È Physis il tema della XIV edizione della scuola estiva di altra formazione in filosofia “Remo Bodei” di Roccella Jonica, che si svolgerà dal 22 al 29 luglio 2023. La parola chiave è greca e significa “natura”, l’idea infatti è di ripensare a questo concetto antichissimo che nell’epoca della crisi ambientale globale è al centro di molteplici interessi e preoccupazioni.
Il tema della natura si riconnette alla riflessione sul nesso scienza-tecnica che è stato filo conduttore dei due anni precedenti: «È urgente indagare con senso critico l’impatto della tecno-scienza sull’ambiente, ossia sull’insieme delle forme di vita che popolano la Terra. La materia vivente è sotto attacco – consumata, inquinata e mercificata – e tra le specie a rischio ormai c’è anche quella umana. Allora la domanda diventa: è possibile immaginare un’altra natura?». Così si legge in un comunicato stampa del direttivo di Scholé, l’associazione organizzatrice dell’iniziativa.
La Scuola parte il 22 luglio 2023 alle ore 18.00 nel salone dell’ex Convento dei Minimi con la lezione inaugurale del direttore Bruno Centrone (Pisa): “Physis alle origini: generazione, natura, essenza”. Seguirà un programma molto fitto, composto da una trentina di appuntamenti animati da voci filosofiche, sociologiche, filologiche, scientifiche e giuridiche: Gennaro Avallone (Salerno), Paolo Bussotti (Udine), Fortunato Maria Cacciatore (Cosenza), Giancarlo Cella (Pisa), Claudio De Fiores (Napoli), Arianna Fermani (Macerata), Cristiana Franco (Siena), Anna Maria Urso (Messina).
Le lezioni, gli inviti alla lettura e gli incontri serali, che toccheranno come d’abitudine diversi luoghi e spazi di Roccella, saranno trasmessi anche on-line tramite Zoom. La Scuola è libera perché si autofinanzia e da qualche giorno Scholé ha rilanciato la campagna “Think Sharing” finalizzata a sostenere l’iniziativa.
Per tutte le informazioni sulle modalità di partecipazione basta consultare il sito web www.filosofiaroccella.it e le pagine Facebook e Instagram. Sempre sul sito è già disponibile il programma degli incontri. La Scuola è organizzata da Scholé in collaborazione con il Comune di Roccella Jonica, l’Università di Macerata, l’Università di Pisa e Radio Roccella.
Una nota della Lega – non del ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture, come sarebbe stato logico – immortala il lieto fine nella querelle sul Ponte tra la sindaca di Villa San Giovanni, Giuseppina Caminiti, e il ministro Matteo Salvini, con tanto di foto coi protagonisti sorridenti. In sostanza, tuttavia, la sindaca ha ottenuto la presenza alle riunioni del c.d.a. della Stretto di Messina s.p.a., per i rappresentanti dei Comuni di Reggio, Villa e Messina, da uditori. Tra i decisori a pieno titolo, quale componente del c.d.a., siederà invece il commissario regionale della Lega.
Il Ponte della Lega
Sembra dunque che il progetto Ponte sullo Stretto sia un affare che riguarda principalmente la Lega, il partito suo e del ministro. E i rappresentanti del territorio che sarà investito non tanto dall’opera, sulla cui realizzazione è lecito ancora oggi avanzare fondati dubbi, quanto dai cantieri? Relegati a ruoli di comparse.
Avranno il loro strapuntino al tavolo delle decisioni, senza tuttavia poterle influenzare, e solo per gentile concessione del ministro. La maggioranza di governo ha sonoramente bocciato anche l’o.d.g. presentato in Parlamento, sulla cui approvazione aveva puntato la sindaca di Villa.
Salvini e Giacomo Saccomanno, commissario regionale della lega in Calabria
«Il primo cittadino – si legge nel comunicato – ha fatto presente l’importanza di un coinvolgimento dell’amministrazione comunale e degli enti interessati all’accordo di programma quadro sulle grandi opere al fine di rappresentare le istanze più urgenti dei cittadini. Sul tavolo anche il progetto di Villa San Giovanni che si candida ad essere Città dei trasporti innovativa ed ecosostenibile».
Chi spinge e chi frena
Quindi i cittadini saranno coinvolti nella gestazione dell’accordo di programma? E come? E cosa significa che Villa si candida quale città dei trasporti innovativa ed ecosostenibile? Sembrano, o lo sono effettivamente, frasi gettate lì, perfettamente compatibili con tutta questa storia nella quale c’è chi spinge per aprire al più presto i cantieri, anche per dare lavoro a non si sa quante centinaia di migliaia di persone, senza aver chiarito le questioni fondamentali e dirimenti ancora sul tappeto:
sul progetto definitivo;
sul reperimento dei fondi;
sulla realizzazione delle opere senza le quali (alta velocità ferroviaria in Calabria e Sicilia, A2, Palermo – Messina, ecc.) l’ipotetico ponte non sarebbe altro che un isolato ecomostro nel nostro territorio.
C’è chi spinge, dicevamo. E sull’altro fronte ci sono i resistenti ad oltranza. L’accusa, nei confronti di questi ultimi, è di tenere una posizione “ideologica”. E anche chi esprime perplessità si affretta a premettere di farlo «non per ragioni ideologiche».
Sono quei termini che fanno capolino nel dibattito improvvisamente, e quatti quatti cominciano a prendere piede fino a quando chiunque, anche chi ne ignora il significato, trova il modo di infilarli in ogni discussione. Come «resilienza» o la locuzione «mettere a terra». Ghigliottina, direbbe Francesco Merlo. Cosa c’entra l’ideologia, o l’approccio ideologico, con la riflessione sulla realizzazione di un’opera? Assolutamente nulla.
«Nel pensiero marxista, l’insieme delle credenze religiose, filosofiche, politiche e morali che in ogni singola fase storica sono proprie di una determinata classe sociale, informandone il comportamento, e che dipendono dalla collocazione che questa ha nei rapporti di produzione vigenti; in quanto tale, l’ideologia, lungi dal costituire scienza, ha la funzione di esprimere e giustificare interessi particolari, per lo più delle classi proprietarie ed egemoni sotto l’apparenza di perseguire l’interesse generale o di aderire a un preteso corso naturale. Nel pensiero sociologico, il complesso di credenze, opinioni, rappresentazioni, valori che orientano un determinato gruppo sociale; anche, ogni dottrina non scientifica che proceda con la sola documentazione intellettuale e senza soverchie esigenze di puntuali riscontri materiali, sostenuta per lo più da atteggiamenti emotivi e fideistici, e tale da riuscire veicolo di persuasione e propaganda 4. Nel linguaggio corrente: b. In senso spreg., soprattutto nella polemica politica, complesso di idee astratte, senza riscontro nella realtà, o mistificatorie e propagandistiche, cui viene opposta una visione obiettiva e pragmatica della realtà politica, economica e sociale».
Le ragioni dei contrari
Ora, tutto mi sembra di poter dire a proposito della posizione di chi si oppone alla costruzione del Ponte, tranne che essa possa essere ascritta “ad atteggiamenti emotivi e fideistici”. O “tale da riuscire veicolo di persuasione e propaganda”. Oppure, ancora, qualificata come “complesso di idee astratte, senza riscontro nella realtà, o mistificatorie e propagandistiche”, cui si oppone una “visione obiettiva e pragmatica della realtà politica, economica e sociale”. Semmai è vero il contrario.
Chi non vuole il ponte sullo Stretto lo fa per aver valutato il contesto territoriale attuale, reputandolo bello e attrattivo così com’è, dal punto di vista paesaggistico, ambientale, naturale. Lo fa nella convinzione, validata dalla scienza e dagli studi condotti, che l’attraversamento dello Stretto può essere efficacemente garantito mediante altri mezzi, meno costosi e per nulla impattanti. Lo fa nella certezza che le difficoltà di realizzazione sono tante e tali, anche facendo riferimento ad altre opere realizzate in altre zone del “globo terracqueo”, da costituire un grosso rischio, sia in corso d’opera, sia a costruzione ultimata, per questioni geologiche, metereologiche, ingegneristiche.
Lega, ultrà e no ponte
Non troppo tempo addietro abbiamo dato conto, su questa rivista e più volte, di ogni aspetto particolare inerente a quanto appena esposto. Tanto da poter affermare, senza tema di smentita, che l’approccio ideologico è insito e appartiene a chi invece per il ponte si è piazzato nella curva degli ultrà, con l’atteggiamento tipico di chi crede fideisticamente in qualcosa che nulla ha a che fare con la realtà, con i fatti.
D’altra parte, si sente spesso parlare di opere compensative rispetto alla edificazione del Ponte. Ma, di grazia, ci si vuole spiegare perché si dovrebbero prevedere compensazioni per qualcosa di così grande, bello, utile? Per quella che viene sovente indicata come la panacea di tutti i mali per una terra che si sta desertificando giorno dopo giorno, a livello umano e a livello fisico-territoriale?
Lo Stretto di Messina
Non ci piace il benaltrismo, è una dottrina che non ci appartiene. Ma mai come in questa vicenda è il caso di dire con forza che sono altre le idee e i progetti, da tradurre finalmente in pratica, dei quali questo lembo di terra ha bisogno.
Lo strapuntino conquistato dalla sindaca di Villa San Giovanni sarà utile alla propaganda leghista e perfetto per la foto di rito, ma non serve a lei come non serve al territorio che abitiamo. L’unica trincea dietro la quale vogliamo stare e che va difesa ad oltranza è quella contro chi vuole compiere una devastazione definitiva e irrimediabile nello Stretto di Messina.
Questa tappa di Gente in Aspromonte riguarda medie valli, allevamenti, suini, cooperative, testardaggine e riscatto dalla marginalità. Ne sono venuto a conoscenza da un intreccio di contatti passato per la Toscana e rimbalzato a Reggio Calabria. Capito di cosa si trattasse, ho creduto che la storia che segue dovesse essere raccontata. Perché è l’emblema di come l’impegno sociale, la cultura imprenditoriale, il riscatto dalla marginalità e le convergenze possano creare occasioni di sviluppo. Anzi, di sviluppo da una rinascita. Da un ritorno.
La cooperativa Maiale nero d’Aspromonte al gran completo
Lungo la Statale 106
L’appuntamento con i suoi protagonisti è ad Ardore Marina, a due passi da Locri, una novantina di km da Reggio da attraversare sulla SS 106. Dalla città, imboccando la litoranea, ci si tuffa in un percorso sospeso tra mare e monti verso sud. Oltrepassa promontori, scavalca scogliere, si incunea snodandosi tra i bianchi calanchi fino a gettarsi tra le gallerie della nuova superstrada. In primavera si aprono vallate aggredite e inondate dalla ginestra, dove, a volte, la macchia mediterranea è stata usurpata dall’impianto di eucalipti. Superata Palizzi, la nuova pedemontana sfuma sulla vecchia litoranea tra pinete, canneti e abusivismo edilizio. Il viaggio sulla SS 106 verso la Locride ha sempre il suo effetto: il filmato di un eterno conflitto, quella strana commistione dove l’arcaico si mischia al tempo immobile di una provincia che ruota intorno a un bar, a una cattedrale, a qualche esercizio commerciale; una provincia sfregiata dal cemento, dall’isolamento e da una sorta di determinismo ineluttabile a cui pare si nasca già inchinati.
Maiali alllevati in semilibertà
Il maiale nero allevato in semilibertà
Arrivo ad Ardore alle 10 di un mattino che odora di pioggia. Mi aspettano in piazza Piero Schirripa e Attilio Cordì, fondatori della Coop Maiale Nero d’Aspromonte. Piero e Attilio hanno due passati molto diversi alle spalle, per formazione, retroterra familiare, percorsi di vita. Entrambi hanno lasciato qualcosa e trovato qualcos’altro in un’odierna comunione di intenti che li ha resi compagni per sorte, impegno e passioni. Parcheggio e me li trovo davanti. Il primo vestito da caccia, lo sguardo acuto dietro gli occhiali, e il secondo con la sua cartellina in mano e gli scarponi da montagna ai piedi. Un caffè al volo e ci spostiamo a Baracalli, verso l’allevamento di Fortunato Sollazzo, uno dei 18 che sono parte della loro cooperativa.
Fortunato Sollazzo fa parte della cooperativa Maiale nero d’Aspromonte
Contrada Baracalli è una frazione del Comune di Benestare. Siamo a 400 metri sul livello del mare, nella media valle del comprensorio. Dall’alto, dove ci fermiamo a scattare qualche fotografia, l’allevamento si confonde tra la vegetazione. Attilio mi affianca e punta il dito davanti a me ad indicare qualcosa: «Lo vedi quel verro che corre?». Aguzzo la vista e, in corrispondenza al suo dito, noto una macchia scura che si aggira sulle pendici dei monti. «I nostri allevamenti seguono questi standard: la sostenibilità, il benessere animale, la semilibertà. Andiamo che ti presento Fortunato».
