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  • Reggio violenta: quei giovani cresciuti a “sciarre” e malandrineria

    Reggio violenta: quei giovani cresciuti a “sciarre” e malandrineria

    Risse a chiamata, violenze tra le mura domestiche, danneggiamenti e vandalismi. E poi furti e rapine, risalendo la scala della gerarchia del crimine fino al narcotraffico e all’associazione mafiosa. È un mondo complesso quello dei minori che finiscono nei guai con la giustizia: un mondo che, anche in Calabria, sta “ridefinendo” i propri confini, dopo il lungo periodo di “cattività” seguita allo scoppio della pandemia da Covid, sui binari di una violenza “gratuita” che vede i minori come protagonisti attivi e passivi. Quello che registrano le statistiche e che gli operatori della giustizia minorile (magistrati, avvocati, assistenti sociali, terapeuti) riscontrano ogni giorno, è infatti un preoccupante aumento dei casi di violenza “spicciola”, soprattutto tra coetanei.

    Le risse organizzate

    «La convivenza forzata e prolungata dovuta al Covid – filtra dalla procura minorile di Reggio Calabria – ha esasperato gli animi di tutti, e ha reso evidenti quei conflitti nascosti in tante famiglie. Dalla riapertura abbiamo riscontrato un sensibile aumento di aggressioni e violenze maturate all’interno delle mura domestiche ai danni dei più giovani. Violenze e aggressioni che poi si ripropongono anche fuori da casa». E così, nei fascicoli che transitano negli uffici del tribunale minorile reggino, si nota un preoccupante aumento di un fenomeno prima marginale: gli appuntamenti per le risse.

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    Il tribunale per i Minori di Reggio Calabria

    A volte basta pochissimo, uno sguardo a una ragazza, una parola sfuggita tra i denti, un tamponamento. Tutto può funzionare da detonatore, e una volta che la miccia ha preso fuoco fermarsi diventa molto complicato. Come nel caso della maxi rissa di Campo Calabro, prima periferia di Reggio Calabria. Lo scorso febbraio, la piazza centrale del paesino affacciato sullo Stretto, fu infatti teatro di un vero e proprio scontro tra due improvvisate bande di giovanissimi (quasi tutti minorenni).

    In quella occasione, una banale questione di cuore tra adolescenti aveva provocato uno tsunami partito con un appello in chat che aveva finito per coinvolgere diverse “comitive” che si erano presentate all’appuntamento a bordo di scooter e minicar con corredo di mazze e catene. Una sorte di sfida all’Ok Corral recitata tra lo sgomento dei residenti e finita con diversi contusi al Pronto Soccorso.

    Le “sciarre”

    E poi le sciarre nei bar, che a Reggio ormai esplodono con cadenza sempre più frequente. L’ultima in ordine di tempo, appena una manciata di giorni fa in occasione di Halloween: esplosa in un locale del centro ha finito per coinvolgere anche gruppi di persone che erano estranee alla vicenda ed è costata un ricovero con prognosi di 20 giorni per un ventenne colpito sul viso con una bottiglia rotta. E qualche giorno prima un’altra sciarra sul lungomare che vedeva coinvolti gruppi di giovanissimi, immortalati in un video diventato virale su youtube mentre si lanciano tavoli e suppellettili varie gli uni contro gli altri tra le urla dei passanti, che ha portato il sindaco della città a richiedere al Prefetto una riunione del comitato per l’ordine e la sicurezza.

    I figli di ‘ndrangheta

    E se le violenze “spicciole” tra minori si spingono oltre i confini consueti, in Calabria e in provincia di Reggio in particolare, dove l’oppressione delle consorterie di ‘ndrangheta pesa di più, una fetta dei reati che finiscono per coinvolgere i più giovani, riguarda quelli legati al crimine organizzato. Sono diversi infatti i casi di giovani, per lo più adolescenti, coinvolti, loro malgrado, nelle dinamiche criminali mafiose. Cresciuti a “Paciotti e malandrineria” spesso vengono inseriti fin da giovanissimi alla periferia della cosca, con compiti che però possono anche diventare importanti.

    Come nel caso di un adolescente di Palmi che qualche anno fa, con il resto dei parenti più prossimi blindati in galera da sentenze pesantissime per mafia, si ritrovò suo malgrado a fare il “lavoro” dei grandi. Era lui, avevano scoperto i carabinieri, che si era presentato ad un imprenditore cittadino chiedendo un “fiore” per i parenti in galera. Una “sottoscrizione” da 5000 euro per pagare gli avvocati e aiutare le famiglie dei carcerati per mafia. E fu sempre il ragazzo catapultato nel ruolo del boss ad aggredire il figlio minorenne dell’imprenditore che si era rifiutato di pagare il pizzo al clan.

    Nella rete dei clan

    Accanto ai “figli di ‘ndrangheta” poi – i minori che crescono in ambienti fortemente condizionati dalle dinamiche del crimine organizzato finendo spesso per rimanerne invischiati – gli operatori della giustizia minorile si sono trovati ad affrontare un rinnovato interesse delle cosche verso quei minori che non vengono da famiglie legate a doppio filo con il crimine organizzato, ma che galleggiano in un mondo fatto di disinteresse e solitudine.

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    Armi, munizioni e marijuana trovate a un minorenne nel quartiere Ciccarello

    È a loro, registrano gli inquirenti, che i boss si rivolgono per il lavoro sporco legato soprattutto al traffico di stupefacenti e ai danneggiamenti. «A volte – annotano amaramente gli investigatori – per coinvolgerli basta dimostrare un minimo interesse nei loro confronti. Farli sentire coinvolti in un progetto, seppure dalle dinamiche criminali». L’ultimo caso in ordine di tempo risale a pochi giorni fa: durante un blitz dei carabinieri a Ciccarello, popoloso quartiere della città dello Stretto, i militari hanno fermato un diciassettenne che custodiva due scacciacani a salve, una manciata di proiettili calibro 12 e della marijuana.

  • Riace, la brigata Bella Ciao di Lerner e padre Zanotelli abbraccia Lucano

    Riace, la brigata Bella Ciao di Lerner e padre Zanotelli abbraccia Lucano

    Le prime auto sono arrivate già dalla mattina. Da Napoli, da Cosenza, da Parma, da Messina: alla fine saranno un migliaio i sostenitori dell’ex sindaco Mimmo Lucano. Tutti approdati a Riace per rispondere alla “Chiamata delle arti”, la manifestazione a sostegno del “curdo” organizzata a poco più di un mese dalla sentenza del Tribunale di Locri. Lucano ha subito una condanna a 13 anni e due mesi di reclusione.

    Mimmo Lucano in piazza a Riace con Gad Lerner e padre Alex Zanotelli

    Presenti militanti, attivisti, i partigiani dell’Anpi e i giovani dei centri sociali. Non mancavano due ex candidati alla presidenza della Regione, Mario Oliverio e Luigi De Magistris. Tra i manifestanti anche l’ex sindaco movimentista di Messina, Renato Accorinti.

    Padre Alex Zanotelli e il sindaco con la falce e martello

    Spunta qualche amministratore locale della provincia – il neo rieletto sindaco di Polistena, Tripodi, munito di bandiera con falce e martello – e l’immancabile padre Alex Zanotelli che con Riace e il suo progetto di accoglienza dal basso ha un rapporto antico. Ma sono i giovani i veri protagonisti di questa giornata di festa salutata dallo scirocco. Ci sono i bambini arrivati in questo pezzetto di Calabria con le loro famiglie negli anni passati e quelli che a Riace sono nati, e ci sono i ragazzi delle scuole (una classe di un liceo di Messina ha continuato a girare lungo tutto il corteo per vendere una fanzine del loro «gruppo rivoluzionario che intende distruggere il capitalismo»).

    L’indifferenza dei ragazzi del posto

    Quelli che mancano sono i ragazzi del posto che non hanno risposto all’appello. Così come tiepida è stata la risposta dei cittadini del paesino jonico. Un gruppo di anziani gioca a carte nel bar appena fuori il “Villagio Globale”. Guardano a quella massa rumorosa di estranei con l’indolenza tipica di queste parti e non si fanno vedere nella piazza principale. Gli altri sono tutti in fila ordinata lungo la strada che dal Santuario di Cosma e Damiano conduce fino al paese. Un Santuario dove, grazie all’interessamento dell’allora vescovo Bregantini, furono ospitati i curdi del primo sbarco a Riace. Era il 1998.

