeta solo. E solo un poeta.
    Considerato, post mortem, fra i più alti poeti del Novecento da molti insigni pareri – fra questi anche quello di Carmelo Bene –, Calogero è tuttora poco conosciuto nella sua terra di origine, la Calabria, sempre molto incline a sostenere la liceità della locuzione latina d’evangelica memoria di Nemo propheta in patria.

    Gli studi e le prime poesie

    Nato il 28 maggio 1910 a Melicuccà, paese dell’entroterra Reggino, a breve distanza da Palmi e dalla Costa Viola, Lorenzo Calogero è il terzo dei sei figli – cinque maschi e una femmina – di Michelangelo Calogero e Maria Giuseppa Cardone. Cattolici, abbienti, possidenti terrieri, i Calogero-Cardone sono una delle famiglie melicucchesi più in vista del tempo.
    Dopo i primi anni di studi – dapprima nel paese natio e poi a Bagnara, presso dei parenti della madre –, nel 1922 Lorenzo Calogero si trasferisce con la famiglia a Reggio Calabria, dove il ragazzo consegue la maturità scientifica, e nel 1929 a Napoli per iscriverlo alla facoltà di Ingegneria della prestigiosa Università Federico II. Si tratta di una breve liaison quella con l’ingegneria, sicché dopo poco lo studente passa alla facoltà di Medicina. L’insicurezza sul percorso accademico da intraprendere lascia intravedere la fragilità caratteriale del poeta fin dalla giovinezza.

    Disinteressato alla politica del periodo, agli inizi degli anni Trenta Lorenzo Calogero comincia a soffrire di un arcano disagio che lo accompagnerà fino al termine dei suoi giorni: patofobie, vale a dire il terrore, spesso confuso con la convinzione, di contrarre o già essere affetto da gravi malattie. Nel caso di Calogero, la tubercolosi e il cancro.
    In quel decennio, comunque, il giovane compone i primi versi. Risalenti al triennio 1933-35 sono le liriche poi raccolte in Poco suono, stampato, nel 1936 e a pagamento, da Centauro, editore che l’anno precedente aveva pubblicato sedici sue poesie riconosciute meritevoli dalla giuria del Premio Poeti di Mussolini.

    Nel ’37 Lorenzo Calogero consegue la laurea in Medicina e ottiene a Siena l’abilitazione alla professione che, dopo nuovi tentennamenti, inizia a esercitare in Calabria: prima nella natia Melicuccà, poi, sempre per parentesi brevi o brevissime, in numerosi paesi come Sellia Marina, Gimigliano, Zagarise, Jacurso e San Pietro Apostolo.

    Lorenzo Calogero, dal primo amore alla Val d’Orcia

    Caduto il fascismo e trovato un abbozzo d’indipendenza economica – seppur le patofobie non accennino a svanire, tanto che nel 1942, preso dallo sconforto, si spara un colpo in petto (parlare di tentativo di suicidio ci pare irriguardoso dell’intelligenza del poeta e del lettore, considerato che il nostro era comunque un medico e un medico sa bene come ammazzarsi e come non ammazzarsi) –, nel 1944 Calogero fa la straordinaria scoperta di un altro aspetto della vita: si innamora e fidanza con una studentessa conosciuta anni prima a Reggio Calabria. Purtroppo, le angosce, l’insoddisfazione cronica e le continue manie di cui soffre il giovane medico – in quel periodo è convinto di aver contratto la rabbia da un cane – inveleniscono il rapporto. La ragazza tenta in tutti i modi di tirare fuori Calogero dalle secche in cui sta scivolando, ma ogni tentativo si rivela vano. La complicata relazione si interrompe già con la fine di quell’anno.campiglia-lorenzo-calogero

    Conclusa la guerra, Lorenzo Calogero riprende a comporre poesie e fa ritorno a Melicuccà. Qui resta per un periodo abbastanza lungo, sino al principio del 1954 quando, dopo aver vinto un concorso, viene nominato medico condotto a Siena e spedito nel paesello collinare di Campiglia d’Orcia. La sua esperienza professionale in Val d’Orcia, però, è sì tanto disastrosa che appena un anno dopo è costretto a lasciare l’incarico. Scrive al fratello Paolo: «Come medico non godo alcuna simpatia da parte della popolazione»; la gente di Campiglia, infatti, aveva fatto presto a non fidarsi e a disertare lo studio di quel dottore così introverso e nevrastenico. Di fatti, l’isolamento in Val d’Orcia ha peggiorato il nervosismo e la suscettibilità del medico-poeta e ha acutizzato un’altra sua dannosa tendenza, quella di abusare di barbiturici e tabacco.

    Nessun sostegno dal mondo letterario

    Lasciatasi alle spalle l’esperienza infausta in terra toscana, Lorenzo Calogero si getta totalmente nella poesia cercando un editore che possa pubblicare i componimenti scritti nel dopoguerra e quella montagna di inediti giovanili che si porta appresso da anni. Dopo il rifiuto ricevuto da Einaudi, nel 1955 è costretto ancora una volta a ricorrere alla stampa a pagamento, in questa occasione presso la casa editrice senese Maia. Le due raccolte portano il titolo di Ma questo… e Parole del tempo.

    Uomo dotato di scarsissimo amor proprio, in vita Lorenzo Calogero non ha avuto – e non ha saputo condurre a sé – il sostegno di alcun esponente del mondo letterario, un universo prevenuto e distratto che non riusciva proprio a trovare le ragioni e il tempo per comprendere quel poetuccio venuto fresco fresco dal Sud più misterioso. L’unica eccezione è costituita da un altro poeta meridionale: si tratta di Leonardo Sinisgalli.

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    Leonardo Sinisgalli

    Lucano di origini – era nato nel 1908 a Montemurro – Sinisgalli è stato il solo a dimostrare amicizia e interesse per Calogero e le sue poesie. I due condividono pure la passione per l’ingegneria e il critico e poeta lucano non si tira indietro quando il collega calabrese gli chiede, durante il loro primo incontro a Roma, di firmare la prefazione per il suo prossimo scritto. È Come in dittici, raccolta di centosettantasei liriche scritte tra il ’54 e il ’56 e edite sempre da Maia.

    Il tentativo di suicidio e il ricovero a Villa Nuccia

    Il 1956 e il 1957 rappresentano due anni decisivi, in senso negativo, per l’esistenza di Calogero. Alla scomparsa della madre, cui era profondamente legato, il poeta tenta il suicidio. L’esaurimento nervoso oramai manifesto a tutti, porta i famigliari alla decisione di ricoverarlo nella clinica per malattie nervose di Villa Nuccia, a Gagliano di Catanzaro. Questo periodo di internamento – durante il quale verga gran parte dei versi che finiranno ne I quaderni di Villa Nuccia, volume postumo, nominato dal poeta melicucchese Canti della morte – non giova affatto alla psiche di Calogero. Imprigionato entro le alte mura della casa di cura, egli si sente tradito dalla famiglia, capisce di non potere più contare su di loro.

    È così che chiede nuovamente aiuto a Leonardo Sinisgalli, sempre più unico legame col mondo fuori da sé, solo faro visibile dalla sua bagnarola in preda alla tempesta.
    Il Poeta ingegnere non gli volta le spalle e il 3 marzo 1957 firma la presentazione di alcune liriche calogeriane pubblicate sulla Fiera letteraria. Nell’estate del medesimo anno giunge la prima e unica gioia letteraria – effimera – dell’autore calabrese con la vittoria del Premio Villa San Giovanni.

    La drammatica premiazione di Villa San Giovanni

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    Premio Villa S Giovanni, Lorenzo Calogero alla destra di Leonida Repaci; dietro di lui Enrico Falqui, Leonardo Sinisgalli, Franco Saccà

    Oramai divorato dai suoi demoni, in un primo momento Calogero non accetta l’invito ed è soltanto grazie all’intervento dell’amico Sinisgalli che decide di presentarsi alla cerimonia. La serata, però, è un colpo allo stomaco per chi vi assiste. Minato nella salute e incapace financo di camminare con fluidità, Lorenzo Calogero viene praticamente trascinato sul palco e ritira senza un sorriso il riconoscimento.
    L’episodio ricalca i contorni della premiazione di Cesare Pavese al Premio Strega 1950, consegnatogli sessantaquattro giorni prima del suicidio nella notte tra il 26 e il 27 agosto.
    “Tornato da Roma, da un pezzo. A Roma, apoteosi. E con questo? Ci siamo. Tutto crolla.” Queste le meste parole dello scrittore langhetto qualche giorno dopo la vittoria.
    «Mi cugghjuniàru». Questa la colorita ma tetra risposta, in dialetto calabrese, di Lorenzo Calogero a un compaesano che gli aveva chiesto come fosse andata al Premio Villa San Giovanni.

    La morte di Lorenzo Calogero

    Morte mi chiama

    col suo peso leggero

    come in un sogno.