Benedetta da Dio
Quasi cinquantino, Fortunato è un tecnico installatore e un allevatore restato per passione: «Benvenuto!» Parte il secondo caffè. «Viviamo in una terra benedetta e conflittuale. Siamo figli degli arabi. Baracalli è un toponimo arabo: Baraq Allah, benedetta da Dio. Per anni, finché non ci siamo insediati, questi terreni sono rimasti abbandonati. Ma qui sono nato e qui voglio restare, seminando per raccogliere i frutti del mio lavoro. La mia azienda sorge nel 2017 come allevamento della razza appulo-calabrese. Quando è nata la cooperativa ho deciso di aderirvi e di cambiare tipologia di suino. Oggi mi occupo di maiale nero d’Aspromonte».
Fortunato, come poi Piero e Attilio, mi spiegano che si tratta di una razza unica che ha rischiato l’estinzione e che differisce dal suino nero. Questi maiali portano con loro caratteristiche organiche e nutrizionali uniche e si distinguono dagli altri per la presenza di una coppia di bargigli sotto la mandibola, ancora oggetto di studio. Probabilmente la loro funzione è di regolare la sudorazione e la temperatura corporea di animali robusti che vanno dai 100 ai 120 kg e le cui carni, particolarmente apprezzate per la produzione di prosciutti e culatelli, hanno una qualità straordinaria.
Una lotta contro l’abbandono
«Alleviamo il fresco, non facciamo trasformazione. La cooperativa ci aiuta a vendere sia su base locale che su base nazionale. In pochi anni abbiamo raggiunto risultati eccezionali. La tipologia di allevamento che ho realizzato progetta il futuro guardando al passato: i maiali in antichità – e la storia dell’Aspromonte ce lo insegna – era allevato al pascolo, non stallato. L’allevamento massivo provoca cariche batteriche altissime. I nostri maiali vivono in semilibertà, hanno a disposizione lo spazio vitale che occorre affinché crescano sani, robusti e seguendo un ritmo naturale. Sono partito da zero, senza supporti o sovvenzioni. Oggi ho 13 dipendenti e mi batto perché le istituzioni capiscano l’importanza del mio lavoro e di quello degli altri allevatori. Finché la montagna e la media valle non sono state abbandonate, parlo degli anni ‘60 e ‘70, la campagne venivano pulite, i torrenti controllati. Oggi è tutto all’abbandono».
L’allevamento di Fortunato sorge su un terreno argilloso, ricco di potassio, accanto al letto di una fiumara che non ha più argini. «Voglio lottare perché il minimo indispensabile sia realizzato, perché avvenga un ripristino dell’area rurale. E non sono il solo. Ho con me gli altri allevatori».
L’unione fa la forza? Fuori dalla Calabria
In tutti i viaggi che ho fatto, la Cooperativa del Maiale Nero d’Aspromonte è la prima – e forse unica – coop di medie dimensioni che ho incontrato. Per uno che ha vissuto diversi anni tra Umbria ed Emilia Romagna è respirare una boccata di aria. Quello che mi sono sempre chiesto è perché il modello cooperativo in una terra priva di grandi realtà imprenditoriali e vocata ad agricoltura, allevamento e turismo non riesca, con tutti i suoi limiti, ad attecchire. Fortunato ne fa un problema culturale: «Noi calabresi siamo individualisti e conosciamo fin troppo bene i meandri dell’invidia. Due sentimenti ottusi e controproducenti che ci dispongono gli uni contro gli altri. Manca completamente la cultura dell’impresa e del lavoro, non il lavoro. Con la terra si può vivere. Anche in Calabria. Io ho difficoltà a trovare operai: quando sentono maiali e fatica si intimoriscono. Ma il nostro non è un allevamento intensivo, non esci puzzando di stalla, letame ed urina. Puoi vederlo da te. Decenni di assistenzialismo hanno prodotto il disastro culturale che abbiamo sotto gli occhi, che poi si trasforma in disastro economico e sociale. Non scordiamoci la storia dei finti braccianti agricoli. Oggi paghiamo le conseguenze, trovandoci una serie di terreni abbandonati».
Un seconda possibilità per gli ex detenuti
È quello che ci ha tenuto subito a precisare Piero. Perché la cooperativa viene da lontano ed è uno dei tanti progetti avviati grazie all’aiuto dell’allora arcivescovo di Locri, Giancarlo Bregantini, in prima linea per sottrarre terreno al malaffare e promuovere una nuova fioritura della Locride: un’iniziativa partita dalla ricerca di esemplari di maiale nero in Aspromonte e poi concentrata sul miglioramento della specie. La cooperativa, infatti, è nata anche con l’obiettivo di dare una nuova possibilità di vita ad ex detenuti: «Ci sono due modi per aiutare i più deboli: o fai assistenzialismo, con i gli inevitabili danni che seguono oppure dai loro una canna da pesca insegni a pescare. Noi abbiamo deciso di dare le canne da pesca agli ex detenuti. Con loro abbiamo realizzato 40 ettari di serre e un’organizzazione con venti aziende di allevamento. Aiutare significa dare una vera chance di vita, dotando di gambe per poter camminare autonomamente. Con sacrifici, spesso attingendo alle nostre tasche, abbiamo messo su attività sociali e produttive al tempo stesso, aziende che operano sul mercato. La nostra ricetta è stata prendere soggetti deboli e farli diventare forti».
Un cammino pieno di ostacoli
E non è stato facile, perché «abbiamo subito tre interdittive antimafia, dato che lavoravamo con gli ex detenuti della Cooperativa Valle del Buonamico. Una cosa folle. Non avevamo nulla di che temere e infatti l’abbiamo spuntata sia al Tar che al Consiglio di Stato, ma abbiamo pagato un doppio prezzo molto caro, primo perché si tratta di procedimenti giudiziari costosissimi, secondo perché in prima battuta il progetto è naufragato».
Piero, che da direttore sanitario dell’ospedale di Vibo Valentia, ha subito intimidazioni e attentati senza mai piegarsi – come anche riportato nei verbali delle testimonianze dell’inchiesta Rinascita-Scott -, si riferisce al progetto originario avviato con un finanziamento congiunto di Regione Calabria e MIUR di 670.000 euro. Una ricerca tesa a studiare le caratteristiche del suino nero d’Aspromonte per tipizzarlo e verificare, attraverso lo studio del suo DNA, se costituisse razza a sé.
«In particolare dato che il maiale ha i suoi tempi, e non segue di certo quelli giudiziari, l’intera impalcatura della ricerca è venuta meno. La Regione ha proposto di recuperare la cosa in maniera cartacea, ma noi non abbiamo accettato. Però dopo dieci anni di percorso carsico, anche senza finanziamenti, con la nostra passione, abbiamo mantenuto in vita questa idea e poi siamo esplosi».
I maiali con più omega 3 dei pesci
Oggi la Coop Maiale Nero d’Aspromonte è una realtà che punta in alto. Mi racconta Attilio che «grazie alla preziosa collaborazione con il professor Pino Maiorana dell’ateneo di Campobasso il nostro percorso di ricerca prosegue. Prendiamo campioni di carne, li analizziamo, li categorizziamo e realizziamo la carta di identità del maiale che viene consegnata all’acquirente. Abbiamo scoperto che i nostri maiali possiedono caratteristiche uniche: un quantitativo di omega 3 superiore ai pesci con un rapporto con gli omega 6 pari a nessun altro; livelli importanti di topoferolo e di acidi grassi saturi e insaturi. E la presenza di buone proporzioni di acido leico e linoleico che richiedono sì una stagionatura più lunga delle carni, ma, in termini di qualità, l’attesa vale la pena».
Il maiale aspromontano sulla tavola dei Windsor
Attilio è un ritornato. Porta un cognome pesante e ritorna a nuova vita da un passato spietato che ha ripudiato affrancandosene completamente. Una rinascita, meglio che un ritorno, grazie a questo cammino fatto di impegno e di lavoro a contatto con la natura e gli animali. Attilio, per chi lo vuole e lo sa guardare, è un simbolo di riscatto. Oggi è coordinatore e direttore tecnico della cooperativa.
Mi racconta anche che le loro carni, vendute e lavorate nelle aziende toscane e romagnole di assoluta eccellenza vengono servite sulle tavole delle Real Case di mezza Europa, Windsor e Grimaldi per primi. «Collaboriamo con nomi noti della gastronomia italiana come le sorelle Gerini in Toscana e Massimo Spigaroli, re del culatello di Zibello. Hanno colto immediatamente la qualità del nostro prodotto. E sono stati quelli che ci hanno realmente supportato. Oggi la cooperativa è un laboratorio in continua evoluzione. Come ti ha detto Fortunato, si tratta di una realtà che mette al primo posto il valore della sostenibilità e del benessere animale: un modello seguito da diciotto aziende, quattro delle quali si trovano qui ad Ardore».
Il logo della cooperativa
Non solo nero d’Aspromonte
Ma dietro i maiali c’è di più: una strategia di lungo respiro che mira alla creazione di una filiera. Un obiettivo realizzabile non solo attraverso l’offerta di un prodotto di eccellenza, ma soprattutto promuovendo un cambio culturale: «Abbiamo avviato un progetto importante tra Locri e Crotone partito dalla collaborazione tra GAL Terre Locridee e Kroton per la creazione di un sistema regionale del suino nero. E abbiamo iniziato un percorso di qualità con le macellerie cui forniamo sia i certificati di tracciabilità, sia una sorta di bollino da esporre in vetrina per avvisare che in quell’esercizio si vendono i nostri prodotti. Che saranno forse un po’ più cari, ma con cui puoi stare sicuro di nutrire al meglio i tuoi figli. Parliamoci chiaro: in quattro mesi non puoi fare un maiale di 160 kg!».
Peste suina: gli allevatori chiedono un incontro con la Regione
Gli ostacoli che si presentano su questo cammino sono tre e tutti di differenti ordini: il primo è il nodo legato allo sviluppo di quella cultura del lavoro e della condivisione di cui parlava Fortunato Sollazzo; il secondo relativo alla necessità di una forte regia pubblica che sostenga e coordini lo sviluppo della filiera; il terzo connesso alla contingenza dell’epidemia di peste suina africana per la quale lo scorso 19 maggio la Regione ha emesso un’ordinanza che istituisce una zona infetta in ventisette comuni del comprensorio aspromontano, soggetta a diverse restrizioni e variabile a seconda dell’estendersi della malattia. Proprio in queste ore gli allevatori della zona, che è ancora salubre ma dove vige il divieto di macellare, sono in riunione per chiedere un tavolo tecnico alla Regione.
La cittadella regionale di Germaneto
«La Regione sia più vicina»
Piero Schirripa non ha mezzi termini: «Sembra che le nostre istituzioni, e in particolare la Regione, siano restie. Nonostante il prezzo dei cereali sia aumentato a causa della guerra, la Calabria, a differenza di altre Regioni con i loro allevatori, non ci ha dato una mano. Abbiamo illustrato la situazione ai nostri clienti toscani e romagnoli che hanno deciso di aumentare il prezzo di acquisto del 15%. Il prodotto finale costa di più ma l’aumento del prezzo è quasi irrisorio per la loro fascia di compratori. A noi invece questa percentuale consente di proseguire la nostra attività. Tutto questo perché i nostri maiali sono insostituibili. Vorremmo che la Regione facesse di più».
La Regione però in qualche modo ha cercato di fare il proprio lavoro. Lo scorso dicembre 2021 ha siglato un accordo di programma quadro insieme all’Agenzia per la Coesione Territoriale e diversi Ministeri per lo sviluppo dell’Area Interna – Versante Ionico Serre, in cui, nell’ambito del progetto di Biodistretto del Parco delle Serre e dei territori limitrofi, prevede «attività integrate di animazione e di accompagnamento verso il Distretto del Cibo, tra biodiversità ed agricoltura biologica».
Menzione specifica è fatta per il maiale nero d’Aspromonte che rappresenta una delle razze (se sia razza è tutto da vedere) che sta «esprimendo anche importanti effetti economici». La Regione ha intuito il potenziale di questa filiera. L’accordo mette in relazione rafforzamento del capitale sociale, miglioramento delle condizioni economiche del territorio, tutela delle matrici ambientali non rinnovabili e conservazione del paesaggio, in un «modello produttivo e relazionale sostenibile dal punto di vista ambientale, economico e sociale», volano per quel turismo naturalistico, lento ed esperienziale di cui mi aveva parlato Nicola Pelle.
