«Scusate, sapete quando riaprono la strada? L’autobus mi ha lasciata alla chiesa ed è tornato indietro, dice che non si passa. Sono dovuta venire a piedi». Più che una vera risposta, la signora con passo affannato che si affaccia a parlare con un volontario della protezione civile al lavoro nella ex scuola di Arghillà cerca una sponda con cui lamentarsi, dopo la scarpinata in salita che si è dovuta sorbire di ritorno dalla città. Lo stradone che taglia in due questa estrema periferia di Reggio Calabria è ancora in parte bloccato dalle macerie lasciate ieri dalla protesta volante contro l’arrivo dei migranti sbarcati al porto qualche ora prima e gli autobus hanno smesso di fare il giro completo del quartiere, in attesa che qualcuno sgombri la carreggiata.
Arrivano i migranti
La targa all’ingresso recita “Istituto comprensivo Radice – Alighieri”, ma è stata una scuola solo per una manciata d’anni, giusto il tempo di rimettere in sesto lo stabile di Catona che era stato dichiarato inagibile. Poi i lavori nella scuola a valle sono terminati e i bambini del comprensorio, così come erano arrivati ad Arghillà, sono tornati via e la struttura, che in passato ha anche ospitato gli uffici dell’ottava circoscrizione e un presidio della polizia, è tornata ad essere sprangata e assediata dalle erbacce.
Almeno fino a martedì pomeriggio quando il Comune, “sorpreso” dall’arrivo in porto dell’ennesima carretta del mare carica di disperati, ha scelto proprio quel palazzone della periferia nord per sistemare temporaneamente il nuovo carico di migranti. Ad Arghillà – palazzoni occupati, strade invase da montagne di spazzatura e capannoni sventrati dal tempo su una terrazza magica affacciata sulla Sicilia – non hanno preso per niente bene la decisione, tanto che all’arrivo dei primi autobus con a bordo i migranti – tra loro anche famiglie con bambini – in tanti sono scesi in strada.
Fuoco alla barricata
La protesta è degenerata con la costruzione di una barricata di rifiuti a cui è stato successivamente dato fuoco. Si è rimasti sull’orlo di una crisi di nervi per diverse ore, con le forze dell’ordine a mantenere calmi gli animi. Infine, la decisione salomonica dell’amministrazione reggina: confermata la presenza dei 72 migranti già nella scuola, rinculato il resto del gruppo (80 persone) verso lo “scatolone”, il palazzetto a due passi dal Granillo.
Dal canto loro, i migranti stanno bene, e dopo gli iniziali momenti di tensione hanno trascorso una notte tranquilla. Su di loro, oltre alle auto di carabinieri e polizia che presidiano la struttura, vegliano i volontari della protezione civile che hanno provveduto a portare i beni di prima necessità, giocattoli compresi, alle famiglie venute dal mare.
Lo slalom verso il carcere
Un po’ rivolta contro l’arrivo dei migranti, un po’ grido d’allarme su una periferia abbandonata che ricorda degradi pasoliniani, il giorno dopo la protesta di Arghillà quello che resta è una striscia indefinita di vecchi mobili e sacchi d’immondizia bruciati che ancora bloccano a metà la strada principale del quartiere e attraverso cui sono costretti a fare manovra anche i mezzi della penitenziaria e le auto di magistrati e forze dell’ordine che devono raggiungere il carcere poco più a monte.
«La protesta non è stata violenta ma erano tanti – dice Marco, che davanti alla montagna di rifiuti che martedì è stata data alle fiamme, gestisce un tabaccaio – e non ce l’avevano tanto con i migranti. Quelli sono solo l’ultimo dei problemi di questo quartiere. Si guardi intorno, avevano pulito dalla spazzatura un po’ di tempo fa, ora siamo di nuovo punto e a capo. Non si può vivere così». Qualche curioso si ferma a guardare la barricata che occupa metà della strada, altri allungano il collo verso la ex scuola, indicando le persone alle finestre: «Si levanu giovedì, rissiru. Virimu».
A Roccella va peggio
E se Reggio piange, a Roccella la situazione è sull’orlo del collasso. I continui sbarchi delle ultime settimane hanno infatti messo a dura prova la collaudata macchina dell’accoglienza. Il problema è sempre lo stesso: se i trasferimenti verso le strutture attrezzate non arrivano in tempo, i migranti finiscono per essere stipati per giorni e giorni in stabili non adeguati. In questo momento sono circa 300 le persone arrivate sulle banchine del porto delle Grazie di Roccella negli ultimi venti giorni e rimaste ancora in zona in attesa di trasferimento.
Sono in 123 all’ex ospedaletto, alla periferia nord della cittadina jonica; altri 80 sono sistemati alla meno peggio dentro il palazzetto dello sport e altri 90 sono stati parcheggiati in una struttura di Siderno Superiore, per una situazione che sta mettendo a dura prova tutti gli attori impegnati nella prima accoglienza, dalle forze dell’ordine ai volontari della croce rossa e della protezione civile.
Cambi di casacca, contesti relazionali equivoci, parentele imbarazzanti con la ‘ndrangheta o con altri politici non graditi per la candidatura. Chi si aspettava un cambiamento di logiche nella scelta dei candidati al prossimo Consiglio Regionale della Calabria nella Circoscrizione Sud, sarà rimasto molto deluso. A essere maggiormente interessati dal fenomeno sono i due principali schieramenti in contesa. Il centrodestra, alla fine confluito interamente su Roberto Occhiuto. E una parte del centrosinistra, Pd e Movimento 5 Stelle, che appoggiano Amalia Bruni. In mezzo, nel tentativo di non essere stritolati, il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris. E l’ex governatore, Mario Oliverio.
Il centrodestra
Tra i cavalli di battaglia del candidato governatore Occhiuto ci sono quelli delle “liste pulite”. Addirittura – dice – andando oltre gli stringenti criteri della Commissione Parlamentare Antimafia. Ma anche il concetto di “liste rigenerate”. Ma è davvero così?
In Forza Italia, nella Circoscrizione Sud troviamo tra i candidati il presidente uscente del Consiglio Regionale, Giovanni Arruzzolo. Non indagato, viene menzionato spesso nelle carte d’indagine dell’inchiesta “Faust”. Indagine condotta dalla Dda di Reggio Calabria contro la famiglia Pisano di Rosarno. Costola del potente casato dei Pesce che, insieme ai Bellocco si divide da sempre Rosarno.
A proposito di Bellocco e Rosarno, imbarazza non poco la candidatura di Enzo Cusato nei ranghi della Lega. È il consuocero del presunto boss Rocco Bellocco, la figlia ha sposato Domenico, figlio del presunto capoclan. La scelta stride coi proclami del commissario regionale del Carroccio, Giacomo Francesco Saccomanno. Che da settimane inonda le redazioni di comunicati stampa sulla lotta della Lega allo strapotere dei clan.
Ma torniamo a Forza Italia. Tra i candidati spicca il nome del giovane imprenditore Giuseppe Mattiani. Già alle scorse Regionali aveva ottenuto un buon risultato, pur non risultando eletto. La famiglia Mattiani negli scorsi anni fu anche interessata da un cospicuo sequestro di beni per presunte connivenze con i clan. Ma riuscirà a dimostrare la propria estraneità, ottenendo la restituzione degli averi.