    Gli ultimi anni del poeta sono segnati dai continui ricoveri e susseguenti fughe da Villa Nuccia. Abbandonato da tutti, al termine del 1960 si ritira in solitudine nella dimora di Melicuccà riempendo le sue giornate di innumerevoli cuccume di caffè, manate di sigarette e boccette di sonniferi.
    Qui l’inquietudine di una vita cessa, quando il 25 marzo 1961 è trovato morto. Le circostanze del decesso di Lorenzo Calogero non sono state mai chiarite. Con buone probabilità si era tolto la vita da almeno tre giorni con un sovradosaggio di barbiturici, altro episodio che ne paragona la parabola esistenziale a quella di Pavese. Un ultimo punto in comune con lo scrittore de La luna e i falò è il biglietto d’addio che, all’apparenza semplice ma pregno di delirio, arrendevolezza, distacco, apprensione, terrore, Lorenzo Calogero lascia accanto al suo corpo: «Vi prego di non essere sotterrato vivo».lorenzo-calogero-seppellito-vivo

    La poesia

    E quel che mi rimane

    è un poco di turbine lento di ossa

    in questo orribile viavai

    dove è alzato anche

    un palco alla morte.

    Da voracissimo lettore, Lorenzo Calogero accolse nella sua opera, come sostiene Luigi Tassoni ne Il gioco infinito della poesia (Giulio Perrone, 2021), “detriti, tessere, parole chiave, scie ritmiche” di tutti gli autori letti, rimodellati perché potessero aderire con coerenza alla sua poesia, ché questa non ne uscisse come una scialba parodia. Come abbiamo visto, però, i suoi versi ostinatamente tormentosi, scevri di speranza con cui consolarsi, anche antistorici rispetto alla poesia del tempo, non trovarono né lettori né editori interessati a pubblicarli.
    Il poeta morì in quell’alba di primavera del ’61, ma la sua poesia risorse, o, per meglio dire, sorse, facendo vedere quanto essa sia inconsumabile, prendendo in prestito le parole di Pier Paolo Pasolini.

    Estate ’62: Lorenzo Calogero diventa un caso letterario

    La diffidenza verso l’opera di Lorenzo Calogero crolla dopo la morte, come sovente accade e come era accaduto poche stagioni prima a un altro gigante della letteratura italiana del Novecento: Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Nell’estate del ’62 non si parla di altro che di quel poeta calabrese morto poco più di un anno prima in circostanze tragiche. Ne scrivono nomi illustri della cultura: Eugenio Montale, Giorgio Caproni, Alberto Bevilacqua, Mario Luzi, Leonida Repaci, Sharo Gambino, Carlo Bo, Franco Antonicelli. Addirittura Giuseppe Ungaretti si lascia andare a una frase divenuta celebre: «Questo Lorenzo Calogero ci ha diminuiti tutti».

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    Giuseppe Ungaretti

    Il nome di Calogero compare su tutte le testate nazionali, La Stampa consiglia i suoi libri tra quelli da portare sotto l’ombrellone, qualcuno avanza paragoni con i Poètes maudits. L’ultimo poeta dell’ermetismo, il nuovo Rimbaud, l’ultimo dei poeti maledetti. I titoloni si sprecano. Poi, passata l’ondata emotiva e modaiola, sul nome di Lorenzo Calogero cala di nuovo il silenzio.

    Nel 1966 l’editore Lerici, che aveva pubblicato in due volumi le Opere Poetiche di Calogero e che aveva in cantiere una terza pubblicazione, chiude l’attività lasciando inedita un’altissima catasta di manoscritti.

    Gli inediti all’Unical

    In centinaia, infatti, sono i quaderni zeppi di poesie del melicucchese oggi conservati all’Università della Calabria – dipartimento di Studi Umanistici, laboratorio Archivi letterari novecenteschi – in pazientissima attesa che qualche anima volenterosa decida finalmente di pubblicarli.
    Di e su Lorenzo Calogero, poeta consumato dal suo mal di vivere e dimenticato dal mondo culturale italiano, possiamo leggere:

    • Opere Poetiche I, a cura di Roberto Lerici e Giuseppe Tedeschi (Lerici, 1962);
    • Opere Poetiche II, a cura di Roberto Lerici e Giuseppe Tedeschi (Lerici, 1966);
    • Poesie, a cura di Luigi Tassoni (Rubbettino, 1986);
    • Lorenzo Calogero, di Giuseppe Tedeschi (Parallelo 38, 1996);
    • Itinerario poetico di Lorenzo Calogero, di Giuseppe Antonio Martino (Qualecultura/Jaca Book, 2003);
    • Parole del tempo, di Lorenzo Calogero a cura di Mario Sechi con una introduzione di Vito Teti (Donzelli, 2010);
    • Avaro nel tuo pensiero, di Lorenzo Calogero a cura di Mario Sechi e Caterina Verbaro (Donzelli, 2014).

    Melicuccà oggi ricorda il suo insigne figlio con una via e un monumento, sito lungo la principale via Roma, dell’artista scillese Carmine Pirrotta. L’opera (datata 1966) è stata finanziata con fondi degli emigrati d’Australia e commissionata dal Circolo culturale Lorenzo Calogero.

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    Melicuccà, il monumento a Lorenzo Calogero (foto Antonio Pagliuso)

     

     

  • Ma il nuovo Pd targato Schlein su Reggio non ha nulla da dire?

    Ma il nuovo Pd targato Schlein su Reggio non ha nulla da dire?

    Anche se si continua a definirle “del PD”, le primarie svoltesi quasi due settimane addietro sono state, per fortuna e per scelta lungimirante e azzeccata, “del Centrosinistra”. Senza trattino.
    Per chi ha a cuore le sorti della parte progressista dello schieramento politico italiano, e non i propri interessi personali o della “ditta”, tale modalità di partecipazione all’elezione del vertice del PD è l’unica capace di assicurare il più ampio coinvolgimento del popolo della Sinistra, con vantaggi immediati e di prospettiva per essa e per la democrazia italiana. Per la democrazia italiana per una ragione oggettiva, certificata dai numeri.

    La Sinistra degli enunciati

    Tante le ipotesi in questi anni per spiegare l’astensione crescente che ha caratterizzato le elezioni nel nostro Paese. Tra queste, la disillusione degli elettori di Sinistra, allontanatisi legittimamente dalle urne perché orfani politici di un soggetto che portasse avanti le battaglie ideali del progressismo, schiava com’è del neo liberismo figlio dei vari Blair, Clinton, D’Alema, e via dicendo.

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    Tony Blair, Fernando Cardoso, Massimo D’Alema, Bill Clinton, Lionel Jospin e Gerhard Schroeder

    Ampliamento dei diritti civili e sociali; contrasto alle diseguaglianze; tutela dei titolari di nuove forme di lavoro, e non solo di occupati nei settori tradizionali; redistribuzione della ricchezza prodotta; lotta alla disoccupazione; garanzie sulla qualità e l’estensione dei servizi pubblici. Su questi temi, e su tanti altri, i progressisti (sulla carta) si sono limitati agli enunciati. O, peggio ancora, hanno agito in continuità con le forze conservatrici e liberiste.

    Per la prima categoria possiamo citare, ad esempio, la questione dello Ius soli: nel momento decisivo, abbiamo assistito ad una ritirata indecorosa ed incomprensibile. Per la seconda l’infausta decisione sull’articolo 18. E va bene che a compierla fu il partito di Renzi, ma altrettanto vero è che non si registrò quella sommossa che sarebbe stato lecito attendersi, se non da parte di alcuni.

    La sorpresa Schlein

    Le primarie aperte, e il fatto che si siano mosse verso i seggi un milione e centomila persone, sono gli elementi che hanno generato il benefico stravolgimento dell’elezione di Elly Schlein. Importante in sé, per la piattaforma schiettamente di Sinistra sulla quale ella ha basato la sua campagna, ma non solo. La sua vittoria, se Schlein manterrà il profilo che l’ha sempre contraddistinta, riporterà a casa e alle urne gli orfani politici di cui sopra.

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    Elly Schlein festeggia la vittoria alle primarie

    Lo dimostrano i sondaggi e, ancora di più, l’impennata di iscritti al PD, determinata dalla speranza che esso trovi una sua precisa identità e intraprenda un cammino che sia in sintonia con un soggetto di centrosinistra alternativo rispetto alle politiche liberiste. Sono trascorse appena due settimane dall’exploit di Schlein, e perciò non è certo tempo di bilanci. Tuttavia, i segnali positivi non sono mancati. Sia quelli indirizzati all’interno dello schieramento progressista, sia quelli con destinatario il Governo.

    La destra fa la destra (italiana)

    A proposito del Governo, una considerazione è necessaria. Esso è un esecutivo di destra, che si muove e agisce come un esecutivo di destra. E di una destra con una precisa identità e una matrice ben identificabile. Non è la CDU tedesca, e Meloni non è Merkel. Storie personali e politiche diverse; riferimenti culturali e politici sideralmente distanti: radici nella destra fascista italiana per Meloni; nel centrodestra tedesco, che ha fatto da quasi 80 anni i conti col passato della Germania e non è mai sceso a patti con l’estrema destra, per la Merkel.

    Mi stupisce lo stupore – ipocrita e finto in certi casi – col quale vengono accolti scelte, posture, atteggiamenti della destra al governo. Non esclusivi di Meloni, beninteso; gli altri partiti della maggioranza non hanno nulla di diverso dai fratelli e dalle sorelle d’Italia. Anzi, forse sono gli esponenti del partito di maggioranza relativa e la loro condottiera a sforzarsi, con scarsi risultati, nel non apparire eredi diretti di una dottrina che ha sconquassato l’Italia, l’Europa, l’intero pianeta.