Economia della montagna
É quello che ha auspicato monsignor Bregantini durante il nostro breve contatto telefonico: «Noi abbiamo creato i punti, ora è compito della politica tracciare la linea e mettere in campo una strategia». Vedremo se si passerà dai documenti programmatici ai fatti. Perché il ruolo del settore pubblico in questo meccanismo è essenziale, sia per fare sistema, sia per costruire un’economia della montagna.
L’arcivescovo Giancarlo Bregantini
«Realizzarla è possibile. Noi stiamo facendo il nostro, ma serve più impegno. Guarda che cosa succede alle ghiande. Qui ne perdiamo tonnellate e non abbiamo a chi rivolgerci sul territorio. Se vogliamo acquistarne, dobbiamo spostarci al confine con il catanzarese. Io le comprerei a 35-40 euro a quintale per i miaiali. Perché non supportare la nascita di una cooperativa di ragazzi che si occupi della loro raccolta e vendita? Con i sistemi innovativi oggi a disposizione, basterebbero poche ore di lavoro per aggiungere un punto che rafforzerebbe la nostra filiera creando nuovi spazi di occupazione», mi racconta Fortunato.
Verde e blu
Restituire alla montagna la presenza dell’uomo non è un dettaglio: «Senza l’uomo la montagna crolla. Noi abbiamo inventato lo slogan “Se la montagna è verde il mare è blu”. Il pastore e il contadino devono tornare a essere i suoi custodi. Norman Douglas racconta vividamente come l’Aspromonte fosse battuto da mandrie di capre e di maiali che non erano semplicemente libere, ma condotte al pascolo come faceva il porcaro Eumeo. L’uomo irreggimenta le acque, ripara i muri a secco. Queste cose non vengono capite dalle istituzioni che arriveranno quando sarà troppo tardi. Abbiamo un’emergenza in corso legata alla presenza di insetti e parassiti come la processionaria che divorano le foglie dei lecci. Ce ne accorgeremo quando non avremo più alberi?».
Non è l’unico problema: «Stesso dicasi – continua Piero – per al presenza poco regolamentata di lupi e cinghiali. Sono un anello del nostro ecosistema, ma non possono essere abitanti esclusivi. Il lupo aggredisce capre e pecore e senza una regolamentazione gli allevatori vendono il bestiame e chiudono le attività. Gli amministratori pubblici sono chiamati ad occuparsene perché vengono pagati per questo con i nostri soldi. Se non lo fanno, devono pagare. Serve una nuova mentalità: il futuro della forestale non è più legato alla presenza di agenti o guardaboschi che ci sono e non ci sono: bisogna fare spazio ad agronomi, tecnici dotati di moderne tecnologie, architetti ambientali. Porremmo un freno anche alla costante emorragia demografica», chiude Piero.
Maiali della tenuta Macrì
Un sistema complesso
La relazione tra montagna verde e mare blu spiega in quattro parole la fragilità e la complessità del sistema-Aspromonte, del rapporto osmotico e dell’equilibrio tra l’altura e la costa. Di quell’interdipendenza che li rende una cosa sola e che dimostra quanto frammentazione e ordine sparso ostacolino visioni e strategie di sviluppo congiunto.
Al ritorno imbocco la Limina, la cosiddetta strada dei due mari che taglia in due l’Aspromonte lambendo la Piana di Gioia Tauro. In radio passano Via del Campo. Ripenso a Piero e Attilio e alle loro storie. Ché è proprio vero che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori.
Mentre l’Italia è flagellata da fenomeni atmosferici eccezionali, figli del cambiamento climatico, certo, ma anche dalla mancanza di cura del territorio, in Parlamento va avanti spedito il cammino del Ponte sullo Stretto di Messinacon l’approvazione anche in Senato del relativo decreto legge. Nel frattempo, a Villa San Giovanni il movimento NoPonte ha organizzato un illuminante incontro. A relazionare, il professore Domenico Gattuso, ordinario di Pianificazione dei trasporti presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Chiari e puntuali i rilievi sul progetto del Governo. Con un elemento decisivo in più: le proposte alternative, credibili e circostanziate, per un collegamento efficace tra le sponde dello Stretto. In conclusione, anche un’idea per coinvolgere nella scelta i cittadini delle comunità interessate.
Sono quattro i punti focali delle conclusioni di Gattuso riguardo il Ponte sullo Stretto:
l’idea è debole perché presenta diverse criticità dal punto di vista strutturale, ambientale, di sostenibilità finanziaria;
non accorcia i tempi di percorrenza del braccio di mare;
la spesa da affrontare non rende vantaggioso per l’utenza il passaggio tra le due sponde;
sarebbe invece molto più efficace, per i tempi e i costi di implementazione, rafforzare e arricchire il transito via mare.
Ponte sullo Stretto: i rilievi di Gattuso
Partiamo dai rilievi. Il progetto è vecchio (del 2011) e infatti non risponde alla normativa europea in termini di valutazioni di impatto economico, finanziario ed ambientale. Né è dimostrata la sostenibilità dell’opera in relazione alla valutazione degli impatti dettata dall’UE di recente sul PNRR.
Per quanto concerne l’investimento da effettuare, si quantificava nel 2021 in 6 miliardi di euro, nel DEF appena approvato lievita a 14,6 miliardi (13,5 + 1,1 per le opere ferroviarie annesse). Costi per i quali, si specifica nel documento, non sono stanziati fondi e neanche il PNRR prevede nulla.
Il professor Domenico Gattuso
Il professor Gattuso sottolinea che i paragoni tra il Ponte sullo Stretto e altre opere simili già realizzate sono improponibili. È necessario, infatti, considerare alcune variabili fondamentali:
a) lunghezza;
b) larghezza e struttura dell’impalcato;
c) dimensioni e distanza tra i piloni;
d) profondità dei fondali;
e) presenza di rischi geologici, azioni del vento e di sismi, ecc.
Le dimensioni contano
I ponti a campata unica (come quello sullo Stretto) più lunghi al mondo sono il Çanakkale Bridge, in Turchia, di 2.023 metri e terminato nel 2022, e l’Akashi Kaikyō , in Giappone, di 1.991 metri e finito nel 1998. Ma c’è di più: quello ipotizzato in Italia prevede passaggio di traffico in gomma e ferroviario. Uno simile sta in Cina, il Tsing Ma, ed è lungo 1 km e 400 metri, non 3 km e 300 metri come il Ponte sullo Stretto.
Altri problemi sono legati al progetto stesso, che non è adeguato alle nuove norme europee venute dopo il 2010. Quello definitivo, poi, manca del tutto.
Restano numerose incognite da chiarire. Concernono forma e dimensione dell’impalcato, nonché l’altezza dal mare, prevista in 65 metri. Sarà sufficiente per il passaggio di navi da crociera e porta container o dovranno circumnavigare la Sicilia? Con quali costi? L’attracco a Gioia Tauro sarà ancora conveniente?
Per i piloni si prevede un’altezza di 400 metri, mai vista prima, e strutture di ancoraggio gigantesche. Piazzare i giganteschi piloni richiederà un enorme movimento terra. Dove la collocheranno? In fondo al mare, devastando uno dei fondali più belli e ricchi di biodiversità al mondo?
C’è un altro dettaglio che i cittadini di tutta l’area dovrebbero considerare, perché forse pensano di salire sul treno a Reggio, Villa o Messina e in un baleno essere dall’altra parte. Per raggiungere i 70 metri di altezza del Ponte sullo Stretto occorrono almeno 25 km per la ferrovia, spiega Gattuso, perché è prevista una pendenza massima del 3/1000. Quindi, raccordi a 25 km, non sotto casa.
L’impatto ambientale e le novità del PNRR
Veniamo all’impatto ambientale e alla sua valutazione. Le norme approvate per il PNRR prevedono 6 nuovi criteri, oltre a quelli in vigore in precedenza (teniamo presente che il vecchio progetto non ha mai superato la verifica d’impatto ambientale).
Ecco i 6 criteri inseriti di recente:
Investimenti volti alla mitigazione dei cambiamenti climatici;
Interventi per l’adattamento ai cambiamenti climatici;
Interventi a favore di un uso sostenibile e protezione delle risorse idriche e marine;
Transizione verso l’economia circolare, con riferimento anche alla riduzione dei rifiuti;
Azioni per la prevenzione e riduzione dell’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo;
Azioni per la prevenzione e ripristino della biodiversità e della salute degli ecosistemi.
Il traffico sullo Stretto e il no di Gattuso al ponte
Se consideriamo invece l’efficacia dell’opera, per il trasporto di persone vediamo quali sono i flussi di attraversamento.
Quindici anni fa, il grado di saturazione del trasporto era appena del 15-20% nelle ore di punta. Probabilmente oggi sarebbe ancora peggio, dato il trend decrescente di traffico sullo Stretto. Tra il 1995 (fonte MIMS) ed oggi, si sono persi 3,4 milioni di passeggeri all’anno (-25%: da 13,4 a 10,0 Mn) e 1 di veicoli (-35,7%; da 2,8 a 1,8 Mn), soprattutto a beneficio degli aeroporti siciliani, passati nel decennio 2009-2019 da 11,3 a 18,0 milioni all’anno. Anche il traffico merci è in calo: meno 100mila camion (-11,1% dal 1995; da 900 mila a 800 mila), mentre è cresciuto molto il traffico via mare (con navi Ro-Ro): +23,4% su Palermo e +13,1% su Catania, solo negli ultimi cinque anni.
La Alf Pollack
In sostanza, una componente significativa di traffico merci ha preferito il mare al percorso “stradale” passante per lo Stretto. Gli stessi operatori privati hanno attivato servizi marittimi sulla direttrice Sicilia-Campania, più vantaggiosi sia per le imprese che per gli autotrasportatori.
E sono entrate in gioco navi a media e lunga percorrenza (Sicilia – Centro-Nord): la Superspeed 1, costruita in Danimarca, la Passenger/Ro-Ro, infine la Alf Pollak, nuova nave Ro-Ro – la più grande del Mediterraneo, costruita in Germania e consegnata al gruppo armatoriale italiano Onorato – con una capacità di trasporto di oltre 4.200 metri lineari.
Pendolari e pedaggi
Come andranno invece le cose per i pendolari Reggio-Villa verso Messina e viceversa? In termini di tempo non si avrebbe alcun beneficio: dal centro di Reggio a quello di Messina 45 minuti, non dissimile da quello con gli attuali catamarani. In più, evidenzia Gattuso, attraversare il Ponte sullo Stretto non sarebbe gratuito. Il pedaggio sarebbe almeno pari a quello attuale in nave: 40-50 € per un’auto, 160- 180 € per un pullman, 70-150 € per un camion, 460-750 € per un mezzo infiammabile.
Gattuso sottolinea inoltre il rischio che il ponte possa allontanare le città dello Stretto dai traffici nazionali, agendo da tangenziale per i traffici di attraversamento con la marginalizzazione di Reggio e Messina.
Imbarcaderi a Messina
Veniamo agli aspetti economico-finanziari. Il costo del ponte è oggi di 14,6 miliardi di euro, e non si sa nulla, tra l’altro, dei futuri costi di manutenzione. Non esiste project financing. L’investimento è a carico della collettività, con ricavi gestiti da privati in concessione. Bisognerebbe attualizzare gli indicatori economico-finanziari in termini di dati di ingresso (flussi decrescenti e costi crescenti). Atteso un peggioramento degli indici che già erano inconsistenti nel 2012. Le valutazioni dovrebbero seguire le procedure attualizzate dal Manuale UE che la Commissione ha elaborato nel 2014.
Ai privati interesserebbero la gestione per il profitto che può determinarsi solo con pedaggi elevatissimi, altrimenti tutto cadrà sulle spalle dei cittadini italiani.
Infrastrutture, crescita, ambiente e sicurezza
E la vulgata secondo cui il ponte sullo Stretto «rappresenta un volano di crescita economica e sociale per la Sicilia e la Calabria»? Gattuso afferma che la più recente letteratura economica è pressoché concorde nel sostenere come non vi sia un nesso causale tra investimenti in infrastrutture di trasporto e crescita. Ciò non è avvenuto con l’alta velocità e uno studio della Banca d’Italia ha certificato che la Salerno–Reggio Calabria non ha avuto effetti sul PIL della Calabria.