Risulta invece indagata, con richiesta di rinvio a giudizio,Patrizia Crea, già assessore comunale a Melito Porto Salvo. La Giunta di cui era anche vicesindaco, infatti, avrebbe assegnato un immobile di proprietà comunale a una università privata, provocando quindi un ingiusto vantaggio alla stessa. Ma non solo. La Procura di Reggio Calabria in un’altra inchiesta la sospetta (insieme ad altri membri dell’allora Giunta Comunale) di falso in bilancio. In ultimo, risulta indagata perché non si sarebbe astenuta in Giunta nel voto di una delibera che, sostanzialmente, promuoveva la sorella ad un incarico superiore. Ovviamente in seno all’Amministrazione Comunale melitese.
Giuseppe Neri tenta il bis alla Regione ricandidandosi con Fratelli d’italia
Situazione pesante, pur senza alcuna indagine formale a suo carico, per Giuseppe Neri. Consigliere regionale uscente e ricandidato nei ranghi di Fratelli d’Italia. L’inchiesta “Eyphemos” portò all’arresto di Domenico Creazzo. Consigliere regionale in manette ancor prima di insediarsi a Palazzo Campanella. Erano numerosi i riferimenti a Neri. E a contesti di ‘ndrangheta. Stando alle conversazioni intercettate di alcuni indagati, Neri avrebbe pescato sotto il profilo elettorale in ambienti malavitosi. Addirittura, si criticava l’ipocrisia politica di Neri che ostentava, ma solo a parole, il suo “amore” per la legalità. Mentre proprio la ‘ndrangheta sarebbe stata il suo interlocutore privilegiato durante la campagna elettorale. Tutto per il tramite di un intermediario. Che conosceva, a differenza del parente sostenuto, quei territori e le famiglie mafiose della Piana di Gioia Tauro.
Il centrosinistra
Nella lista del Pd, da segnalare la candidatura del poliziotto Giovanni Muraca. Assessore a Reggio Calabria, viene sponsorizzato dal sindaco Giuseppe Falcomatà. Il problema è che entrambi risultano a processo per il cosiddetto “Caso Miramare”. Dibattimento agli sgoccioli sul presunto affidamento diretto di un immobile di pregio a una semisconosciuta associazione culturale riferibile a un amico di vecchia data del sindaco.
Incredibile, invece, come l’ex assessore regionale Nino De Gaetano sia riuscito a infiltrare nuovamente il Pd. Ci riesce dopo essere stato, di fatto, messo alla porta per le sue vicissitudini relazionali e giudiziarie. L’accostamento (senza un’indagine formale a suo carico) ad ambienti di ‘ndrangheta del potente casato dei Tegano in primis. E poi il coinvolgimento (anche con gli arresti domiciliari) nell’inchiesta “Erga Omnes”, sullo scandalo dei rimborsi del Consiglio Regionale. De Gaetano penetra nuovamente il Pd. Lo fa attraverso il suo figlioccio politico, quell’Antonio Billari già subentrato a Palazzo Campanella dopo le dimissioni di Pippo Callipo. Un soggetto di rientro. Nella precedente esperienza era nei ranghi di Articolo 1.
Antonio Billari, uomo di fiducia di Nino De Gaetano
Ma c’è qualcuno che cambia: il Movimento 5 Stelle. Che nella sua lista della Circoscrizione Sud (a sostegno di Amalia Bruni) candida Annunziato Nastasi. Non nuovo alle competizioni elettorali in provincia di Reggio Calabria. In un’indagine della Dda di Reggio Calabria di qualche anno fa era possibile leggere le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giuseppe Ambrogio. Un tempo organico alla ‘ndrangheta di Melito Porto Salvo, Ambrogio parlò agli inquirenti dei rapporti tra ‘ndrangheta e politica nell’Area Grecanica. «I Paviglianiti appoggiavano Nastasi», raccontò. Si riferiva all’allora vicesindaco di Melito Porto Salvo. E alla potente famiglia di San Lorenzo. Nastasi, comunque, non venne mai indagato. Ma il “vecchio” Movimento 5 Stelle, forse, non lo avrebbe comunque mai candidato.
Gli uscenti
Ovviamente c’è una sfilza di uscenti che intendono mantenere il proprio posto a Palazzo Campanella. A cominciare dal Pd, dove a tutto si pensa tranne che al rinnovamento. Con l’eterno Mimmetto Battaglia, buono per ogni stagione e alla ricerca dell’ennesima candidatura. Si gioca comunque per il terzo posto. Con la speranza di ottenere due scranni in Consiglio Regionale. E subentrare quando il primo degli eletti (quasi certamente il candidato in pectore Nicola Irto) dovesse eventualmente spiccare il volo verso il Parlamento. Ancora, nella lista “Amalia Bruni Presidente”, il consigliere uscente Marcello Anastasi. E l’ex consigliere comunale di Reggio Calabria, Nino Liotta.
Anche nelle liste a sostegno di de Magistris sono tanti i nomi noti che provano a pescare il jolly. In primis, ovviamente, l’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano. Ma anche il consigliere comunale Saverio Pazzano, già candidato a sindaco di Reggio Calabria. E poi la consigliera comunale di Gioia Tauro, Adriana Vasta. Entrambi candidati in DeMa. O il sindaco di Campo Calabro, Sandro Repaci, la consigliera comunale di Taurianova, Stella Morabito. E, ancora, l’ex amministratore unico di Atam, Francesco Perrelli, e la già candidata a sindaco di Reggio Calabria, Maria Laura Tortorella. Tutti nella lista “De Magistris Presidente”.
L’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano
Nel ritorno per eccellenza, quello di Mario Oliverio, non possono mancare i nomi noti. Come l’imprenditore Francesco D’Agostino, patron di “Stocco & Stocco”. Uscito bene da un’inchiesta della Dda di Reggio Calabria e ora nuovamente pronto a rientrare a Palazzo Campanella. Nella lista ulteriori nomi già presenti (peraltro non con risultati particolarmente lusinghieri) in altre competizioni elettorali. L’avvocatessa Giuliana Barberi, con un passato in Fincalabra proprio negli anni di Oliverio presidente. E poi quel Rosario Vladimir Condarcuri, animatore del giornale La Riviera. E assai vicino all’ex sindaco di Siderno, Pietro Fuda, sciolto per infiltrazioni della ‘ndrangheta.
Logiche assai simili nel centrodestra. Dove nelle liste c’è un sovraffollamento di Piana di Gioia Tauro e Locride, a discapito di Reggio Calabria città. I nomi forti nella Locride sembrano essere quelli del sindaco di Locri, Giovanni Calabrese (candidato in Fratelli d’Italia) e Raffaele Sainato, uscente candidato in Forza Azzurri e reduce dall’archiviazione ottenuta nell’inchiesta “Inter Nos”.
Resta da capire, per esempio, chi sarà il candidato sostenuto dal plenipotenziario Francesco Cannizzaro. Il deputato forzista potrebbe, abilmente, aver lasciato i piedi in numerose paia di scarpe. Nella Lega, spiccano i nomi del sindaco facente funzioni di Villa San Giovanni, Maria Grazia Richichi. Ma è in Forza Italia la vera bagarre. Oltre ai già citati Arruzzolo e Mattiani, c’è l’uscente Domenico Giannetta a rimpolpare la lotta interna alla Piana di Gioia Tauro.
