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  • GENTE IN ASPROMONTE | Qualcuno volò tra i boschi dei primitivi

    GENTE IN ASPROMONTE | Qualcuno volò tra i boschi dei primitivi

    L’estate 2021 ha segnato per me uno spartiacque. Da Reggio la linea del fuoco si intravedeva appena, ma l’Aspromonte bruciava. Erano giorni torridi e lo scirocco soffiava forte: stavano andando in fumo 8.000 ettari di Parco e le faggete vetuste, parte del patrimonio UNESCO, erano in pericolo. Il versante più colpito era quello jonico, ma l’incendio era vastissimo e le colonne di fumo si levavano fino alla città.

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    Quel che resta degli alberi bruciati in Aspromonte nell’estate 2021

    Sentivo l’urgenza di restituire alla Montagna la dignità e il rispetto che meritava. Un paio di tentativi fallirono. Poi, quel bisogno fu seppellito da incombenze e quotidianità, coperto da uno strato greve di cenere, nonostante, al di sotto, la brace di quell’urgenza restasse viva.
    Lo scorso gennaio, per un caso fortuito, ho avuto il contatto di Luca Lombardi, una delle guide ufficiali del Parco. Dopo la nostra prima chiacchierata, quella brace si è riaccesa. Luca mi ha dato le chiavi per iniziare il cammino in Aspromonte.

    Il sistema invisibile

    «Della montagna e del parco bisogna scrivere di più, raccontando quello che accade. Quando ci si approccia all’Aspromonte, sembra che sia tutto da costruire, invece l’escursionismo guidato esiste da 30 anni. E, anche se molte cose possono essere poco visibili, c’è una rete di addetti ai lavori che opera, accoglie, valorizza la montagna. Io sono una figura ibrida: guida e operatore del turismo montano. Gestisco l’ospitalità di diverse strutture dell’accoglienza diffusa. Sono il collante tra le guide, la ricettività e le agenzie. Uno dei maggiori tour operator della provincia di Reggio si trova a Bova. Se ne parla poco, ma qui abbiamo società, strutture ricettive, aziende agricole, organizzazioni che ruotano attorno al mondo dell’Aspromonte e che riescono a fare sistema. Collaboriamo, ci scambiamo i clienti, parliamo. In linea di massima sono soddisfatto, ma si deve fare di più».

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    Luca Lombardi

    Luca e le guide sono tra chi ha alimentato una feroce polemica all’indomani degli incendi. Hanno sconfessato le prime dichiarazioni del presidente Autelitano mostrando, attraverso i dati Copernicus, come il fuoco avesse avuto origine e traiettorie differenti da quanto da lui ipotizzato. Sono attivisti che hanno scelto la montagna, parte di una generazione di trentenni che ha scelto di restare o ritornare. La generazione che, pur con le sue emorragie, ha sviluppato un senso per una sfida impossibile: investire in Calabria.

    Gianluca Delfino, il ritornato survivalista

    Tra di loro c’è Gianluca Delfino, animatore dell’associazione Kalon Brion Hug a Tree Movement, anni trascorsi nelle cucine francesi col cuore ai cavalli e al suo borgo di origine, Galatoni. Il nostro viaggio fisico e spirituale parte da lì per inerpicarsi fino allo Zomaro. Incontro a febbraio questo marcantonio biondo vestito da montagna, a prima vista più nordeuropeo che calabrese. Un caffè veloce a Cittanova e poi ci spostiamo col suo fuoristrada verso i ruderi del vecchio borgo medievale dove vive col padre e gestisce il suo maneggio, immerso nella natura tra cavalli, ulivi e animali. Dalla cittadina la strada, tra curve e uliveti, dirada nell’aperta campagna mentre saliamo lentamente verso la pedemontana.

    «Galatoni, nata intorno al 1250, è uno degli ultimi borghi appartenenti al feudo del casato di Terranova che comprendeva tutta l’area tra il Marro-Petrace e il Vacale toccando da un lato Rosarno e dall’altro la cresta della montagna. Si è formato quando i Taureani stanziavano e commerciavano nell’area. Terremoti e invasioni saracene li costrinsero a spostarsi verso una zona più interna dove poi sorse Terranova, con le sue terre e il suo castello, oggi terreni coltivati a uliveti secolari che hanno sostituito il gelso».
    L’auto si ferma. Siamo ormai in aperta campagna. Davanti a noi un casale in ristrutturazione sfida i ruderi che gli stanno di fronte, tra cui emerge quel che resta della chiesa di Maria S.ssima de Nives. In fondo, recinti e cavalli.

    Dalla Francia allo Zomaro

    Gianluca è uno dei ritornati: «Al rientro dal Piemonte, dove i miei genitori lavoravano in fabbrica, qui non c’era più nulla. Eravamo quelli che si sono portati il cavallo dalla Calabria. Un milione e ottocento mila lire al mese di pensione per accudirlo. Originariamente questa era una stazione di monta della Regione dove era presente il Nearco di Doria. Papà, da grande appassionato, voleva ricreare la razza calabrese. Lui e mamma erano istruttori di equitazione: appena arrivati, davano lezioni di ippica. Ho iniziato a lavorare nella ristorazione. Mi sono trasferito in Francia del Nord: mi pagavano bene. Ma mentre componevo i piatti, avevo impregnato l’odore di questi ulivi, lo scampanìo delle vacche, il gorgoglìo dei ruscelli dell’Aspromonte. Ho deciso di tornare».

    Poi sono partiti i progetti: «Avevo in mano un percorso in Scienze Naturali, una passione per i fermentati vegetali e un progetto sul fitorimedio e sulla coltivazione di Artemisia Annua col metodo di Teruo Higa. Volevo utilizzare i fermentati e riprodurre alcuni comparti microbici attraverso quella tecnica. La prima tappa in Italia fu dal professor Roberto Marino dell’Università di Padova: gli illustrai il mio progetto e decidemmo di partire per la Calabria dove abbiamo fatto sperimentazioni in pieno campo studiando i Probiotic Autogen Microrganism che, diluiti, potevano essere usati nelle stalle. Assieme a quelli anche il relativo terriccio. Questo accadeva cinque anni fa. L’iniziativa si spense per la penuria di fondi. Poi è arrivata la pandemia».

    La nascita di Kalon Brion Hug a Tree Movement

    Kalon Brion era già nata ed era ai suoi albori. Questa associazione dalla dicitura metà greca e metà bruzia conteneva già nel nome il suo manifesto: far sorgere il bello e il buono. Un bello che per Gianluca, Rocco e gli altri si trova in montagna, tra i boschi e le sorgive. Sono eco-operatori, appassionati di survivalismo, flora e fauna: si prendono cura del territorio, presidiano i sentieri, organizzano immersioni in natura.

    «La nostra associazione è nata da una comunione di interessi e intenti: monitorare il territorio, proteggere e valorizzare la montagna, vivere a stretto contatto con la natura, educare al turismo montano consapevole e al rispetto della biodiversità. Assieme a me ci sono persone come Rocco Calogero, poliglotta, un passato nella foresta boliviana, e la mia compagna, videomaker. Tutti con la stessa passione e competenze diverse. Veniamo da una lunga esperienza di animal tracking e monitoraggio dell’avifauna. Rocco ed io siamo gli unici in Calabria ad avere quest’abilitazione. In zona Taureana, siamo stati invitati a collaborare al piano di studio ambientale propedeutico a un progetto di riqualifica dell’area archeologica. Allora insieme al professor Tripepi di Scienze Naturali dell’Unical abbiamo monitorato il Chameleo chaemelon presente tra gli eucalipti della Tonnara di Palmi. Poi ci siamo accorti che c’era un deficit legato alla mappatura di flora e fauna a nord di Gambarie ed avevamo la sensazione che questa porzione di territorio fosse stata completamente abbandonata dalle istituzioni e dal Parco».

    Se boschi e logica scompaiono

    Scalando in auto la strada che serpeggia sui fianchi della montagna, Gianluca mi racconta di come, durante la stagione degli incendi, avessero mollato tutto l’ordinario per organizzare staffette di volontari a supporto delle operazioni di spegnimento: «Più i boschi bruciavano, più le nostre attività rischiavano di essere vanificate. La nostra missione è lavorare nel presente per il futuro. Puntiamo sulle scuole per uscire dalla logica che la prospettiva dell’Aspromonte sia di un parco giochi per il weekend. La montagna è vita e opportunità tutto l’anno. Nel bosco si entra sempre come ospiti: noi passiamo, lui resta. Ci chiediamo ancora perché il modello Aspromonte contro gli incendi sperimentato da Bombino non abbia trovato seguito. Una best practice fatta naufragare, salvo poi essere adottata da diversi altri parchi, come quello del Pollino, con evidenti risultati. Ma qui ci scontriamo con le logiche del non-senso».