La facciata di Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia
Per quanto concerne i costi esterni, la Via del mare è preferibile alla strada. ALIS, in uno studio del 2001, ha stimato che grazie ai servizi Ro-Ro e alle Autostrade del mare, sono stati eliminati dalle strade, in Italia, circa 1,7 milioni di mezzi pesanti. Quindi 47,2 milioni di merci sono state spostate sulle rotte marittime, abbattendo 2 milioni di tonnellate di CO₂. Il vantaggio economico per l’ambiente è stato stimato in 1,5 Md €. A questo si aggiunge una riduzione dell’incidentalità su strada, del rumore da traffico e del carburante consumato. Inoltre, le navi in costruzione oggi sono assai meno inquinanti rispetto al passato.
Notevoli i rischi per il ponte se si parla di “safety & security”. Numerosi i problemi di safety: la circolazione dei veicoli in una carreggiata a 6 corsie in rettifilo, con scarso traffico, produrrà velocità elevate; intensità del vento e spinta laterale; oscillazioni possibili date le dimensioni di sezione trasversale; azioni sismiche imprevedibili; eruzioni vulcaniche e polveri; esplosione di veicoli con merci pericolose (vedi Bologna, 2018); omessa manutenzione (vedi ponte Morandi, 2018). Quanto alla security, sussisterebbero rischi di attentati (vedi Crimea nel 2022).
L’alternativa di Gattuso al Ponte sullo Stretto
Ecco invece l’alternativa di Gattuso al Ponte sullo Stretto, in poche mosse, in tempi rapidi e a costi di gran lunga inferiori.
Innanzitutto, serve una flotta navale ben strutturata e dimensionata. Un traghetto a doppio portellone (come quelli attualmente in servizio) costa circa 50-60 milioni di euro, un catamarano da 250 posti circa 8-10. Inoltre su un traghetto dotato di binari può trovare posto un intero treno regionale senza necessità di scomporlo. Per una flotta di 20 traghetti e 10 catamarani sono necessari 1,2 miliardi di euro.
Poi, il riassetto dei servizi marittimi sullo Stretto. Con un utilizzo combinato nave-treno per servizi locali-regionali avremmo traghetti catamarani per servizi passeggeri a maggiore frequenza.
Infine, l’integrazione dei servizi di trasporto pubblico sulle due sponde. Da Messina Centro a Reggio Calabria Centro, con approdi adeguati e potenziati e stazioni marittime distribuite sulle due coste, in tutta l’Area metropolitana dello Stretto.
Per ottimizzare l’impiego delle risorse bisogna raffrontare i costi, che fanno pendere nettamente la bilancia per il trasporto pubblico mediante treno, metropolitana, autobus, navi di ultima generazione. Solo per avere un’idea, 1 km di TAV costa 40-50 milioni di euro, 1 km di ferrovia a doppio binario elettrificato10-15 milioni. Un km di ponte sullo Stretto? 3 miliardi di euro!
Per le tariffe per gli utenti serve considerare la distanza tra le due sponde e la necessità di instaurare una vera continuità territoriale, che non è effettiva se il costo del pedaggio, di qualsiasi genere, è quello attuale. Occorre quindi calcolare le tariffe da applicare come quelle dell’autostrada, cioè a 20 centesimi al km. E quindi: 2 € a persona, 4 € ad auto, 15 € a camion.
Prima il dibattito (vero), poi il referendum
La domanda finale che pone Gattuso richiede un cambio di prospettiva: «Serve una sola grande opera costosa e di dubbia utilità e fattibilità o è preferibile un insieme diffuso di opere e servizi abbordabili, utili e fattibili?».
Una domanda retorica, per chi non ha pregiudiziali o interessi di altro genere. E a rispondere dovrebbero essere i cittadini interessati delle due sponde con un referendum, come reclama il professore.
Una consultazione cui deve precedere un dibattito vero e diffuso. Approfondito, basato sui dati, sulle informazioni, non sul tifo da stadio o sull’ideologia.
Piovene scriveva che la maggior parte dei calabresi aveva una cultura montanara più che marinara. Contemplavano il mare dalle alture dei loro paesi, senza esservi mai stati vicini. La pesca non si praticava molto in Calabria per la mancanza di porti. Solo in alcuni centri come Parghelia e Scilla l’attività di mare era sviluppata.
Galanti ci informa che i marinai di Scilla erano trecento e veleggiavano su feluche a due alberi che trasportavano merci fino a duecentocinquanta cantaia. Ciascuna imbarcazione aveva un equipaggio di venticinque marinai che partivano in ottobre per vendere e acquistar prodotti di vario tipo.
Commerciavano soprattutto stoffe, alici salate, mandorle, pasta di “rigorizia”, uva passa, manna, limoni, essenza di bergamotto e “portogalli”.
Una volta nei porti dell’alto Adriatico, soprattutto Venezia e Trieste, vendevano le loro merci. Inoltre acquistavano prodotti importati specialmente dalla Germania e dalla Svizzera per rivenderli in Puglia e in Calabria.
La pesca e il problema del sale
Lungo i villaggi della costa c’erano poche imbarcazioni e la pesca si esercitava solo nei mesi in cui il mare era calmo. D’inverno si vedevano solo barche che provenivano dalla Sicilia, dalla Puglia e dalla Campania. Malpica annotava che i pescatori di Sorrento si stabilivano a Schiavonea, portando con sé mogli e figli, all’inizio dell’inverno e andavano via al cominciare dell’estate. Con le loro agili barche, non avevano timore ad affrontare il mare tempestoso, ma spesso la pesca era infruttuosa e portavano a casa solo debiti.
L’attività della pesca, ricordava Galanti, era poco sviluppata anche perché risultava difficile smerciare il pesce fresco in quanto il trasporto richiedeva molto tempo. Si mangiava pesce quando la distanza lo permetteva. Il mare era ricco di acciughe e sarde, ma il sale fossile, ottimo per salare le carni, non era adatto per conservarle. La carenza e il costo eccessivo del sale rappresentava un serio problema. A Crotone, ad esempio, quando la pesca dei tonni era abbondante, molti pesci venivano bruciati o ributtati in mare perché era impossibile salarli o venderli.
Pesce spada, l’imperatore dei mari
Oltre al tonno, la pesca più importante e spettacolare in Calabria era quella del pesce spada. Nel 1862, Lombroso scriveva che erano numerosi i pescatori che si dedicavano alla sua cattura. Erano divisi in piccole società di 10 o 20 membri e il loro linguaggio era «d’antichissimo conio greco».
Il pesce spada (xiphias gladius), l’imperatore dei mari, era una “bestia” lunga da sei a otto piedi. Il peso variava dalle due alle trecento libbre e, talvolta, raggiungeva i quattro quintali. La spada attaccata alla testa del corpo filiforme ne faceva un mostro.
Pescatori a Scilla
Nel 1791, Stolberg annotava che, nel mare di Scilla, lottavano incessantemente con i «cani di mare». Un giorno le onde avevano scaraventato sulla spiaggia un pesce spada e un pescecane. Il primo aveva infilzato il secondo, ma non riuscendo a ritrarre la “sciabola” e impossibilitato a nuotare liberamente, era morto insieme a lui. I marinai raccontavano che il pesce furioso per la ferita dell’arpione a volte si lanciava contro le barche sfondandole con la spada. Per questo stavano sempre in guardia, soprattutto se l’animale era di taglia considerevole e la ferita leggera.
Il pesce spada e l’incantesimo in greco
Alcuni studiosi sostenevano che il pesce spada arrivava sulle coste della Calabria nel mese di giugno per poi spostarsi sulle coste della Sicilia. Altri scrivevano che a partire dal mese di aprile fino alla fine di giugno, entrando nello Stretto, seguiva la costa sicula per poi costeggiare la Calabria. Il pesce spada si muoveva sempre sulle orme della femmina, che non perdeva mai di vista e un viaggiatore notava che questo sentimento naturale comportava quasi sempre la rovina dell’uno e dell’altra.
Il marinaio che li scorgeva ne approfittava: i suoi colpi cadevano prima sulla femmina, giacché dal momento in cui questa era colpita il maschio non pensava più a fuggire. Brydone raccontava che i pescatori dello Stretto, alquanto superstiziosi, pronunciavano frasi in greco come «incantesimo» per attirare il pesce spada vicino alle loro barche. E che se per disgrazia l’animale li sentiva parlare in italiano, si tuffava di botto sott’acqua per non comparire più!
Come catturare il pesce spada
In realtà la pesca del pesce spada era molto complessa e sperimentata nel corso dei secoli. Per catturarlo i marinai usavano i luntri, barche con un albero dall’altezza notevole terminante con una piattaforma, dove stava il giovane incaricato ad osservare i movimenti del pesce.
Un luntro dipinto da Renato Guttuso
Queste imbarcazioni, lunghe diciassette-diciotto piedi, avevano la prua più larga e più alta della poppa per facilitare i movimenti del lanciatore: scelto fra gli uomini più forti e abili, era armato di una fiocina, la cui asta, fatta di legno durissimo, era lunga almeno dodici piedi. Il dardo terminale, che i locali chiamavano freccia, era lungo sette-otto pollici e provvisto di due orecchie mobili di ferro.
Una volta entrata nel corpo del “mostro”, la freccia non poteva essere estratta che dalla mano dell’uomo.
Sulle coste della Calabria, alcune persone si arrampicavano sulle rocce e sugli scogli che costeggiavano la riva per avvistare il pesce e segnalarlo con urla e bandierine ai compagni sulle barche. Il lanciatore, in piedi sulla prua, con l’arma in mano, cercava di tenere l’animale sotto tiro. Quando era alla portata della lancia, aspettando il momento favorevole, lo infilzava e lasciava libera la corda. Il pesce spada ferito, perdendo le forze risaliva in superficie, i pescatori lo avvicinano con un gancio di ferro all’imbarcazione e lo portavano a riva.
La caccia al pesce spada attirava e affascinava studiosi e viaggiatori che annotavano in maniera dettagliata la tecniche per catturarli. Citiamo le descrizioni di Polibio, Grasser e Bartels.
Polibio
Un antico mosaico sulla cattura del pesce spada
A questo proposito racconta Polibio il modo con che si pescano i pesci spada intorno al promontorio di Scilla. Posta in sito acconcio una barca, la quale serva come di spia, si cacciano in mare molti schifi a due remi, in ciascuno de’ quali sono due uomini, uno per governarlo co’ remi, e l’altro in prora armato di un’asta per ferire il pesce. Al segno che da l’esploratore, che viene il pesce spada, il quale suole con un terzo del corpo star sopra l’acqua, lo schifo gli si appressa, e quello che tiene l’asta, gliela caccia da vicino nel corpo, e subito ritirandola ne rimane la punta fitta nel pesce, perché sendo fatta a guisa di amo, è attaccata all’asta in maniera che facilmente si lascia nella ferita, lanciata che è.
A quel ferro è congiunta lunghissima cordicella, la quale tanto vanno allentando, ferito che è il pesce, fin a tanto che dibattendosi, sforzandosi di fuggire, si stanchi; allora lo tirano al lido, ovvero lo raccolgono nello schifo, se pure non è troppo pesante, e grande. Se avviene che l’asta cada in mare, non però si perde; perciocchè essendo fatta di quercia la tira bensì sott’acqua, ma fa insieme che dall’altro capo l’abete, come più leggero, s’innalzi, ed agevolmente si possa ripigliare. Avviene anche talvolta, che quello dei remi nello schifo sia ferito dalla grandezza della spada che ha il pesce, e dalla forza con cui la vibra, ond’è che questa pesca sia pericolosa non meno della caccia de’ cinghiali.
Jacob Grasser (1606)
Nei pressi del mare c’è un torrione o una guardiola, dove ad un uomo di vedetta vien dato l’incarico di segnalare l’arrivo dei pesci spada. Fa parte della natura di questi pesci tenersi con un terzo del corpo fuori dell’acqua. Quando ciò avviene, i pescatori si distribuiscono in tutta la zona con le loro imbarcazioni, in modo che in ogni singola imbarcazione si vengono a trovare due persone: una con due remi alla guida della barca, l’altra a prua con in mano una fiocina. Appena la vedetta indica il punto dove si trova il pesce, la barca vicina lo raggiunge a remi, mentre un pescatore veloce lo colpisce con la fiocina che viene subito tirata indietro per cui il ferro, che è provvisto di una punta ricurva a mo’ di amo, resta conficcata nel pesce e nella ferita.
Quest’uncino è fatto in modo che la punta ricada all’ingiù. Al ferro è fissata una corda di una certa lunghezza che permette al pesce, ancora convinto di poter sfuggire alla cattura, di voltolarsi e muoversi con una certa libertà sino a stancarsi. Quindi lo trascinano a riva o, se non è troppo grande, ché talvolta se ne trovano di una lunghezza superiore a dieci cubiti, lo tirano sulla barca […] Il pesce spada è così violento ed irruente che spesso con la lunga spada riesce a ferire il rematore. È per questo che la pesca è pericolosa come una caccia al cinghiale, ed è anche difficile pescarlo con le reti dal momento che con la spada riesce a strapparle. Appena lo si è pescato, lo si fa a pezzi e lo si mette sotto sale come un tonno. Dicono che la sua carne sia molto delicata ma un po’ difficile da digerire.