    Bella Ciao con Gad Lerner e Ascanio Celestini

    Un corteo lungo e colorato di rosso che Lucano, mano nella mano con due dei bambini migranti che a Riace sono rimasti nonostante la tagliola disposta dall’allora ministro Salvini, guida tra le manifestazioni di affetto e vicinanza dei manifestanti. E ancora Gad Lerner e Ascanio Celestini per un serpentone rumoroso che avanza al ritmo di Bella Ciao fino all’anfiteatro con i colori della pace. E qui che, rispondendo alle domande dello stesso Lerner, Mimmo Lucano ha ripercorso le ultime tappe della sua vicenda. Una vicenda legata a doppio filo con la “rotta turca” che da più di venti anni continua a riversare disperati sulle spiagge della Locride.

    Il corteo per Mimmo Lucano sta per raggiungere il centro storico di Riace
    Le parole di Mimmo Lucano

    «Quello che proprio non riesco a sopportare di questa vicenda – ha detto l’ex sindaco – è la delegittimazione morale di quanto abbiamo fatto in tutto questo tempo. Questo non posso davvero sopportarlo. In una terra come la Locride, umiliata dal crimine organizzato e con un sistema sociale ed economico fragilissimo, noi abbiamo proposto un riscatto per il nostro territorio, occupandoci di un fenomeno epocale come quello migratorio». Il racconto del “curdo” ripercorre tutte le tappe di un “anomalia” capace di sorgere in contrapposizione agli slum spuntati, negli stessi anni, nelle campagne della piana di Gioia Tauro e il pensiero non può che andare a Beky Moses. «Una ragazza – ha ricordato ancora Lucano – a cui era stata rifiutata l’accoglienza e che era stata obbligata a lasciare Riace».  Che disse a Lucano: «Tu sei l’ultimo che può darmi una mano».

    Il giornalista Gad Lerner con Mimmo Lucano a Riace
    «La Prefettura di Reggio mi chiedeva di accogliere»

    Lucano continua: «Come potevo rifiutare? Non mi sono mai pentito di avere firmato quella carta d’identità anche se non è servito a niente visto che quello stesso documento è stato ritrovato qualche giorno dopo tra i resti del rogo che la uccise, nell’inferno di San Ferdinando». E poi la cooperativa che si occupava dei rifiuti a dorso di mulo «e che aveva rotto il monopolio dei soliti noti ma per cui sono stato comunque condannato» e le continue chiamate dalla Prefettura reggina che «mi chiamava San Lucano e mi chiedeva continuamente di accogliere altra gente perché non sapevano dove sistemarla». Quello di Mimmo è un racconto serrato e interrotto più volte dagli applausi del pubblico.

    Le parole del corteo di oggi a Riace
    Zanotelli: indagano Lucano invece di occuparsi di ‘ndrine 

    E se per Lerner la pesantissima sentenza di condanna che, in primo grado, è costata un totale di 87 anni di carcere per 15 dei 27 imputati rappresenta «un vero e proprio stupro nei confronti di Mimmo Lucano e del suo progetto di accoglienza», per il missionario comboniano Zanotelli, il vero rebus resta l’impegno della Procura di Locri «che al posto di occuparsi dei mille problemi causati dalla ‘ndrangheta in questo territorio, ha speso due anni per imbastire questa indagine contro una brava persona come Mimmo Lucano».

  • “Miramare”, chiesto un anno e 10 mesi di reclusione per il sindaco Falcomatà

    “Miramare”, chiesto un anno e 10 mesi di reclusione per il sindaco Falcomatà

    Un anno e dieci mesi di reclusione. Questa la richiesta formulata dai pm Walter Ignazitto e Nicola De Caria nei confronti del sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà. Il processo è quello sul cosiddetto “Caso Miramare”, con cui la Procura reggina persegue il presunto affidamento diretto dell’ex albergo di lusso effettuato dalla Giunta Comunale alla semisconosciuta associazione “Il Sottoscala”.

    Gli imputati e le richieste dell’accusa

    Secondo l’accusa, tale «regalo» sarebbe stato effettuato in virtù del rapporto di amicizia tra Falcomatà e il noto imprenditore reggino Paolo Zagarella. Questi è ritenuto il dominus della compagine associativa. Nel corso del suo esame in aula, Falcomatà ha definito Zagarella solo «un buon conoscente». Ma sarebbe notorio, a Reggio Calabria, il rapporto datato tra i due. E consolidato attraverso diverse serate danzanti nelle discoteche più “in” della città.

    Ma il pm Ignazitto è stato netto: «Il ‘Miramare’ doveva andare a un amico del sindaco: Paolo Zagarella. Non solo non si è astenuto, ma è stato il vero registra dell’operazione». Tuttavia, mano “leggera” nella richiesta: un anno e dieci mesi, considerando lo stato di incensuratezza.

    Per tutti gli altri, la Procura ha chiesto un anno e otto mesi di reclusione. Oltre a Falcomatà e a Zagarella sono imputati anche l’ex segretario generale del Comune, Giovanna Acquaviva, l’ex dirigente Maria Luisa Spanò, l’assessore in carica ai Lavori Pubblici e candidato al Consiglio regionale, Giovanni Muraca, e gli ex assessori Saverio Anghelone, Armando Neri, Patrizia Nardi, Giuseppe Marino, Antonino Zimbalatti e Agata Quattrone.
    Per tutti, quindi, la Procura di Reggio Calabria ha richiesto la condanna.

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    Un momento dell’udienza di oggi a Reggio Calabria
    I fatti contestati

    Al centro dell’inchiesta, la delibera della Giunta comunale con cui l’Amministrazione affidava all’imprenditore Paolo Zagarella, titolare dell’associazione “Il Sottoscala”, la gestione temporanea del noto albergo Miramare. Da tempo chiuso.

    L’affidamento della gestione della struttura di pregio, notissima in città, sarebbe avvenuto in maniera diretta a Zagarella. Questi, infatti, è uno storico amico del sindaco Falcomatà e gli avrebbe anche concesso, in forma gratuita, i locali che avevano ospitato la segreteria politica nella campagna elettorale che porterà l’attuale primo cittadino alla schiacciante vittoria sul centrodestra nella corsa verso Palazzo San Giorgio.

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    L’ex Hotel Miramare a (Reggio Calabria

    Una delibera, quella del 16 luglio 2015, che sarebbe stata approvata a maggioranza con l’assenza dell’allora assessore, Mattia Neto. Che infatti non verrà coinvolto nell’inchiesta del pm Walter Ignazitto. Ma secondo alcune testimonianze raccolte nel corso del dibattimento, l’associazione “Il Sottoscala” avrebbe avuto la disponibilità dell’immobile di pregio anche prima della votazione della delibera.

    «Con Zagarella, Falcomatà aveva un debito di riconoscenza» hanno detto i pm Ignazitto e De Caria. Per questo, quindi, il “Miramare” sarebbe stato affidato all’associazione “Il Sottoscala” dietro cui si celava (seppur senza cariche formali) Zagarella. Questi, esperto di feste e serate danzanti, avrebbe dovuto realizzare eventi e, quindi, intascare soldi, nell’immobile di pregio comunale.

    Tra le persone escusse, che sosterranno tale versione, anche l’allora sovrintendente per i Beni archeologici della Regione Calabria, Margherita Eichberg. Impegnata con una sua collaboratrice nel sopralluogo di un immobile limitrofo al “Miramare” avrebbe sorpreso Zagarella e alcuni operai intenti a fare dei lavori all’interno della struttura. «Si tratta di un processo sul modo in cui deve intendersi la funzione pubblica, con imparzialità e trasparenza» hanno detto i pm Ignazitto e De Caria.

    La grande accusatrice

    Unica a scegliere il rito abbreviato, l’allora assessore comunale ai Lavori Pubblici, Angela Marcianò. È già stata condannata, in primo grado, a un anno di reclusione.  Già collaboratrice del procuratore Nicola Gratteri, Marcianò, dopo l’esplosione del caso (politico e giudiziario) diventerà la grande accusatrice di Falcomatà.