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    Volontari di Kalon Brion impegnati a spegnere il fuoco durante gli incendi dell’estate 2021

    Mentre saliamo allo Zomaro, Gianluca è trasfigurato in Attis, giovane dio della vegetazione nella mitologia greca: «Abbiamo tutti la stessa origine e ognuno, nel suo profondo, conserva un richiamo primordiale che prima o poi lo porta a cercare il contatto con la natura. Noi lo aiutiamo a riaprire certi cassetti chiusi da tempo. Diamo le chiavi perché si ristabilisca il contatto profondo con ciò da cui veniamo. Il nostro campo base si trova allo Zomaro, nell’area dell’ex Ostello della Gioventù».

    L’area dell’ex Ostello allo Zomaro

    Zomaro è il punto più stretto del Parco e una delle sue porte naturali, allungato lungo il dossone della Melìa. Da qui si dominano il versante tirrenico e jonico. Tra le zone più umide dell’Aspromonte, lo Zomaro (Οζώμενος – acquitrinoso) straborda di una fitta vegetazione di faggi, abeti, pini e larici centenari e ospita sorgive di acque oligominerali. È li che ci trasferiamo dopo la tappa a Galatoni.
    L’ex Ostello allo Zomaro è un’area concessa dal comune di Cittanova con un bando per la ripulitura.

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    L’area dell’ex ostello di fronte al campo base di Kalon Brion

    «Cercavamo un quartier generale, un campo base dove svolgere le nostre attività all’aperto. Accogliamo e supportiamo ciclisti e turisti che fanno questa tappa lungo il loro cammino. Realizziamo attività di educazione al survivalismo e al natural living per grandi e piccoli, collaboriamo con le scuole proponendo laboratori didattici. Kalon Brion si è sempre distinta per il suo spirito di servizio verso il territorio e la montagna. Tanto abbiamo premuto e insistito perché quest’area dismessa potesse tornare patrimonio della comunità, fino a quando il Comune ha deciso di affidarcela: da tempo chiedevamo perché questa porzione di territorio dovesse restare abbandonata».

    Sotto al berretto di lana verde petrolio, dietro agli occhiali che riverberano la luce di mezzogiorno, sotto al peso di una montagna che sembra caricarsi sulle spalle, i suoi occhi celesti si accendono. Una sigaretta dopo l’altra, Gianluca scende dall’auto, allarga le braccia e mi invita ad entrare: «Quando abbiamo ottenuto le chiavi di questo cancello – racconta mostrandomi una recinzione rudimentale che cinge l’area – abbiamo festeggiato. Le prospettive erano grandi e poteva aprirsi una nuova stagione».

    Autogestione e natura

    Il breve sentiero che porta al campo base dello Zomaro fiancheggia a sinistra l’ex Ostello della Gioventù, unico punto in zona dove si sarebbe potuto alloggiare. «A vederlo dall’esterno sembra solido, ma è stato confiscato perché sede abusiva di opache riunioni e reso inagibile per via dei lucernari lasciati aperti. Ha all’interno 60 stanze, alcune con i mobili ancora nuovi, un forno a legna, un ristorante, ed è una delle pochissime strutture in Aspromonte non vandalizzate».

    A destra si apre lo spazio in concessione: 26.500 metri quadrati autogestiti, senza alcun finanziamento, che oggi sono il luogo dove si svolgono didattica, campi estivi, laboratori. Accanto, un piccolo prefabbricato attrezzato con un cucinotto. All’interno ci sono i lavori realizzati durante le attività: archetti per accendere un fuoco in condizioni di emergenza, cordame per reti, e tutto quanto necessario per soddisfare i bisogni primari in natura; ci sono anche reperti faunistici con cui viene spiegato, ad esempio, come e con quali materiali un volatile costruisce il suo nido. In un angolo le ricetrasmittenti e le fototrappole utilizzate per l’animal tracking, essenziale per mappare evoluzioni e criticità del territorio in base a cui orientare strategie di intervento. Comprese quelle contro il bracconaggio.

    Dalle Highlands allo Zomaro e dintorni

    Gianluca mi spiega anche che l’ecosistema della montagna non si limita ai pendii, ma scende a valle arrivando fino a mare: «Bisogna capire che ci troviamo in un punto unico al mondo. Gli scozzesi arrivano a studiare l’Ulivarella di Palmi perché si trovano minoliti presenti anche nelle loro Highlands. I ricercatori vengono qui a ricostruire la cronostoria dei movimenti della tettonica a placche e dell’orogenesi. Questo è il dato di realtà». È l’Aspromonte che con i suoi tentacoli di roccia arriva fino al Mediterraneo.
    Un’area unica in sue sensi: abbraccia un comprensorio molto più grande del Parco scendendo a valle e custodisce unicità da tutelare e valorizzare. «Bisogna progettare partendo dall’esistente, spesso trascurato», mi incalza Gianluca. Ed in effetti le opere di ripristino della rete di accesso al bosco e degli antichi sentieri annunciate a giugno 2020 da Regione e Comune di Cittanova, 180 milioni di euro sul PSR 2014/2020, non sono state ancora realizzate.

    I problemi con il Parco

    «L’atteggiamento delle istituzioni e del Parco deve cambiare. Bisogna capire che dobbiamo remare insieme nella stessa direzione. Se è vero che sotto la superficie le associazioni di animazione e promozione territoriale stanno creando sinergie, lo stesso non può dirsi per le autorità di gestione. Noi siamo quelli che fanno il tracciamento dei lupi e dei caprioli, siamo gli avio-osservatori, un lavoro non dovuto e non retribuito che mettiamo a disposizione. Anche da qui passa il futuro del Parco. Bisogna abbattere i muri comunicativi. Volevamo creare delle zone di controllo e monitoraggio della porzione nord dell’area montana di concerto con altre forze: dal Parco ci è stato risposto che le richieste non erano giunte, quando noi eravamo già in possesso dei certificati di avvenuta ricezione delle pec inviate».

    È un po quello che mi diceva anche Luca Lombardi: «Le guide rappresentano l’economia e le aziende all’interno del Parco, ma non siamo stati ascoltati. Abbiamo chiesto che certi processi portati avanti dalla precedente gestione fossero ripresi, che certe iniziative fossero promosse, che si puntasse l’attenzione su attività internazionali, come il Geoparco UNESCO o la Carta del Turismo sostenibile. Ci hanno respinti. Il Parco si è auto-isolato. Adesso, l’arrivo del nuovo direttore amministrativo Putortì fa ben sperare: appena insediato, ha incontrato le associazioni».

    Lo Zomaro mette le ali

    Il parco però sembra muoversi con nuove strategie. L’approvazione del progetto del Campo Volo a Zomaro proposto da CAP Calabria è un segnale. Si tratta di un’iniziativa dedicata all’aviotrasporto e alla flytherapy promossa da Giancarlo Fotia.
    Istruttore di volo, per la prima volta, accetta di farsi intervistare.

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    «Porto avanti questa idea da 10 anni. Non è stato facile. All’inizio ho ricevuto un coro di no. Il Parco non si tocca. Qualcuno mi ha anche detto “la montagna è mia”. Ma io ero convinto di sì. Sono andato a prendere tutte le mappe, ho effettuato ricerche catastali, realizzato studi per dimostrare che l’impatto acustico degli aerei da diporto fosse irrisorio, diversamente da quello di fuoristrada e moto che scorrazzano senza grande controllo».

    E così ha individuato il luogo ideale per mettere in pratica la sua idea. «La lingua di terra di 800 metri che ho individuato è un prato allo Zomaro che delimita il confine col Parco. È nel parco, ma nella particella 16: una zona DS per l’alta antropizzazione destinata dal piano comunale di Cittanova ad area pubblica per attrezzature collettive. É pianeggiante e priva di vegetazione. Dai sopralluoghi si è scoperto che non è nemmeno necessario sbancare. In poche parole si tratta di delimitare la pista con cinesini in plastica frangibile e maniche a vento, e porre estintori mobili. Si accederà e si uscirà dal punto più vicino del confine del parco. Non ci saranno opere murarie».

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    Fly Therapy in Veneto

    L’unione fa la forza

    «I campi di volo – continua Giancarlo – esistono già all’interno di altri parchi. Voglio lavorare insieme al Parco affinché il campo volo dello Zomaro sia un’occasione di sviluppo e di tutela per tutta l’area che versa in uno stato di abbandono e di scarso controllo. Altrove, grazie a queste forme di collaborazione, sono stati scoperti casi di abusivismo vari, dalla discariche alla caccia di frodo. La montagna è di tutti e a beneficio di tutti deve tornare. Ho intenzione di realizzare una scuola di volo e la fly therapy per bambini e ragazzi diversamente abili che possano vivere un’esperienza che può aiutarli».

    Le obiezioni al suo progetto non sono mancate. «Mi hanno accusato – racconta – di aver fatto tutto sotto traccia, ma carta canta: tutto è stato svolto con procedure di evidenza pubblica. Mi hanno obiettato che è una follia far volare aerei quando viene proibito l’utilizzo di droni nell’area. Ma i droni rappresentano un pericolo maggiore: hanno preso fuoco in volo, sono stati attaccati da rapaci, sono poco regolamentati perché utilizzano una tecnologia nuova. Voglio fare tutto coinvolgendo altre associazioni come Kalon Brion perché la tutela e lo sviluppo passano dalla sinergia. Bisogna lavorare tutti assieme».