    Le prime mosse? Niente questione morale

    Ma torniamo a Schlein e al nuovo corso del Partito democratico. La segretaria del PD ha preso posizione sui più importanti temi sul tappeto, compreso quello scottante, decisivo e divisivo della guerra in Ucraina. Ella ha evitato la prassi di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Rifuggendo meritevolmente il vago, si è detta favorevole a proseguire con l’appoggio al Paese aggredito, coerentemente col suo voto in Parlamento. D’altro canto, ha tenuto a segnalare la necessità di uno sforzo diplomatico dell’Unione europea per trovare una via d’uscita a un conflitto che rischia di sfociare in un’escalation micidiale e globale.

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    Palazzo San Giorgio, il municipio di Reggio Calabria

    Ma la nuova segretaria del PD non ha toccato un tema che ci riporta alle vicende calabresi e reggine in particolare. Si tratta della questione morale, sulla quale vi è a mio avviso l’esigenza di un forte segnale di discontinuità. Il Comune di Reggio versa da tempo in una condizione di minorità dal punto di vista amministrativo e politico, con il sindaco – del Comune e della Città metropolitana – e diversi esponenti della Giunta e della maggioranza sospesi in applicazione della legge Severino. In più, un consigliere, ex capogruppo del PD, è il principale accusato perché avrebbe imbastito un sistema di brogli nelle elezioni comunali nelle quali è stato eletto lo stesso sindaco Giuseppe Falcomatà.

    Falcomatà e il caso Miramare

    Tornando a quest’ultimo, qualche giorno fa sono state depositate le motivazioni della sentenza d’appello che ha riformato quella di primo grado portando la condanna da un anno e quattro mesi a un anno per il processo “Miramare”. Sono stati condannati invece a sei mesi gli assessori, la segretaria comunale, la dirigente del settore interessato e l’imprenditore. Nelle motivazioni, Falcomatà è individuato come «vero regista della vicenda». I giudici lo evincono dai messaggi Whatsapp scambiati tra i membri di Giunta in prossimità della seduta dell’esecutivo: essi documentano in modo pregnante il suo interesse personale all’esito della pratica, percepito dagli assessori come “un suo desiderio” da assecondare.

    Il collegio giudicante ha rilevato che questi e altri contatti «documentano senza possibilità di equivoci le tensioni e le accese discussioni che hanno accompagnato e seguito la trattazione della pratica Miramare prima ancora della riformulazione del testo definitivo, evidente frutto di una soluzione di compromesso nell’intento di tutti di assecondare i desiderata del sindaco. Le richiamate emergenze concorrono senz’altro a dimostrare l’interesse personale perseguito dal Falcomatà con la delibera in oggetto, che ciascun imputato, ognuno nel proprio ruolo, ha concorso a realizzare».

    Giuseppe Falcomatà

    Secondo i giudici d’appello, alla fine, si configura la commissione del reato d’abuso d’ufficio per «l’affidamento in via diretta dell’uso dei locali di un prestigioso immobile comunale, per svolgere eventi finalizzati a valorizzare le risorse culturali, territoriali e turistiche della città ad un’associazione del tutto sconosciuta nel panorama degli enti no profit cittadini, senza la benché minima valutazione comparativa di proposte progettuali di altri soggetti interessati, omettendo il necessario vaglio di congruità tecnico ed economica dell’unica istanza considerata, violando le norme sulle competenze attribuite dall’art. 42 Tuel al Consiglio comunale». Questo, in sintesi, il quadro comportamentale criminoso cristallizzato dal collegio giudicante nelle motivazioni alla sentenza.

    Sciogliere il Consiglio a Reggio Calabria?

    Veniamo al dato politico – amministrativo e, direi, etico e morale. Il Comune di Reggio e la Città metropolitana sono retti da quasi due anni da due supplenti, e da un esponente della destra è venuta la richiesta di scioglimento del Consiglio in applicazione dell’art. 141 del Testo unico sugli Enti locali. A mio avviso, rilevare nella situazione del Comune di Reggio la sussistenza degli elementi contenuti nella norma in questione potrebbe essere solo il frutto di una forzatura, anche in considerazione della gravità della sanzione che ne scaturirebbe. Tuttavia, il ragionamento non si può chiudere a questo punto. Bisogna senz’altro sottolineare la pretestuosità della posizione favorevole allo scioglimento del Consiglio dettata da situazioni passate, determinate dalla destra, ben più gravi di quella che ci occupa.

    La sede della Corte di Cassazione a Roma

    Il ragionamento deve però proseguire passando dal piano giuridico a quello politico, etico e morale. Nel quale entra in scena Elly Schlein e l’auspicato nuovo corso del Partito democratico sotto la sua guida. Dopo le puntuali, precise, gravi motivazioni dei giudici di secondo grado, è possibile ancora fare finta di niente?
    Anche considerando la vischiosità del reato di cui parliamo, e del dibattito aperto sulla sua consistenza giuridica (soprattutto dalla destra, in verità), reato che comporterebbe, ad avviso dei sostenitori della sua abrogazione, la quasi paralisi dell’attività amministrativa per il cosiddetto “terrore della firma”? È ammissibile puntare sulla presunzione di innocenza fino alla pronuncia della Cassazione dopo una simile condanna per fatti giuridicamente acclarati, posto che il giudizio della Suprema Corte non investe i profili fattuali ma quelli di legittimità?

    Il primato (e gli strumenti) della politica

    Ci si lamenta spesso del ruolo di supplenza assunto dall’apparato giurisdizionale rispetto alla politica. Esso si manifesta, tuttavia, proprio quando la politica non interviene con gli strumenti a sua disposizione, anche in presenza di fatti e atti gravi, che contribuiscono ad accrescere la sfiducia dei cittadini nei confronti delle Istituzioni. Che è poi una delle cause della disaffezione e della diserzione dalla politica attiva e dalla sua manifestazione più importante: il voto.

    Per tutti questi motivi, sarebbe opportuno, urgente, un intervento della nuova segretaria del Partito democratico. Per porre fine ad una vicenda che si trascina da troppo tempo e che non ha senso alcuno procrastinare. Per dare un segnale forte di cesura rispetto al passato. Per costruire una proposta politica credibile, per la città di Reggio, in grado di mettere almeno in discussione uno sbocco favorevole alla destra che, alle condizioni attuali, appare ai più scontato.

  • Filoxenìa: nella Calabria dei greci dove lo straniero si sente a casa

    Filoxenìa: nella Calabria dei greci dove lo straniero si sente a casa

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    Filoxenìa è il titolo di un lavoro di ricerca documentale e fotografica sulla Calabria greca curato da Patrizia Giancotti. Antropologa, fotografa, giornalista, autrice e conduttrice radiofonica, che ultimamente ho riscoperto con maggiore attenzione cogliendone aspetti nuovi. Una rilettura attenta, meno veloce, più consapevole mi ha consentito di riprendere i temi principali di un lavoro che l’ha vista impegnata ad approfondire la conoscenza dei nostri luoghi, di cose e persone da leggere nel profondo.

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    Patrizia Giancotti, antropologa e giornalista

    L’amore per il forestiero nella Calabria grecanica

    Filoxenìa, suona bene questo termine greco, con quella sua inflessione morbida e accomodante che vuole significare amore per il forestiero, senso vivo di accoglienza. Sono stati mesi intensi i suoi, vissuti tra Bova e Roccaforte del Greco, passando per Gallicianò e Roghudi nel cuore della grecità calabrese, un tempo valso a partorire un’opera preziosa, ben al di là della già importante cifra stilistica, non fosse altro che per il merito di aver cristallizzato quanto ancora rimane di un piccolo mondo antico offrendo al lettore una chiave interpretativa antropologica e prima ancora umana di una realtà apparentemente semplice ed invece assai complessa, difficilissima da decodificare.

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    Roghudi vecchio

    Il titolo completo di questo lavoro edito da Rubbettino è: Filoxenia, l’accoglienza tra i Greci di Calabria, una ricerca che prende in esame aspetti geografici e culturali attraverso l’analisi di singoli profili, come nel caso di Pasquale, uno dei personaggi certamente più interessanti su cui la Giancotti ha posto la sua lente.

    Il senso omerico

    Pasquale Romeo è un ragazzo di Bova con alle spalle anche una breve ed estemporanea esperienza cinematografica. È importante l’analisi della figura di Pasquale perché incarna l’evoluzione di una terra dove vecchio e nuovo, tradizione e modernità sembrano convivere, dove uomo e natura si amano e si odiano in un continuum scandito dall’alternarsi delle stagioni. Patrizia Giancotti lo descrive così.

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    Pasquale Romeo ha recitato nel film “Anime nere” di Francesco Munzi, tratto dal libro omonimo di Gioacchino Criaco

    «La Calabria greca – dice – è terra di uomini ospitali, nella pienezza del senso omerico. Per mesi ho percorso quei territori, impegnata in una ricerca sul campo dove ho visto medici, professori, fabbri, massaie, suonatori di lira, zampogna e organetto, pastori. Pasquale ad esempio è un giovane di Bova poco più che trentenne, che dopo un’esperienza come attore nel Film Anime Nere di Francesco Munzi (tratto dal romanzo omonimo di Gioacchino Criaco), girato proprio tra Bova ed Africo, è tornato alla sua quotidianità».

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    Lira calabrese (foto Alfonso Bombini)

    Dal red carpet alle salite di Bova

    Le parole della Giancotti evocano il senso del luogo e di chi ci vive: «Il suo stazzo è molto in alto, in verticale lo strapiombo diventa precipizio fiorito che porta al fiume, la vista da capogiro arriva fino al mare.