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    Angela Marcianò durante l’ultima campagna elettorale

    Marcianò ha sempre dichiarato di essersi schierata contro l’assegnazione del “Miramare” a Zagarella. Ma dagli atti dell’indagine (tra cui diverse chat WhatsApp), emergerebbe in realtà solo un tardivo tentativo di intervenire per la modifica dell’atto. Accusa ancor più grave, quella mossa dalla Marcianò, è quella di risultare presente (e, quindi, con voto favorevole alla delibera) nel verbale della riunione di Giunta. Quando, invece, a suo dire, l’avrebbe abbandonata in aperta polemica con il provvedimento che si voleva adottare.

    Alle elezioni del settembre 2020, si candiderà anche a sindaco, in piena contrapposizione con il giovane sindaco del Partito Democratico. Otterrà un buon risultato, classificandosi terza tra i candidati alla carica di primo cittadino. Ma al momento dell’insediamento in Consiglio Comunale subirà il provvedimento di sospensione spiccato dal prefetto, proprio a causa della condanna nel “caso Miramare”.

    Verso la sentenza

    Giuseppe Falcomatà è considerato uno degli esponenti più emergenti del Pd calabrese. Ora, però, rischia un pericoloso passo falso, poco più di un anno dopo la riconferma come sindaco di Reggio Calabria. I fatti contestati, però, si riferiscono al suo primo mandato. Quelli dopo gli anni del “Modello Reggio” di Giuseppe Scopelliti e lo scioglimento per contiguità con la ‘ndrangheta del Consiglio comunale.

    Un avvio difficile, accidentato, in cui il primo obiettivo è capire se e come evitare il dissesto economico-finanziario. Ma uno dei primi atti dell’Amministrazione Falcomatà è quello di eliminare il Miramare dai beni di proprietà del Comune in vendita. Così come voluto dalle Amministrazioni di centrodestra prima e dalla terna commissariale poi.

    La tesi della difesa

    La difesa di tutti gli imputati è stata quella di voler rilanciare quello che, unanimemente, viene considerato uno dei “gioielli di famiglia” della città. E che tale affidamento (poi saltato, per via del putiferio politico e giudiziario) non avrebbe comportato alcun esborso per l’Ente. Ma, anzi, una possibilità di rilanciare la struttura a “costo zero” con eventi di vario genere.

    Tesi che, evidentemente, non sembrano aver convinto i pm Ignazitto e De Caria, che hanno formulato le richieste di condanna: “Il ‘gioiello di famiglia’ trasformato in un affare di famiglia’ con palesi violazioni di legge” hanno detto infine i pm.

    Adesso la girandola delle arringhe difensive. Con la sentenza per Falcomatà&co che dovrebbe arrivare il 19 novembre. E, in caso di condanna, potrebbe far scattare la sospensione dovuta alla “Legge Severino”. Facendo piombare la città in una fase politica tutta da decifrare.

  • Torturato in Pakistan, clandestino per Reggio: la Cassazione dice no

    Torturato in Pakistan, clandestino per Reggio: la Cassazione dice no

    Gli uccidono il fratello durante le Comunali in Pakistan nel 2015, lui denuncia tutto ma viene rapito, torturato e “convinto” a ritrattare. Ma la notte stessa scappa e arriva poi fino in Calabria, che però gli nega asilo politico. Ora la Cassazione ha accolto il suo ricorso prospettando un lieto fine per l’odissea di questo quarantenne di origini pakistane, almeno dal punto di vista della sicurezza personale.

    Asilo politico

    L’uomo, infatti, aveva visto respingere per ben due volte la richiesta di protezione internazionale tramite l’asilo politico. In Italia è garantita a chi è riconosciuto lo status di rifugiato, ossia a colui che per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale, si trova fuori dal paese di cui ha cittadinanza (o dimora abituale – nel caso di soggetti apolidi) e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese.

    L’arrivo in Calabria

    Il 40enne era arrivato in Calabria nel 2015 dopo mille peripezie e si era subito attivato per chiedere lo status di rifugiato cercando al contempo di integrarsi, studiando italiano e lavorando ogni qual volta ne ha avuto l’occasione. Le diffidenze delle istituzioni italiane in merito sono certamente dovute non tanto all’alto numero di richieste, quanto ai numerosi tentativi di aggirare le normali procedure “inventando” storie di sana pianta per cui, purtroppo, a volte “paga il giusto per il peccatore”.

    Ma la Cassazione ha accolto il suo ricorso rinviando ad altra sezione d’Appello che ora dovrà seguire le indicazioni degli ermellini e concedere l’agognato e meritato status di rifugiato al 40enne, che è riuscito a provare la sua tragica storia, tanto assurda da sembrare quasi finta. E invece era tutto drammaticamente vero.

    Due no da Reggio

    La corte d’Appello di Reggio Calabria aveva confermato la sentenza con cui il Tribunale locale aveva già respinto le domande di protezione internazionale o umanitaria del pakistano. Quest’ultimo aveva dichiarato di essere perseguitato da appartenenti a un partito politico del suo Comune di residenza nella regione del Punjab in Pakistan. L’uomo, quale sostenitore del Partito popolare, era finito nel mirino di una banda criminale che appoggiava la fazione politica opposta alla sua, ossia quella in cui militava il fratello.

    Ostaggio degli assassini del fratello

    Nelle elezioni comunali del 2015 aveva collaborato infatti alla campagna elettorale del fratello, rimasto poi ucciso in un agguato da parte di un commando armato che fiancheggiava il partito contrario al suo. A seguito di questa barbara e feroce esecuzione, il 40enne muratore pakistano aveva debitamente denunciato i tragici avvenimenti alla polizia locale e ai giudici della sua regione (come da allegata copia della denuncia, munita di traduzione e consegnata ai giudici italiani). Per questo, dopo il funerale, lo avevano rapito, imprigionato per tre giorni, minacciato di morte – con tanto di fratture a una spalla – nel tentativo di convincerlo a ritirare la denuncia.

    In fuga verso l’Italia

    E lui aveva promesso di farlo solo per conseguire la liberazione, ma in realtà voleva denunciare anche questa seconda aggressione. I suoi familiari, però, gli avevano consigliato di non farlo, continuando le pressioni degli aguzzini affinché ritirasse la denuncia. E così il 40enne aveva deciso di fuggire.

    La mattina dopo la liberazione si presenta alla polizia e ritira la denuncia. Ma la notte stessa, capendo che la sua permanenza in Pakistan sarebbe stata troppo rischiosa dopo gli avvenimenti, scappa e fa perdere le sue tracce anche ai familiari per tutelarli e “tranquillizzare” la banda che aveva ucciso il fratello su altre sue possibili denunce.

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    Osama Bin Laden, ideatore degli attentati dell’11 settembre 2001

    In Pakistan esistono forze di polizie e di giustizia che operano in zone dove le bande criminali a sfondo politico e religioso continuano ad avere il loro peso nella vita dei cittadini. Non dimentichiamo che Osama Bin Laden è stato catturato e ucciso proprio in Pakistan. Dopo mille traversie il 40enne era riuscito finalmente ad arrivare in Italia. Si sentiva finalmente al sicuro e voleva lasciarsi alle spalle questa brutta storia, convinto di aver messo al sicuro anche la sua famiglia grazie proprio alla fuga improvvisa.

    Nel dubbio, meglio non rischiare

    Non pensava forse di dover combattere altre battaglie, stavolta giudiziarie, per farsi riconoscere come rifugiato. Ma la Cassazione già da tempo sta fissando parametri molto rigidi ad entrambe le parti, richiedenti e tribunali. Ai primi non basta più dichiarare storie incredibili per accedere a questo tipo di benefici. I tribunali e le commissioni regionali, a loro volta, non possono respingere le richieste di asilo politico senza eseguire approfondimenti. E nel dubbio o nell’impossibilità di arrivare a fonti certe sui vari racconti il principio da seguire è sempre in direzione della tutela dei diritti e della salvaguardia della vita e della salute.

    Il ribaltone degli ermellini

    I giudici di primo e secondo grado non avevano creduto fino in fondo al racconto del pakistano e comunque ritenevano cessato il pericolo dopo il ritiro della denuncia. Di ben altro avviso la Suprema corte, che nella sentenza dei giorni scorsi ha accolto il ricorso dell’uomo sottolineando che «la motivazione della sentenza impugnata non può dirsi raggiungere quella soglia del minimo costituzionale sindacabile in sede di legittimità. Si impone quindi la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio del procedimento, per un nuovo esame, alla corte d’appello di Reggio Calabria in diversa composizione». Il 40enne può tirare il meritato sospiro di sollievo e attendere con fiducia lo status di rifugiato che gli spetta dopo la pronuncia chiara e precisa degli ermellini.