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    L’area che ospiterà il campo volo vista dall’alto

    Particolare e universale

    Lo scorso 29 dicembre il Comune di Cittanova ha pubblicato la Delibera di Consiglio N. 45 con cui approvava lo schema di convenzione tra municipio ed associazione per la gestione del campo volo dello Zomaro. Il progetto è già approvato.
    Questa storia ha visto contrapporsi diversi attori della montagna: ambientalisti, attivisti, sacerdoti della natura, imprenditori e operatori che hanno lamentato un eccessivo impatto, appellandosi alla necessità di dare priorità a interventi di riqualifica più urgente. Allora mi chiedo: può una tale iniziativa essere la spinta per realizzare migliori servizi a fronte del fatto che il piano straordinario di riqualificazione della percorribilità interna al Parco, 10 milioni di euro, è in fase di realizzazione? Lo sviluppo si stimola andando dal particolare all’universale o viceversa?

    Prima di rientrare, ci muoviamo tra i larici centenari per arrivare a una sorgiva. La segnaletica con i dati delle acque è corrosa dalla ruggine. Sarà vecchia di almeno 30 anni. É vero: la Regione Aspromontana ha bisogno di servizi, di controllo, di sinergie, di presenza. Della sua comunità che la viva, sottraendola all’abbandono e al de-sviluppo.
    Il sole cala, la nebbia si solleva, attaccandosi addosso col suo abbraccio bagnato. É tempo di andare. Porto con me nel crepuscolo verso la città del terriccio sotto gli scarponi, una borraccia di acqua di fonte e lo sguardo appassionato di Gianluca.

  • GENTE IN ASPROMONTE| Il polpo di pietra

    GENTE IN ASPROMONTE| Il polpo di pietra

    L’Aspromonte è un polpo. Guardandolo dall’alto l’impressione è quella di osservare una testa di animale da cui si diramano, a raggiera, tentacoli di roccia che si fanno strada tra le valli e le gole fino a raggiungere i due mari, lo Jonio e il Tirreno. La sensazione è sorprendente: è come vedere un animale preistorico sputato fuori dalle acque che tenta di ritornarvi. E niente più di questo gioco di rimandi tra la montagna e il mare coglie l’essenza di un territorio complesso che nasce, cresce e si sviluppa, a vari livelli, come testa di ponte sospeso tra Europa ed Africa, Oriente e Occidente.

    Queste Alpi calabresi – ultimo anello del blocco granitico-cristallino della Calabria – sono vecchie di trecento milioni di anni. Si estendono per 80.000 ettari, molti ricompresi all’interno del Parco Nazionale, e attraversano 37 comuni della Città Metropolitana di Reggio Calabria. Racchiudono ventuno Siti di Interesse Comunitario, due Zone di Protezione Speciale e ottantanove geositi censiti, suddivisi in 5 aree geografiche omogenee.
    Si tratta di una ricchezza inestimabile e sfaccettata che comprende una stupefacente biodiversità e un sincretismo culturale unico in tutto il Mediterraneo.

    Pastorizia e sequestri

    Raccontare l’Aspromonte e anche solo approcciarvisi è complesso e può sembrare un’impresa titanica. Un pezzo di territorio misterioso, spesso assurto agli onori delle cronache per malaffare all’ombra di una vita pastorale che, per secoli, si è sviluppata senza grandi cambiamenti. Se non quando, tra gli anni Settanta e Novanta, è divenuto tristemente noto come il covo impenetrabile dell’anonima sequestri calabrese che, con i suoi feroci e sanguinari rapimenti, ha accumulato il capitale da reinvestire in svariate attività illecite, prima tra tutte il traffico internazionale di stupefacenti.

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    Pietra Cappa vista dall’alto (foto Pietro Di Febo)

    Ed è allora che Pietra Cappa, monolito tra i più grandi d’Europa, geosito oggi osservato e studiato a livello internazionale come un gigante geologico dalla caratteristiche uniche, per secoli simbolo di Persefone, divinità polimorfa, venerata come candida fanciulla, come donna satura di passione, come potenza degli inferi, come luce, simbolo di vita primaverile, come tenebra, emblema di morte e sonno invernale, la mamma dei pastori e di quella cultura agro-pastorale ormai in via di estinzione, è diventato emblema di ferocia.

    La montagna dei due mari

    Oggi questa terra eletta di emigrazione, con le sue enclavi linguistiche intrise di vergogna, un versante tirrenico a tratti tropicale e lussureggiante, e uno jonico brullo, arido e più impervio, rivive. Alla stagione dei sequestri, lo Stato ha risposto anche con l’istituzione dell’area protetta nel 1989 cui è seguita quella dell’ente gestionale nel 1994.
    La montagna ha cominciato a riemergere dalle acque di quell’oscura e fitta macchia mediterranea che per anni aveva custodito i suoi mirabili segreti, fatti di terre senza tempo, riti stagionali, culti religiosi, accatastamenti culturali in cui Bisanzio si mischiava a Roma, Atene e Gerusalemme, portando fino a noi tracce di un passato remoto ancora presente.
    La sua scarsa antropizzazione, la precarietà di vie di comunicazione rimaste identiche per secoli e l’isolamento sono gli elementi che hanno tramesso in modo vivido e, nel bene e nel male, in un certo qual modo ancora attuale la conservazione di strutture sociali, schemi culturali e pattern valoriali atavici.

    L’Aspromonte che si unisce

    Tre fenomeni diversi susseguitisi in un breve lasso di tempo hanno interrotto questo processo:

    • Il boom degli anni Sessanta con l’abbandono dei centri montani che ha favorito il de-sviluppo della montagna e della sua economia;
    • Le ondate di emigrazione che, dagli anni Settanta, hanno desertificato le piccole comunità;
    • L’avvento del paradigma digitale che, dagli anni Novanta, sta globalizzando i trend della cultura di massa.

    Al tempo stesso il pattern digitale, con la sua nuova rivoluzione industriale, si è rivelato formidabile per connettere, facilitare processi, moltiplicare, diffondere, avvicinare, divulgare. Persone, territori, operatori, ricercatori, turisti, escursionisti, imprenditori si sono trovati avvicinati, semplificati nel creare reti di interesse comune, facilitati nello scambio di informazioni, nelle procedure, nelle interazioni. La tecnologia ha dato una mano accorciando la dimensione dello spazio-tempo. E questo ha favorito il fiorire comunità di scopo, dall’animazione territoriale, al turismo, alle filiere produttive che, pur con i loro passi avanti, restano ancora ad uno stadio poco più che embrionale.

    L’Aspromonte e i suoi tentacoli

    La vera natura dell’Aspromonte è riemersa: non una mera montagna, ma una rete complessa e capillare di entità, paesi, borghi e comunità che ha vissuto con, per, addosso e in prossimità del monte. A maggior ragione l’Aspromonte è un polpo: perché i suoi tentacoli di pietra che attraversano luoghi e popoli sono i nervi di ciò che Gregory Bateson (gli chiedo subito scusa) ha definito ecosistema.

    L’Aspromonte oggi è più polpo che piovra: la ribalta per il riconoscimento di Global Geopark della rete Unesco, un rinnovato interesse escursionistico, promosso dalla passione e dal febbrile lavoro delle guide ufficiali, composte da operatori del turismo montano e da professionisti della ricettività diffusa, l’attenzione verso la cultura del chilometro zero, la semplificazione dei processi di comunicazione, la mutate priorità di vita e lavoro derivate dalla pandemia, l’interesse per le isole linguistiche, rendono oggi la Regione Aspromontana meta di rinnovato interesse e terreno fertile in cui germinano la piccola imprenditoria e l’associazionismo.

    Passato, presente e futuro

    Viaggiare in Aspromonte significa andare alla scoperta di un passato che resta presente e si prepara ad essere futuro. Vuol dire scoprire le radici di chi è andato, di chi è rimasto. E, soprattutto, di chi è ritornato, categoria che viene poco osservata ma che rappresenta il grande corso che scorre sottotraccia. Dei ritornati si parla poco, ma ci sono. E sono quelli che, forse più di tutti, svolgono un lavoro di cucitura tra quel passato e questo presente.
    Si tratta di giovani tra i 25 e i 35, come Gianluca, Nicola, Andrea, Rocco, con un passato di diversi anni in giro per l’Italia o all’estero, artigiani di vini, di cucine, agricoltura e cavalli che hanno deciso di rientrare. Con la loro esperienza e il loro bagaglio, contro lo stereotipo del «vatindi, non c’è nenti», sono ritornati per investire, senza negare gli ostacoli cui andavano incontro.

    Quelli che ci credono

    Sono quelli che ci credono. E sono i protagonisti di questo movimento che c’è ma non si vede. Affiancano i restati, come Tiziana, Luca, Pasquale, Piero, Attilio, stringono alleanze: fanno come le tegole del tetto, si danno l’acqua l’un l’altro.
    Sono i protagonisti del mio racconto, sono gli enzimi di questa infrastruttura umana, culturale, del cuore, della fiducia su cui ha puntato il professor Giuseppe Bombino, già a capo dell’Ente Parco durante gli anni del suo mandato.