    Non c’è niente in piano, è difficile persino camminare eppure lo vedo come da un aereo in volo, correre giù dietro le capre col bastone dei padri e i piedi alati. Al red carpet calpestato a Venezia ha continuato a preferire la verticalità di questi scoscendimenti, dove il suono delle capre si fonde con quello della natura risvegliata e dove anche il profumo del vento, il fiume, il lupo, la pietra, il fiore, l’uomo e il mare laggiù sono uniti nella stessa partitura».

    Greci di Calabria

    È una terra bella, affascinante, a tratti misteriosa e ancora arcaica quella dei Greci di Calabria, un caleidoscopio in cui rintracci tante cose, montagne che si tuffano a mare, il grigio quarzo delle pietre che lascia spazio al rosso dei tramonti, ma soprattutto quell’antico idioma unico al mondo, primo riferimento ad una cultura che si perde nei secoli. Il continuo richiamo all’elemento greco lo si ritrova anche nella musica, nelle occasioni corali come i lutti o le feste, nel senso di ospitalità ancora vivo. Mi ha molto colpito il viaggio di Patrizia Giancotti, forse per la necessità di leggere la mia terra da una prospettiva differente. Perché spesso per leggere i luoghi, le persone e gli eventi a te più vicini è necessario osservarli da altre prospettive. Per questo ho sempre creduto nel valore del viaggio che ti libera da vincoli e legami che offuscano una capacità di lettura imparziale.

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    Roccaforte del Greco

    Terra madre

    Filoxenìa regala al forestiero uno spaccato fedele di una realtà che ancora resiste. Regala allo stesso tempo anche ai Greci di Calabria un’occasione di guardarsi allo specchio, una visione altra ed imparziale. È ricco di una straordinaria carica emozionale Filoxenìa che fa cogliere il suo senso più vero forse proprio in quella dicotomia regalata dalla descrizione di Pasquale, dei suoi piedi alati, del bastone dei padri e di quel tappeto rosso che nulla ha potuto dinnanzi al richiamo della terra madre.

    Certo nella scelta più o meno consapevole di Pasquale gioca un ruolo fondamentale la presenza permeante di un corredo genetico ben preciso che spinge al di là del calcolo, della logica, al di là del richiamo di sirene più o meno lontane. In quella scelta, non sappiamo quanto consapevole, ci piace leggere la metafora di un piccolo mondo antico che rimane aggrappato alle rocce della sua montagna, guardando con rispetto ma sempre con bonario distacco un mare oggi forse solo idealmente più vicino.

  • RITRATTI DI SANGUE | Pasquale Condello, il “Supremo” della ‘ndrangheta

    RITRATTI DI SANGUE | Pasquale Condello, il “Supremo” della ‘ndrangheta

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    Una volta, in aula, in un procedimento pubblico, un collaboratore di giustizia ammonì il pubblico ministero che lo interrogava: «Dottore, Pasquale Condello non è chiamato “Il Supremo” a caso» disse, in maniera più o meno letterale. No, nella ‘ndrangheta i soprannomi non sono mai casuali. Ed è la storia criminale a parlare per Condello, uno dei capi più carismatici che la ‘ndrangheta abbia mai avuto.

    Pasquale Condello e l’omicidio di don ‘Ntoni Macrì

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    Giacomo Lauro

    C’era anche lui nel gennaio del 1975, quando finisce la vita terrena e il comando mafioso del boss sidernese, don ‘Ntoni Macrì, esponente della vecchia ‘ndrangheta, che sarà spazzata via, nel corso della prima guerra tra cosche degli anni ’70. È il pentito Giacomo Lauro, nel proprio memoriale a ricostruire gli eventi di quel 20 gennaio 1975: «Macrì aveva appena terminato una partita di bocce presso il campo di Siderno e si accingeva in compagnia di Francesco Commisso inteso “u quagghia“, a far rientro presso la sua abitazione, quando nell’atto di salire sulla vettura di quest’ultimo, una Renault 5, venne affrontato, a viso scoperto, da Pasquale Condello e Giovanni Saraceno, i quali esplosero al suo indirizzo più colpi di pistola, uccidendo Macrì e ferendo gravemente il suo braccio destro, Francesco Commisso».

    Sul posto vennero rinvenuti e repertati 32 bossoli di arma da fuoco corta di vario calibro, appartenenti verosimilmente a quattro armi. Stando al racconto di Lauro, i killer sarebbero giunti sul posto a bordo di un’Alfa Romeo Giulia, rubata a Reggio Calabria, nella zona del tribunale e custodita a Locri dal clan Cataldo. Il gruppo dei killer dopo l’omicidio avrebbe proseguito il proprio viaggio verso Gioiosa Marina trovando rifugio presso il clan Mazzaferro, alleato dei De Stefano.

    La riunione del “Fungo”

    Dettagli che, a dire di Lauro, avrebbe appreso dallo stesso Pasquale Condello durante la comune detenzione presso il carcere di Reggio Calabria: «Condello si abbandonò a questa e ad altre confessioni in quanto indignato per l’ingratitudine della famiglia De Stefano, che gli aveva scatenato contro una guerra nonostante la fedeltà da lui dimostratagli in circostanze significative quali quella dell’omicidio Macrì».

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    Gianfranco “Er pantera” Urbani

    Sì, perché per anni Pasquale Condello è stato uno degli uomini più vicini a Paolo De Stefano. C’era anche lui, nell’aprile del 1975, circa tre mesi dopo l’omicidio Macrì, all’ormai celeberrima riunione romana presso il ristorante “Il Fungo”, del quartiere EUR. Lì ci sono pezzi della banda della Magliana, come Giuseppe Nardi e Gianfranco Urbani, detto “Er Pantera”. Ma anche soggetti di primissimo livello (seppur giovanissimi) all’interno della ‘ndrangheta. Da Paolo De Stefano a Giuseppe Piromalli. E poi lui, Pasquale Condello, che in quel periodo non è ancora “Il Supremo”.

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    Pasquale Condello da giovane, prima di diventare “Il Supremo”

    Le forze dell’ordine si appostano per arrestare il latitante Saverio Mammoliti, che avrebbe dovuto partecipare ad una riunione mafiosa. De Stefano, Piromalli, Condello e Nardi erano giunti su un’autovettura Mercedes e sia Condello che Piromalli si erano allontanati dal luogo di soggiorno obbligato rendendosi irreperibili. Il secondo era in possesso di una banconota da 50.000 lire proveniente dal sequestro di Paul Getty.

    L’alleanza si rompe

    Un rapporto duraturo, che, di fatto, si incrina nei mesi antecedenti a quella che sarà la sanguinosissima seconda guerra di ‘ndrangheta, che lascerà sull’asfalto oltre 700 vittime tra il 1985 e il 1991. In quel periodo, infatti, si celebra il matrimonio fra Giuseppina Condello ed Antonino Imerti. La prima è la sorella di Pasquale Condello, il secondo è il boss di Fiumara di Muro. Ciò determina la nascita di un’alleanza tra queste due famiglie delle quali, in special modo, quella di Imerti era estranea al territorio reggino poiché esercitava la propria egemonia esclusivamente a Villa San Giovanni e dintorni.

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    L’arresto di Antonino “Nano feroce” Imerti dopo l’omicidio di Paolo De Stefano

    Paolo De Stefano avverte subito il pericolo di una simile unione matrimoniale che determina nuove alleanze mafiose e la conseguente crescita del gruppo Condello, il cui capo Pasquale già da tempo rivendicava una maggiore autonomia sui “locali” di Mercatello e di Archi Carmine.

    La seconda guerra di ‘ndrangheta

    Il matrimonio che avvicina le famiglie Condello e Imerti segna uno spartiacque fondamentale. Da quel giorno, il malumore di don Paolino De Stefano cresce in maniera veloce e inesorabile. Il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro racconta che De Stefano affermava che «dopo il matrimonio contratto da Nino Imerti con Giuseppina Condello, i medesimi erano diventati arroganti ed irriguardosi nei suoi confronti». Da quel giorno, infatti, Nino Imerti manifesta un’evidente insofferenza rispetto all’autorità di quello che, fino al momento, è stato il capo incontrastato della ‘ndrangheta reggina, Paolo De Stefano, cominciando a gestire autonomamente taluni affari nel territorio di Villa San Giovanni.

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    Una foto recente di Orazio De Stefano

    La famiglia De Stefano risponde a stretto giro con un altro matrimonio” di prestigio”: Orazio De Stefano, fratello di Paolo, sposa Antonietta Benestare, nipote di Giovanni, Giuseppe e Pasquale Tegano. Le alleanze si fanno a suon di matrimoni, come in una realtà arcaica: e quella con i Tegano non è un’alleanza da poco. La frattura tra i due clan, i De Stefano e gli Imerti, con il passare dei giorni si acuisce, senza possibilità di ricongiungimento. D’altra parte, se la famiglia De Stefano, comandata da don Paolino, è una potenza assoluta, quella degli Imerti non è da meno.

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    Giovanni Tegano

    La guerra è quindi alle porte. A contrapporsi, lo schieramento che faceva capo ai De Stefano-Tegano, da un lato e i Condello-Imerti, dall’altro. Sono proprio quelli gli anni in cui Pasquale Condello si guadagna l’appellativo di “Supremo”. A ciò, evidentemente, contribuisce il fatto che, per decenni, rimane uno dei boss liberi e latitanti. Tutto questo crea attorno a lui un’aura di mistero e di invincibilità anche negli anni della pax mafiosa.