Johann Heinrich Bartels (1786)
Secondo il racconto di Strabone si utilizzavano due imbarcazioni, una delle quali provvista di un albero su cui sedeva un uomo che aveva il compito di avvistare il pesce. Una volta avvistato il pesce che spuntava con le pinne dalla superficie del mare, l’uomo allertava i suoi compagni indicando loro come raggiungerlo. Subito una seconda imbarcazione si metteva al suo inseguimento mentre un uomo con una fiocina in mano si portava d’un balzo sulla prua.
Appena il pesce, che nel frattempo si era messo a giocare con l’ombra della barca, giungeva a tiro, l’uomo gli lanciava, ferendolo, la fiocina fissata ad un bastone legato a sua volta ad una corda. Nella fuga il pesce trascinava con sé la fiocina col bastone, e, quando le forze lo abbandonavano, veniva recuperato con la corsa e caricato sulla barca. Questa, all’incirca, la descrizione di Strabone; ed è questo anche il modo in cui si opera ancor oggi – con una piccola innovazione che rende più semplice l’operazione. Per attirare ed osservare il pesce, si manda avanti una feluca di una certa dimensione ad un albero, seguita da due piccole imbarcazioni. Appena si avvista il pesce, una di queste imbarcazioni viene mandata avanti con un piccolo equipaggio e un fiociniere. Lo strumento, una punta di ferro fissata ad un bastone, è rimasto immutato.
Mentre il pesce, ferito, fugge via, la corda fissata al bastone della fiocina viene allentata; e, appena ci si accorge che il pesce ha perso le forze, ecco sopraggiungere la seconda imbarcazione al seguito della feluca, la cosiddetta barca della morte, che insegue il pesce finché questo ce la fa a fuggire, e lo recupera appena muore. Questa pesca si pratica di norma nei mesi di giugno, luglio e agosto.
QUESTO FILM È DEDICATO ALLA MEMORIA DEL DODICENNE, MEDAGLIA D’ORO, GENNARO CAPUOZZO, AL VALOROSO POPOLO NAPOLETANO ED A TUTTI GLI ITALIANI CHE HANNO COMBATTUTO PER LA LIBERTÀ.
Con questa scritta, coi caratteri proprio in maiuscolo, si chiude il film Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy, prima proiezione del ciclo “Resistenza e Resistenze” organizzato dalla sezione ANPI C. Smuraglia di Reggio Calabria e dal circolo Arci Samarcanda, in collaborazione con il circolo Zavattini. «Quattro proiezioni – secondo la presidentessa del circolo ANPI Giuliana Mangiola – per riflettere sulla Resistenza come opposizione ad ogni azione tesa a calpestare i diritti della persona, i valori della libertà e della democrazia. Una rassegna che vuole denunciare quelle forme di sopraffazione con le quali l’altro non è più il prossimo ma il mezzo, lo strumento utile per ottenere potere e affermazione».
Le Quattro giornate di Napoli: la resistenza si allarga
Del film, e del suo grande valore artistico, abbiamo parlato col presidente del circolo Zavattini, Tonino De Pace, e ne riferiremo più avanti. Prima vogliamo invece analizzare l’oggetto dell’opera, l’episodio dal punto di vista storico. E chiederci anche il motivo per il quale esso non abbia avuto la rilevanza che avrebbe certo meritato.
Un momento delle Quattro giornate di Napoli
Nel suo manuale di Storia contemporanea il reggino Rosario Villari riporta così le Quattro giornate di Napoli: «A Napoli, intanto – una città che aveva subito nel modo più tragico le conseguenze della guerra, dei bombardamenti aerei, della penuria alimentare e dello sconvolgimento della vita civile – la popolazione, esasperata dalle violenze e dalle angherie delle truppe tedesche, insorgeva battendosi valorosamente e vittoriosamente nelle strade per quattro giorni (27-30 settembre 1943). Era uno dei primi episodi della Resistenza italiana, che coincideva con una diffusa presa di coscienza antifascista in tutto il paese e con la trasformazione dell’antifascismo da atteggiamento di gruppi relativamente ristretti in un vasto movimento di massa».
La città liberata senza aiuti esterni
Nel Dizionario di Storia de Il Saggiatore alla voce “Quattro giornate di Napoli (28 settembre – 1° ottobre 1943)” troviamo questa descrizione: «Episodio di resistenza armata contro l’occupazione tedesca, alla vigilia dell’arrivo delle truppe anglo-americane. L’insurrezione non fu organizzata da un centro militare e politico ma fu la somma di molte iniziative individuali o di gruppo, anche di giovanissimi; vi morirono sessantasei cittadini, tra cui undici donne». Non è poco.
Villari segnala che l’episodio è uno dei primi della Resistenza italiana. Dà anche conto di un suo tratto peculiare, la spontaneità, e sottolinea il valore dei napoletani che vi aderirono. Nel Dizionario, le Quattro giornate di Napoli sono traslate di un giorno, ma nel complesso, per lo spazio loro destinato, si deve tener conto che esso contiene 12.000 voci relative a tutta la storia del mondo intero.
Rimane un dato, incontestabile. Come abbiamo già scritto, il popolo italiano sa poco o nulla di una delle pagine più belle della lotta degli Italiani per la libertà. Dal 27 al 30 settembre del 1943, Napoli diede dimostrazione, con scarsissimi mezzi e altrettanto scarsa o nulla organizzazione, che era possibile scacciare i nazifascisti dalla città, tanto da presentarsi il giorno dopo, all’arrivo delle truppe alleate, già liberata. E tanto da meritarsi due medaglie d’oro al valor militare, una conferita alla città e una alla memoria di un ragazzino di neanche 12 anni, Gennaro Capuozzo.
Gennarino Capuozzo e le Quattro giornate di Napoli
Gennarino era nato nel 1932 in una delle case tipiche del centro storico di Napoli, nella quale abitava con i suoi cinque familiari. Suo padre era stato mandato in guerra nel 1941 e lui dovette darsi da fare per il sostentamento suo, della madre e dei tre fratelli. Dopo l’armistizio dell’8 settembre del ‘43, con il Re e Badoglio al sicuro a Brindisi, il Regio Esercito è abbandonato a se stesso, non sa più chi sono i nemici da combattere. I nazisti occupano Napoli e, giorno dopo giorno, aumentano la pressione sulla popolazione con angherie e soprusi di ogni genere. Gli alleati sono sbarcati a Salerno, ma la città non può aspettare perché il comandante cittadino dei nazisti assume il 12 settembre i pieni poteri, ordinando alla popolazione di consegnare le armi.
Lo sgombero della fascia costiera da parte dei nazisti
Il 22 i nazisti istituiscono un servizio di lavoro obbligatorio per i cittadini dai 15 ai 30 anni e impongono lo sgombero della fascia costiera. Il 27 i Napoletani iniziano ad attaccare i tedeschi con armi di ogni genere, ad alzare barricate, ad assalire i mezzi che trasportano prigionieri italiani. Tra gli insorti ci sono donne e bambini. Il giorno seguente i carri armati tedeschi, mandati dal comandante a fronteggiare la popolazione, sono fermati a a Capodimonte dai partenopei coi cannoni sottratti in precedenza agli occupanti. Messi alle strette, i tedeschi si arrendono e il 30 lasciano Napoli. Nella prima mattinata del 1° ottobre gli alleati entrano nella città, la prima a liberarsi da sola, senza l’aiuto di nessuno se non della dignità messa sotto i loro stivaloni dai nazisti.
Due medaglie al valore
Nella Storia collettiva, quella individuale ed eroica di Gennarino Cappuozzo. È il 28 settembre quando Gennarino si aggrega a un gruppo di ragazzi scappati dal carcere minorile che combatte contro i nazisti. Il 29 Gennarino Capuozzo e i suoi compagni decidono che la morte di 10 persone, uccise in un quartiere poco lontano, va vendicata. Avvistano un mezzo tedesco e lo attaccano. Il camion prova a scappare, ma Gennarino gli si avvicina e getta una bomba a mano contro il mezzo militare. Si avvicina e intima ai tre occupanti di scendere. E li fa prigionieri! Gennarino si sposta in un’altra zona della città. Qui, armato di mitragliatore e bombe a mano, si scaglia contro un carro armato. Una granata, a questo punto, mette a tacere per sempre il suo ardimento. Lo raccolgono col volto devastato e una bomba ancora stretta nel pugno.
Gennarino Capuozzo
La medaglia d’oro verrà consegnata alla madre, con una pergamena dove si legge: «Prodigioso ragazzo che fu mirabile esempio di precoce ardimento e sublime eroismo». L’altra medaglia verrà attribuita alla città di Napoli, che «col suo glorioso esempio additava a tutti gli italiani la via verso la libertà, la giustizia, la salvezza della Patria».
Questi i fatti che dovrebbero essere conosciuti, al pari di tutti gli eventi che hanno restituito la libertà e consegnato una vera democrazia all’Italia.
I dimenticati: Nanni Loy e le Quattro giornate di Napoli
Nanni Loy ha il merito di averli rappresentati magistralmente nella sua opera del 1962, che si segue dal primo all’ultimo fotogramma col fiato sospeso. «Nanni Loy – ci dice Tonino De Pace – è uno dei tanti registi che dopo la scomparsa l’Italia e il suo cinema hanno dimenticato abbastanza in fretta. È stato un regista molto attento alle regole dello spettacolo, ma al contempo anche un geniale innovatore. Il suo Specchio segreto, con l’allora sconosciuta (in Italia) candid camera, ha contribuito a rivoluzionare il mondo della televisione».
Una locandina del film di Nanni Loy
«Il film – afferma il presidente del circolo Zavattini – è uno dei pochi che raccontano la Resistenza al Sud e ha contribuito a rendere vivo il ricordo dell’insurrezione napoletana. Con la sua coralità reinterpreta lo spirito solidale della Resistenza. Protagonista del racconto è la città stessa con i suoi popolani, con le microstorie che compongono il quadro di un racconto drammatico che prende le mosse dal soggetto di Vasco Pratolini e dal libro, edito nel ’56, del giornalista Aldo De JacoLa città insorge: le quattro giornate di Napoli. Napoli e il suo popolo di scugnizzi ed eroici combattenti sono al centro della scena, con i loro volti e i loro drammi personali che si sommano a quelli della guerra».
«Nanni Loy – continua De Pace – ha realizzato un film avvincente, dal ritmo sostenuto, sorretto da una schiera di attori di primo piano: Gian Maria Volontè e Lea Massari, Jean Sorel e Aldo Giuffrè, e ancora le grandi Pupella Maggio e Regina Bianchi, un giovane Enzo Cannavale e Carlo Taranto. Un film che, a dispetto del suo valore culturale e cinematografico, critica e istituzioni hanno ingiustamente dimenticato quando, invece, riveste un ruolo centrale nella storia del nostro cinema proprio per essere uno dei pochi che racconta la Resistenza del Sud, ignorata o quasi, a sua volta, al pari del film di Loy, che la valorizza e la tramanda».
Insomma, un film da vedere, per il suo valore artistico e per avere una lettura e una conoscenza più complete della Resistenza italiana al nazifascismo.
Il ponte sullo Stretto: se ne scrive persino negli Stati Uniti (lo vedremo più avanti), ed è al centro del dibattito politico domestico. In Parlamento e anche a Reggio Calabria, dove, nell’ambito del Festival dell’economia, sviluppo e sostenibilità, ideato da Maurizio Insardà, si è tenuto un dibattito dal titolo “Infrastrutture di trasporto e sviluppo del Mezzogiorno” moderato dalla giornalista di Rai 2 Marzia Roncacci. Vi hanno partecipato il capo dipartimento del Ministero delle Infrastrutture e trasporti Enrico Maria Pujia, il docente di Economia politica dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria Domenico Marino, il vicepresidente di Confindustria Sicilia e presidente della Camera di commercio di Messina Ivo Blandina, il responsabile dell’organizzazione aziendale dell’Università Magna Graecia di Catanzaro Rocco Reina e l’assessore ai Trasporti del Comune di Reggio Calabria Domenico Battaglia.