    Vincenzo Brunelli

  • Roccella: sbarcano 300 migranti e l’accoglienza va in tilt

    Roccella: sbarcano 300 migranti e l’accoglienza va in tilt

    Era solo questione di tempo e alla fine, come prevedibile, il banco è saltato. L’ennesimo approdo di migranti sulle banchine del porto delle Grazie ha infatti mandato in tilt la stremata macchina dell’accoglienza di Roccella, costretta ad affrontare l’arrivo continuato di barchini e carrette del mare stipati all’inverosimile di disperati in arrivo dal Medio Oriente sulla rotta che collega la Turchia allo specchio di Jonio che va da Crotone a Reggio Calabria. Martedì, soccorsi da una vedetta della Capitaneria di porto a una decina di miglia dalla costa, sono sbarcati in 300, tra loro anche diversi minori.

    Un gruppo enorme che ha costretto, per la prima volta in quasi venti anni, il piccolo comune reggino ad alzare bandiera bianca dichiarandosi impossibilitato a fornire la prima accoglienza. Il cancello dell’Ospedaletto – la struttura semi fatiscente in cui da anni vengono veicolati i migranti arrivati dal mare prima di essere trasferiti nei centri di accoglienza o sulle navi quarantena e che fino a qualche anno fa ospitava un piccolo ambulatorio medico – era infatti sbarrato da giorni per una sanificazione straordinaria dovuta al continuo afflusso di arrivi di queste ultime settimane.

    L’interno dell’ospedaletto di Roccella Jonica
    Sotto pressione

    Unico avamposto “attrezzato” tra Crotone e Reggio, Roccella si trova al centro di una delle rotte migratorie più battute del Mediterraneo. E qui che convergono i mezzi dei soccorritori quando i barchini sono intercettati al largo delle coste. Un flusso ininterrotto di persone in fuga dal Medio Oriente che negli ultimi tempi ha registrato un notevole aumento. E se, di fatto, il numero degli sbarchi è praticamente raddoppiato – negli ultimi quattro mesi replicatisi al ritmo di uno ogni due giorni – sono invece rimaste pressoché identiche le forze che di quella marea umana si prende cura nelle primissime ore. Un esercito di volontari, dipendenti comunali, forze dell’ordine e associazioni sanitarie, stremate da un impegno costante.

    Chiuso per sanificazione

    Preceduta da una lettera inviata dal sindaco Zito al Prefetto, la serrata della struttura di prima accoglienza si era resa necessaria dopo gli sbarchi delle ultime settimane. Impossibile rimandare ancora le operazioni di pulizia straordinaria e sanificazione dei locali dopo il transito di centinaia di persone in pochi giorni. Quando le operazioni di prima verifica sanitaria sui migranti si stavano esaurendo sulle banchine del porto, poche centinaia di metri più in là, quelle di sanificazione dell’ospedaletto erano ancora in corso. E così, il gruppo di 300 migranti – schierati in tre gruppi di cento all’ombra dei relitti dei barconi degli sbarchi precedenti – approdati alle prime luci dell’alba è rimasto sulla banchina nord anche per le operazioni di identificazione da parte delle forze dell’ordine.

    L’esterno dell’ospedaletto di Roccella Jonica
    In prestito dal poligono

    E così, in mancanza di una struttura idonea, la macchina dei soccorsi – Roccella è praticamente l’unico caso italiano interessato da grossi flussi migratori in cui non esiste un hub gestito dal Ministero, e tutte le procedure d’accoglienza gravano sulle spalle dell’amministrazione comunale – si è dovuta ingegnare. Accanto al container della Croce Rossa (i cui volontari sono in campo a pieno organico da anni nelle operazioni di soccorso), i tecnici del comune hanno montato un gazebo che hanno dovuto chiedere in prestito al circolo del poligono cittadino, e le operazioni di identificazione da parte della polizia sono potute proseguire al “coperto”.

    Emergenza continua

    Il raddoppio del numero degli sbarchi di quest’ultimo anno ha messo seriamente in difficoltà la macchina dell’accoglienza, facendo emergere una serie di crepe evidenti nel sistema che accompagna il flusso migratorio che interessa la Locride. A partire dall’Ospedaletto, su cui a breve dovrebbero partire i lavori di ristrutturazione. Negli ultimi tempi all’interno degli stanzoni della struttura a nord di Roccella sono stati ospitati fino a 250 migranti per volta, ben oltre le capacità effettive che prevedono un tetto massimo di 130 ospiti. Una situazione di difficoltà straordinaria che si ripercuote sui migranti e poi, a cascata, su tutti gli operatori che in quelle condizioni si trovano ad agire.

    E quando la carretta del mare sfugge ai controlli delle forze dell’ordine, le cose, se possibile, vanno anche peggio. Quando un barchino si arena sulle spiagge della riviera dei Gelsomini infatti, i sindaci sono costretti ad individuare una struttura idonea a garantire la prima accoglienza. Con i risultati che ci si può immaginare. Palazzetti che diventano dormitori, vecchi edifici riconvertiti per poche ore in ostelli di fortuna, persino vecchie scuole riadattate all’ultimo minuto, come a Siderno Superiore o come nel caso di Arghillà, quando il traporto di una 70ina di migranti arrivati al porto di Reggio provocò una mezza insurrezione, con tanto di barricate di immondizia data alle fiamme e polizia in assetto anti sommossa.

  • Mala Pigna, nella Piana rifiuti speciali con valori di 6000% oltre la norma

    Mala Pigna, nella Piana rifiuti speciali con valori di 6000% oltre la norma

    Grazie alla complicità di diversi professionisti, la ‘ndrangheta avrebbe mantenuto la titolarità di un’azienda confiscata fin dal 2007. Ma, soprattutto, avrebbe nascosto il vasto e nocivo giro di rifiuti ferrosi, che sarebbero andati a inquinare anche i territori della Piana di Gioia Tauro. Sono in tutto 29 le misure cautelari disposte dal Gip di Reggio Calabria nell’ambito dell’inchiesta “Mala pigna”, curata dalla Dda reggina ed eseguita dai Carabinieri Forestali. Diciannove tra arresti e arresti domiciliari e 10 provvedimenti di obbligo di presentazione all’Autorità Giudiziaria.

    I rilievi sui terreni con valori altissimi minerali e idrocarburi

    Il blitz dei Carabinieri Forestali ha portato anche al sequestro di cinque società operanti nel settore dei rifiuti per il valore complessivo di un milione e seicentomila euro. Il provvedimento è stato eseguito nelle province di Reggio Calabria, Catanzaro, Cosenza, Ravenna, Brescia e Monza-Brianza.

    Giancarlo Pittelli di nuovo in carcere

    L’inchiesta è coordinata dal procuratore capo, Giovanni Bombardieri, dall’aggiunto Gaetano Paci, e dai sostituti Gianluca Gelso, Paola D’Ambrosio e Giorgio Panucci. Un’inchiesta che apre scenari inquietanti sullo stato di inquinamento del territorio. Ma che, ancora una volta, scoperchia le numerose complicità di cui possono godere i clan. In primis quella che vedrebbe protagonista Giancarlo Pittelli.

    La conferenza stampa dell’operazione “Mala Pigna”. Terzo da sinistra il procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri

    L’attività dell’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia viene definita dal procuratore Bombardieri “a tutto tondo” al servizio della cosca Piromalli di Gioia Tauro. Pittelli è già coinvolto nell’inchiesta “Rinascita-Scott”, curata dalla Dda di Catanzaro, retta da Nicola Gratteri. Nel maxi-processo alla ‘ndrangheta, gli inquirenti gli contestano di essere un elemento di congiunzione tra l’ala militare dei clan e la massoneria deviata. In particolare, la potente cosca Mancuso. Da sempre, in contatto anche con i Piromalli.

    Dopo mesi di detenzione, era da poco ritornato a casa agli arresti domiciliari. Ma è stato nuovamente condotto in carcere. Anche nell’inchiesta “Mala pigna”, il ruolo di Pittelli si staglia come quello di professionista in rapporti di grande affinità con la ‘ndrangheta.