Parenti ed eterni ritorni
Nel sovraffollamento della Piana di Gioia Tauro, da segnalare in Forza Italia la candidatura di Carmela Pedà. Sorella proprio dell’ex sindaco di Gioia Tauro, Peppe Pedà. Anch’egli ex consigliere regionale. Pasquale Imbalzano (già consigliere comunale di Forza Italia a Reggio Calabria) è figlio di Candeloro Imbalzano. Per anni uomo forte della politica reggina, con incarichi amministrativi al Comune e poi consigliere regionale.
Curiosa la posizione di Serena Anghelone. Figlia di Paolo Anghelone, già assessore comunale nel centrodestra. Sorella di Saverio Anghelone, che invece è stato assessore comunale col centrosinistra. Ora si candida in prima persona, nuovamente col centrodestra. Sempre nel centrodestra, troviamo la candidatura di Riccardo Ritorto. Già sindaco di Siderno, arrestato e condannato in primo grado per vicinanza alla ‘ndrangheta. Lo ha assolto la Corte d’Appello. E adesso prova a ritornare in pista.
La leghista Tilde Minasi
Disseminati, poi, nelle varie liste del centrodestra, una lunga serie di “Scopellitiani” di ferro. Nostalgici della stagione politica del “Modello Reggio”, finita male con l’arresto dell’ex sindaco reggino ed ex governatore. Nella Lega, la consigliera regionale uscente Tilde Minasi, che con Giuseppe Scopelliti è stata per anni assessore comunale a Reggio Calabria. E poi l’ex consigliera comunale Monica Falcomatà, anche lei per anni nella cerchia di Scopelliti. E poi vicina al consigliere regionale Alessandro Nicolò. Oggi imputato per ‘ndrangheta. Infine, l’ex consigliere comunale di Reggio Calabria, Peppe Sergi. Tra le persone più vicine a Scopelliti. Oggi, però, si candida con Noi con l’Italia, la formazione di Maurizio Lupi, che punta a essere la sorpresa delle Regionali 2021 in Calabria.
Che, però, assomigliano maledettamente a tutte le altre.
Canadair che non si trovano e quando si trovano può capitare che, nel bel mezzo di un intervento, debbano tornare a Ciampino per il cambio turno dell’equipaggio. Soccorsi che non conoscono la montagna e alla difficoltà dell’intervento devono aggiungere quelle per trovare la strada giusta. Piromani agguerriti al soldo di interessi senza fine e attivi H24. Autobotti e pick up disseminati col contagocce, e bilanci dedicati alla prevenzione che, per entità dei fondi, se la giocano con la sagra della melanzana porchettata.
L’Aspromonte brucia da settimane: ettari e ettari di boschi e memorie persi per sempre, che riaprono vecchie ferite e che riportano a galla vecchi problemi. Dopo anni di relativa quiete, le fiamme hanno riaggredito la montagna su più fronti come nell’estate del 2012, l’ultima in ordine di tempo in cui si sono registrati danni simili a quelli di questi giorni. In dieci anni molte cose sono cambiate, e non sempre in meglio.
Il fuoco corre veloce
«Quando un incendio non viene contrastato efficacemente nelle prime ore, poi è difficile riuscire a domarlo. Le nostre montagne sono impervie, in molti punti quasi inaccessibili. È difficile intervenire quando il vento si alza e le fiamme diventano alte. A San Lorenzo il canadair si è visto dopo due giorni. Troppo tardi». Pietro è un vecchio operaio travasato dall’Afor a Calabria Verde, una vita passata nelle squadre antincendio che operano nel parco. «Il vero problema resta la prevenzione. Una volta eravamo in centinaia ad occuparci del bosco, ora nella mia squadra siamo in 19 quasi tutti anziani come me e prossimi alla pensione. Noi facciamo il nostro, ma il territorio è gigantesco».
Il Parco d’Aspromonte avrebbe le carte in regola
Sono 64 mila ettari spalmati dal Tirreno allo Jonio passando per i 2000 metri di Montalto, un patrimonio naturale inestimabile, uno scrigno di storie e di memorie. In poco più di venti giorni, di questa meraviglia tutta calabrese, sono andati in fumo quasi 5 mila ettari. Un disastro che solo per caso non ha distrutto anche le faggete vetuste di San Luca, fresche di nomina a patrimonio dell’umanità e che ha reso evidente come più di qualcosa, nei meccanismi a tutela del parco stesso, non sia girata per il verso giusto. E non solo per colpa dei canadair.
Eppure, almeno a livello teorico, il parco d’Aspromonte ha tutte le carte in regola. Dettagliatissimo il piano quinquennale anti incendiboschivi. Al suo interno le linee guida per gli interventi di prevenzione e spegnimento degli incendi con tanto di tabelle storiche, fattori di rischio, idee per la salvaguardia del territorio da realizzare a braccetto con chi quel territorio stesso lo vive. Ma quello che splende sulla carta, a volte, non brilla della stessa luce nella realtà.
Il Parco difeso da sei autobotti
«La rapidità dell’intervento deve essere assicurata sia da una corretta e omogenea dislocazione delle squadre e dei mezzi antincendio – si legge nel piano Aib del parco nazionale d’Aspromonte – e sia dall’esistenza e corretta percorribilità delle vie di comunicazione». Passati ormai i tempi dell’elefantiaca pianta organica dell’Afor – diventata negli anni, suo malgrado, ricettacolo di clientele e favoritismi – la realtà del 2021 si scontra con una penuria di mezzi e uomini disarmante.
Nel territorio del parco svolgono servizio 5 autobotti dell’azienda Calabria Verde – a cui si devono aggiungere quelle dei vigili del fuoco che operano nelle caserme comprese entro i confini del parco – più una del consorzio di bonifica. Sei mezzi in totale, dei quali quattro stazionano in aree di competenza dell’ente e due sono invece parcheggiate, rispettivamente, a Reggio e Roccella, decine di chilometri lontani dalle montagne.
La localizzazione delle autobotti attive nel Parco nazionale d’AspromonteLa localizzazione delle autobotti e della altre strutture A.I.B. nel Parco del Pollino
Stesso discorso per i pick-up, i mezzi in genere in forza alla protezione civile e che hanno comunque una capacità di una cisterna ridotta che varia tra i 300 e i 500 litri. Nel parco d’Aspromonte sono sette, disseminati un po’ a pelle di leopardo e per fare rifornimento, spesso devono fare tragitti di ore con tempi morti che posso risultare decisivi. Il confronto con la forza schierata dal parco nazionale del Pollino – per buona parte ricadente in Calabria – è disarmante.
Il prezzo della sicurezza
Tra una sagra al fantomatico km zero culinario e uno spot tra vecchi con la coppola storta, i fondi destinati alle cose serie sono andati via via scemando e così, anche il parco d’Aspromonte si è trovato a fare i conti con la nuova realtà. Una realtà così striminzita che ha portato l’ente a stilare un piano di spesa antincendio di 120mila euro l’anno valevole fino al 2022. Una somma ridicola – solo mandare in tv durante le Olimpiadi il mortificante spot targato Muccino è costato cinque volte di più alle casse pubbliche – che comprende le spese per le attività di previsione, prevenzione, avvistamento, acquisto macchine e attrezzature, attività informative, sorveglianza e interventi di recupero.