I relatori sono stati concordi nel sottolineare che non sono le risorse il problema della Calabria, ma piuttosto l’incapacità di spesa degli attori in campo, in primis la Regione. Un problema certamente non di oggi. Ogni anno i finanziamenti stanziati tramite i diversi fondi europei vengono utilizzati solo in minima parte. Ciò, secondo Marino, soprattutto per la sovrabbondanza di progetti e bandi, mentre si dovrebbe puntare su 4 o 5 progetti strategici e realizzabili. Altre criticità rilevate dai relatori, in particolare da Pujia e Reina, quelle relative alla carenza di risorse umane adeguate e alle procedure farraginose. Sarebbero necessari investimenti corposi nella formazione, per avere personale in grado di seguire efficacemente l’iter procedimentale fissato dalle norme.
Tutti d’accordo, ma…
Per quanto concerne il ponte sullo Stretto, totale adesione al progetto, peraltro scontata, del rappresentante del Ministero, ma anche da parte degli altri intervenuti. Con l’eccezione significativa dell’assessore Battaglia, secondo il quale lo sviluppo della Città metropolitana di Reggio va inserito nello scenario più ampio dell’ Area integrata dello Stretto,rilanciando l’aeroporto e i porti ricompresi nell’Autorità di Sistema, al fine di fare uscire dalla marginalità un comprensorio ad altissima vocazione storico/culturale e quindi turistica. La posizione baricentrica nel bacino del Mediterraneo, a suo avviso, pone lo Stretto quale ideale testa di ponte per i Paesi emergenti del Nord Africa.
Un aereo fermo sulla pista del Tito Minniti
La sinergia necessaria tra i diversi enti coinvolti ha la sua base normativa nella l. r. del 2015 istitutiva della Conferenza interregionale per le politiche dell’Area dello Stretto. Sulla questione ponte Battaglia chiede innanzitutto chiarezza al Governo, rilevando inoltre che non è pensabile rispolverare un progetto vecchio di 12 anni, non sottoposto alla valutazione di impatto ambientale, del tutto inadeguato all’attuale sistema dei trasporti: «Ci sono sul tavolo delle amministrazioni comunali e metropolitane una serie di opere già finanziate che rischiano di essere inutili se dovesse realizzarsi il Ponte. Per questo come istituzioni del territorio reclamiamo un maggiore coinvolgimento».
Il ponte sullo Stretto e i soldi per la comunicazione
In Parlamento, intanto, la maggioranza non mostra titubanze di sorta.
La Commissione Ambiente e Trasporti della Camera approva un emendamento al decreto legge in discussione – da licenziare in Aula entro il 31 maggio – proposto da Lega e FI, che elargisce 8 milioni di euro ai Comuni di Villa San Giovanni e Messina per una campagna di comunicazione, verrebbe da chiedersi per comunicare cosa.
Ancora, mentre non si conosce la posizione della UE sull’affidamento al consorzio Eurolink, guidato dal Gruppo Salini, vincitore della gara del 2010, un altro emendamento
in commissione Trasporti prevede un secondo adeguamento nei prezzi di realizzazione dell’opera, ulteriore rispetto a quello già previsto nei contratti stipulati anni fa e finiti nel nulla con la messa in liquidazione della Stretto di Messina.
La Camera dei deputati
Misteri contabili
Secondo i tecnici della Camera dei Deputati un secondo criterio, per un secondo aumento che si «otterrebbe sottraendo l’indice Istat a una media calcolata sul valore dei primi quattro progetti infrastrutturali per importo banditi da Rfi e Anas nel 2022». Al che chiedono al governo chiarimenti, considerando «che questi adeguamenti aggiuntivi dovrebbero avvenire senza maggiori oneri a carico dello Stato» come prevede il decreto legge. In sostanza: come si fa ad aumentare il costo dell’opera (che arriverebbe complessivamente a circa 15 miliardi e mezzo), senza intaccare le casse dello Stato?
L’Autorità di Cannizzaro
E mentre rimangono fumose le intenzioni del Governo e del ministro alle infrastrutture sull’alta velocità da Salerno a Reggio e sulla statale 106, un emendamento approvato in Commissione Bilancio della Camera attribuisce all’Autorità di Sistema portuale dello Stretto il compito di individuare «i progetti prioritari necessari all’adeguamento delle infrastrutture locali, avviando un percorso di rifunzionalizzazione, anche al fine di renderle più coerenti e funzionali con la nuova configurazione che sarà determinata dalla costruzione del Ponte», secondo quanto dichiarato dal deputato Francesco Cannizzaro che lo ha proposto.
Ciccio “Profumo” Cannizzaro
Alla stessa Autorità «il compito di sviluppare ed eseguire anche progetti di miglioramento dei Porti di Reggio Calabria, Villa San Giovanni e Messina con interventi che potranno essere identificati come d’interesse nazionale prioritario e strategico e quindi beneficiare di appositi finanziamenti e procedure di semplificazione» per esempio per lo spostamento del porto traghetti di Villa San Giovanni a sud degli invasi. Fin qui le vicende nostrane.
Il Ponte sullo Stretto da Strabone a Wired
Ma il Ponte sullo Stretto di Messina suscita interesse anche oltre oceano. La rivista USA Wired lo ha identificato come il «ponte sospeso più lungo al mondo». È di pochi giorni fa la pubblicazione di un lungo articolo che ripercorre la storia concernente l’attraversamento stabile del tratto di mare tra Calabria e Sicilia. Si parte addirittura, citando lo storico greco Strabone, dai Romani, che nel 250 a.C. provarono a trasportare 100 elefanti catturati in battaglia da Palermo a Roma. Secondo Strabone, usarono barili vuoti e assi di legno per costruire un ponte provvisorio. I pachidermi arrivarono effettivamente nella capitale del futuro Impero, ma non si sa con certezza come.
“Hannibal traverse le Rhône”, Henri Motte, 1878
Aurelio Angelini, professore di sociologia all’Università di Palermo, autore de Il mitico ponte sullo stretto di Messina, ha dichiarato alla rivista che l’idea del Ponte è stata a lungo contrastata dalla gente del posto di entrambe le parti, per motivi politici, economici e ambientali, ma anche per la resistenza al cambiamento. «Siciliani e calabresi sono divisi, ma la maggioranza è contraria al ponte. La forte politicizzazione del progetto potrebbe anche essere un caso di “populismo infrastrutturale”. La retorica intorno al ponte trasuda nazionalismo», dice, «e l’idea è vista come un simbolo della grandezza dell’Italia, o della capacità di costruire un ponte più lungo di quanto chiunque altro abbia mai fatto».
Lobbies, record e diversivi
Wired sottolinea che il progetto è sostenuto da Matteo Salvini, «vice primo ministro e leader del partito populista della Lega, con il sostegno di Berlusconi, ora 86enne, che ha scritto, alla firma del decreto: “Non ci fermeranno questa volta”». Nicola Chielotti, docente di diplomazia e governance internazionale alla Loughborough University di Londra, sostiene che uno dei motivi per cui l’idea continua a riprendere vita è che ci sono tante persone che traggono profitto dal lavoro di progettazione: «Spendono costantemente soldi anche se non si materializzerà mai, e ci sono alcuni gruppi di interesse che sono felici di catturare quei soldi». Un’altra questione, aggiunge Chielotti, è che il progetto è un’utile pedina politica per un governo che finora ha taciuto su alcune promesse elettorali chiave, come la riforma fiscale e una posizione aggressiva nei confronti della finanza internazionale.
Wired fa il confronto con altre opere del genere già costruite per cogliere le difficoltà di realizzazione del progetto, che prevede un ponte sospeso a campata unica con una lunghezza di 3.300 metri: «È il 60 percento più lungo del ponte Çanakkale in Turchia, attualmente il ponte sospeso più lungo del mondo, che si estende per 2.023 metri. Con piloni di 380 metri di altezza, sarebbe anche il più alto del mondo, più del viadotto di Millau in Francia, 342 metri».
Il ponte sullo Stretto e la sostenibilità
La rivista riporta puntualmente alcune obiezioni autorevoli e fondate, di carattere ambientale e di sostenibilità finanziaria dell’opera.
«Siamo ancora in una fase in cui non ci sono prove che (il ponte) sia fattibile dal punto di vista economico, tecnico e ambientale», afferma Dante Caserta, vicepresidente della sezione italiana del World Wildlife Fund. «Lo Stretto di Messina si trova anche in due zone protette cruciali per i movimenti migratori di uccelli e mammiferi marini». E, per quanto concerne la sostenibilità economica: «Per 30 anni abbiamo fatto elaborazioni concettuali che sono costate ai contribuenti italiani 312 milioni di euro. Inoltre, la stima complessiva del costo di 8,5 miliardi di euro dal 2011 è destinata a salire a causa dell’aumento dei prezzi dei materiali e inflazione». E infatti siamo arrivati, come abbiamo scritto sopra, a un costo complessivo di 15,5 miliardi circa.
Auto sul traghetto tra Villa San Giovanni e Messina
Caserta dice anche che non è chiaro se l’economia sostenga il costo. «Non ci sarebbe abbastanza traffico per pagare il progetto attraverso i pedaggi, perché oltre il 75 per cento delle persone che attraversano lo stretto lo fa senza auto, quindi fare tutto questo solo per risparmiare 15 minuti non ha senso, soprattutto perché collega due aree con gravi problemi infrastrutturali».
Il professore Angelini segnala anche la mancanza di un progetto esecutivo. E aggiunge: «Il ponte non ha alcun legame reale con gli interessi sociali ed economici del Paese, e le persone e le merci si stanno già muovendo con altri mezzi». La chiosa è tranchante: «Penso che le possibilità di vederlo mai costruito siano scarse».
L’unica certezza
Abbiamo quindi dato conto di quanto accade in Italia, a livello di dibattito e di decisioni politiche. Abbiamo voluto anche dare conto di quanto pubblicato negli Stati Uniti. Il quadro complessivo sembra confermare l’impressione che il ponte sullo Stretto di Messina sia di prossima e certa realizzazione. Sulla carta. Il dato sicuro è che costerà ai contribuenti “della Nazione” ancora molto denaro.
Lo scetticismo è d’obbligo, così come la perplessità per scelte che privilegiano un disegno astratto rispetto ad altre realizzazioni (alta velocità ferroviaria, statale 106, potenziamento del trasporto marittimo e aereo per l’intera Area dello Stretto) che potrebbero dare un contributo decisivo per fare uscire dalla marginalità questo lembo di terra.
Il racconto del fenomeno escursionistico in Aspromonte è una storia che intreccia diversi operatori e altrettante generazioni. Ciò che le unisce non è solo la passione per i sentieri. È il senso della riscoperta, del riconoscimento e della ricerca di uno sviluppo altro che esula dalla logica del consumo di massa. Questo viaggio che comincia ad Antonimina, passa da Bocale e finisce a Reggio Calabria.
Uno scorcio del centro storico di Antonimina
Racconta di tre generazioni di escursionisti che, inconsapevolmente, stanno fornendo un contributo cruciale alla valorizzazione e alla crescita dei territori dell’Aspromonte.
Si tratta di Nicola, di Diego e di Luca. Ritornati o restati che, dal 1995 ad oggi, si sono messi in cammino prima soli e poi seguiti da un pubblico sempre più attratto dai cammini e dal trekking.
Era già stato Luca Lombardi ad ammonirmi dal non pensare che l’Aspromonte conservasse questa verginità. Dalle storie di questi tre protagonisti è sortito un quadro che ha una storia trentennale. E che, col tempo e il mutare di certi stili, ha creato un comparto in cui operano molteplici realtà. Il viaggio di questa puntata non risiede tanto nello spazio, quanto nel tempo.
Nicola Pelle
(San) Nicola di Antonimina
Appena sopra Locri, aggrappata alla montagna è appollaiata Antonimina. Un toponimo greco, un luogo “ricco di fiori” di 1.200 abitanti, con il suo culto per San Nicola di Bari e la sua varia di legno massello, un ritmo di vita quieto sopravvissuto ai terremoti del 1783 e del 1908. Antonimina è terra di pastorizia, uliveti, acque termali e caciocavallo, fratello del più famoso di Ciminà.
Arrivo lì con Luca Lombardi ai primi di marzo in una giornata umida e annuvolata. Me la trovo di fronte come un grazioso presepe dominato a sinistra dal maestoso Monte San Pietro. Nicola Pelle, fondatore di Boschetto Fiorito e guida ambientale, ci aspetta in piazza. Il suo sorriso lo precede: «Benvenuti! Andiamo a prendere un caffè, prima di tutto».