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    Giuseppe Bombino, ex presidente del Parco

    Sono il buono che c’è e che bisogna sostenere. Attraverso i loro occhi, le parole, le attività, l’impegno, ho costruito le puntate che si susseguiranno con diversi scopi:

    • fare una fotografia di quello che oggi sta accadendo e che in molti non conoscono;
    • riflettere sulle criticità del territorio, del rapporto con gli enti pubblici e di certe operazioni culturali;
    • riaprire il dibattito sull’annosa questione dello sviluppo delle aree interne tornata in auge con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

    L’Italia interna è quella fatta di quasi 4.000 comuni, il 58,8% della superficie nazionale, popolata da circa 13,4 milioni di persone. L’Aspromonte ne è pienamente parte. E quando ho deciso di iniziare questo viaggio l’ho fatto con questo spirito di scoperta e ricerca: alla volta di territori, popoli, uomini e donne partiti, restati o ritornati.

  • Festival del diritto: tiktoker e Montesquieu a colpi di codice

    Festival del diritto: tiktoker e Montesquieu a colpi di codice

    «Non è un Festival sulla legalità astratta, ma un evento letterario e culturale calato nel mondo in cui viviamo: quest’anno ci occupiamo di democrazia». Inizia così la conversazione con Antonio Salvati, magistrato napoletano e palmese adottato, alle 8.30 del venerdì mattina seguente alla conferenza stampa di presentazione del X Festival Nazionale di Diritto e Letteratura della Città di Palmi (20-22 aprile 2023).

    CLICCA QUI PER SCARICARE IL PROGRAMMA DEL FESTIVAL

    Siamo al tribunale di Reggio: ho redistribuito i miei impegni per riuscire a vederlo. «Sono contento che siamo riusciti a incontrarci. Mi ha colpito, nella nostra chiacchierata telefonica, che lei abbia insistito per vederci. Oggi si fa prima con lo scambio di comunicati stampa?».

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    Il tiktoker Usso96
    Sarà anche vero – ribatto -, ma è la conseguenza del depauperamento della professione. Se per tirar su uno stipendio decente bisogna scrivere duecento pezzi al mese, capirà che la forchetta tempo/approfondimento si assottiglia fino quasi a sparire. Peccato perché il giornalismo è una delle gambe della democrazia.

    «Pensi, quest’anno, per il nostro decennale, all’aula Scopelliti del Tribunale di Palmi processeremo i social network! Intendiamoci: si tratta di un processo atecnico, fittizio, di uno spunto di riflessione, per approfondire il legame tra forma di governo, contesto socio-economico e innovazione tecnologica. Il pubblico Ministero sarà Dario Vergassola, la difesa verrà rappresentata dal tiktoker Usso96 e il giudice sarò io. Partiamo dal presupposto che la globalizzazione abbia innescato due processi: il rafforzamento del potere esecutivo e il crollo dei corpi intermedi mentre noi siamo stati parcellzzati. Tutto deve essere veloce e ad immediata portata di mano».

    Mi torna: ogni cambio di paradigma porta crolli e nuove regole di organizzazione. Sono i temi che tratto a scuola con i miei studenti: il digitale, le piazze virtuali, i tribunali del popolo versione social network, l’epoca del click, i processi mediatici sommari, l’individualizzazione, la partecipazione.

    «Quando nel 2015 chiesi al professor D’Alessandro dell’Alta Scuola di Giustizia Penale di Milano se credesse che portare un festival sugli studi di Diritto e Letteratura fuori dalle aule universitarie e verso il mondo della scuola fosse un punto di debolezza, mi risposte che no, che anzi rappresentava la forza dell’iniziativa. Eravamo alla seconda edizione e l’idea che con i ragazzi si dovesse lavorare attraverso le dimensioni di semplicità e curiosità è stata vincente. Avvicinare la scuola al mondo del diritto è più facile attraverso la letteratura».

    In che senso?

    «Cerchiamo di mostrare come il diritto non sia semplicemente appannaggio delle aule di un tribunale, ma riguardi la convivenza di tutti noi. La letteratura e la finzione sono i nostri attrezzi del mestiere. Lavorando con attori, scrittori, tiktoker, come quest’anno, svestiamo le toga e cerchiamo di avvicinarci alla generazione Z. Non mi ritrovo nell’assunto di Montesquieu che i magistrati siano la bocca della legge».

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    Piero Calamandrei
    Però la magistratura è percepita come una delle caste di questo Paese. La voce del popolo pensa che siate intoccabili, per restare nel solco di un dibattito allargato sulla democrazia.

    «Sicuramente c’è qualcuno che vorrebbe far proprio questo modello. Io la penso diversamente. Prenda l’esempio del periculum in mora, il possibile danno in cui potrebbe incorrere il diritto soggettivo: la valutazione su questo periculum non si può fare se non si resta essere umano, con la propria esperienza di vita: cosa che nessuna intelligenza artificiale o algoritmo potrà mai fare. Per Calamandrei, prima di giudicare, un magistrato avrebbe dovuto sperimentare quindici giorni di carcere. In altre parole, per fare bene il suo lavoro, un giudice ha necessità di un gap esperienziale che gli permetta di operare coerentemente con il contesto, consapevole di essere persona tra persone. L’idea di smettere di essere persona per diventare un asettico braccio della legge non mi rappresenta».

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    Lo scrittore portoghese Josè Saramago
    Ecco, non c’è democrazia senza rappresentanza e non c’è rappresentanza senza partecipazione. Un po’ ovunque, per lo meno in Europa, i dati sull’affluenza raccontano di una disaffezione. Chi elegge è una minoranza della maggioranza. E più in generale la partecipazione alla vita pubblica si affievolisce…

    «Jose Saramago in Saggio sulla lucidità racconta di un Paese in cui ad un tratto votano scheda bianca, con le conseguenze che ne derivano. É un esempio di cosa è e come si muove il Festival: contattiamo le scuole, chiediamo di aderire. Diamo il tema, Consigliamo di leggere il testo di riferimento che scegliamo per parlarne assieme. Tutto si tiene. Allargando il discorso questo modello, che è un po una metodologia, mira a fare uscire il diritto fuori dai suoi tecnicismi per divulgarlo, calandolo nella realtà di tutti noi. Il Festival è stato in alcune circostanze evento di formazione nazionale della Scuola Superiore della Magistratura, proprio perché il modo in cui affronta le tematiche che tratta contribuisce all’abbattimento dei bias cognitivi, ossia di quelle forme di pre-giudizio da cui un magistrato può essere influenzato, ma che occorre scongiurare per evitare prima stereotipi e poi errori. In seguito quello che era nato come strumento di formazione per giuristi si è trasformato ed è stato allargato alla scuola».

    Nella prima parte de I tweet di Cicerone, l’autore affronta un tema cruciale per il nostro mondo, i cambiamenti causati dal passaggio dall’oralità alla scrittura. E mostra come, in ogni grande passaggio, le categorie degli apocalittici e degli integrati siano sempre esistite. Cosa possiamo fare noi, la generazione-cerniera, per dare ordine nel passaggio dall’analogico al digitale?

    «Innanzitutto dire ai ragazzi che va tutto bene, andando noi, che abbiamo le spalle più robuste, verso di loro. Spiegando che certi tempi vanno affrontati. Bisogna uscire da questa tendenza accademica, che è molto italiana, e spingere sulla divulgazione. Ce lo ha insegnato Piero Angela: c’è modo e modo di affrontare le cose e modo e modo di narrarle. L’efficacia comunicativa è scandita dal come: per affrontare con il pubblico riflessioni apparentemente pesanti su temi come il cambio di paradigma, la democrazia 4.0, la partecipazione, i valori, gli stereotipi bisogna trovare la chiave giusta».

    Piero Angela, volto noto della tv italiana per tanti anni
    É contento dei risultati raggiunti?

    «Molto contento. Ritengo il Festival di diritto e letteratura di Palmi un formidabile strumento di umanizzazione e divulgazione e le posso assicurare che siamo sicuri di una cosa: il Festival lo faremo sempre, con qualsiasi budget, sia con zero fondi, sia con risorse più importanti. Se lo avessimo presentato come un’iniziativa sulla legalità in Calabria, sicuramente avremmo avuto maggiore risonanza, ma non è quello che volevamo».

    A proposito di stereotipi… la Calabria?

    «Le dico una cosa: girando l’Italia vedo negli occhi la delusione di qualcuno quando dico che che in Calabria faccio una vita normale. Spesso si è convinti che per fare questo lavoro in Calabria si debba girare con l’elmetto. Paragonando lo stereotipo calabrese con quello napoletano, ho la sensazione che il secondo assuma venature di leggerezza, mentre per il primo sembra manchi un piano B. Eppure sono convinto che la Calabria ce la farà. Ma deve smettere di raccontarsi attraverso gli stereotipi che le hanno cucito addosso. Perché questa terra, con il suo radicamento a certi valori, può essere laboratorio di modernità al di fuori dell’omologazione».