    L’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia, Giancarlo Pittelli

    sarebbe stato al servizio della potente cosca Piromalli di Gioia Tauro, veicolando messaggi dal carcere verso Rocco Delfino, considerato uomo di spicco della cosca e referente di Pino Piromalli, detto “Facciazza”, e del figlio Antonio Piromalli. Delfino, insieme ad altri complici, avrebbe aggirato la normativa antimafia, promuovendo un’associazione volta al traffico illecito di rifiuti mediante la gestione di aziende fittiziamente intestate a soggetti terzi ma riconducibili a se stesso e alla sua famiglia.

    I professionisti al servizio del clan

    Secondo le indagini, la ‘ndrangheta si sarebbe schermata dietro società apparentemente “pulite”. Con un amministratore legale privo di pregiudizi penali e di polizia, che aveva tutte le carte in regola per poter ottenere le autorizzazioni necessarie alla gestione di un settore strategico, qual è quello dei rifiuti speciali. Così si potevano intrattenere rapporti contrattuali con le maggiori aziende siderurgiche italiane. Contrattare l’importazione e l’esportazione di rifiuti da e per Stati esteri. Nonché aspirare all’iscrizione in white list negli elenchi istituiti presso la Prefettura.

    Addirittura, Rocco Delfino continuava a gestire la “Delfino s.r.l.”, che gli era stata confiscata fin dal lontano 2007. Questa ditta era diventata un’azienda di schermatura per le attività illecite dei fratelli Delfino. Fondamentale il ruolo di professionisti compiacenti e asserviti. In particolare, un ruolo fondamentale è rivestito dagli amministratori designati dall’Agenzia Nazionale dei beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata. Nonché di professionisti, come avvocati, consulenti, commercialisti ed ingegneri ambientali. Costoro prestavano per la stessa l’azienda opera di intelletto, con metodo fraudolento e sotto la direzione dei Delfino.

    Dalle intercettazioni raccolte emergerebbero le gravi condotte messe in atto dai professionisti a cui gli inquirenti contestano il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Nell’elenco figurano amministratori giudiziari (e poi esponenti dell’Agenzia Nazionale per i Beni Confiscati) come Giuseppe Antonio Nucara e Alessio Alberto Gangemi. E poi, la commercialista Deborah Cannizzaro. Ma anche l’ingegner Giuseppe Tomaselli, che avrebbe avuto un ruolo per quanto concerne gli interramenti e l’inquinamento ambientale.

    Valori oltre il 6.000% rispetto alla norma consentita

    È inquietante ciò che avrebbero scoperto i consulenti nominati dalla Procura. Nella zona limitrofa all’azienda di Delfino (e, fittiziamente, dei Piromalli) i dati inquinanti raggiungerebbero picchi altissimi. Tassi che la ‘ndrangheta sarebbe riuscita a occultare proprio attraverso perizie di comodo, volte a celare ciò che invece era avvenuto.

    Secondo l’inchiesta, infatti, autocarri aziendali partivano dalla sede della società con il cassone carico di rifiuti speciali, spesso riconducibili a “Car Fluff” (rifiuto di scarto proveniente dal processo di demolizione delle autovetture) e giungevano in terreni agricoli posti a pochi metri di distanza, interrando copiosi quantitativi di rifiuti, anche a profondità significative. Gli accertamenti eseguiti avrebbero quindi dimostrato l’interramento di altri materiali, quali fanghi provenienti presumibilmente dall’industria meccanica pesante e siderurgica. Tali terreni agricoli, a seguito degli interramenti ed a cagione di essi, risultavano gravemente contaminati da sostanze altamente nocive.

    In particolare, le analisi disposte dalla Dda di Reggio Calabria avrebbero dimostrato come lo zinco fosse presente con valori sette volte superiori a quanto previsto dalla legge. Una presenza crescente per il rame, segnalato con un tasso di dodici volte superiore al consentito. Il piombo saliva fino a cinquantasette volte rispetto alla norma. E, ancora, gli idrocarburi raggiungevano picchi del +4.200% rispetto alle soglie. In alcuni casi i valori sono arrivati al 6.000% sopra la soglia di guardia. Per l’accusa, esiste il concreto ed attuale pericolo che le sostanze inquinanti possano infiltrarsi ancor più nel sottosuolo determinando la contaminazione anche della falda acquifera sottostante.

    «Faccendiere di riferimento della ‘ndrangheta»

    Il capo d’imputazione a suo carico dipinge Giancarlo Pittelli come un soggetto totalmente a disposizione della cosca Piromalli. L’ex senatore di Forza Italia avrebbe veicolato informazioni dall’interno all’esterno del carcere tra i capi della cosca Piromalli detenuti al 41 bis. “Facciazza” e suo figlio Antonio Piromalli avevano necessità di comunicare con il loro avamposto, Rocco Delfino, e avrebbero usato proprio Pittelli per farlo.

    «Uomo politico, professionista, faccendiere di riferimento, avendo instaurato con la ‘ndrangheta uno stabile rapporto sinallagmatico» è scritto nelle carte d’indagine. Pittelli si sarebbe attivato in favore di Delfino per la revisione del procedimento di prevenzione nei confronti della società in confisca Delfino s.r.l., pendente dinanzi al Tribunale di Catanzaro Sezione Misure di Prevenzione, con l’intento di “influire” sulle determinazioni del Presidente del Collegio al fine di ottenere la revoca del sequestro di prevenzione. Ad accusarlo è Marco Petrini, il giudice arrestato per corruzione in atti giudiziari che ha iniziato a “vuotare il sacco” rispetto al sistema di mazzette in cui si sarebbe mosso. Mettendo in mezzo anche Pittelli.

    Ma dalle intercettazioni emerge anche la volontà di Delfino di raggiungere l’ex ministro degli Esteri, Franco Frattini. Delfino avrebbe interpellato Pittelli per un procedimento amministrativo davanti al Consiglio di Stato.  Frattini, comunque, è totalmente estraneo alla vicenda. «Nell’occasione – è scritto nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip – Delfino chiedeva a Pittelli se ci fosse una qualche possibilità di influire sulle determinazioni del giudice Frattini, al fine di assicurarsi il buon esito di un ricorso. Pittelli – scrivono sempre i magistrati – dopo aver rivolto nei suoi confronti frasi dal contenuto offensivo, rispondeva negativamente in quanto il dottore Frattini, inconsapevole della vicenda di cui parlavano gli interlocutori, non si sarebbe prestato a favore del Delfino».

  • Rifiuti raddoppiati tra vigne e uliveti? Siderno sfida la Regione

    Rifiuti raddoppiati tra vigne e uliveti? Siderno sfida la Regione

    Case che diventano aziende agricole, nuovi capannoni che si nascondono dietro anglicismi tattici, limiti ambientali cancellati d’imperio, strade che non esistono e su cui dovrebbero passare decine di camion al giorno: è finito, inevitabilmente, a carte bollate il braccio di ferro tra la Regione e il comune di Siderno sul “rinnovo” dell’impianto di trattamento dei rifiuti di San Leo. Un ricorso al Tar, presentato sull’ultima curva disponibile dalla terna commissariale che regge la cittadina jonica dopo l’ennesimo commissariamento per mafia, che mira a una sentenza sospensiva per i previsti lavori di profonda ristrutturazione dell’impianto gestito da Ecologia Oggi, società del gruppo Guarascio che in provincia di Reggio già gestisce il termovalorizzatore di Gioia Tauro.

    Il ricorso ai giudici amministrativi che potrebbe avere sviluppi già nei prossimi giorni. Presto gli si affiancherà quello che i cittadini dell’associazione «Siderno ha già dato» stanno preparando a supporto e integrazione del primo. Una battaglia che tra riunioni infuocate, consigli comunali aperti e manifestazioni di protesta, covava da mesi. E che è esplosa quando dal dipartimento di Tutela ambientale della Regione, è arrivata l’autorizzazione all’ampliamento.