Non so bene se Nicola sia un restato o un ritornato, ma mi dice che questa è la sua nuova vita. «Ho unalaurea in ingegneria informatica all’Unical, i miei programmi erano di partire per il Nord. In effetti ho vissuto fuori, convinto di dovere seguire uno schema che è il topos dei ragazzi calabresi. Poi ho scelto di tornare ad Antonimina. Collaboro ancora con il settore fotovoltaico di Siderno, ma punto a vivere solo di montagna. Adesso sono felice perché sono pagato per fare quello che mi piace».
Nicola Pelle e Luca Lombardi
Luca ride mentre camminiamo tra i viottoli che si imbudellano fin quasi nel ventre dell’Aspromonte. Li seguo arrancando. «Antonimina è un paese che, come molti altri, ha subito la piaga dello spopolamento. L’accoglienza diffusa, il nostro primo motore realizzato sfruttando la possibilità di creare ospitalità nelle nostre seconde case, ha riportato nuova vita. Chi viene qui è alla ricerca del selvaggio, dell’incontaminato, quasi dell’esotico. La sciura milanese che abbiamo ospitato qualche tempo era rimasta sbalordita dal fatto che la sconosciuta vicina di casa le avesse bussato alla porta con una tazza di caffè caldo da offrirle. Non riusciva a capacitarsi di un gesto simile. La ricchezza di Antonimina e delle esperienze che regaliamo è anche questa».
Aspromonte trekking: Boschetto Fiorito
Nicola, assieme a un gruppo di amici, appassionati di escursionismo, è tra gli animatori dell’associazione Boschetto Fiorito che promuove pacchetti dedicati a quello che definisce il turismo lento: «Accompagnando gruppi di italiani e stranieri che battevano i sentieri aspromontani, avevamo necessità di dare ospitalità. La ritrosìa dei miei compaesani guidati dal presupposto de “la casa è mia e non la do a nessuno”, ha piano piano ceduto il passo all’entusiasmo e agli affari. Siamo partiti così. A questo si sono affiancate le attività escursionistiche, il noleggio di attrezzature e materiale outdoor – ciaspole, tende e mountain bike elettriche per il cicloturismo – e l’accompagnamento in percorsi dedicati al turismo naturalistico, complice la vicinanza con il Monte San Pietro. Con un bando siamo riusciti a prendere in gestione una vecchia casermetta della forestale costruita ai primi del ‘900 e successivamente ristrutturata dal Comune in zona Zomaro. Un punto nevralgico per chi percorre il Sentiero Italia o la ciclovia, data la carenza di ricettività. Da lì non ci siamo più fermati, continuando ad arricchire la nostra offerta con le escursioni domenicali».
Dalla montagna al museo di Reggio
Arrivati a una terrazza che domina la vallata di fronte a cui svettano i Tre Pizzi del Monte San Pietro, Nicola di Antonimina si affaccia e il suo sguardo si perde. D’improvviso si volta e mi chiede: «Guarda quelle rocce. Non ti viene voglia di arrivare fin lì? Io ci salgo almeno una volta alla settimana e ogni volta mi chiedo come mai i locali siano così poco interessati al loro territorio. Per me è paradossale che lavoriamo più con gli stranieri che con gli autoctoni, pigri e meno curiosi. Ma parte del nostro lavoro è anche quello di incuriosire, di ravvivare la memoria, come i nostri genitori hanno fatto con noi. Stuzzicare i palati stranieri con l’esca dell’esotico è più semplice, vuoi perché il loro diventa più facilmente un viaggio dello spirito, vuoi perché il fascino del selvaggio e dell’incontaminato per popoli nordici come gli scandinavi, abituati a una montagna più curata e antropizzata, scaturisce naturalmente. La pandemia ha invertito il trend. Abbiamo avuto meno stranieri e più italiani. Il nostro modello di escursionismo non si limita alla montagna per la montagna, ma arriva alle visite al Museo Archeologico della Magna Grecia di Reggio Calabria dove sono custoditi molti reperti rinvenuti in questi territori, a Locri o Ianchina. Facciamo fare un viaggio a tutto tondo per compenetrare appieno i luoghi battuti. Un turismo che non è solo lento, ma bifronte: prevede una parte paesaggistica e una culturale capace di connettere biunivocamente entrambe le esperienze».
Il mare a due passi dalla montagna: meraviglie del trekking d’Aspromonte
Il fortino greco di Bregatorto
Nicola è tra coloro che nel 2015 hanno partecipato come volontari ai sondaggi di scavo che hanno scoperto l’esistenza del Fortino di Bregatorto, tra le più vaste fortificazioni greche mai rinvenute nell’area della Magna Grecia. Si tratta di una struttura militare nell’area del Puntone di Bregatorto posizionata sul percorso che collegava l’antica Locri alle sue colonie tirreniche.
Lo studio (qui la versione in inglese) pubblicato dal professor Paolo Visonà sulla rivista Fastionline dell’Associazione di Archeologia Classica, spiega che la fortificazione fu costruita per sorvegliare il passaggio che conduceva alle subcolonie locresi sull’altro versante. Simili strutture furono realizzate dai Greci di Rhegion e Kaulonia a Serro di Tavola (Sant’Eufemia), San Salvatore (Bova Superiore) e Monte Gallo (Placanica).
Lo studio ha fatto ipotizzare che i Locresi si servissero di un sistema di difesa del territorio basato su una serie di punti di controllo, situati alla periferia della Chora e protetti da massicci circondati di mura. Le indagini topografiche condotte tra il 2013 e il 2015 da un team della Foundation for Calabrian Archaeology e dell’Università di Kentucky miravano a verificare questo modello e ad identificare altri siti simili.
Me lo racconta mentre saliamo al rifugio: «Sono stati rinvenuti resti di fortificazioni, vasellame, e scarsamente metallo, data l’estrema umidità della zona. Alla fine è stato tutto reinterrato. Era impossibile partire con una vera e propria campagna di scavi senza fondi».
A spasso tra i sentieri innevati in Aspromonte
Il Turismo Lento come orizzonte di crescita
La carenza di fondi, la cattiva suddivisione delle competenze, la mancanza di una chiara strategia di sviluppo e valorizzazione del territorio e dei suoi patrimoni contribuisce a rallentare un processo di rinascita che è in atto sottotraccia da anni e che contrasta con ladisattenzione delle istituzioni.
Basti pensare alla questione dei caselli e dei rifugi che resta una ferita aperta. Esiste una molteplicità di strutture spesso abbandonate o in rovina e suddivise per competenza tra Comuni, Comunità Montane, Calabria Verde e, collateralmente, Ente Parco. La mappatura più completa è stata curata da Alfonso Picone Chiodo, autore veterano della montagna, e realizzata dal CAI.
Un patrimonio per il quale mancano spesso i fondi e le responsabilità di gestione vengono rimbalzate da un ente all’altro anche a causa di procedure burocratiche farraginose in cui è complesso districarsi.
«In Aspromonte ci sono tante realtà che forniscono servizi di qualità. Parlo di piccole imprese e di associazioni che hanno costruito un modello dal basso tarato sulle caratteristiche di un territorio che non insegue il consumo del turismo, ma che ha comunque necessità di crescere economicamente. Se è vero che la Calabria ha una vocazione turistica, non è possibile né corretto calare dall’alto format preconfezionati che non le si addicono. Il modello aspromontano è quello del turismo lento, fatto di qualità prima che di quantità, di incontaminato, di selvaggio, di borghi, di natura, di memoria. Dobbiamo mantenere, non snaturare. La connessione tra tutti noi operatori dimostra nei fatti che, anche se un sistema di cooperative non esiste formalmente, la collaborazione spontanea e il mutuo soccorso non mancano. Puntiamo a un turismo di nicchia, ma sappiamo bene che per raggiungere certi obiettivi servono almeno tre elementi: il coordinamento con le istituzioni, la conservazione della memoria e la trasmissione dei nostri patrimoni. Credo che l’operazione più riuscita sia oggi la Ciclovia dei Parchi della Calabria – 545 km di percorsi ciclabili ben realizzati dal Dipartimento Tutela dell’ambiente della Regione Calabria e il settore regionale Parchi -. A parte questa iniziativa le istituzioni appaiono distanti anni luce dalla realtà che viviamo. Senza dialogo e sinergia, per me che sono anche una guida, è impensabile raggiungere obiettivi comuni e condivisi. Così come è impossibile avviare un modello cooperativo strutturato. Mi chiedo perché».
Diego Festa
Misafumera, Aspromonte trekking
Nicola e il suo gruppo sono partiti dalla sensibilizzazione e dalla formazione, specie dei più giovani: giornate ecologiche, attività coi bambini, escursioni di promozione del territorio. «La parte economica è venuta dopo e non è ancora soddisfacente, mentre quella sociale continua ad esserci. Sono i nostri due polmoni, camminano di pari passo e l’uno è vettore dell’altro». La storia che mi racconta è il prosieguo di quella di Diego Festa, antesignano e memoria dell’escursionismo aspromontano, attivista e fondatore della srl Misafumera. Diego è un restato.
«Nato alla marina di Bocale, ho iniziato a frequentare l’Aspromonte nel 1995 con il CAI e dal primo giorno sono rimasto folgorato dal tesoro che ho trovato. A quel tempo chi presidiava il territorio erano le organizzazioni GEA, Gente in Aspromonte, e CAI. Nel 1997 ho frequentato il corso per Guida Ambientale Escursionistica legata a Sentiero Italia. Eravamo agli albori e io sono entrato in punta di piedi: la montagna non era frequentata e noi venivamo guardati come alieni. Tutto è cominciato con l’incontro di Antonio Barca e Aldo Rizzo. Abbiamo costituito un’associazione e siamo partiti. I pochi che allora andavano a camminare erano impreparati sotto ogni punto di vista. Man mano, attraverso il CAI, iniziarono ad arrivare i primi gruppi di escursionisti dal Nord Italia. Così è cominciato tutto».
L’esplosione dell’escursionismo in Aspromonte
Oggi Misafumera è un ente economico che si occupa di escursionismo in tutto il Sud Italia, dalla Costiera Amalfitana a Lampedusa, ma conserva l’anima sociale da cui è partito. Negli anni si è battuto per la tutela del territorio e la difesa del suo ambiente, partecipando a campagne antibracconaggio, al rilievo, catasto e manutenzione dei sentieri in Aspromonte. Ha realizzato diversi progetti di educazione ambientale con le scuole del territorio reggino e partecipato a varie iniziative per la sua tutela.
«Negli anni l’escursionismo in Aspromonte si è trasformato: si è abbassata l’età media, è fiorito il senso per la montagna. Nell’ultimo decennio c’è stato uno stravolgimento: dal 2016 una vera e propria esplosione della domanda raccolta dai tanti gruppi come Boschetto Fiorito che abbiamo incoraggiato ad operare. Non c’è dubbio che Internet abbia spinto molto questo processo. Ciò ha favorito uno sviluppo culturale che è oggi tutto in mano alla nuova generazione. Seppur più lentamente che in altri territori, il cambiamento è in atto».
I colori dell’Aspromonte
Le istituzioni assenti
Diego è tra quelli che biasima le istituzioni. Ed è convinto che chi fa da sé faccia per tre: «Parlare di interesse degli enti locali o di amministrazioni per la montagna è una follia. O meglio, l’interesse c’è ma è collegato alle nomine. Un esempio per tutti, ormai datato, il ridimensionamento del Parco approvato dal Ministero e dall’Ente Parco: 10.000 ettari in meno, con un’area a tutela integrale che oggi lambisce il confine esterno del Parco e i territori dei Comuni che creano corridoi fin dentro il suo cuore. Spesso mi chiedo come stia proseguendo il progetto per la reintroduzione del Nibbio reale del 2021, a che punto sia la programmazione per altre progettualità, che strategia abbiano i Comuni e la Città metropolitana. Non riesco a darmi una risposta. Percepisco piuttosto un deficit di comunicazione e di confronto, una difficoltà a coinvolgere gli operatori nella co-progettazione. A quanto posso vedere l’unica cosa ben fatta e riuscita è la Ciclovia. Talmente ben fatta che è citata in diverse guide di settore. Non succede così spesso per la Calabria».
PerlAspromonte: tutelare e riscoprire i patrimoni
Misafumera è qualcosa che ritorna anche nella storia di Luca Laganà, cestista professionista reggino con un passato a Reggio Emilia e un presente a Reggio.