    É fiducioso?

    «Si. Il giorno migliore della nostra vita è domani. La aspetto al Festival».

  • Ponte sullo Stretto, si riparte con le proteste

    Ponte sullo Stretto, si riparte con le proteste

    Una volta realizzato il Grande raccordo anulare, sorse, al suo interno, la città di Roma. E il Canale della Manica? Fu scavato sotto il mare, e dopo, dall’una parte e dall’altra, emersero dalle acque la Francia e l’Inghilterra. Secondo quanto affermato tempo fa dal ministro alle Infrastrutture Salvini, così vanno le cose: cosa se ne farebbero i siciliani di collegamenti decenti tra Messina e Palermo e tra Messina e Siracusa, se, arrivati sullo Stretto, si trovassero davanti a un imbuto, e cioè all’attraversamento via mare?
    Quindi, in attesa delle ferrovie e delle strade da costruire in Sicilia – e in Calabria – intanto facciamo il Ponte.

    Il grande circo del Ponte sullo Stretto di Messina

    Per l’ennesima volta siamo purtroppo qui a parlare della Piramide del Faraone di turno, l’Opera (la maiuscola è d’obbligo) che porterà lavoro, scaccerà via la mafia e la ‘ndrangheta, attirerà milioni di turisti da tutto il mondo per ammirare la settima (l’ottava, la nona) Meraviglia. Intanto è già ripartito lo show, è stata spianata l’arma di distrazione di massa. È ripartita, dopo dieci anni dalla sua messa in liquidazione mai attuata, pure la Stretto di Messina s.p.a., che in decenni ha grattato milioni e milioni di denaro pubblico per il ponte. Naturalmente, non è mancata l’approvazione, con tanto di ostensione del plastico del Ponte nella Camera extra del Parlamento italiano, la trasmissione di cinque minuti del cerimoniere ufficiale della destra italiana Bruno Vespa.

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    L’area che dovrebbe ospitare il ponte sullo Stretto

    Regioni a favore, cittadini contro

    Per fortuna, insieme a tutto il circo, sono ricominciate le iniziative per tentare di contrastare un progetto che, con l’adesione entusiastica delle Regioni Sicilia e Calabria, avrebbe come solo esito certo quello di devastare uno degli scenari più belli del pianeta Terra. Prima in Sicilia, a giugno e ad agosto, e ieri da quest’altra parte, al circolo Nuvola Rossa di Villa San Giovanni, dove si è tenuta, organizzata dal Movimento No Ponte Calabria, un’assemblea molto partecipata. Il comunicato diffuso dal Movimento riferisce di interventi che «hanno ben rappresentato le ragioni dell’opposizione a un progetto propagandistico e, quello sì, fortemente ideologico».

    Villa San Giovanni: la città sotto il ponte

    Il professore Alberto Ziparo, coordinatore del Comitato Tecnico-Scientifico che ha studiato gli impatti del Ponte sullo Stretto, non ha fatto ricorso a giri di parole. E ha denunciato che «allo stato attuale l’unica speranza per avere un progetto esecutivo del ponte non è rappresentata da svedesi o cinesi, ma da un miracolo dello Spirito Santo!».
    WWF e Legambiente hanno focalizzato la loro attenzione sulla «necessità di salvaguardare un’area la cui immensa biodiversità è unica al mondo». Area che non ha certamente bisogno di interventi di così grande impatto, perché la sua «valorizzazione rappresenterebbe un elemento di richiamo ancora più attrattivo del ponte stesso».

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    La variante di Cannitello

    La sindaca di Villa, Giusi Caminiti, ha ricordato «l’impatto della variante di Cannitello, imposta come opera propedeutica al Ponte, che ancora oggi rappresenta un ecomostro, con le “opere compensative” ferme al palo da anni». E ha rilevato che «nessuna opera può compensare gli impatti per quella che diverrebbe la “città sotto il ponte”».

    Ogni lunedì contro il Ponte sullo Stretto di Messina

    L’appuntamento di Villa è servito per rilanciare la mobilitazione e renderla continua e costante. Il prossimo è previsto per il 17 aprile, cui ne seguiranno altri ogni lunedì, sempre al Nuvola Rossa. Lo spazio villese, si ricorda nel comunicato, «è nato proprio sull’onda della mobilitazione No Ponte».

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    Un momento dell’assemblea dei No ponte a Villa San Giovanni

    Lo hanno inaugurato in occasione del primo anniversario della morte di Franco Nisticò, ex sindaco di Badolato in prima fila in questa battaglia. Nisticò trovò la morte il 19 dicembre 2009 mentre stava intervenendo ad una manifestazione a Cannitello di Villa San Giovanni. Su quello stesso palco e quella stessa tragica sera avrebbe dovuto esibirsi, insieme ad altri artisti di fama nazionale, il rapper reggino Kento, il quale, ora, desidera fortemente «restituire a quello spazio colori, allegria, musica e idee».

    Trasporti via mare vs Ponte sullo Stretto

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    Un traghetto della Caronte&Tourist davanti al porto di Messina

    Ed è di questo, io credo, che la nostra terra ha bisogno, oltre che delle infrastrutture di supporto per consentire a chiunque di raggiungerla in sicurezza e in tempi adeguati, dall’uno e dall’altro versante dello Stretto. Per attraversare il quale, senza deturparlo, è sufficiente un intervento, certamente meno costoso, di potenziamento del trasporto marittimo. Sono questi i problemi – e tanti altri, considerato che certamente non ve n’è penuria – sui quali si dovrebbe concentrare l’attenzione dei governanti locali e nazionali.
    Le Piramidi stanno bene in Egitto, e non ne servono altre dalle nostre parti.

  • James Maurice Scott: un esploratore britannico a tu per tu con la ‘ndrangheta

    James Maurice Scott: un esploratore britannico a tu per tu con la ‘ndrangheta

    James Maurice Scott: un suddito di Sua Maestà Britannica in Aspromonte. Oggi non farebbe quasi notizia, come tutte le presenze anglosassoni nell’era del turismo di massa.
    A fine anni ’60 le cose erano diverse.
    La Calabria affrontava una transizione importante e sofferta verso la modernità. E uno come Scott, che ne attraversò a piedi le parti interne, poteva fare strani incontri e vivere qualche avventura ancora più strana.
    Per lui tutto questo non era un problema: infatti, era un esploratore di lunga esperienza.
    Che volete che fosse la ’ndrangheta per uno come Scott?

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    James Maurice Scott

    James Maurice Scott in Calabria prima di Montalto

    «C’erano jeep piene di carabinieri armati dappertutto», racconta l’esploratore nel suo diario.
    E prosegue, con tono divertito: «Era stato allestito quello che appariva a tutti gli effetti un quartier generale con le antenne radio e tutto il resto, mentre un elicottero ci girava letteralmente intorno». Di più: «Ero l’unico uomo disarmato e non in uniforme nel raggio di diverse miglia».
    Qualche tempo dopo, Scott apprende il motivo dello spiegamento di forze: «I carabinieri avevano ricevuto una soffiata sul fatto che la Mafia siciliana e quella locale avrebbero tenuto una specie di meeting sull’Aspromonte».
    Non può mancare, a corredo, un tocco di ironia british: «Non posso fare a meno di confessare che io stesso avrei tanto desiderato d’essere arrestato. Avrei potuto tenere banco per anni con quella storia». Già: «Ero rimasto deluso anche perché ero stato già arrestato un’altra volta sui Pirenei». Evidentemente, le Forze dell’ordine italiane erano di tutt’altra pasta rispetto a quelle della Spagna franchista.

    L’appostamento

    Scott non è un mostro di precisione sulle date e nella descrizione dei luoghi. Ma due elementi di questo racconto sono certi.
    Il primo: James Maurice Scott arrivò sull’Aspromonte nell’estate del ’69. Il secondo: in quell’estate le Forze dell’ordine tentavano in effetti di stringere il cerchio.
    Tutto lascia pensare che l’esploratore britannico si sia imbattuto in uno di quei tentativi di retata, coordinati dal questore Emilio Santillo, che avrebbe fatto il colpo grosso qualche mese dopo, con la retata del summit di Montalto, condotta con meno uomini (solo ventiquattro poliziotti) e mezzi.

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    Il questore Emilio Santillo

    Il summit di Montalto

    Il summit di Montalto è in parte una leggenda metropolitana, perché il processo che seguì al blitz si ridusse a poca cosa.
    E si sgonfiò in appello con assoluzioni importanti.
    Eppure le premesse erano golose, almeno per gli inquirenti e per i cronisti.
    Infatti, al megaraduno avrebbero partecipato i capibastone della ’ndrangheta di tutta la Calabria, ad esempio Antonio Macrì, Mico Tripodo, Giovanni De Stefano e Antonio Arena di Isola Capo Rizzuto.
    Più due big della destra, allora extraparlamentare, ma prossima a importanti conati eversivi: Junio Valerio Borghese e Stefano delle Chiaie.
    Non a caso, nell’ordine del giorno del summit c’era l’ipotesi di allearsi con l’estrema destra, che all’epoca era in prima fila nei moti di Reggio.