    Le tappe

    Quella del raddoppio dell’impianto di San Leo è una storia vecchia. Dal dicembre 2016 – quando il Consiglio regionale approvò il Piano regionale di gestione dei rifiuti – incombe su un pezzo di Calabria sottratto alla fiumara e piazzato a poche centinaia di metri dal mare, più o meno a metà tra i territori di Siderno e Locri, i centri più grandi dell’intero comprensorio. Nel piano originario approvato a Palazzo Campanella nel 2016, San Leo sarebbe dovuta diventare un eco-distretto attraverso la creazione di nuove linee di produzione per i rifiuti differenziati e l’adozione della tecnologia anaerobica per il trattamento della forsu e del “verde” per la produzione di biogas.

    Una trasformazione profonda a cui si misero di traverso cittadini e amministrazione comunale in un braccio di ferro durato fino all’aprile del 2018. All’epoca la struttura regionale fa parziale marcia indietro accogliendo le istanze del territorio e limitando i lavori previsti nel centro di San Leo ad un profondo restyling che passava attraverso la riqualificazione delle linee di trattamento dei rifiuti e il potenziamento delle sezioni di aspirazione e biofiltrazione.

    Un progetto differente

    Quando la pratica per i lavori al centro di San Leo sembrava essere finita stritolata negli elefantiaci ingranaggi burocratici della cittadella di Germaneto, nel 2020 c’è una decisa accelerazione dell’iter. A settembre, sull’onda dell’interminabile emergenza monnezza, sul sito del Dipartimento Ambiente spunta la pubblicazione del progetto: un progetto che però, sostengono gli uffici comunali della cittadina jonica, si differenzia in maniera sostanziale dalla bozza venuta fuori durante la conferenza di servizi e gli incontri con i cittadini e a cui la terna prefettizia risponde quindi con parere sfavorevole ai lavori.

    Quel parere non ferma però gli uffici regionali che, lo scorso 12 agosto «decretavano il provvedimento autorizzativo n° 8449» per la trasformazione dell’impianto di San Leo. Un muro contro muro che, inevitabilmente, è finito in tribunale con i giudici amministrativi chiamati a valutare il ricorso presentato dalla terna prefettizia lo scorso primo ottobre.

    La relazione tecnica

    Sono tanti i punti critici evidenziati dalla dettagliata relazione degli uffici comunali contro il piano regionale per San Leo. A cominciare dalle nuove strutture da realizzare: da una parte il progetto regionale, che parla di «modeste modifiche all’attuale assetto morfologico dell’area interessata… che possono determinare un ulteriore moderato impegno di territorio necessario per garantire le nuove e più complesse funzioni operativi dell’impianto», dall’altra gli uffici comunali che, nero su bianco, rispondono «alla bizzarra tesi» avanzata da Catanzaro quantificando le modeste modifiche in «62mila metri quadri di nuova superficie pesantemente trasformata ed edificata che produrrà più di un raddoppio delle dimensioni fisiche dell’attuale impianto».

    Nella sostanza, dicono da Siderno, tutto quello che non era entrato dalla porta, sta rientrando dalla finestra. Quello delle nuove costruzioni rappresenta però solo la punta di un iceberg che rischia di mandare a monte l’intero programma regionale sui rifiuti: nel ricorso presentato al Tar infatti sono evidenziate tutte le criticità avanzate in conferenza di servizi e “superate” di forza dalla Regione.

    La monnezza tra le eccellenze

    L’impianto di San Leo è stato costruito infatti «nelle immediate vicinanze di un nucleo abitato» che nel progetto diventa invece magicamente «azienda agricola non residenziale» e, «adiacente alla fiumara Novito e quindi estremamente vulnerabile alla pericolosità idraulica della stessa». Ricade quasi interamente «all’interno dei 150 metri dalla fiumara e quindi in zona sottoposta a vincolo paesaggistico». E poi l’impatto sulle produzioni agricole di pregio: la zona in cui sorge l’impianto di trasformazione dei rifiuti e che si troverebbe a dovere ospitare nuove strutture per 62mila metri quadri, ricade «in quella porzione di territorio comunale dove è più spiccata la presenza di produzioni di vino greco Doc, vino della Locride Igt e bergamotto, clementine e olio di oliva Dop».

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    Mariateresa Fragomeni si è imposta nel ballottaggio e guiderà il Comune di Siderno

    E ancora, la strada di collegamento – che sulle carte non esiste e che nella realtà è una mulattiera sterrata costruita su una lingua di terra strappata alla fiumara e divenuta nel tempo, discarica a sua volta – e il documento definitivo di impatto ambientale che non sarebbe mai stato presentato, per una rogna sociale prima ancora che legale, che rischia di esplodere nelle mani del nuovo sindaco di Siderno. Dal canto suo, la neo eletta Mariateresa Fragomeni prende tempo: «Sono sindaca da meno di 24 ore, nei prossimi giorni leggeremo tutte le relazioni e valuteremo come muoverci anche sentendo la Regione e la città metropolitana».

  • BOTTEGHE OSCURE | Donne e lavoro, la rivoluzione dei gelsomini

    BOTTEGHE OSCURE | Donne e lavoro, la rivoluzione dei gelsomini

    “Riviera dei Gelsomini” è la denominazione a uso e consumo turistico che indica il tratto di costa della provincia di Reggio Calabria bagnato dal mar Ionio. Certo, il gelsomino è un bel fiore e il nome suona bene da abbinare a spiagge, località e attrazioni. Ma la motivazione della scelta è ben più profonda.

    Chi avrebbe mai detto, infatti, che un fiore piccolo come il gelsomino abbia dato vita a un’economia locale relativamente florida che, fino alla metà degli anni ’70 del ‘900, ha caratterizzato il paesaggio, la vita e la storia di intere comunità, iniziando da Villa San Giovanni ed espandendosi poi per tutta la costa ionica reggina fino a Monasterace.

    Il trailer del documentario dell’UDI Reggio Calabria sulle gelsominaie “La Rugiada e il Sole”, realizzato dalle giornaliste Paola Suraci e Anna Foti
    Fiori ricercati

    In questo territorio era possibile ammirare le distese di piantagioni in cui veniva coltivato il gelsomino. Dal fiore si ricavavano essenze ricercate per la realizzazione dei profumi ed altri prodotti. La maggior parte del raccolto di gelsomini, dopo la trasformazione in una pasta chiamata “concreta”, prendeva la strada della Francia, dove le tecnologie permettevano la sua lavorazione. I fiori più ricercati giungevano dalla Calabria e dalla Sicilia: nel 1945, il 50% del fabbisogno mondiale di gelsomini, con 600 mila kilogrammi prodotti, proveniva dalle province di Reggio Calabria, Messina e Siracusa.

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    La raccolta del gelsomino a Brancaleone in una cartolina d’epoca

    Le zone costiere erano quelle che meglio ne favorivano la coltivazione. Ciò contribuì a svuotare diversi paesini dell’entroterra favorendo lo sviluppo della marina. È emblematico il caso di Brancaleone. Come evidenzia l’antropologo Vito Teti, era diventata «un’isola quasi felice soprattutto per la produzione del gelsomini, che consente alle famiglie un vivere più dignitoso rispetto alla miseria, alla povertà degli anni precedenti». Grazie alla “valvola di sfogo” del gelsomino e di altre produzioni come quella del bergamotto e del baco da seta, infatti, a Brancaleone l’emigrazione fu un fenomeno più lieve rispetto ad altri centri della zona.

    A capo chino

    A raccogliere i fiori erano le donne, in gran parte ragazze, le gelsominaie. La ragione era semplice: per raccogliere i fiori senza danneggiarli servivano mani attente e delicate. A dispetto della delicatezza necessaria alla raccolta, il lavoro delle gelsominaie era tutt’altro che leggero. Le testimonianze raccontano di alzatacce in piena notte per avviarsi a piedi, in gruppi di venti o trenta persone, e giungere nei campi per iniziare la raccolta quando ancora era buio, nel momento in cui il fiore era aperto. E la raccolta proseguiva per ore, sempre con il capo chino e la schiena curva, per un salario da fame che però era necessario per portare a casa il pane per una stagione.

    Il salario delle gelsominaie rappresentò per decenni un motivo di lotta e rivendicazioni. Le poche lire vennero man mano aumentate anche grazie alle significative lotte sindacali di cui le raccoglitrici di gelsomino si fecero portatrici dal secondo dopoguerra in poi. Giunsero anche ad un «Contratto collettivo 13 agosto 1959 per le lavoratrici addette alla raccolta del gelsomino della Provincia di Reggio Calabria». Il contratto collettivo, insieme ad alcune prescrizioni sulla retribuzione tra cui il pagamento dell’indennità di caropane e di un’altra piccola indennità per il trasporto fino al luogo di lavoro, prevedeva che «ad ogni raccoglitrice sarà corrisposta la somma di lire 195 per ogni chilogrammo di gelsomino raccolto in normali condizioni di umidità».