    Pasquale Condello, il “Supremo” della ‘ndrangheta

    In quegli anni, Condello diventa il “Supremo”. Ordina omicidi, anche omicidi “eccellenti” e rocamboleschi. Su tutti, quello del figlio naturale di don Mico Libri, Pasquale, alleato dei De Stefano. Il 19 settembre 1988, Pasquale Libri viene ucciso con un colpo di fucile di precisione all’interno del carcere di Reggio Calabria. I sicari si appostano sul terrazzo di uno stabile in costruzione, in un luogo che si affaccia sul cortile del penitenziario. La vittima viene raggiunta in pieno viso, esattamente all’altezza della narice sinistra, da un proiettile, non appena discesi i gradini d’ingresso al cortile esterno.

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    Pasquale “Il Supremo” Condello in una immagine di qualche anno fa

    Le indagini riconducono immediatamente la causale dell’omicidio alla guerra di mafia all’epoca in corso tra le cosche reggine. Autore del delitto, su ordine proprio del “Supremo”, sarebbe stato Giuseppe Lombardo (poi divenuto collaboratore di giustizia), detto “Cavallino” per l’attitudine sinistra di inseguire e finire le proprie vittime. O quello dell’ex presidente delle Ferrovie, il politico democristiano Lodovico Ligato, da sempre ritenuto vicino alla cosca De Stefano, freddato sull’ingresso della propria residenza estiva a Bocale, località balneare alle porte di Reggio Calabria. Al termine di un complesso iter giudiziario verranno condannati Pasquale Condello, “il Supremo”, Santo Araniti e Paolo Serraino come mandanti, mentre Giuseppe Lombardo, “Cavallino”, verrà ritenuto uno degli esecutori materiali dell’agguato.

    https://www.youtube.com/watch?v=AEMy9oT9_kQ

    L’incontro con Totò Riina

    La guerra di ‘ndrangheta termina nel 1991, dopo l’omicidio del sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Antonino Scopelliti, che avrebbe dovuto sostenere l’accusa nell’atto finale del maxiprocesso a Cosa Nostra istruito da Giovanni Falcone. Un omicidio che avrebbe commissionato la mafia in combutta con la ‘ndrangheta, offrendo in cambio il ruolo di garante per la pax mafiosa dopo anni di morti e violenze per le strade di Reggio Calabria e della sua provincia.

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    Giuseppe “Tiradritto” Morabito da giovane

    E appartiene al mito il presunto incontro che Totò Riina avrebbe avuto con i boss calabresi, tra cui, appunto, “Il Supremo”. Per decidere l’esecuzione del giudice Scopelliti si sarebbero scomodati personaggi di livello criminale immenso. Totò Riina, che peraltro in Calabria era già stato, ad Africo, ospite del “Tiradritto” Giuseppe Morabito, avrebbe raggiunto in motoscafo il boss Pasquale Condello per affrontare l’argomento dell’eliminazione del magistrato

    La cattura di Pasquale Condello, “il Supremo”

    Tra leggenda e realtà, è lunga l’epopea criminale di Pasquale Condello. Una carriera di sangue nata praticamente da minorenne, che si conclude il 18 febbraio del 2008, allorquando il Ros dei Carabinieri lo scova in un appartamento nella zona di Pellaro, periferia sud di Reggio Calabria. Non un dettaglio di poco conto, dato che, dopo la pax mafiosa, vi sarà sempre maggiore avvicinamento di cosche in precedenza storicamente contrapposte e ad una fattiva alleanza tra di esse. Proprio grazie alle nuove regole sancite dalla pace tra cosche.

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    Don Mico Libri

    Non è un caso, che il “Supremo” venga scovato nel territorio di Pellaro, storicamente sottoposto al controllo mafioso dello schieramento opposto destefaniano. Sarebbe stato Mico Libri, potente boss oggi defunto, a dettare le regole propedeutiche alla pace, che richiedono una previa approvazione di ogni possibile azione delittuosa eclatante.  In nome degli affari. Perché, abbandonate (solo metaforicamente) le armi, Condello ha nei decenni di latitanza allacciato rapporti inconfessabili, con il mondo dell’imprenditoria e della politica.

  • Sesso malato: l’allarme c’è, ma non si dice

    Sesso malato: l’allarme c’è, ma non si dice

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    Nel 2017, il 56° Congresso nazionale dell’Associazione Dermatologi Ospedalieri lanciava l’allarme sull’aumento delle infezioni sessualmente trasmesse (MST): HIV, sifilide, gonorrea, condilomi, patologie funginee, ecc. Dal 2000 in Italia la sifilide è aumentata del 400%. Il notiziario dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) sull’aggiornamento delle nuove diagnosi da HIV e AIDS al 31 dicembre 2021 segnala una costante diminuzione delle infezioni dal 2012.

    Tuttavia, pur se su base nazionale, alcuni dati fanno riflettere: dal 2015 aumentano le persone cui viene diagnosticata tardivamente l’infezione HIV e nel 2021 più di 1/3 delle persone affette scopre di esserlo per la presenza di sintomi o patologie correlate, a fronte di un aumento della proporzione di malati di AIDS che lo apprende nei pochi mesi prima del suo sviluppo. In questo contesto la Calabria è virtuosa: è tra le ultime in Italia per contagi e infezioni, ma una di quelle che esporta di più in termini assistenziali (il 25% dei casi).

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    La sede dell’ISS

    Parlare oggi di MST, dopo due anni di pandemia in cui screening ed attenzioni sanitarie sono state tutte rivolte al Covid, è più complicato. Lo confermano sia l’ISS, sia i medici ascoltati. Si può affermare che, almeno per quanto riguarda HIV, dopo il ventennio ‘80 e ‘90 e la lotta all’epidemia di AIDS, i contagi si sono abbattuti tanto da far destinare i fondi della comunicazione sociale ad altre problematiche come l’obesità. Eppure, sia a livello nazionale che locale, le ricerche raccontano di un’attenzione calata: di MST si parla pochissimo. Non esistono campagne di prevenzione, non si fa comunicazione. Ciò ha fatto in modo che le diagnosi siano nella maggior parte dei casi tardive e sottoporsi ai test tutto meno che un’abitudine.

    HIV e sifilide: il caso della città dello stretto

    Reggio Calabria è un caso esemplare. Al reparto di Malattie infettive del Grande Ospedale Metropolitano dicono che nel biennio tra il 2018 e il 2019 hanno registrato un’impennata di infezioni di HIV e sifilide specie nei giovani dai 25 anni in su. Pur trattandosi spesso di pazienti omo-bisessuali, l’incidenza degli etero è aumentata. Una recente pubblicazione di Microbiologia dello stesso presidio, che indaga l’andamento delle infezioni da sifilide nel periodo pre-pandemico e pandemico da COVID-19, certifica un andamento costante delle infezioni, già aumentate nel biennio precedente. La ricerca mostra anche che, nella stragrande maggioranza dei casi, il test è stato fatto in strutture private e il trattamento terapeutico effettuato con un passaggio a livello ambulatoriale, ospedaliero. Chi mastica l’argomento, conosce le relazioni che sussistono tra sifilide e HIV: la prima, soprannominata anche “autostrada per HIV”, tende ad aprire una breccia nel sistema immunitario e a rendere più facile il contagio.

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    Il GOM di Reggio Calabria

    A dare uno spaccato della situazione è il dottor Alfredo Kunkar: «A fronte di una maggiore libertà di costumi sessuali, l’affermarsi di una maggiore promiscuità vissuta con troppa leggerezza rappresenta la prima causa di questa situazione. Unendo a ciò l’assenza di una cultura della prevenzione, il quadro è chiaro. Se è vero che la sifilide fino a qualche anno fa sembrava superata, il suo ritorno, anche in fasce della popolazione non costituite da categorie fragili (tossicodipendenti, prostitute, ecc.), ma dai cosiddetti “insospettabili”, abbinata ad una maggiore incidenza dell’HIV, dovrebbe aprire una riflessione sul tema, soprattutto tra i più giovani. Il fatto che ci sia poco dibattito e poca prevenzione, che a scuola non si parli di educazione sessuale, ha creato una percezione erronea di ciò che implica averci a che fare e su come affrontare terapie contro le infezioni sessuali».

    Consultori solo a Catanzaro e Cosenza

    Il medico chiarisce ulteriormente la situazione: «Tra i ragazzi si è radicata la convinzione, ad esempio, che di AIDS non muoia più e che le infezioni HIV siano curabili. La medicina ha fatto passi da gigante dalla grande emergenza degli anni ‘80, ma ricordiamoci che la severità di una patologia dipende dalla condizioni dei singoli e dal fatto che la diagnosi venga effettuata ad uno stadio già avanzato dell’infezione, ovvero che l’HIV sia degenerato in AIDS. Altro elemento importante: quando entrano in terapia, molti non hanno ben chiaro che si tratta di un trattamento a vita. Sono convinti che sia transitorio, ma così non è. Quando scoprono la verità hanno contraccolpi psicologici rilevanti che, in caso di richieste dei pazienti, affrontiamo appoggiandoci al reparto di psichiatria dell’ospedale. La paura più grande dei pazienti è legata allo stigma, specie in ambito professionale».