Sintesi economica del piano A.I.B. del Parco d’Aspromonte
In soldoni, fanno circa due euro per ettaro speso in prevenzione e spegnimento. Un recinto striminzito, stretto tra 100mila di fondi propri e 20mila bollati come «altri fondi» che per oltre metà (70mila euro) viene investito per pagare le squadre di sorveglianza e che lascia alle attività di prevenzione (interventi di silvicoltura, piste forestali, punti d’acqua) una mancia di 30 mila euro.
«Nessuno ha spento il fuoco. Si è spento da solo, quando non c’era più niente da bruciare». Pietro e Nino sono nati a San Lorenzo, 150 abitanti appollaiati a 800 metri d’altezza sul versante jonico d’Aspromonte. Nell’ultima settimana hanno visto, impotenti, la loro montagna bruciare. Ettari e ettari di castagni, pini (zappini li chiamano da queste parti), querce, ulivi, abeti.
Cenere e desolazione nel Parco d’Aspromonte dopo i terribili incendi dei giorni scorsi
Zio e nipote divorati dalle fiamme
Le fiamme si sono mangiate tutto, scendendo e risalendo i costoni delle montagne fino a sfiorare quota 1200, a due spanne dalle foreste di faggi e minacciando da vicino anche i borghi di Roccaforte del Greco, Bagaladi e Roghudi. È qui, nella valle che aggira il paese e ridiscende verso il mare, che si sono registrate le prime due vittime dell’estate degli incendi. Cercavano di mettere in salvo il loro uliveto: sono morti a pochi metri di distanza, zia e nipote, sorpresi dalle fiamme nel cuore grecanico del parco d’Aspromonte.
A Santa Maria, piccola frazione appena fuori dal centro abitato, le fiamme hanno annerito i muri di due case distruggendo un deposito di legna e un paio di mezzi agricoli: «Qualche settimana fa il proprietario di quel capanno è morto per essersi ribaltato con il trattore mentre ripuliva il suo fondo, ora il fuoco ha fatto il resto» racconta Nino Pellicanò, cinquantenne che da San Lorenzo non si è mai mosso e che le montagne le conosce come le sue tasche, mentre la strada comincia a salire e il panorama cambia in modo radicale.
Le api sterminate dagli incendi dei giorni scorsi
Gi animali non hanno avuto scampo
Quello che sorprende è il silenzio. Un silenzio irreale coperto solo dal borbottio del pandino 4×4 che si arrampica sulla terra nuda. Non ci sono più uccelli a sorvolare le cime di questo pezzo di montagna spogliato di vita. Solo corvi, a decine: volano bassi e banchettano con i resti degli animali che non sono riusciti a scappare dalle fiamme. «Tassi, faine, scoiattoli, martore: i mammiferi più piccoli e più lenti non hanno avuto scampo ma sono morti anche cinghiali, volpi e lepri. Gli animali sono stati accerchiati dal fuoco e confusi dal fumo, non avevano scampo». È quanto racconta Pietro Luca, poco più di 30 anni, una laurea in scienze forestali in tasca e un lavoro da tecnico dei computer in Friuli, 1400 km dalle sue montagne.
Il fuoco trasforma la montagna in un set lunare
Il rogo risparmia solo la vecchia Lancia del medico
La stradina risale il fianco occidentale della montagna e i danni del fuoco diventano sempre più evidenti. Scheletri di pini marittimi anneriti, carcasse di quelle che erano state ginestre: il fuoco ha attaccato duro, muovendosi su più fronti e rendendo vano anche il lavoro delle squadre dei vigili del fuoco e i lanci del canadair «che nei primi due giorni di incendio comunque non si è visto», dice ancora Nino.
Sulla cima di Peripoli, c’è una piccola chiesa dai muri scrostati. Dentro, oltre alla lapide che ricorda la figura del vecchio medico condotto del paese a cui la chiesa è dedicata, c’è una vecchia Lancia Flavia. L’auto è parcheggiata dietro l’altare. La comprarono i cittadini di San Lorenzo al loro dottore che da quel giorno non dovette più andare a fare le visite a piedi e lì, accanto al suo ex padrone, è stata seppellita. Sono le uniche cose rimaste integre su questo cucuzzolo: la radura tra gli “zappini” in cui è stata costruita l’ha salvata dalle fiamme, il resto è terra bruciata su cui si affacciano le altre cime della montagna ormai spogliata dal fuoco.
La pinete spazzata via
Risalendo verso punta d’Atò, oltre i mille metri di quota, l’intera pineta che ricopriva la cima della montagna è stata letteralmente spazzata via. Qui le temperature hanno raggiunto picchi così alti che anche la terra sembra essersi liquefatta e anche muoversi a piedi diventa complicato. La stradina si inerpica tra migliaia di tronchi distrutti dal fuoco e sdraiati sul terreno molle.
«Questi alberi tenevano in piedi la montagna – ci dice Nino, che con il parco d’Aspromonte in passato si è trovato anche a collaborare – per capire l’entità della tragedia che ci ha colpito basterà aspettare le prime piogge e contare i danni che si lasceranno dietro». «La mia paura è che nessuno raccoglierà quei tronchi – gli fa eco amaramente il giovane agronomo forestale – e quando il sottobosco ricrescerà e scoppierà un nuovo incendio, quei tronchi anneriti saranno ulteriore combustibile per la prossima tragedia».
Anche un piccolo parco giochi per bambini divorato dalle fiamme in Aspromonte
L’emblema del dissesto idrogeologico
La strada sterrata riprende a salire mostrando vecchie armacere, muri a secco fino a ieri nascosti dalla rigogliosità della montagna. Sopra di esse una foresta di castagni, i tronchi anneriti, le chiome devastate dalle fiamme: «L’unica speranza è che qualche fronda, tra quelle in cima, sia rimasta integra. Solo così le piante potrebbero riprendersi, ma la situazione è davvero drammatica, è andato tutto distrutto». Nel silenzio artificiale di questa parte di Aspromonte ferito, rimbomba il rumore di un elicottero antincendio che vola verso i versanti più settentrionali della montagna dove ancora insiste qualche focolaio. Si allontana sorvolando la frana di Colella, diventata emblema del dissesto idrogeologico calabrese e simbolo stesso dello “sfasciume pendulo” che rischia di diventare l’Aspromonte.
Italiano è bello, calabrese, a volte, più bello. Ciò vale, almeno, per i fumetti e per i supereroi, che, a dispetto dell’anglofilia del settore, rendono benissimo non solo a stelle e strisce ma possono vestire con efficacia il tricolore e l’azzurro, grazie anche agli stimoli tenebrosi delle tradizioni popolari italiane. Ne è un esempio Traku, un super(anti)eroe calabrese doc. Dannatissimo, giusto e tormentato, ricorda un po’ Ghost Rider e un po’ Spawn. Conditi, però, con un bel po’ di peperoncino e, a seconda dei gusti, ’nduja o sardella.
Nascita di un supereroe
È il caso di raccontarne la genesi, anch’essa un concentrato di calabresità piccantissima.