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    Gelsominaie al lavoro (Collezione Iriti-Venanzio)
    Dai centomila chili al collasso

    Quella del gelsomino calabrese era una produzione relativamente “recente”, risalente a circa un secolo fa. Nel 1933, ad esempio, il periodico L’Italia vinicola ed agraria annunciava con enfasi che la Calabria si apprestava «a diventare uno dei più grandi centri del mondo per la coltura di piante da profumeria». L’autarchica Italia mirava probabilmente a minare il “monopolio” francese della coltivazione del fiore. Dal 1930 al 1933 in Calabria vi erano ancora soltanto «25 ettari coltivati in via sperimentale con gelsomini, rose e gaggie», che avevano prodotto però centomila chili di fiori «eccellenti per ricchezza di profumo».

    A Reggio Calabria operava anche una «Stazione essenze» e la «Cooperativa fiori del sud», che riuniva i coltivatori dei fiori. Già allora si sottolineava la questione del bisogno di manodopera, visto che solo in alcuni mesi in 20 ettari avevano lavorato 250 raccoglitrici. Un numero destinato a crescere con l’aumento delle piantagioni fino a giungere, secondo le testimonianze, a circa 10mila addette. Col tempo sarebbe sorta una distilleria per l’estrazione dell’essenza del gelsomino anche a Brancaleone. Ma, a parte sparute esperienze, la produzione continuava ad essere legata soprattutto alla domanda estera. Quando fu possibile riprodurre sinteticamente alcune fragranze, l’economia del gelsomino collassò.

    In Parlamento

    La prolungata assenza da casa delle madri costringeva i bimbi delle gelsominaie a una vita di stenti. In tal senso l’assistenza istituzionale all’infanzia e alla maternità era cosa pressoché sconosciuta nei piccoli paesi della fascia ionica calabrese. Nel 1968 le dinamiche della vita grama delle raccoglitrici di gelsomini reggine vennero udite tra gli scanni di Palazzo Madama. Il 26 settembre in Senato si discusse la proposta di una «Concessione di un contributo straordinario di lire 13 miliardi a favore dell’Opera nazionale maternità e infanzia».

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    Emilio Argiroffi

    È il senatore comunista Emilio Argiroffi (1922-1998) – che di lì a qualche anno sarebbe stato relatore della legge sull’istituzione degli asili nido – a tirare in ballo le gelsominaie, le loro problematiche e quelle dei loro figliuoli. Secondo quello che sarà il futuro sindaco di Taurianova «gli infelici ragazzi spastici di Girifalco», «il figlio della raccoglitrice di olive di Oppido» come quelli delle gelsominaie del Reggino erano portatori di una serie di una serie di «marchi illiberali» che facevano di loro dei «minorati», condannati prima dalla natura e poi dalla società, e le vittime privilegiate «dello sfruttamento dell’uomo sull’altro uomo».

    In molti casi le gelsominaie erano costrette a portare le proprie creature «a lavorare nei campi di raccolta alle 2 di notte, e sono latori di specifiche sindromi di malattia da lavoro, come le convulsioni e le lesioni neuro psichiche provocate dall’aroma dei gelsomini». Solo alcune potevano contare sulla presenza di figlie più grandicelle cui affidare i propri lattanti.

    I primi servizi sociali

    Si usava “affardellare” e deporre la creatura incustodita ai margini del campo o ai piedi di un albero, nel caso delle raccoglitrici di olive. Ma in alcuni paesi, prosegue Argiroffi, erano le «vecchie invalide» – le cosiddette «maestre di lavoro» – a badare ai loro figli in condizioni pietose: «Trattenuti in un tugurio, seduti in terra o su una fila di panchetti, freddolosamente avvolti nei loro stracci. Durante tutto il giorno costretti a snocciolare litanie incomprensibili, si nutrono con un tozzo di pane o qualche patata».

    È grazie all’intensa attività di Rita Maglio (1899-1994) – antifascista, comunista, femminista impegnata per tutta la vita al sostegno delle classi sociali più umili e disagiate e tra le fondatrici dell’UDI (Unione Donne Italiane) calabrese – che si arrivò alla creazione dei primi servizi sociali a sostegno dell’occupazione femminile e della qualità di vita delle donne: asili, consultori familiari e servizi. A raccogliere la sua eredità fu la figlia Silvana Croce, che dalla fine degli anni ’60 s’impegnò per le donne braccianti. Croce evidenziò come il loro sfruttamento non riguardava solo le discriminazioni salariali, ma anche la mancata tutela della salute e della maternità.

    Damnatio memoriae

    Le donne dedite alla raccolta dei gelsomini in quelle lingue di terra da Bova a Monasterace e le raccoglitrici di olive della Piana condivisero le medesime problematiche e lotte per un salario più giusto e per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Ma a un certo punto, nel bel mezzo degli anni ’70, le loro strade si divisero.

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    Raccoglitrici di olive in Calabria negli anni che precedettero la meccanizzazione

    Il passaggio alla meccanizzazione garantì alle raccoglitrici di olive la sopravvivenza. Mentre nel caso delle gelsominaie, le commesse cessarono e la vecchia fabbrica della “concreta” chiuse i battenti. Abbandonati i campi, con lo scorrere dei decenni anche la memoria di quell’attività gravosa e delle relative lotte s’infragilì fino a diventare labile, soggetta a dimenticanza. Su questo giocò pure il fatto che essendo un’attività praticata unicamente da lavoratrici donne, quella delle gelsominaie s’inserì nel solco dell’assenza o dell’esclusione quasi sistematica dalla narrazione dei fatti storici mainstream.

    Come scrisse la storica Angela Groppi «che le donne abbiano sempre lavorato, tanto all’interno quanto all’esterno della sfera domestica, è oggi un dato storiograficamente acquisito». Ma non è stato sempre così. Il recupero del cosiddetto “lavoro delle donne” soggetto a incertezze, tagli, omissioni è stato possibile grazie alla storia sociale, di genere, alla microstoria, all’oralità, alla trasmissione dei saperi da una generazione di donne all’altra.

    La Rugiada e il Sole

    In questa linea di pensiero e azione va a situarsi il prezioso lavoro dell’UDI di Reggio che, come spiega Titti Federico, ha portato alla realizzazione del documentario La Rugiada e il Sole: «È finalmente venuto a termine un lavoro, nato dall’idea di Lucia Cara e avviato diversi anni fa dal percorso di recupero della nostra identità: raccogliere, conservare e narrare direttamente dalle loro voci la vita e il lavoro delle gelsominaie. Da tempo seguiamo il nostro desiderio di colmare e trasmettere alle nuove generazioni quanto è accaduto e fa parte appieno del percorso di una comunità. Oggi ne consegniamo un tassello restituendo valore e memoria alle tante storie delle donne. Questo lavoro sarà parte integrante dell’archivio dell’UDI e apparterrà alla storia della Calabria».

  • San Ferdinando, la dignità in vendita a 50 centesimi

    San Ferdinando, la dignità in vendita a 50 centesimi

    Alla “nuova” tendopoli di San Ferdinando ci si arriva attraversando il deserto della seconda zona industriale, alle spalle del porto di Gioia. La presenza sempre più ingombrante di immondizia stanziale indica la vicinanza al nuovo ghetto. È sorto in risposta allo sgombro della vecchia baraccopoli.

    La “nuova” tendopoli di San Ferdinando

    Sul piazzale di quello che una volta era l’ingresso ufficiale del campo (e che ora è solo uno dei tanti varchi d’accesso all’area) i medici dell’Asp e i mediatori culturali sono in campo. Si occupano della somministrazione delle seconde dosi di vaccino per i “residenti”. Chi deve completare il percorso vaccinale, chi ha già contratto il covid durante la “zona rossa” e deve fare la prima dose, chi è in attesa del green pass che ancora non è arrivato. Tutti, più o meno, sono ordinatamente in fila davanti al campo che c’è ma che allo stesso tempo non esiste.