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    L’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria

    Per la provincia di Reggio, inoltre, a differenza che per Catanzaro e Cosenza, non esistono consultori territoriali che si occupino di MST. Secondo Santo Caridi, direttore sanitario dell’ASP di Reggio, il problema riguarda due aspetti: la scarsità di fondi e la mancanza di programmazione.

    Papilloma, una buona notizia c’è

    Secondo la dottoressa Francesca Liotta, direttrice sanitaria di Polistena, i dati disponibili sono solo una faccia della questione: «Temo si tratti di dati parziali. Credo che il sommerso sia molto più cospicuo. Nel nostro ospedale non abbiamo registrato casi negli ultimi due anni, ma sappiamo per certo che la popolazione non è abituata a fare screening regolari. Le analisi per infezioni sessuali che effettuiamo sono prevalentemente fatte post ricovero per altre patologie e vengono richieste dai reparti intensivi. Capita che ci siano pazienti che arrivano lamentando alcune sintomatologie e che però si rifiutino di approfondire le indagini, anche in caso di sospetto HIV.

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    Un vaccino contro il papilloma virus

    L’arrivo del coronavirus, poi, ha avuto il suo peso. Aggiunge Liotta: « Non scordiamoci che il Covid ha cambiato l’ordine delle priorità. L’emergenza pandemica ha fatto sì che l’attenzione verso altre criticità diminuisse anche nella percezione della popolazione. Le faccio un esempio: nel mio presidio ci siamo resi conto che c’è una grossa incidenza da infezioni funginee. Siamo invece a buon punto con la campagna di vaccinazione contro il Papilloma Virus, l’HPV». Rispetto al Papilloma anche nel presidio di Locri e a Reggio la copertura vaccinale è alta. È una buona notizia, perché l’HPV può aprire la strada ad ulteriori infezioni sessuali.

    Cultura e prevenzione

    Tutti concordano nel sottolineare un’assoluta mancanza di informazione e di cultura della prevenzione. «Compresa una mancanza di compliance – dice Cosimo Infusini, patologo e responsabile del settore Microbiologia clinica dell’ospedale di Polistena – con i medici di famiglia». Servirebbero due elementi fondamentali: budget da investire e sinergie da sviluppare. Per il primo aspetto, sia a livello ministeriale che di presidi locali, le coperture mancano. Quanto al secondo, investire a scuola, fin da quando la popolazione diventa sessualmente attiva, abbatterebbe la soglia di rischio, creando più consapevolezza e un impatto economico e sociale meno violento. Liotta batte molto su questo punto: «Oltre alle famiglie e alle scuole deve migliorare l’impegno di tutto il tessuto associativo dei territori. Una maggiore sensibilità e attenzione aiuterebbero molto. È un tema che riguarda in generale la saluta pubblica».

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    Farmaci utilizzati nelle terapie antiretrovirali

    Il problema di una scarsa cultura sanitaria, riguarda anche la PrEP, la terapia pre-esposizione a base di farmaci antiretrovirali che scherma dall’HIV in caso di rapporti occasionali non protetti. Se in alcune Regioni (Toscana ed Emilia Romagna) la PrEP è a carico dei sistemi sanitari regionali senza costi per gli utenti, la Calabria non la prevede. È sì disponibile nelle farmacie, ma sotto prescrizione medica e a pagamento. Anche di questo si parla troppo poco, perché è vero che la PrEP difende da infezioni HIV ma non dal resto. Elemento non sempre chiaro: Uutilizzare la PrEP non protegge da tutto, elemento spesso ignorato. E il suo uso continuativo può portare a disfunzioni renali. I farmaci utilizzati sono gli stessi dati in terapia ai sieropositivi, ma con un dosaggio più blando. Questo significa che, se hai rapporti non protetti, puoi evitare l’HIV, ma sei esposto a tutto il resto», chiarisce Kunkar.

    PrEP e post-esposizione: rafforzare il counseling infettivologico

    Secondo l’infettivologo Carmelo Mangano, esperto in HIV, «dovrebbe essere ampliata la possibilità di offrire la profilassi pre-esposizione o quella post-esposizione dopo un rapporto a rischio, accompagnandole con un counseling infettivologico per l’utilizzo dei chemioterapici antiretrovirali. Servirebbe non solo un facile accesso al servizio di diagnosi ma anche un facile accesso territoriale di cura, al netto dell’offerta ospedaliera che andrebbe riservata agli acuti critici, offrendo un servizio di qualità e di utilità pubblica».

    «Sul nostro territorio prosegue Mangano – ci sono gli attori qualificati ed esperti in Prevenzione, si tratta di comprendere in termini di politica sanitaria il problema relativo alla necessità di profilassi delle MST creando anche un ambulatorio di riferimento, oltre al laboratorio diagnostico dell’ASP Polo Nord di Reggio. Assieme a campagne di sensibilizzazione sull’uso dei contraccettivi per ogni tipo di rapporto si potrebbero ridimensionare le spese e offrire un servizio migliore per gli utenti che, sempre più frequentemente, chiedono prestazioni sanitaria specifiche per le MST».

    La testimonianza: vivere con l’HIV tra stigma e pregiudizi

    «Sono sieropositivo da gennaio 2016, o per lo meno è quando l’ho scoperto. Sono andato a fare gli esami perché, avendo notato strani sintomi fisici, come mal di gola, rush cutanei, ingrossamento dei linfonodi, ho cercato informazioni su forum dedicati e da lì ho iniziato a prendere consapevolezza. A mia memoria non avevo avuto comportamenti sessuali a rischio, ma può essere che fossi già infetto. Nel 2007, 11 anni prima, infatti mi era stata diagnosticata la sifilide. Non avevo mai pensato prima di fare il test. Non sono andato in ospedale, ma in una struttura privata territoriale. Successivamente ho rifatto le analisi in ospedale e ho iniziato la terapia. Sono stato fortunato perché non sono mai sceso sotto gli 800 CD4/ml, che sono le sentinelle della solidità del sistema immunitario. Un sieronegativo ne ha una soglia base di 1000.

    Sono entrato in terapia a meta febbraio 2016. L’impatto è stato terribile. Prima di prendere la prima pillola ho pianto a lungo: ero consapevole che la mia vita sarebbe cambiata. Il primo anno è stato duro perché ero spaventato, ma ho iniziato a studiare e informarmi su Hivforum.info, la piattaforma più aggiornata dal punto di vista della ricerca e delle testimonianze. Mi è servito tempo per metabolizzare. L’ospedale di Reggio non mette a disposizione un’equipe di supporto psicologico per chi fa questo accesso. È vero che Malattie Infettive collabora con Psichiatria ove necessario, ma ne faccio una questione di metodo: non è il paziente a dover chiedere il supporto, ma la struttura a dover fornire fin da subito il supporto psicologico. Dal confronto con pazienti che si curano altrove so che in altri contesti, come Milano, Firenze, Roma, le cose funzionano diversamente.

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    Ho passato momenti di paura, ma per vincerla bisogna informarsi. Studiare e capire aiuta anche la propria postura psicologica. L’HIV non è una malattia, ma un’infezione cronica che può trasformarsi in patologia se non viene trattata. Sono arrivato a pensare che è meglio l’HIV che un cancro al pancreas. Ad oggi la terapia ti consente una vita normale, anche di avere figli senza mettere in pericolo la loro salute o quella della madre. Certo, vivo in terapia vita natural durante, ma ho la stessa aspettativa di vita dei sieronegativi. Ho conosciuto persone la cui diagnosi era arrivata mentre avevano un livello di CD4 di 4/ml, il che significa sistema immunitario distrutto. Con un mese di trattamento sono tornate a livelli quasi normali.

    Ad oggi nessuno sa di me, tranne la mia famiglia, perché lo stigma è ancora alto: l’ignoranza instilla pregiudizio. Manca parlare di MST, di contraccezione, di prevenzione. La mia famiglia ha reagito bene, anche se il colpo è stato duro. Io mi controllo costantemente e loro sono sempre informati sulle mie condizioni. Ho deciso di non dirlo alla mia ragazza. La mia carica viremica è pari a zero e non ho obblighi giuridici. Potrebbe insorgere un obbligo morale, ma è un tema che andrà affrontato quando e se decideremo di costruire un percorso di vita comune.

    Di certo c’è che in tutti questi anni mi sono state fatte solo una TAC e una risonanza magnetica: il problema della sanità di seria A e di serie B esiste. Le persone sieropositive come me che vivono in contesti più ricchi hanno altri tipi di servizi, a partire dal fatto che hanno praticamente il loro infettivologo personale. Una cosa che qui a Reggio non ho mai visto, forse anche per una organizzazione del reparto che potrebbe essere migliore.
    Bisogna fare educazione sessuale, parlare, diffondere cultura. Ricordiamoci una cosa: i sieropositivi monitorati non mettono in pericolo nessuno. Non c’è motivo di avere paura. È ora di sradicare questo stigma».

  • Vincenzo Morello, il giornalista senatore

    Vincenzo Morello, il giornalista senatore

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    Nella Bagnara del 1860, splendida come poteva essere allora, nasce Vincenzo Morello, unico maschio in una ricca famiglia di commercianti. Rampollo baciato già solo per questo dalla fortuna, non evita tuttavia gli studi. Finisce così dapprima al Collegio Donati di Messina, poi – percorso classico per quei tempi – a Napoli per laurearsi in Giurisprudenza. In verità, però, a Morello – avvocato tanto a Napoli quanto in Calabria – il diritto interessa ben poco, mentre è molto più attratto dal giornalismo.