È notte, a Roghudi Vecchio, l’inquietante ghost town abbandonata dopo le frane dei primi anni ’70. C’è di che aver paura di questo borgo dove, narrano le leggende, è possibile ascoltare ancora i lamenti dei fantasmi dei bambini precipitati nel dirupo. E si può avvertire la presenza delle Naràde, creature mostruose, metà donne e metà asine, che uccidevano le donne del borgo per accoppiarsi coi loro uomini. Poi, c’è ’a Rocca du Traku, la Rocca del Drago. È un macigno dalla forma di rettile a tre occhi in cui, tramanda un’altra leggenda, sarebbe imprigionato un essere mitologico che decide il destino del paese, anche ora che è deserto.
Achille Romeo, detto Tony, non ha paura delle leggende. Semmai teme di più i vivi: è il rampollo di una famiglia mafiosa e vive da anni sotto protezione. È tornato a Roghudi in incognito, spinto dalla curiosità e dalla nostalgia. Proprio per sottrarsi a eventuali ritorsioni, ha deciso di passare la notte in un casolare fatiscente del borgo fantasma. Precauzione inutile: i picciotti lo raggiungono con l’intenzione di fargli la pelle. Il giovane riesce a sottrarsi, inforca la sua moto e si lancia a tutta velocità. Ma non c’è nulla da fare: gli sgherri lo inseguono e riescono ad acciuffarlo proprio vicino alla Rocca du Traku. Quindi, aprono il fuoco sul giovane, che sente arrivare la sua ora.
Fin qui, la storia ricorda un mafia movie un po’ pulp. Ma nei fumetti, come in certi film, scene e ambientazioni cambiano a velocità fulminea. Il sangue del ragazzo cola sulla rocca e risveglia lo spirito del Drago, imprigionato lì da millenni. Una folgore illumina le tenebre di bagliori sinistri e, quando il lampo e il fumo si diradano, il ragazzo riemerge illeso e trasformato: indossa un’armatura blu scura screziata di giallo fosforescente. I sicari giacciono ai suoi piedi, dilaniati e semicarbonizzati. Traku, risvegliato dal plurisecolare torpore, è tornato in vita grazie al giovane Tony.
Traku, supereroe di Roghudi, area grecanica della provincia di Reggio Calabria
Gli italiani lo fanno meglio
«Forse è il nostro personaggio più tosto», spiega Chiara Mognetti, imprenditrice passata dal marketing ai fumetti e titolare della Emmetre Edizioni, una casa editrice del Novarese che gestisce assieme a suo marito Fabritio De Fabritiis, sceneggiatore e disegnatore bonelliano di lungo corso (sue le tavole di Dragonero Adventures e Zagor-I racconti di Darkwood).
Traku fa parte di un’iniziativa editoriale intelligente, nata quasi per scommessa: «Io e mio marito ci chiedevamo se fosse possibile creare una linea di supereroi completamente italiana», spiega ancora Mognetti.
Non che il fantastico, l’horror e la fantascienza made in Italy non esistessero prima. Ma, precisa l’editrice, «l’ambientazione e i personaggi restano comunque anglofoni: si pensi a Dylan Dog, che è inglese, o a Nathan Never, che è di ispirazione americana».
Invece, i Guardiani Italiani, l’esercito soprannaturale con cui la Emmetre aggredisce da anni il mercato dei fumetti, sono italiani al cento per cento.
La serie si basa su un’intuizione semplice, anche se non originalissima (qualcosa di simile l’aveva fatto Italo Calvino con le sue Fiabe Italiane): lo scavo nell’immaginario fantastico delle varie tradizioni popolari della Penisola e la loro rielaborazione in chiave non più letteraria ma fantascientifica. Ed ecco che, a partire da Capitan Novara (poi Capitan Nova), il firmamento dei supereroi si è tinto gradualmente di azzurro.
I Guardiani Italiani sono quaranta, tutti ispirati alle leggende di altrettante parti d’Italia. Dalla fine dello scorso decennio popolano i graphic novel della piccola e combattiva casa editrice indipendente. Qualcuno è scanzonato, come Comandante Italia. Qualcun altro è tragico, come Sa Bisera, antieroina sarda ispirata alla tradizione delle Femmine Accabadore (donne assoldate dai familiari di malati terminali per dare l’eutanasia ai propri cari). Qualcun altro, ancora, evoca in maniera sfacciata i luoghi comuni delle zone di provenienza: così è per Vesuvius (indovinate un po’?) e Legio X (anche questo è facile…).
Tutti quanti sono il prodotto dell’immaginazione e delle matite di De Fabritiis. Ma le storie sono disegnate da Eduardo Mello, un giovane fumettista siciliano (classe ’88) che vanta collaborazioni con realtà di livello internazionale, non ultima la Marvel.
Superpoteri contro le ’ndrine?
Cambiamo scenario. Siamo nel porto di Gioia Tauro. Appollaiato sopra alcuni container, un uomo che indossa un’armatura rossa aspetta il momento opportuno per entrare in azione. È Pietro Mancini, un poliziotto di Perugia. Grazie all’intervento di una misteriosa confraternita, è diventato Grifo, un altro supereroe tosto, caratterizzato da una terribile tendenza alla depressione.
Grifo si trova in Calabria per indagare sul traffico della prostituzione, gestito dalla mafia nigeriana con la protezione della Santa (i riferimenti non sono casuali).
All’improvviso, il supereroe salta addosso a due picciotti malcapitati, che fanno la guardia a un container per metterli fuori combattimento. Ma è con l’arrivo di Traku che lo scontro degenera in carneficina: il supereroe calabrese non ha, evidentemente, le preoccupazioni umanitarie del suo collega umbro. E, a massacro compiuto, commenta: «Rilassati, quei figli di puttana meritavano di crepare». Neppure Grifo è un maestro d’eleganza. Lo rivela la risposta truce che fornisce al collega, anzi compare, che gli chiede come avesse convinto il suo informatore a “cantare”, visto che «la Santa conta pochi pentiti»: «Gli ho infilato la testa nel cesso».
Quest’episodio, contenuto in L’era di Empire-Volume 1, uno dei primi albi di Guardiani Italiani, segna l’esordio di Traku. Ambientazione e suggestione tricolori, ma stile americano, veloce e nervoso: la Emmetre rovescia così la lezione della Bonelli (che, al contrario, italianizzava personaggi e scenari angloamericani) e proietta il nostro immaginario in una narrazione internazionale. E c’è da dire che la trasformazione di Gioia Tauro e del suo porto in una novella Gotham del Mediterraneo funziona alla grande.
Resta solo una domanda, che forse non fa onore a molti dei nostri “creativi”: possibile che una piccola casa editrice piemontese, abituata a finanziarsi col crowdfunding e a operare nel mercato si sia dimostrata più efficace nel giocare con gli aspetti più suggestivi del nostro immaginario regionale di tante, spesso inutilmente strapagate, agenzie nostrane?
La risposta ai lettori.
«Il progetto di fattibilità del Ponte sullo Stretto sarà redatto entro la primavera del 2022». Sono parole pronunciate da Enrico Giovannini, ministro delle Infrastrutture durante l’audizione alle commissioni Ambiente e Trasporti della Camera. Dopo la prima fase il Governo ha intenzione di avviare un dibattito pubblico in vista di una scelta che – Giovannini – precisa «condivisa».
Il volume dei traffici dello Stretto di Messina ha una certa rilevanza su scala nazionale. I dati forniti dal ministro Giovannini: «11 mln di passeggeri l’anno, 0,8 mln di veicoli pesanti l’anno e 1,8 mln veicoli leggeri l’anno».