    Dal summit alla guerra di ‘ndrangheta

    Giusto due suggestioni per gli amanti dei “Misteri d’Italia” e delle relative dietrologie.
    L’ipotesi di alleanza con l’estrema destra, che in parte si realizzò, fu uno dei punti di rottura degli equilibri mafiosi e portò alla prima, terribile guerra di ’ndrangheta.
    Inoltre, il fremito eversivo destrorso prese corpo per davvero: ci si riferisce all’operazione Tora Tora. Ovvero al tentativo di golpe ideato da Borghese. E sul ruolo di Delle Chiaie e della sua Avanguardia nazionale c’è una letteratura corposissima.
    In tutto questo, resta una domanda: cosa ci faceva Scott in Aspromonte in quello scorcio di fine anni ’60?

    Al centro nella foto, Junio Valerio Borghese

    James Maurice Scott l’esploratore di Sua Maestà

    Tornato in Inghilterra, Scott affidò il suo diario di viaggio all’editore Geoffrey Bles, il quale ne ricavò un volume simpaticissimo, stando agli addetti ai lavori, intitolato A Walk Along the Appennines e uscito nel ’73.
    Il libro non è mai uscito in Italia. Solo di recente, Rubbettino ha tradotto e pubblicato la parte calabrese del viaggio di Scott, col titolo Sull’appennino calabrese.
    Ma chi era James Maurice Scott? Le sue biografie danno l’idea di un folle geniale.
    Figlio di un magistrato coloniale, Scott nasce in Egitto nel 1906, si laurea a Cambridge e poi si dà alla sua vera passione: la vita spericolata.
    Le sue bravate sono epocali: nel’36 si propone di scalare l’Everest, ma è escluso per un soffio dal corpo di esploratori britannici. Ma si rifà in guerra, durante la quale è istruttore dei corpi speciali. E gli resta un primato: l’esplorazione del circolo polare artico, per cercare un collegamento rapido tra Gran Bretagna e Canada.
    Poi, nel ’69, praticamente a fine carriera (sarebbe morto nell’86) decide di attraversare l’Italia a piedi. Ma, dopo questo popò di esperienza, il Belpaese per lui è la classica passeggiata…

    Un’immagine di Reggio Calabria durante i moti

    L’ultimo viaggiatore romantico

    James Maurice Scott, una volta varcato il Pollino diventa l’ultimo dei viaggiatori britannici che hanno girato la Calabria in epoche improbabili, con mezzi di fortuna o addirittura a piedi. È il caso di citarne due assieme a lui: Craufurd Tait Ramage (che ci visitò nel 1828) e Norman Douglas.
    Zaino in spalla, bastone in mano e pipa in bocca, Scott ha attraversato l’Italia dalle Alpi a Reggio.
    E si è divertito non poco, soprattutto nel nostro entroterra, dove allora iniziava lo spopolamento. Infatti, nella parte finale del suo viaggio, l’esploratore di Sua Maestà Britannica, racconta aneddoti gustosi e spara sentenze originali e, a modo loro, “affettuose”. Ne basta una sulla Sila.
    Dopo aver paragonato i paesaggi montani calabresi a quelli norvegesi o britannici, Scott spara un giudizio fulminante sulle montagne che sono diventate sinonimo di Calabria: «La Sila non è intrinsecamente italiana, e se imita altre terre tende a farlo meno bene». Una boutade in linea col personaggio.

  • Il fascismo nel pallone: le oscure vittorie azzurre negli anni ’30

    Il fascismo nel pallone: le oscure vittorie azzurre negli anni ’30

    Calcio e fascismo. Ne parla un libro coraggioso di Giovanni Mari edito da Storie di People.
    Già il titolo, Mondiali senza gloria, emette un giudizio senza attenuanti sulle vittorie della nazionale italiana di calcio ai Mondiali del ’34 e del ’38. È un argomento delicato, il Calcio nel nostro Paese. E lo è, in particolare, a proposito degli Azzurri, e se si avanzano, più che dubbi, certezze sulla bontà delle loro vittorie. L’assenza di gloria è un’affermazione secca, non è seguita da un punto interrogativo per mitigarla.

    Calcio e fascismo: un affare di propaganda

    D’altra parte Giovanni Mari – giornalista del Secolo XIX definito «appassionato di propaganda politica» – nella quarta di copertina, riempie molte delle 184 pagine del libro di informazioni in grado di dissolvere la nebbia che ha avvolto quelle vicende per tanto tempo.
    Mari usa una documentazione vasta e “terza” rispetto a quella disponibile in Italia. Lo ha spiegato lui stesso rispondendo alle sollecitazioni di Ernesto Romeo, dell’Arci–Circolo Samarcanda, e di Giuliana Mangiola, presidente della Sezione Carlo Smuraglia dell’Anpi, organizzatori dell’incontro tenutosi a Reggio Calabria nei giorni scorsi.
    L’autore ha consultato organi di stampa stranieri del tempo, proprio per non incappare nell’informazione pilotata dal regime fascista e da Mussolini in prima persona.

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    La nazionale in nero ai Mondiali del ’38

    La destra e il passato che non passa

    Il libro prende spunto dal calcio per parlare di storia, di politica, di passato ma anche di presente. Infatti, è uscito prima della vittoria della Destra alle elezioni del 25 settembre.
    Questa data segna l’inizio di una serie di atteggiamenti, dichiarazioni e i posizioni che hanno messo in luce il rifiuto di questo schieramento di fare finalmente i conti col passato. Al riguardo, l’ultima perla della premier è la dichiarazione della presidente del Consiglio sull’eccidio delle Fosse ardeatine, quando l’ineffabile Giorgia ha letteralmente riscritto la Storia catalogando semplicemente come Italiani, e non come antifascisti, ebrei, oppositori del regime, le 335 vittime della rappresaglia nazifascista.

    Fascismo e calcio: tutto pur di vincere

    Mari, d’altra parte, non fa sconti a nessuno. E in maniera senz’altro condivisibile denuncia come ascrivibile all’intero popolo italiano – con note e significative eccezioni – l’atteggiamento ambiguo, autoassolutorio, superficiale mostrato nei confronti del fascismo e dei suoi crimini a danno degli stessi italiani e dei Paesi che esso ha trovato sulla sua strada.


    Grazie a una poderosa ricerca, l’autore ha verificato come per la manifestazione del ’34, tenutasi in Italia, sia stato attivato ogni strumento per obbedire al diktat del duce per ottenere prima l’organizzazione del torneo e dopo la vittoria azzurra:

    • Garanzia di tolleranza zero sul fronte dell’ordine pubblico, dopo i problemi in Uruguay nel ’30, in continuità, d’altra parte, con quanto il regime aveva fatto fin dal suo avvento:
    pressioni sugli altri contendenti;
    • utilizzo di ingentissimi fondi pubblici, in una situazione pesante dal punto di vista economico, per ingraziarsi la Fifa e le altre federazioni;
    corruzione dei designatori degli arbitri e degli arbitri stessi, che consentì ai calciatori italiani di praticare un gioco violento per eliminare gli avversari e di ottenere decisioni smaccatamente favorevoli durante le partite;
    minacce ai giocatori maggiormente rappresentativi delle altre nazionali per non farli partecipare ad incontri decisivi;
    • utilizzo di giocatori stranieri naturalizzati italiani in spregio alle regole fissate dalla Fifa.

    Il duce e il pallone: un matrimonio d’interesse

    Il trionfo del duce fu totale, e la stampa, sportiva e non, agì da megafono per lo strombazzamento che ne seguì, con i consueti cori a sostegno della tesi della superiorità dell’italica stirpe.
    Inutile dire che questa tesi si trasferì presto dai campi di gioco a quelli di battaglia per essere clamorosamente smentita.

    Mussolini in posa tra gli azzurri

    Il duce, tra l’altro, non amava per niente il calcio. Semmai, era affascinato dagli sport olimpici e da quelli che riteneva nobili: boxe, scherma, tiro, ippica. E infatti il regime non inserì il pallone tra le pratiche obbligatorie.
    Tuttavia, ne aveva intuito le potenzialità per dare ulteriore impulso all’irreggimentazione delle masse, loro sì malate di calcio, allora come ora.

    Non solo calcio: il fascismo alle Olimpiadi

    Mari racconta altre vicende oscure sono legate alle Olimpiadi del ’36, quelle di Berlino e delle vittorie in serie di Jesse Owens che ferirono Hitler.
    L’Italia, che aveva aggirato il divieto di portare in Germania i professionisti facendo iscrivere all’università i giocatori più forti, vinse in finale contro l’Austria.
    Quello stesso anno, Mussolini, oramai succube del suo vecchio seguace, subì senza fiatare l’Anschluss, dopo aver fatto per anni a paladino del Paese annesso. La scomparsa dal panorama calcistico del Wunderteam, la super squadra austriaca, fu digerita dal condottiero italiano nello stesso modo. Quindi l’Anschluss aveva eliminato anche una temibile concorrente per il ’38. Perciò il sogno di uno storico bis in Francia diventava verosimile.