    Rastignac, D’Annunzio e signora

    Nel 1881 fonda a Pisa la rivista Il Marchese Colombi e nel 1887 diventa collaboratore fisso del quotidiano La Tribuna. È tra queste colonne che incomincia ad utilizzare lo pseudonimo Rastignac, ispirato all’Eugène de Rastignac ideato dalla penna di Balzac.
    Lo definiscono «articolista principe del giornalismo italiano» e il suo nome comincia a svettare: è amico di Gabriele D’Annunzio e con lui condivide un profondo scetticismo nei riguardi della politica giolittiana e del parlamentarismo, inteso come «grande scuola di delinquenza nazionale». A dire il vero, con D’Annunzio condivide anche altro, ovvero l’amore per la stessa donna: quella Maria Hardouin di Gallese, moglie del Vate, la quale si toglierà la vita nel 1890.

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    Maria Hardouin di Gallese, moglie di D’Annunzio e amante di Morello

    Vincenzo Morello e il giornalismo

    Morello si lancia totalmente nel giornalismo e diventa redattore del Piccolo, su invito del direttore Rocco de Zerbi, dove intraprende una polemica contro il repubblicano Giovanni Bovio. È così feroce da procurargli in realtà una collaborazione ancora più prestigiosa, ovvero quella con Il Corriere di Roma, guidato all’epoca dalla vulcanica coppia Matilde SeraoEdoardo Scarfoglio, che di Morello fu in qualche modo il mentore.
    Sulle orme della vecchia Tribuna, nel 1890 fonda – assieme a Giulio Aristide Sartorio – la più celebre e popolare Tribuna Illustrata, il primo periodico illustrato italiano.
    Infine, nel 1894 (stesso anno in cui pubblica il volume Politica e bancarotta) fonda Il Giornale, assieme a Bobbi e Bellodi, posizionandolo politicamente intorno alle figure di Zanardelli e Crispi.

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    Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao

    Trombato alle elezioni

    Allora come oggi, raggiunte le vette del giornalismo niente è più semplice che fare anche politica. Nel 1895 Morello si candida alle elezioni per la XIX legislatura nel collegio di Bagnara, ma lo sconfigge il notabile locale Antonino De Leo. Questi – dicono le biografie – «alla forza delle idee aveva anteposto il potere del denaro. Morello ottenne 950 voti contro i 1420 di De Leo: accusato di essersi venduto all’avversario, uscì dalla vicenda profondamente amareggiato e, dall’indignazione provata nei confronti dei suoi concittadini, ebbe origine il vulnus che scavò una distanza insanabile con la sua città natale».

    L’Ora… di tornare al Sud

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    Torna dunque al giornalismo, pur continuando a sostenere Crispi e a opporre Giolitti. Stavolta nelle vesti di primo direttore del nuovo quotidiano palermitano L’Ora, che si presenta come giornale di opposizione al regime autoritario del generale Pelloux. A chiamarlo per tale ruolo, nel 1900, è l’industriale Ignazio Florio in persona. Qui Morello fa confluire le più note penne del giornalismo italiano e riesce a far diventare L’Ora un giornale moderno, capace di competere con i più grandi quotidiani nazionali.

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    Ignazio Florio junior

    Il ritorno in politica di Vincenzo Morello

    Ma Morello fu anche poeta, drammaturgo e critico teatrale. Se nel 1881 aveva pubblicato a Napoli le sue Strofe, più avanti dava alle stampe anche i volumi Leggendo (1886), Nell’arte e nella vita (1900), L’albero del male (1914), Il roveto ardente (1926), Dante, Farinata, Cavalcanti: lettura nella Casa di Dante in Roma (1927) e Germinal, in quel 1909 in cui comincia a dirigere le Cronache letterarie di Firenze.

    E poi ritenta la via politica: si avvicina così alle prime posizioni fasciste e nel 1923 viene nominato senatore nella XXVI legislatura del Regno, per la 20ª categoria: coloro che con servizi o meriti illustrano la Patria. Nel caso specifico, come «solenne riconoscimento delle singolarissime qualità dello scrittore e, più ancora, dell’opera da lui svolta, durante trent’anni di strenua attività nella stampa quotidiana, per la rivendicazione delle più alte idealità italiane».

    Troppo laico per la camicia nera

    Molto vicino al Duce, nella cui politica vede realizzate le proprie aspettative, Morello scrive sul mussoliniano Gerarchia. Il 16 dicembre 1925 lo nominano commissario della Società Italiana degli Autori ed Editori, di cui diventa presidente per il biennio 1928-1929. Dal 1926 è direttore del quotidiano milanese Il Secolo.

    Benché avesse osteggiato per una vita intera il parlamentarismo e benché fosse stato anche ben poco partecipe in Senato, Vincenzo Morello era ispirato da forti sentimenti patriottici. Intorno alla questione del Concordato tra Stato e Chiesa cattolica pubblica nel 1932 il volume Il Conflitto dopo la Conciliazione, nel quale condanna le concessioni concordatarie alla politica ecclesiale. Coerentemente al proprio spirito anticlericale e ai propri trascorsi massonici, aveva infatti dato le dimissioni dal Partito Nazionale Fascista già nel 1930, proprio all’indomani del Concordato e delle scelte del regime in materia di istruzione, matrimonio e proprietà.

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    Benito Mussolini, e il cardinale Pietro Gasparri al momento della firma del Concordato

    Essendo egli scettico in merito alla propria eventuale iscrizione all’Unione nazionale Fascista del Senato, i senatori De Vecchi e Vicini, per conto del Direttorio, lo invitavano ancora nel 1932 a partecipare alla successiva seduta di Palazzo Madama con la camicia nera d’ordinanza. Invano.

     

  • Francesco Jerace, il re degli scultori calabresi

    Francesco Jerace, il re degli scultori calabresi

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    È considerato tra i maggiori artisti del panorama italiano tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo; le sue opere hanno valicato i confini sia nazionali che continentali. Francesco Jerace è senza dubbio tra i figli più illustri della Calabria degli ultimi duecento anni.

    Francesco Jerace, da Polistena a Napoli

    Nato il 26 luglio 1853 a Polistena – popoloso paese del Reggino, stretto tra la Piana di Gioia e le pendici settentrionali del massiccio dell’Aspromonte –, Francesco Jerace era figlio di Fortunato e Mariarosa. Quest’ultima era discendente dei Morani, famiglia di scultori in legno originaria del Catanzarese che, al principio dell’Ottocento, si era trasferita verso i declivi del “Monte Bianco” calabrese per sfuggire alla prepotenza dei francesi.
    Ed è proprio nella bottega famigliare di Polistena – centro ricostruito da pochi decenni dopo il devastante terremoto del 1783 – che il giovane Jerace viene iniziato all’arte del disegno, dell’intaglio e della scultura. Emerso il suo talento naturale, non passa troppo tempo che il rampollo si trasferisce a Napoli, presso la Real Accademia di Belle Arti. Sono i primi anni settanta dell’Ottocento.

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    Un ritratto di Domenico Morelli

    A Napoli – città dove lo raggiungeranno presto i fratelli Vincenzo, anch’egli scultore, Gaetano, pittore paesaggista, e Michelangelo, poi insegnante – Francesco Jerace frequenta Andrea Cefaly, calabrese di Cortale e già patriota e pittore affermato. I suoi maestri sono Saverio Altamura, Tito Angelini, Tommaso Solari e Domenico Morelli. Dopo una prima passione per la pittura, fase non scevra da incomprensioni con maestri e pubblico, è proprio Morelli, insigne pittore e anima dell’Accademia, che indirizza il giovane alla scultura.

    La prima commissione di rilievo

    A Napoli, Jerace conduce una vita tutt’altro che agiata fin quando nel 1873 non giunge la prima importante commissione della carriera. Marta Somerville lo incarica di scolpire il monumento funebre della madre, la astronoma e autrice scozzese Mary Somerville. Scrive Alfonso Frangipane, biografo dell’artista, che al termine del pesante lavoro – oggi sito al cimitero inglese di Napoli –, la nobildonna, nel retribuirlo per il servigio, gli consigliò di procurarsi un luogo più salubre in cui svolgere il suo mestiere, ché lo vedeva “tanto malandato in salute” (A. Frangipane, Francesco Jerace, in Studii e ritratti calabresi, Casa editrice “La Sicilia”, Messina 1924).

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    Napoli, cimitero degli inglesi: il monumento funerario a Mary Somerville

    Francesco Jerace, lo scultore dell’eleganza e della gagliardia

    Il riconoscimento internazionale, comunque, non tarda a venire. Grande fortuna ha il gesso del Guappetiello, il fanciullo del popolo napoletano, riprodotto in molteplici repliche, tra le quali una in bronzo sarà portata all’Esposizione universale di Parigi del 1878. In quell’occasione tutti si accorsero della straordinaria grazia dell’arte di Jerace; la maestria jeraciana, infatti, segnò un progresso nella scultura italiana della seconda metà dell’Ottocento, per la luce che sembrano sprigionare i suoi busti, per il realismo, per il bello ideale che raggiunge, per la libertà e l’armonia delle forme, lievi nel marmo in cui sono incise.
    Camillo Boito, architetto e teorico di spicco dell’architettura, esaltò l’artista calabrese definendolo «lo scultore dell’eleganza e della gagliardia».