Cinquecento milioni di euro
Al di là dei progetti stabili per il Ponte sullo Stretto, sono previsti una serie di interventi per velocizzare l’attraversamento ferroviario e dei passeggeri. «Sono già finanziati – sostiene Giovannini – attraverso il fondo complementare o la nostra proposta di Fsc 21/27 o attraverso risorse statali o il Pnrr». Complessivamente si pianificano «interventi per mezzo miliardo». Il cronoprogramma, ha precisato il ministro, parte dall’istituzione di un gruppo di lavoro permanente entro l’autunno 2021, fino al completamento del programma entro il 2025.
Contattato anche Spirlì
«Ho già contattato i presidenti della Regione Calabria e Sicilia, potrebbero essere coinvolte le città metropolitane, le autorità portuali, comitati di associazioni di categorie». Il ministro delle Infrastrutture ritiene necessario «migliorare la collaborazione istituzionale, attraverso l’istituzione di un tavolo di natura tecnico-politica ma anche della società civile per la gestione dell’intero processo di realizzazione delle proposte individuate».
Perché costruire il Ponte sullo Stretto?
Perché costruire il Ponte sullo Stretto? Giovannni rimanda a «considerazioni socio-economiche legate anche agli andamenti negativi della popolazione, occupazione e Pil per l’area che sono decisamente superiori a quelli nel Centro-Nord e nello stesso Mezzogiorno».
E quelle legate ai trasporti. «Il tempo medio di attraversamento attuale dello Stretto – ha detto il ministro Giovannini – è paragonabile al tempo di viaggio che un’auto impiega, se si considera anche il pedaggio, per percorrere dai 100 ai 300 km».
Treni e navi più veloci
Il ministro Giovannini ha previsto «la riqualificazione del naviglio per trasbordo ferroviario con 2 nuove navi di ultima generazione ed infrastrutture a terra». E in più è in programma «il rinnovo del materiale rotabile ferroviario con 12 nuovi treni e inserimento di batterie su 16 locomotori». In questo modo, eliminando la trazione diesel, «il trasbordo sarebbe più veloce fino a un’ora già dalla prossima estate».
Previsto anche l’acquisto di «3 mezzi navali di nuova generazione con la Propulsione NLG/Elettrica e rinnovo delle flotte navali private». Giovannini ha aggiunto anche: «Saranno riqualificate le stazioni ferroviarie RFI di Messina, Reggio Calabria e Villa S. Giovanni e potenziamento e riqualificati gli approdi e le stazioni marittime».
Qual è stato il ruolo delle forze dell’ordine nei sequestridi persona avvenuti tra gli anni ’80 e ’90 in provincia di Reggio Calabria? È vero che dei carabinieri collusi con la ‘ndrangheta hanno favorito e sono stati parte attiva nei sequestri? Che uso è stato fatto delle camionette in dotazione all’Arma? È vero che servivano per trasportare i sequestrati ed eludere i posti di blocco delle altre forze dell’ordine? Ma soprattutto, fu proprio perché vide un sequestrato su un mezzo dell’Arma che Stefano Bonfà fu ucciso? Esiste un legame tra i sequestri di persona di ieri e il fenomeno delle vacche sacre di oggi? A questi e ad altri interrogativi, cerca risposta Bruno Bonfà, figlio dell’uomo ucciso il 3 ottobre 1991.
La ricerca della verità
Tanti gli esposti denuncia presentati dall’imprenditore agricolo specializzato nelle colture di bergamotto. Diversi i destinatari: ministri dell’Interno e della Giustizia, prefetti, procuratori capo della Dda, commissari straordinari del Governo, il procuratore nazionale Antimafia, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E per ultimo il primo ministro Mario Draghi.
La richiesta di accertamento di Bruno Bonfà è circostanziata e dettagliata. Chiede di verificare i rapporti tra criminalità, servizi segreti e forze dell’ordine in relazione ai sequestri di persona avvenuti in Aspromonte. Nello specifico, quelli nella vallata de La Verde.
«Mio padre ha pagato con la vita l’aver visto qualcosa che non doveva vedere. Molto probabilmente uno dei sequestrati a bordo di una camionetta dell’Arma. La mia è una battaglia per la verità – spiega – sui tanti morti trucidati solo perché fortuiti testimoni di quei passaggi inconfessabili».
Il frontespizio dell’ultima denuncia presentata dall’imprenditore Bruno Bonfà
Seguire il denaro per verificare eventuali collusioni
Bonfà sollecita accurati controlli. Vuol capire come all’epoca la ‘ndrangheta disponesse di informazioni riservate, poi usate per evitare di percorrere strade e sentieri controllati dalle forze dell’ordine presenti sul territorio.
Per questo motivo chiede di verificare le dichiarazioni rilasciate da un dirigente di Polizia. che confermavano la collusione di parte dei militari dell’Arma di Bianco. Il dirigente fu improvvisamente trasferito in altra sede e Bonfà vorrebbe accertare anche le vere ragioni di quel trasferimento. Ma per individuare i deviati basterebbe «seguire i soldi».
L’imprenditore, nelle sue denunce, suggerisce un accertamento patrimoniale per tutti i militari in servizio coinvolti nella gestione dei sequestri di persona sul territorio ricadente nella giurisdizione della Compagnia dei Carabinieri di Bianco. In particolare, quelli che operavano «nella vallata La Verde, alle spalle di Africo, nel bosco di Ferruzzano, lungo la fiumara La Verde, direzione Motticella, ai piedi di Samo e nelle relative diramazioni perché crocevia tra San Luca e Motticella».
«Per scoprire se ci sono stati militari deviati basterebbe – afferma l’imprenditore – fare un semplice incrocio dei dati tra mezzi a disposizione dell’Arma. Percorsi svolti, personale in servizio, eventuali posti di blocco e attuali risorse economiche dei Carabinieri in servizio all’epoca per individuare gli eventuali collusi».
Su un punto Bonfà non transige: «Tutti gli accertamenti sulla presenza o meno di forze militari deviate devono essere svolte da forze investigative non calabresi. Troppo alto il rischio insabbiamento».
Sequestri e vacche sacre
Dal 1998 l’azienda agricola Bonfà, produttrice di bergamotto, è oggetto di incursioni delle vacche sacre della ‘ndrangheta che, a più riprese, hanno distrutto il 70% delle 3500 piante esistenti.
Grazie alla legge 44/99 è riuscito ad ottenere un indennizzo per i danneggiamenti avuti.
Circa 200mila euro, elargiti in più tranche. Poca roba rispetto al reale danno subito. Che oggi ammonterebbe a 20 milioni di euro.
Con le risorse ricevute Bonfà ha ripreso le produzioni che contraddistinguono l’azienda in Italia, ma non basta. Anche perché i pascoli delle vacche sacre sono continuati nel tempo, così come i piccoli danneggiamenti e gli incendi.
In un primo momento le forze dell’ordine hanno registrato quanto denunciato dall’imprenditore e ci sono stati anche interventi di abbattimento di alcuni capi di bestiame.
Ma poi, improvvisamente, nulla si è più mosso. Nonostante le decine di foto testimonianza c’è chi ha persino tentato di addebitare i danni presenti all’interno dell’azienda «alla presunta incuria» di Bonfà che l’imprenditore respinge al mittente: «È in corso l’elettrificazione della mia azienda, un servizio di cui godranno tutti gli agricoltori della vallata. Assurdo».