    Jesse Owens trionfa alle Olimpiadi di Berlino (1936)

    «Vincere o morire»: i Mondiali del ’38

    L’Italia, precisa Mari, a quel punto era una delle favorite perché oggettivamente ben attrezzata. Il clima però, era profondamente diverso: gli esuli italiani contestavano la loro stessa nazionale, che si presentava con una maglia nera col fascio littorio che, per visibilità, aveva soppiantato lo stemma sabaudo.
    Era la nazionale del fascismo, fautore delle disgrazie loro e delle loro famiglie. Mussolini inviò, per la finale con l’Ungheria, un telegramma nel suo stile: «Vincere o morire».

    Il c.t. ungherese interpretò queste parole affermando che, perdendo, avevano salvato la vita agli italiani e, probabilmente, anche a loro stessi.
    «La vittoria mondiale dichiarava, secondo la comunicazione di regime, una indiscutibile e assoluta superiorità italiana, non tanto nel talento, ma nella costruzione stessa del successo e del genio umano», scrive Giovanni Mari.
    E prosegue: «era la chiave che avrebbe portato l’Italia a occupare il posto che meritava nel consesso mondiale: se era stata capace nel pallone, poteva essere capace in qualsiasi campo».

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    Arpad Weisz, l’allenatore del Bologna epurato in seguito alle leggi razziali

    L’epurazione razziale colpisce il pallone

    Il disastro era ormai dietro l’angolo, preceduto dalle leggi razziste che anche nel mondo del calcio fecero il loro sporco lavoro. Ne fece le spese, tra gli altri, l’allenatore ebreo ungherese Arpad Weisz, artefice di due scudetti del Bologna, deportato e morto ad Auschwitz insieme alla moglie e ai figli.
    Il clima era quello che traspare da un brano de Il Calcio illustrato, secondo cui «che (gli allenatori israeliti stranieri danubiani) debbano fare le valigie entro sei mesi non ci rincresce: finiranno di vendere fumo con la loro arte imbonitoria propria della razza (…) La bonifica della razza avrà più che salutari conseguenze calcistiche».

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    Il ct Vittorio Pozzo alza la Coppa Rimet dopo la vittoria ai Mondiali di Francia (1938)

    La stampa supina

    Chi sa di calcio, tuttavia, sa anche che proprio tali personaggi portarono la sapienza tattica e tecnica danubiana in Italia, con benefici ed innegabili effetti su tutto il movimento calcistico.
    Il libro di Giovanni Mari è un’opera densa, non riassumibile in poche cartelle. Meritano attenzione le tante considerazioni di ordine generale che contiene. Ad esempio, sulla politica fascista (non solo) nello sport. Oppure sull’atteggiamento prono della stampa e di alcuni protagonisti per troppo tempo idolatrati (il c.t. Vittorio Pozzo e il telecronista Niccolò Carosio, in testa alla lista). E sulla continuità che ignobilmente contrassegnò il dopoguerra nel calcio e non solo.

    Dittature e calcio dopo il fascismo

    Il fascismo divenne, nella percezione collettiva, una parentesi sventurata, un cancro sviluppatosi in un corpo sostanzialmente sano.
    La svolta fu determinata dall’alleanza con la Germania. Gli italiani erano “brava gente”, che non collaborò coi nazisti, o lo fece obtorto collo, nel progetto della Soluzione finale.

    Il generale Videla premia la “sua” Argentina nei Mondiali del ’78

    Non manca qualche interessante riflessione sull’utilizzo dello sport nei regimi autoritari in generale. Ad esempio, quelli comunisti, o di altri Paesi come l’Argentina di Videla o, da ultimo, il Qatar.
    Un’opera importante, soprattutto in un periodo in cui il tema è tornato di stretta attualità, in cui il Governo e importanti pezzi dello Stato sono nelle mani di chi un giorno sì e l’altro pure alimenta, con parole e atti, una narrazione tesa a manipolare la Storia, o a negarla del tutto.

  • Lo smemorato Occhiuto e quel Da Vinci a Reggio

    Lo smemorato Occhiuto e quel Da Vinci a Reggio

    Roberto Occhiuto come Saverio Cotticelli? Tra il nuovo commissario alla Sanità (nonché presidente della Regione) e il vecchio qualcosa in comune sembrerebbe esserci: la memoria.

    Quella del generale dei Carabinieri era proverbiale e lo ha reso celebre in tutta Italia: aveva dimenticato di guidare lui la Sanità durante il Covid e di dovere, per questo, redigere un piano su come affrontare la pandemia. I primi, vaghi, ricordi erano riaffiorati soltanto in un’epica intervista della Rai, coprotagonista un fantomatico usciere mai inquadrato. Cose che capitano. Giorni dopo, sempre in tv, Cotticelli per giustificarsi avanzò un’ipotesi stupefacente: qualcuno poteva averlo drogato a sua insaputa per confondergli la mente. Promise anche di indagare su se stesso e pare che l’autoinchiesta si sia conclusa senza rinvii a giudizio.

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    Lo stupore di Saverio Cotticelli per il dettaglio dimenticato

    Occhiuto, favorito anche da un’età inferiore rispetto al predecessore, vuoti di memoria di tale portata ancora non ne ha avuti per fortuna. Né, siamo certi, chiamerebbe in causa misteriosi pusher invisibili come ninja per giustificare i suoi. L’ultimo è arrivato proprio nelle scorse ore. E dietro pare esserci, più che una sostanza psicotropa, un morbo che, prima o poi, colpisce chiunque in politica: l’annuncite.

    Occhiuto e il robot Da Vinci dell’Unical…

    Il presidente Occhiuto aveva lasciato la Cittadella per celebrare l’arrivo del robot Da Vinci all’Annunziata grazie anche alla neoistituita facoltà di Medicina dell’Università della Calabria. Giusto esserci, visto che si tratta di «un investimento realizzato dall’Unical, con risorse messe a disposizione dalla Regione». L’apparecchio, d’altra parte, permetterà senza dubbio di «qualificare l’offerta sanitaria della nostra Regione e abbiamo bisogno che i saperi delle università contaminino l’intero sistema sanitario».

    Ma è proprio quando il clima è di festa che il virus dell’annuncite si insinua nei corpi delle sue vittime prendendo il controllo dei loro ricordi e annebbiandoli. E l’entusiasmo intorno al Da Vinci non ha lasciato scampo ad Occhiuto. «L’installazione di questo robot – ha sottolineato ormai preda del morbo – dà la possibilità al sistema sanitario regionale di offrire gli stessi servizi garantiti in altre Regioni. Finora chi doveva subire un intervento alla prostata era costretto ad andare fuori dalla Calabria, proprio perché il nostro sistema sanitario era sprovvisto di questo robot che ormai è ordinariamente utilizzato sia per questo tipo di interventi ma anche per altri che riguardano, ad esempio, la chirurgia toracica, oncologica o ginecologica».

    Al Gom dal 2016

    Il robot Da Vinci, però, tutto è meno che una novità per la Sanità calabrese e Occhiuto dovrebbe saperlo. Esiste e lo usano da diversi anni con successo al GOM di Reggio Calabria. Si parla di una delle eccellenze del disastrato sistema sanitario della regione, abbastanza poche da non poter sfuggire a chi lo governa.

    In una lunga e interessante intervista del giugno 2018 su Strill.it l’urologo Pietro Cozzupoli raccontava quanto Da Vinci fosse stato utile all’ospedale da quando – a novembre del 2016 – era entrato in servizio. Funziona così bene che ad operarsi a Reggio arrivano anche da fuori della Calabria. Lo ha fatto tempo fa finanche il cardinale Robert Sarah, pur non mancando al Vaticano strutture verso cui indirizzarlo. E, proprio nei giorni scorsi, il Corriere della Calabria ha riportato la notizia di un intervento chirurgico in urologia robotica al Gom che ha salvato la vita di un paziente oncologico guineano arrivato fino a Reggio per operarsi con il Da Vinci.

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    Pietro Cozzupoli (foto CityNow.it)

    «Nella nostra struttura – spiegava il dottor Cozzupoli cinque anni faesistono già due equipe formate da quattro, cinque urologi in grado di eseguire interventi robotici e una equipe infermieristica con competenze multidisciplinari. Non solo, esistono già due altre equipe chirurgiche, di chirurgia generale e di ginecologia, che operano con il robot da Vinci. Perché il nostro robot è multidisciplinare, lavora su varie specialità».
    Ma quando il virus dell’annuncite è entrato in un organismo, non c’è chirurgo o robot che possa rimuoverlo.