    Un tocco di Calabria nella capitale

    Addentriamoci adesso nell’opera di Jerace. Partiamo da Roma, dove è possibile trovare lavori del grande scultore polistenese a Palazzo Madama, a Palazzo di Montecitorio e alla Banca d’Italia – luoghi che conservano tre busti di Francesco Crispi. Alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea si trova, invece, il marmo del Trionfo di Germanico. Al Vittoriano, l’Altare della Patria, al lato destro della cancellata artistica di Manfredo Manfredi è collocato il gruppo bronzeo dell’Azione, capolavoro realizzato appositamente per l’apertura del Monumento nazionale a Vittorio Emanuele II. Di queste due ultime opere monumentali esistono altrettanti bozzetti, conservati all’interno della Gipsoteca Francesco Jerace di Catanzaro, ospitata al MARCA, Museo delle Arti della città capoluogo della Calabria.

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    Roma, complesso del Vittoriano: l’Azione, opera di Francesco Jerace

    La Napoli di Francesco Jerace

    La città che però conserva il maggior numero di opere del Maestro calabrese è certamente Napoli, dove Jerace visse per lunghi periodi della sua vita. Alle pendici del Vesuvio si possono ammirare le decorazioni del giardino e dei salotti della settecentesca Villa La Fiorita, nell’abitazione sui Colli Aminei l’artista soggiornò, ospite della famiglia del banchiere svizzero Oscar Meuricoffre. Oppure apprezzare l’altorilievo bronzeo sul frontone dell’Università degli studi, in cui, fra le diciotto figure – delle quali una è un ritratto del nonno Francesco Morani –, spicca Federico II, lo Stupor Mundi, fondatore dell’ateneo nell’anno di grazia 1224.

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    La statua di Beethoven nel cortile del Conservatorio di San Pietro a Majella

    Ancora nella già capitale del Regnum Siciliae citra Pharum è possibile imbattersi nella statua jeraciana di Vittorio Emanuele II sulla facciata di Palazzo Reale, nei monumenti a Nicola Amore e a Giovanni Nicotera in Piazza della Vittoria, nelle sculture sul frontone del Duomo, nel busto della boccaccesca Carmosina al Museo e Real Bosco di Capodimonte, nella statua di Antonio Toscano, l’Eroe di Vigliena, al Maschio Angioino, nella drammatica Mater dolorosa del monumento Cocchia al cimitero di Poggioreale e nella statua di Ludwig van Beethoven, presentata nel 1895 alla edizione inaugurale della Biennale di Venezia e oggi collocata nel cortile del Conservatorio di San Pietro a Majella. Piccola parentesi: alla kermesse della città lagunare, inoltre, Jerace partecipò con altre opere tra le quali il busto di Hadria, poi acquistato da Guglielmo II, imperatore di Germania e re di Prussia.

    In giro per l’Italia

    Intorno all’area campana e meridionale sono da citare i monumenti in memoria dei caduti della Grande guerra a Sorrento e ad Aversa, il monumento a Giuseppe Martucci a Capua, la statua di Gabriele Pepe a Campobasso e un bronzo raffigurante Nino Cesarini, compagno del barone francese Jacques d’Adelswärd-Fersen, che il nobiluomo – personaggio da romanzo – fece collocare nel giardino di Villa Lysis a Capri, suo “tempio bianco” sacro all’amore e al dolore. La scultura purtroppo è andata perduta successivamente al suicidio del Fersen nel 1923 e all’abbandono in cui precipitò la Villa.

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    Il barone Fersen

    Menzionando il gruppo dedicato a Gaetano Donizetti a Bergamo – onere che Jerace ottenne a seguito di un concorso in cui trionfò contro una schiera di rivali in buona parte provenienti dal Nord –, proseguiamo l’itinerario artistico dello scultore calabrese giungendo nella sua terra d’origine.

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    Bergamo, il monumento a Donizetti realizzato da Jerace

    Le opere a Polistena

    All’interno del Duomo della natia Polistena – dove Jerace ricevette il battesimo – si trova un suo altare marmoreo, quello della cappella del Santissimo Sacramento, su cui campeggia la grande tela dell’Eucarestia, chiaramente firmata Jerace. All’interno del luogo di culto è conservato anche un quadro dell’Ultima Cena (dipinto nel 1904 per volontà del padre), fatica bastevole a ricordare l’altro campo artistico in cui eccelleva il Maestro. L’esterno della chiesa dedicata a Santa Marina Vergine presenta inoltre un frontone realizzato su disegni dell’illustre concittadino.

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    L’Ultima Cena, dipinto realizzato da Jerace su richiesta del padre

    Oltre a ciò, Francesco Jerace ha voluto ricordare il sacrificio dei polistenesi nel corso della Prima guerra mondiale con un monumento ai caduti situato in Piazza del Popolo. A sua volta Polistena ricorda il suo indimenticabile figlio con un’opera bronzea di Fortunato Longo, inaugurata nel 1997 e posta nella piazza da cui parte la via dedicatagli, e con la Casa museo Jerace, aperta nel 2018, nelle cui sale sono esposte numerose opere d’arte eseguite dall’artista e dal fratello Vincenzo. Nel Municipio della “perla della Piana”, in ultimo, si trova un bassorilievo di gesso con una testa barbuta – una delle primissime realizzazioni del giovane Jerace – e altri lavori donati in tempi recenti dagli eredi.

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    Polistena, Monumento ai caduti

    Francesco Jerace in Calabria

    A proposito di donazioni: abbiamo citato in precedenza la Gipsoteca Francesco Jerace di Catanzaro. Lo spazio offre una nutrita collezione di marmi e gessi dello scultore, donati nel 1966 dalla figlia Maria Rosa, come una riproduzione della Victa – busto marmoreo col quale nel 1880 partecipò all’Esposizione nazionale di Torino – e i busti ideali dell’Ercolanea e della principessa Evelina Colonna di Galatro.

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    Reggio Calabria, il monumento a Giuseppe De Nava

    In Calabria la mano di Jerace è rintracciabile in diverse città. A Reggio Calabria il Maestro realizzò le statue di San Paolo e Santo Stefano di Nicea per il sagrato del Duomo: il primo secondo tradizione convertì la popolazione reggina al Cristianesimo, il secondo fu invece il primo vescovo della città. All’interno del Duomo di Reggio si trova pure un suo monumentale pergamo. Per la città sullo Stretto il Genio di Polistena ha scolpito, inoltre, il monumento ai caduti con la Vittoria Alata, il marmo Eroica, il monumento a Giuseppe de Nava e un busto della poetessa locridea Nosside. Da segnalare anche un originale autoritratto a sanguigna custodito all’interno del Museo diocesano della città metropolitana.

    Un museo a cielo aperto

    Proseguiamo la carrellata citando i lavori di Francesco Jerace accolti alla Gipsoteca Michele Guerrisi, presso la Casa della cultura Leonida Repaci di Palmi, il busto di nobildonna conservato al MAON, Museo d’arte dell’Otto e Novecento di Rende, e l’Angelo della tomba Compagna al sacrario della Schiavonea di Corigliano.
    Non soltanto gallerie al chiuso: la Calabria rappresenta, infatti, un autentico museo a cielo aperto per quel che riguarda l’opera di Jerace. Per le strade di Crotone si incontrano le statue di Armando Lucifero e Raffaele Lucente; a Cosenza gli Angeli della cappella Greco; a Pizzo, prossimo all’incantevole belvedere di Piazza della Repubblica, il busto di Umberto I di Savoia scolpito nel 1902 per ricordare il sovrano d’Italia assassinato due anni prima per mano di un anarchico; a Stefanaconi il monumento ai caduti; a Scilla la possente statua di bronzo della Sirena; ancora a Catanzaro i marmi dei viali di Villa Margherita, raffiguranti illustri calabresi del XIX secolo tra cui Andrea Cefaly, Francesco Fiorentino e Bernardino Grimaldi.

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    Cosenza, gli Angeli della cappella Greco

    Sul tetto dell’Aspromonte

    Impossibile dimenticare, infine, la statua bronzea del Cristo Redentore, realizzata per il Giubileo del 1900 e rientrante nel “grandioso omaggio a Dio” concepito da papa Leone XIII, progetto che prevedeva la collocazione di venti statue su altrettanti monti italiani.
    Posto nel 1901 sulla cima dell’Aspromonte, ai 1956 metri di Montalto, comune di San Luca, il Cristo Redentore di Francesco Jerace ha in mano una grande croce e con l’altra benedice l’intero popolo calabrese, perché possa vivere nella fede in Dio e non dimentichi i grandi uomini – religiosi e artisti su tutti – che lo hanno rappresentato nel mondo.

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    Montalto (San Luca), il Cristo redentore

    Francesco Jerace, sculture in tutto il mondo

    Membro della commissione permanente di Belle Arti, l’eminente artista fu professore onorario delle accademie di Belle Arti a Napoli, Milano e Bologna e alla VIII Biennale del 1909 gli fu riservata una mostra personale.
    Francesco Jerace fu invitato alle rassegne internazionali più importanti del suo tempo, partecipando a varie Esposizioni universali, all’Esposizione italiana di San Pietroburgo dell’anno 1902 e a manifestazioni anche oltreoceano (fu a Saint Louis, Buenos Aires e Santiago del Cile) prima di spegnersi a Napoli il 18 gennaio 1937. Sue opere si trovano oggi in tutto il globo: da Londra a Berlino, da Dublino a Monaco di Baviera, da Varsavia, a L’Aia, Madrid, Atene, Odessa e Bombay.