È un ritornato, fondatore dell’associazionePerlAspromonteche, i prossimi 13 e 14 maggio, organizza a Gambarie il Festival Mana GI. É tra gli ultimi arrivati nel settore dell’escursionismo. «Mi trovavo a Monte Misafumera, avamposto Nord della montagna, quando ho incrociato quelli che oggi sono diventati i miei soci. Si è cominciato a parlare di cosa potessimo fare per il nostro territorio durante la stagione degli incendi. Siamo partiti con una raccolta fondi in crowdfunding con cui abbiamo acquistato attrezzi, guanti, scarponi antincendio da fornire a chi era impegnato nelle spegnimento. E abbiamo promosso la campagna di sensibilizzazione “Artisti Uniti per la Calabria”, producendo insieme a Christian Zuin, dj veneto trasferitosi a Monasterace il brano Per Rinascere . Oltre all’escursionismo, lavoriamo per formare e sensibilizzare la cittadinanza assieme alle Guide del Parco, Plastic Free e tante altre realtà. Il trekking non è solo un’attività diportistica, ma uno strumento per divulgare la memoria e la ricchezza culturale del nostro territorio. Il prossimo week-end sarà l’occasione per condividere esperienze e rafforzare una rete che c’è, ma è ancora troppo chiusa e deve crescere. Bisogna investire di più in cultura e tutela del patrimonio. Non a caso, uscirà presto il mio primo libro Cara Reggio, ti presento…, dedicato ai reggini che vogliono riscoprire il loro territorio. Non può esserci futuro senza consapevolezza del passato».
Le risorse del tutto nel niente
Questo paradigma del vuoto e del pieno – che da una parte ha tolto e dall’altra ha custodito -, del tutto nel niente, della ricchezza nell’abbandono, delle radici, della memoria è il filo rosso che collega le storie e le esperienze di Nicola, Diego e Luca. Tra attività sociali e ricerca di un modello di crescita economica disegnato sulle caratteristiche proprie dei loro territori, il turismo lento si fa strada. Diventa una cultura diffusa con cui riscoprire da dove veniamo, chi siamo e dove stiamo andando.
Servono ancora molti tasselli per comporre il puzzle. Bisogna dissipare certe ombre per portare più luce, formando alla bellezza, al rispetto e alla tutela. Prima di tutto però serve chiarezza: attendiamo di capire come si siano concluse le indagini sugli incendi del 2021 e come sia stato affrontato il problema dello smaltimento abusivo di amianto con discariche abusive individuate nel 2014, nel 2019 e ancora nel 2021.
Un problema che rischia di distruggere l’immaginario di incontaminato per cui l’Aspromonte viene visitato e desiderato. E l’escursionismo, con le sue generazioni che si passano il testimone battendo migliaia di ettari di territorio palmo a palmo, tra ricchezze naturalistiche e patrimoni culturali troppo spesso dimenticati e sottovalutati da istituzioni ed enti locali, può tracciare un sentiero da percorrere.
Nelle scorse ore, e proprio mentre scrivevo, è stata messa in atto la più importante operazione internazionale contro la ‘ndrangheta mai realizzata. Oltre 200 arresti con esponenti di spicco finiti in galera in tutta Europa e i titoli delle pagine dei giornali di mezzo mondo dedicati alla criminalità dell’Aspromonte che, dalla Locride, allungava le sue braccia in mezzo mondo. É ormai noto come la strategia dei boss sia quella di tenere un basso profilo a casa: i territori di appartenenza devono versare nel sottosviluppo per restare schiavi del dominio criminale. Sostenere e narrare la vivacità della nuova economia che ho raccontato può invece segnare un punto a favore di crescita e legalità.
«Oggi gli spazi esterni sono troppo “minerali” (cementati, ndr). Le superfici costruite e coperte in calcestruzzo producono un’isola di calore attraverso l’assorbimento di energia solare. Questa situazione dovrebbe essere rovesciata togliendo il calcestruzzo e creando un’isola fresca grazie alle superfici alberate».
A parlare è l’architetto paesaggistico belga Bas Smets in un’intervista apparsa su Pianeta 2030 del Corriere della Sera. Di recente il team che guida si è aggiudicato, insieme agli studi GRAU e Neufville-Gayet, il concorso indetto dalla Città di Parigi per riqualificare l’area circostante Notre Dame.
Un giardino per Notre Dame
Lo stesso Smets collabora, per la parte relativa al verde, con lo studio LAN che ha vinto il Concorso di idee per il Grande MAXXI a Roma. La giuria ha scelto il progetto per «il rapporto con il contesto urbano, la presenza di un giardino pensile generoso e accessibile e allo stesso tempo di forte valore architettonico». Per quanto concerne Notre Dame, nel progetto è previsto un piazzale-sagrato circondato da un bosco con cento alberi; un sistema di irrigazione che rinfrescherà la piazza con uno strato d’acqua di 5 millimetri. Una fontana orizzontale, utilizzando l’acqua piovana raccolta, ridurrà la temperatura di parecchi gradi. Insomma, una piccola oasi verde in grado di migliorare il microclima. Tutto ciò entro il 2027, per una spesa di 50 milioni.
L’isola climatica al Grande MAXXI di Roma
Passiamo al Grande MAXXI di Roma, il cui progetto esecutivo sarà completato entro quest’anno. La parte che qui interessa è quella che prevede la cosiddetta rinaturalizzazione dello spazio tutto attorno all’edificio – realizzato su progetto di Zaha Hadid – fino a coinvolgere il quartiere Flaminio. Bas Smets e il suo team hanno proposto una soluzione non solo e non tanto estetica; parchi e giardini e orti produttivi, certo, ma anche la realizzazione di un sistema in grado di «creare un’isola climatica che migliorerà le condizioni di vivibilità dell’area».
Il progetto dello studio italo-francese LAN, vincitore del concorso internazionale di idee per il Grande MAXXI a Roma
Secondo Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale, intervistato da Pianeta 2030 del Corriere della Sera, «Il MAXXI ha grandi superfici in cemento impermeabile completamente esposte a luce solare e nessuna ombra, frutto di una progettazione di un tempo in cui non si immaginava che il riscaldamento globale sarebbe arrivato a cambiare le nostre vite in un tempo così breve. Uno dei problemi fondamentali degli edifici con funzione sociale in città sarà di svilupparsi in un modo che ci aiuti a sfuggire alle ondate di calore».
Come cambierà l’interno del MAXXI
E ancora: «Bas ha previsto un enorme numero di alberi in grado di ombreggiare e allo stesso tempo raffreddare una grande superficie non solo attraverso l’ombra: gli alberi assorbono acqua e la traspirano attraverso le foglie rinfrescando l’ambiente circostante, con un processo identico a quello dei condizionatori in casa. Con una progettazione adeguata e un uso studiato degli alberi in ambiente urbano si può pensare di ridurre la temperatura in città anche di 7-8 gradi centigradi».
330 milioni di euro per 14 città metropolitane
Perché tratto queste due progettazioni? Scrive la Commissione europea che «la promozione di ecosistemi integri, infrastrutture verdi e soluzioni basate sulla natura dovrebbe essere sistematicamente integrata nella pianificazione urbana, comprensiva di spazi pubblici e infrastrutture, così come nella progettazione degli edifici e delle loro pertinenze».
Il PNRR, dal canto suo, prevede lo stanziamento di 330 milioni di euro per le 14 città metropolitane per «tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano, mediante lo sviluppo di boschi piantando 6 milioni e 600mila alberi».
Reggio Calabria, gli alberi e il cemento
E veniamo alla città di Reggio Calabria. Partendo dalla centralissima Piazza De Nava, adiacente al Museo nazionale della Magna Grecia, proseguendo con il Waterfront, con il Museo del Mare, con l’area parcheggio posta accanto al Cimitero cittadino, con il taglio indiscriminato di alberi in spazi pubblici posti in via Pio XI e accanto all’Istituto d’Arte. Ebbene, in tutti questi casi, cosa ne è dell’impostazione oramai accettata e promossa in tante città europee (ad Arles, in Francia, l’ex area industriale è stata trasformata in un parco cittadino, introducendo 80.000 piante di 140 specie diverse) e della quale i due riportati sono gli esempi più eclatanti? Nulla!
Tutto è figlio dell’improvvisazione, dell’assuefazione ad un modello vecchio. Dice ancora Mancuso: «(Le città) sono state costruite, immaginate, esclusivamente per essere il luogo degli uomini, dove essi vivono e abitano. Una cosa antica, che risale ai primi insediamenti umani, questo dividere, separare con mura e fossati il luogo di vita da una natura percepita come ostile».
Reggio Calabria, pini ancora sani abbattuti nei pressi del cimitero di Condera per far spazio al cemento (foto Italia Nostra)
Noi continuiamo a costruire case e città alla stessa maniera, anche se oggi non è più la natura ad essere ostile nei nostri confronti, ma noi ad essa. «Dovremmo perciò immaginare città in cui la natura, gli alberi, entrino per permeazione nel tessuto urbano. Oggi la copertura arborea media di una città europea è intorno al 7 o all’8 per cento. Invece dovremmo puntare ad arrivare al 40% di superficie arborea. E non per motivi estetici ecologici ma di pura sopravvivenza; specialmente nelle città italiane che stanno nella cosiddetta area hot spot (si riscalda più in fretta). Se vogliamo continuare a vivere in queste città dovremo per forza di cose immaginare delle soluzioni vegetali».
Alberi o ancora il dio calcestruzzo?
Bisogna, insomma, eliminare l’hardscape (il paesaggio di infrastrutture e cemento) ed allargare il softscape «per aumentare la permeabilità dello strato di terra al fine di immagazzinare l’acqua piovana in loco. Anche il deflusso proveniente dalle piazze e dagli edifici potrebbe essere mantenuto in loco. Nuovi prati e alberi aiuteranno a riportare l’umidità nell’aria e a creare un microclima esterno più fresco».
Gli effetti del cambiamento climatico nelle aree urbane – 56% della popolazione mondiale adesso, 70% entro il 2050 – li viviamo ormai quotidianamente. L’Istat ha rilevato che nel 2020 nei capoluoghi di regione la temperatura media annua è aumentata di 1,2 gradi rispetto al valore medio del periodo 1971-2000, arrivando a 15,8°.
Uno scatto da “Cemento amato”, progetto del fotografo Angelo Maggio sul non finito calabrese
Davanti a queste evidenze, e alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie e dai fondi disponibili, non è più rinviabile un cambiamento di paradigma. Tra l’altro, come possiamo pretendere la preservazione e la non entropizzazione per fini di coltivazione ed altro, ad esempio, della foresta amazzonica, se noi non facciamo la nostra parte? Non ci possiamo permettere di essere ancora e sempre governati dal dio calcestruzzo. È ormai acclarato che questo modello non regge, rende brutti i nostri centri urbani e ne peggiora la vivibilità. Prendiamone atto, una volta per tutte.
La tenuta democratica della nostra regione si misura anche da quello che succederà dopo l’aggressione al presidente del porto di Gioia Tauro Andrea Agostinelli. L’ammiraglio è stato apostrofato e poi stretto al collo da due signori, sul traghetto fra Messina e Villa San Giovanni, nel pomeriggio del 25 aprile. Agostinelli è andato in ospedale, e poi ha denunciato tutto ai carabinieri.
Prima commissario e poi presidente, con responsabilità in altri porti della Calabria, Agostinelli è una persona che non le manda a dire e che ha dimostrato ancora una volta di avere coraggio. Poteva non denunciare, poteva stare zitto e chiudere con il solito “chiarimento”. Su quel traghetto credo si sia sentito solo.
Il porto di Gioia Tauro e i risultati di Agostinelli
E quindi il tessuto democratico – la politica, i cittadini, l’informazione – deve fare sentire la sua voce in questa storia. Anche per i risultati che Agostinelli ha portato: Gioia Tauro è il primo porto italiano per movimento container, e questo non fa piacere ad altri scali del Nord. Compete con Algeciras, Pireo, è all’ottavo posto in Europa.
Con un migliore collegamento ferroviario – che Agostinelli ha chiesto per anni e solo recentemente ottenuto – Gioia sarebbe ancora più forte. Con una Zes vera– e cioè non capannoni vuoti, anni di truffe – sarebbe il volano economico per tutta la Calabria.
Navi cariche di container nel porto di Gioia Tauro
Se il porto di Gioia Tauro non è più noto solo per i sequestri di droga, se non viene più definito il porto della cocaina, se il terminalista Mct ha deciso di investire in strutture e occupazione, questo si deve anche a lui. Le ultime tre gru sono arrivate in febbraio dalla Cina, ogni gru vale 150 posti di lavoro.
Trent’anni indietro
A chi non piace Agostinelli? C’è una questione legale in corso, legata a un tragico incidente sul lavoro. Accusato di comportamento omissivo, dovrà subire un processo. È stato rinviato a giudizio, si difenderà. Nel frattempo ha tolto la concessione alla ditta che stava effettuando quei lavori. È questo il motivo dell’aggressione? Non lo sappiamo. Ma sappiamo che senza Agostinelli si torna indietro di trent’anni, al deserto e al deficit.
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