  • Furto di due mezzi del Comune di Polistena, arrestati in tre

    Furto di due mezzi del Comune di Polistena, arrestati in tre

    Questa mattina, alle prime luci dell’alba, i Carabinieri della Compagnia di Taurianova, hanno arrestato tre soggetti, già noti alle forze dell’ordine, in esecuzione di un’ordinanza di misura cautelare emessa dal Tribunale di Palmi. L’accusa per loro è di furto e ricettazione di due camion per la raccolta dei rifiuti del Comune di Polistena, rubati nella notte del 20 agosto scorso.

    Il furto a Polistena

    A coordinare l’indagine sono stati il procuratore della Repubblica di Palmi, Emanuele Crescenti, e il sostituto procuratore Federico Moleti. Il loro impegno e quello dei militari coinvolti ha permesso di dare un nome a due dei presunti protagonisti del furto. Questi, dopo aver rotto i lucchetti del cancello principale del centro raccolta rifiuti comunale di Polistena, si erano impossessati di un furgone e una motrice con la gru e cassone scarrabile, utilizzati per il trasporto e lo smaltimento dei rifiuti. A causa del furto per diversi giorni era andato in tilt il servizio di nettezza urbana di Polistena. E l’amministrazione comunale aveva dovuto farsi carico, nell’immediatezza, delle spese previste per rimettere le cose a posto.

    Il terzo uomo: un mezzo nell’autocarrozzeria

    Ora è arrivata anche l’identificazione di un terzo soggetto, anche lui destinatario di una misura cautelare. Nel corso dell’attività di accertamento, nel novembre scorso i militari dell’Arma avevano ritrovato uno dei mezzi che erano stati rubati al Comune di Polistena all’interno dell’autocarrozzeria di cui era gestore. Nei confronti dell’uomo, che all’arrivo dei carabinieri aveva negato di conoscere la provenienza del furgone, l’ipotesi del reato è, dunque, quella di ricettazione.
    Il provvedimento emesso dal GIP di Palmi ha disposto per i tre soggetti la misura cautelare degli arresti domiciliari aggravata dal divieto di comunicazione con persone non conviventi.
    Trattandosi di provvedimento in fase di indagini preliminari, rimangono salve le successive determinazioni in fase dibattimentale.

  • Roccella Jonica, i Carabinieri incontrano le scuole

    Roccella Jonica, i Carabinieri incontrano le scuole

    Il 25 marzo scorso i Carabinieri della Compagnia di Roccella Jonica e della locale Stazione CC Forestale hanno aperto le porte della caserma agli alunni delle scuole secondarie di primo grado. È l’avvio di una serie di incontri che si prefiggono lo scopo di promuovere sul territorio la cultura della legalità.

    La stazione dei Carabinieri di Roccella Jonica aperta alle scuole

    Gli studenti delle prime classi intervenute, il terzo anno delle scuole medie dei Comuni di Riace, Bivongi e Stilo, sono stati condotti attraverso un percorso conoscitivo delle prerogative e dei compiti dell’Arma dei Carabinieri. Insieme ai militari presenti hanno così affrontato varie tematiche. I carabinieri hanno illustrato loro le principali funzioni esercitate sul territorio dalle diverse articolazioni che compongono l’Istituzione.

    Una lezione di legalità

    Nel corso delle attività gli studenti hanno inoltre osservato da vicino il parco auto – moto della Compagnia Carabinieri, ponendo domande sulle modalità di impiego dei mezzi nei servizi d’istituto.
    L’incontro si è rivelato funzionale al rafforzamento del sentimento di legalità nei giovanissimi intervenuti, i quali hanno avanzato numerosi quesiti, mostrandosi fortemente interessati e incuriositi dalle tematiche proposte.

  • Joseph Roth, libri e film per combattere la fortezza Europa

    Joseph Roth, libri e film per combattere la fortezza Europa

    La citazione è lunga, e la chiosa ne riporta una seconda davvero illuminante. Ma per il suo contenuto, il suo autore, l’anno in cui è stata partorita, vale la pena di leggerla fino in fondo.

    Le parole di Joseph Roth

    «Se fossi papa, vivrei ad Avignone. Sarei felice di vedere ciò che è riuscito a realizzare il cattolicesimo europeo, quale grandiosa mescolanza di razze, quale miscuglio colorito delle più disparate linfe vitali. Sarei felice di constatare che nonostante questo rimescolio il risultato non è una tediosa uniformità. Ogni persona porta nel proprio sangue cinque diverse razze, antiche e recenti, e ogni individuo è un mondo che ha origine in cinque diversi continenti. Ognuno capisce tutti gli altri, e la comunità è libera, non costringe nessuno a comportarsi in un determinato modo. Ecco qual è il grado più alto di assimilazione: ognuno resti com’è, diverso dagli altri, straniero rispetto ad essi, se qui vuole sentirsi a casa propria. Un giorno il mondo avrà l’aspetto di Avignone? Che timore ridicolo hanno le nazioni, e perfino le nazioni in cui si vanta una mentalità europea, se credono che questa o quella “peculiarità” possa andar perduta e che dalla colorita varietà degli esseri umani possa scaturire una poltiglia grigiastra! Gli uomini infatti non sono dei colori, e il mondo non è una tavolozza! Quanto più numerosi sono gli incroci, tanto più nette resteranno le peculiarità! Io non riuscirò a vedere quel mondo meraviglioso in cui ogni singolo rappresenterà l’intero, ma già oggi intuisco un simile futuro quando siedo nella piazza dell’Orologio di Avignone e vedo rifulgere tutte le razze della terra nel viso di un poliziotto, di un mendicante, di un cameriere. È questo il grado più alto di quella che viene chiamata “umanità”. E l’umanità è l’essenza della cultura provenzale: il grande poeta Mistral, alla domanda di un dotto che gli chiedeva quali razze vivessero in questa parte del paese, rispose stupito: “Razze? Ma se di sole ce n’è uno solo!“.

    Questo brano è tratto dal libro Le città bianche di Joseph Roth. Nel 1925, il grande scrittore mittleuropeo fu inviato dal Frankfurter Zeitung nelle località della Provenza – tra le altre, Avignone, Lione, Marsiglia, Vienna, Tarascona – caratterizzate, appunto, dal loro colore dominante.

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    Lo scrittore Joseph Roth

    Cinema al Circolo Zavattini

    Queste magnifiche corrispondenze si trovano in un libro che ho letto nello stesso periodo in cui il Circolo Zavattini di Reggio propone una rassegna che comprende alcuni film francesi, l’ultimo dei quali è stato L’anno che verrà, del 2019, per la regia di Mehdi Idir e Grand Corps Malade. La storia narra di una scuola media in cui dai primi anni si concentrano in classi di sostegno gli allievi che non esprimono opzioni su materie come il latino, lingue straniere o musica. La vice preside appena arrivata, Samia, francese di seconda generazione, prende a cuore le sorti di alcuni alunni di origine maghrebina e sub sahariana, con un contesto familiare segnato da difficoltà di vario genere. Al di là della bella trama dell’opera, m’interessa prendere in considerazione un altro aspetto, legato a quanto esplicitato da Joseph Roth.

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    Il regista francese Mehdi Idir

    Il cinema d’Oltralpe, in questa e in tante altre occasioni, ha tratto enorme vantaggio dalle “linfe vitali” delle quali scrive Roth. È l’ennesima dimostrazione, nota a chi sa leggere l’evoluzione umana senza pregiudizi e preconcetti ideologici, del contributo fondamentale che può venire a ogni Paese dall’iniezione nel suo corpo sociale, economico, politico, di forze fresche, di idee e punti di vista e conoscenze e culture differenti.

    Nello scritto di Roth vi sono altre riflessioni. Quello che oggi chiameremmo melting pot sarebbe il frutto dell’azione del cattolicesimo europeo, che ha realizzato una «grandiosa mescolanza di razze, (un) miscuglio colorito delle più disparate linfe vitali». Inoltre, il “rimescolio” non produce “una tediosa uniformità”, ma persone che portano in sé le proprie caratteristiche (di razza: allora il termine era di uso corrente) perché nessuno è “costretto a comportarsi in un determinato modo”.

    Il mondo che immagina Joseph Roth

    Nel mondo futuro che Roth immagina, consapevole che non avrà il tempo per ammirarlo, dalla commistione scaturisce non una “poltiglia grigiastra”, ma una società nella quale ognuno manterrà la propria identità, nel rispetto di quella altrui.
    Una vera lezione, quella di Joseph Roth, che dovrebberoe mandare a memoria soprattutto i governanti e i cittadini di quelle nazioni affette dal “timore ridicolo” di subire chissà quali stravolgimenti, chissà quali “sostituzioni etniche”, addirittura programmate da menti diaboliche.
    Capita abbastanza spesso di rilevare in qualche grande del passato un pensiero attuale, perfettamente adattabile alla realtà dei nostri giorni. Credo che questo sia un caso emblematico di pensiero eterno, di analisi e conclusioni sempre valide, dai tempi dei cacciatori – raccoglitori fino ai nostri giorni. Un dubbio, tuttavia, rimane, instillato nella nostra mente dalla stretta attualità: se il mondo vaticinato da Joseph Roth lo vedremo noi o i nostri posteri, o nessuno mai.