Gli avvistamenti a marzo 2021
Del suo caso si sta occupando la Procura di Reggio Calabria e la X Commissione parlamentare. Ma la sua pratica per ricevere un nuovo indennizzo grazie alla legge 44/99 è ferma.
«A causa – spiega – delle ennesime informative deviate che hanno prodotto le forze dell’ordine e che io ho prontamente denunciato». Silenzi, omissioni e accuse che per l’imprenditore hanno un unico emissario: la ‘ndrangheta. Obiettivo: portare l’azienda al collasso e rilevarla. Ma Bonfà ha la testa dura e ha scelto di continuare la sua battaglia di verità nonostante tutto. «Lo faccio per la memoria di mio padre, non si può far finta di niente. Se tacessi sarei anch’io connivente».
La scuola come un’azienda. Dove, quindi, è possibile truffare per proprio tornaconto. È un vero e proprio “sistema” quello che avveniva all’interno dei Liceo Musicale di Cinquefrondi. A farlo emergere, un’inchiesta della Procura della Repubblica di Palmi, eseguita dai carabinieri. “Note dolenti” il nome del fascicolo. Iscritte nel registro degli indagati cinque persone. Insegnanti, ma anche lo stesso dirigente scolastico del plesso.
Indagata la preside
Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, truffa ai danni del Ministero dell’Istruzione e abuso d’ufficio i reati contestati dal pubblico ministero Daniele Scarpino. Gli inquirenti parlano di «un illecito sistema di false, forzate e irregolari iscrizioni di studenti finalizzato a indurre in errore le articolazioni territoriali del Ministero della Pubblica Istruzione». Tutto «per costituire le prime classi anche senza un numero minimo di iscritti, o falsificando o non svolgendo le prove obbligatorie di ammissione, e quindi consentendo un ingiusto profitto di retribuzione ad alcun insegnanti».
Tra le persone indagate, Francesca Maria Morabito, dirigente scolastico del plesso di Cinquefrondi, a sua volta costola del Liceo “Giuseppe Rechichi” di Polistena. Morabito, due mesi fa, è stata eletta presidente dell’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria. Dai dati ufficiali riportati su istruzione.it, emerge come il Liceo di Cinquefrondi abbia cinque classi per 69 alunni. Una media di 13 alunni per classe.
L’ingiusto vantaggio in almeno due anni scolastici
Analisi documentali e testimonianze per ricostruire le condotte, che si sarebbero perpetrate nel corso di almeno due anni scolastici. Le indagini avrebbero dimostrato come nei test attitudinali di ingresso per l’anno scolastico 2019/2020, la commissione esaminatrice, composta dal dirigente scolastico e altri docenti in servizio presso l’istituto formativo, abbia falsificato il verbale pubblico di commissione.
Sarebbe stata attestata l’idoneità di alcuni alunni che neanche si erano presentati alle prove valutative. Successivamente, al fine di avere un numero minimo di studenti, gli stessi alunni sarebbero stati forzatamente iscritti alla classe prima. Così il Ministero dell’Istruzione sarebbe caduto in errore. Nelle successive comunicazioni, infatti, la classe risultava composta da un numero di studenti superiore a quello reale. E così, si stilava un orario di lezioni comprensivo di ore di insegnamento per alunni in realtà inesistenti.
Una circostanza che si sarebbe ripetuta anche nel successivo anno scolastico, il 2020/2021. In questo caso, la dirigente scolastica, nonostante uno specifico obbligo di legge, non avrebbe consapevolmente costituito la commissione esaminatrice e non indetto le preordinate prove per la verifica delle competenze musicali degli aspiranti studenti. Questa, infatti, è una condizione necessaria ai fini dell’iscrizione. Così facendo, quindi, la dirigente scolastica avrebbe formalmente istituito la classe. Ma era solo una formazione “di carta”, che avrebbe così permesso ingiusti vantaggi patrimoniali ad insegnanti non di ruolo. In un caso, addirittura, la stessa dirigente si sarebbe illegittimamente sostituita all’identità di un genitore di una alunna minorenne. Tutto al fine di compilare e registrare fittiziamente la domanda di iscrizione.
Pubblica istruzione da spolpare
Nella provincia di Reggio Calabria sono numerose le scuole costrette a chiudere i battenti per la mancanza di numeri richiesti, come abbiamo mostrato con il reportage di Vincenzo Imperitura sulla Locride. Così si accorpa l’intero percorso formativo in un’unica classe. Soprattutto per quanto concerne le scuole medie. Diverso quanto accaduto al Liceo Musicale di Cinquefrondi.
Sì, perché tale sistema/meccanismo avrebbe comportato un ingiusto profitto in favore di alcuni insegnanti, anche non di ruolo. Retribuzione stipendiale per lezioni individuali mai effettuate, oltre che ulteriori eventuali vantaggi in termini di punteggi e graduatorie. Così, dunque, la Pubblica amministrazione, anzi, la Pubblica istruzione, diventa una mammella da succhiare, una torta da dividere, carne da spolpare. Grazie una gestione burocratica e amministrativa illecita, che avrebbe portato illegittime retribuzioni ad insegnanti ed altri docenti, di ruolo o non. Una illecita alterazione del sistema di assunzione, distribuzione e pagamento delle ore di insegnamento.
I Decreti Salvini hanno ammazzato anche la scuola di Riace, chiusa per mancanza di alunni. Il grande murales con il faccione imponente degli antichi guerrieri venuti dal mare mostra i segni del tempo. Da quasi tre anni i bambini non passano più sotto l’effigie dei bronzi che li attendevano ad ogni suono della campanella. Anche i corsi di italiano per stranieri e per gli stessi riacesi sono stati sospesi, tutto spostato nel plesso della frazione a mare. Con buona pace dei progetti di rilancio del borgo che avevano portato il paesino jonico sulle prime pagine dei media di mezzo pianeta.
A lezione solo grazie ai migranti
Come tanti micro paesi arroccati sulle colline di questo spicchio di Meridione, il borgo dei santi Cosma e Damiano paga lo scotto di uno spopolamento inarrestabile. Tra gli effetti immediati compare la chiusura sistematica di quelle scuole che non raggiungevano il numero minimo di alunni necessari a tenere aperti i battenti. Nella scuola di Riace però le cose sono precipitate solo negli ultimi tempi. Fino a tre anni fa infatti, l’istituto comprensivo – che raccoglie asilo, scuola dell’infanzia, elementari e medie – era riuscito a mantenere aperta la scuola del borgo grazie all’affluenza massiccia dei piccoli studenti venuti da terre lontane. Eritrei, pakistani, afghani. Gli alunni stranieri hanno rimpolpato per oltre un decennio le fila degli studenti che ogni mattina frequentavano la piccola scuola colorata nel cuore del borgo.
La mazzata dei decreti Salvini
Poi, con l’approvazione dei decreti Salvini varati dal primo governo Conte, i progetti Cas e Sprar sono stati via via smantellati, con le famiglie costrette ad abbandonare il paese in cerca di nuove possibilità. E così, anche le due pluriclassi – un corso per i bimbi dei primi due anni, un altro per il triennio conclusivo delle elementari – sono state chiuse e i bambini trasferiti nel plesso della marina, dove convergono anche i giovanissimi studenti di Camini. Sono poco più di una ventina i bambini rimasti a vivere nelle vecchie case addossate l’una all’altra, tra loro anche una manciata di alunni migranti che, nonostante la chiusura dei progetti, non si sono mai mossi dalle colline a due passi dal mare dei bronzi.
Il sindaco leghista gongola
Troppo pochi i bambini per giustificare la riapertura della scuola. Con il municipio e la stazione dei carabinieri rappresentava l’unico presidio dello Stato sul territorio. I vicini borghi di Stignano e Placanica hanno pagato la stessa drammatica emorragia di studenti in seguito alla chiusura dei progetti d’accoglienza diffusa. Ma gli amministratori locali hanno tentato fino all’ultimo di scongiurare la partenza dei ragazzi.
A Riace le cose hanno preso una piega diversa, con il sindaco leghista Antonio Trifoli (che ha preso il posto dell’ex primo cittadino Mimmo Lucano, indagato dalla Procura di Locri). Trifoli non rimpiange la vecchia realtà. «Se anche fosse possibile mantenere l’apertura della scuola – racconta il primo cittadino – se ci fosse un così alto numero di persone in accoglienza, io non sarei d’accordo a creare delle classi con persone che vengono solo da altri Paesi». E termina: «Io penso che la vera integrazione si faccia quando le altre persone si possono inserire studiando accanto ai bambini del posto. Questa è la vera integrazione. Creare le scuole ghetto, cioè dove ci sono solo bambini immigrati, secondo me non è una cosa buona».
Un tuffo nel passato delle scuole per ritagliarsi uno spiraglio, seppure piccolo, di futuro. Parte da un paradosso il tentativo dei piccoli centri calabresi di arginare la continua emorragia di nuove nascite che, negli anni, ha causato il progressivo e inarrestabile spopolamento di tanti centri delle aree collinari e montane. Nella galassia dei piccoli borghi che costellano le colline della Locride – 42 comuni affacciati sullo Jonio tra Monasterace e Brancaleone – quello dello spopolamento è un problema con cui si fanno i conti da decenni. E che, tra le tante conseguenze, ha finito col falcidiare l’offerta scolastica destinata ai più piccoli.
Sono decine di scuole costrette a chiudere i battenti per la mancanza dei numeri richiesti. Una deriva che sembrava inarrestabilmente destinata a favorire il travaso definitivo degli studenti di elementari e medie dai centri interni a quelli rivieraschi, ma che, pescando a piene a mani nel passato più o meno recente, si sta provando ad invertire con la reintroduzione del sistema delle pluriclassi.
Classi vintage per garantire un futuro
A Martone e San Giovanni così come ad Agnana e Canolo, e ancora a Stignano e a Placanica e più a sud a Samo e Sant’Agata del Bianco, paese natale dello scrittore Saverio Strati: il problema della chiusura delle scuole riguarda tutti, o quasi, i mini paesi arroccati sulle colline a pochi chilometri dal mare di questo pezzo di Calabria. Spesso hanno meno di mille abitanti, in prevalenza anziani, e i bambini e gli adolescenti che dovrebbero popolare le aule, semplicemente, non ci sono.
In totale sono 22 i Comuni che negli anni hanno visto ridotta la loro capacità di garantire la prima parte dell’istruzione obbligatoria. E così, per evitare di perdere le scuole elementari e le medie, nella maggior parte dei casi unici presìdi dello Stato presenti sul territorio, le amministrazioni comunali e le istituzioni scolastiche provinciali e regionali, hanno disegnato una nuova geografia didattica fatta di percorsi comuni e programmi condivisi da studenti di età diverse. Ad Agnana ad esempio, poco più di 500 anime arroccate alle pendici d’Aspromonte, il percorso della primaria è stato diviso in due: in una classe confluiscono gli alunni più piccoli dalla prima alla terza, nell’altra i più grandicelli che condividono il percorso del quarto e quinto anno.
Medie o elementari, cambia poco
Per le scuole medie l’unica scelta possibile, vista l’assenza di ragazzi e ragazze, è stata accorpare l’intero percorso formativo in un’unica classe, con quelli di prima che frequentano assieme ai loro compagni di seconda e di terza. A Martone, poco più di 600 abitanti pochi chilometri più a nord, la situazione non è molto diversa, con i bimbi delle elementari a dividersi due corsi pluriclassi. E così funziona anche a Samo, poco più di 800 abitanti a una decina di chilometri dal mare di Bianco. Qui le pluriclassi hanno riguardato sia le elementari che le medie, così come successo nei limitrofi borghi di Caraffa e Sant’Agata. E ancora a Staiti e San Giovanni di Gerace.
La transumanza quotidiana dei bimbi
Spesso però, accorpare più classi in una, non è sufficiente a raggiungere i numeri previsti per il mantenimento della scuola, e molti piccoli centri hanno dovuto rinunciare al loro personale “presidio di legalità”. Come successo a Pazzano, piccolissimo centro arroccato alle pendici delle Serre, i cui piccoli studenti, dopo la chiusura della primaria, sono costretti ad una quotidiana transumanza verso gli istituti di Stilo e di Bivongi. O come è accaduto a Canolo, comune costretto a sacrificare il plesso della frazione a valle per salvaguardare la scuola della frazione in alta quota e mantenere così il rapporto antico che lega la popolazione del piccolo centro con la sua secolare tradizione montana.
Via i migranti, addio alle scuole
La scuola elementare di Riace, in provincia di Reggio Calabria
A complicare una situazione dai risvolti drammatici, negli ultimi due anni sono arrivati anche i decreti Salvini con le conseguenti chiusure ai tanti progetti di accoglienza diffusa presenti sul territorio della Locride, da almeno 20 anni al centro di una delle rotte più battute dai flussi migratori che interessano il Mediterraneo. L’allontanamento delle famiglie migranti ha infatti sancito, per mancanza di iscritti, la chiusura di numerose scuole nei paesini che avevano trovato nuova linfa dalle famiglie provenienti da Medio Oriente e Africa.
Così è successo a Riace, costretta a chiudere la scuola del borgo, dove confluivano anche i bambini del limitrofo comune di Camini la cui primaria è stata chiusa negli anni passati per mancanza di alunni. Nell’ex paese dell’accoglienza erano proprio i bimbi migranti a garantire il numero minimo di iscritti per garantire almeno il sistema delle pluriclassi. Tutto finito e bimbi costretti a servirsi del bus per raggiungere la frazione marina.
Una parvenza di normalità
Lo stesso copione vissuto dai centri di Placanica e Stignano (insieme, meno di 3 mila abitanti) che erano riusciti a mantenere le scuole aperte grazie al flusso delle nuove famiglie venute dall’est. La chiusura dei centri di accoglienza ha comportato grandi cambiamenti e i due comuni, appollaiati su due cucuzzoli uno di fronte all’altro, per non perdere anche la scuola si sono inventati un percorso condiviso: in un centro la scuola media, nell’altro le elementari. Uno stratagemma che ha consentito di mantenere una parvenza di normalità ma che, nonostante tutto, non si è potuto sottrarre alla regola delle pluriclassi, che tra polemiche e difese a spada tratta, si è rivelato l’ultimo disperato tentativo di mantenere vive comunità che ogni giorno temono per la loro stessa sopravvivenza.
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