    L’approccio emergenziale ha fallito

    Una sorta di paradosso quantico-burocratico di stampo calabrese per cui – dopo l’inevitabile resa del sindaco di San Ferdinando e l’infinito rimpallarsi di responsabilità di Regione, Città metropolitana e ministero dell’Interno, che continuano ad approcciarsi al fenomeno solo sotto l’aspetto emergenziale – la tendopoli è, da mesi, in fase di smantellamento e quindi non riceve più servizi ufficiali (mensa, raccolta della spazzatura, controllo degli accessi e dei residenti, manutenzione) ma continua paradossalmente a essere accettata, anche se i problemi sono aumentati negli ultimi mesi, come residenza per gli stranieri “regolari” che la utilizzano per i loro documenti e che lì, in condizioni subumane, ci vivono.

    Una bomba sociale pronta ad esplodere

    Una sorta di non luogo che, come gli esempi che lo hanno preceduto, si sta trasformando nell’ennesima bomba sociale pronta ad esplodere. E come nella storiella del calabrone che vola pur non essendo adatto a farlo, la tendopoli che non esiste, continua ad attirare lavoratori migranti, con nuove tende che vengono allestite ai margini del campo e baracche di legno e cartone costruite dove capita.

    Storie di ordinario degrado nella nuova tendopoli di San Ferdinando
    Il ghetto

    Il vecchio ingresso con badge di identificazione e telecamere è andato distrutto durante la sommossa scoppiata durante la prima fase della pandemia, in seguito all’istituzione della zona rossa che blindava all’interno tutti i migranti. Da quando le istituzioni hanno alzato bandiera bianca nessuno si occupa più di censire i residenti. Anche il presidio fisso di polizia è stato smantellato, con le volanti che nei giorni “normali” si limitano ad una ronda discreta. Con lo stop ai progetti (e quindi ai fondi ad essi legati) il campo vive in una sorta di autogestione traballante.

    Il vecchio ingresso con badge di identificazione
    Restano i volontari di Emergency

    Sono rimasti solo sindacato e associazioni di volontariato. Danno una mano e garantiscono una serie di servizi essenziali, dall’assistenza legale a quella sanitaria fino alle consulenze di carattere amministrativo. I medici del presidio di Emergency vengono sul posto due volte al giorno. Curano l’aspetto sanitario quotidiano. Ma i malati cronici vanno incontro a mille difficoltà.

    «Amed ha un grosso problema cardiaco, finalmente dopo mille telefonate siamo riusciti ad ottenere una visita specialistica a Polistena. Lo portiamo noi, a spese nostre». Ferdinando e Fabio sono due volontari della Caritas, in passato inseriti in uno dei progetti di gestione del campo.

    Quando i soldi sono finiti, non hanno smesso di occuparsi della tendopoli e nel nuovo ghetto alle porte di San Ferdinando, continuano a venirci almeno tre volte la settimana: «Ci occupiamo di aiutarli con i documenti, distribuiamo cibo e vestiti, ma è sempre più difficile, sono spariti quasi tutti».

    Botte e morti non sono mancati

    Attualmente nel campo ci sono circa 250 residenti, di una quindicina di nazionalità diverse. Le tensioni sono all’ordine del giorno e in passato numerosi sono stati gli episodi di violenza esplosi tra residenti, e i morti non sono mancati. Tutti uomini con età media attorno ai 30 anni, vivono in quello che resta delle tende piazzate dal Ministero. Ma i numeri sono destinati a crescere.

    Tra un paio di settimane si aspetta la prima ondata dei raccoglitori di kiwi e quando anche la stagione delle clementine entrerà nel vivo, in quella sorta di universo parallelo che cresce alle spalle del porto, la popolazione potrebbe sfiorare le mille unità. E infatti, in ogni pezzettino di terra disponibile, spuntano nuove capanne improvvisate mentre in quelle vecchie si stendono i tappeti con funzione isolante. Ma escamotage e piccoli interventi non cambiano la sostanza delle cose e le condizioni di vita restano agghiaccianti.

    Capanne costruite con materiali improvvisati
    La bottega dell’acqua calda

    Inizialmente erano state predisposte delle centraline elettriche, ognuna in grado di garantire luce e riscaldamento per sei tende. Ma quando le cose hanno iniziato a precipitare nessuno ha più curato la manutenzione, cosa che ha favorito il moltiplicarsi degli allacci abusivi alle centraline superstiti che, a cascata, provoca continui blackout mandando a farsi strabenedire ogni proposito di sicurezza.

    Stesso discorso per l’acqua. Quella calda ormai è un miraggio, tanto che tra le baracche di nuova costruzione ne è spuntata una in cui “lavora” Keità, un gigante del Senegal di poco meno di 30 anni. Ogni giorno si occupa di tenere acceso il fuoco sotto i bidoni colmi d’acqua messa a scaldarsi: la vende a secchi, 50 centesimi ciascuno. I migranti la usano per lavarsi dopo una giornata di lavoro.

    Keità, il gigante del Senegal nella bottega dell’acqua calda

     

    Issa viene dal Gambia e ripara bici

    La bottega dell’acqua calda non è però l’unica operativa all’interno della tendopoli. Issa viene dal Gambia e nella tendopoli ci vive da anni. In quella sgombrata prima e in questa che non esiste adesso. Ripara biciclette (la quasi totalità dei migranti africani si muove sulle bici, e in passato non sono mancati gli incidenti mortali lungo le strade che collegano le città del porto) «ma solo quando non mi faccio la giornata di raccolta delle arance, qui non si guadagna molto. In questo momento non siamo tanti e il lavoro di meccanico è ridotto, ma quando comincia la stagione della raccolta arrivo a riparare anche 15 bici al giorno».

    La bottega dell’acqua calda nella nuova tendopoli di San Ferdinando
    Cronaca di un fallimento
    Dai capannoni fatiscenti della Rognetta in cui covò la rivolta del 2010, alla baraccopoli dell’orrore costruita dietro il capannone sequestrato ai Pesce e sgombrata a favore di telecamera dall’allora ministro Salvini, fino alla nuova tendopoli, allestita 500 metri più in là della vecchia che, se ufficialmente risulta in via di smantellamento da mesi, brulica invece di umanità e si prepara ad accogliere la nuova ondata di stagionali: la storia dei ghetti per neri della piana di Rosarno racconta di un fallimento lungo più di 10 anni, con favelas più o meno autorizzate spuntate un po’ ovunque tra i casolari diroccati delle campagne e gli spiazzi abbandonati della semi deserta zona industriale alle spalle del porto.

     

    È un problema politico, non burocratico
    Un fallimento costruito sulle spalle dei lavoratori migranti, quasi tutti regolari, e su quelle degli abitanti dei paesi della zona che quei ghetti li hanno subiti a loro volta. Un fallimento da cui le istituzioni hanno pensato di uscire con la stipula di un documento (storia di una manciata di settimane fa) tra Regione, città metropolitana, Prefettura e comuni interessati «per il superamento della situazione emergenziale – recitava la nota ufficiale – che caratterizza le condizioni dei lavoratori stranieri presenti della piana di Gioia Tauro».
    Le difficili condizioni in cui vivono i lavoratori stagionali a San Ferdinando
    Un documento che lascia molte questioni in sospeso e che lo stesso sindaco di San Ferdinando, Andrea Tripodi, guarda con disincanto. «Fino a quando continueranno ad affrontare un evento epocale come quello migratorio con un approccio unicamente di tipo emergenziale e caritativo non andiamo da nessuna parte. Questo tipo di interventi finisce sempre col determinare tensioni che finiscono per scaricarsi sulla società che, a sua volta, reagisce con la pancia. Qui bisogna affrontare l’intera vicenda dal punto di vista politico e smetterla di riversare tutte le responsabilità sulle amministrazioni comunali che non sono neanche preparate ad affrontare questo tipo di situazioni».
    La dignità a 50 centesimi
    E mentre a Riace, sul versante jonico della provincia, l’accoglienza dal basso immaginata da Lucano nelle case abbandonate dagli emigrati locali è costata 13 anni e rotti di carcere, nello slum della piana di Rosarno, la dignità umana si vende a secchi. Cinquanta centesimi ciascuno.
  • Giustizia ingiusta, un salasso targato Calabria

    Giustizia ingiusta, un salasso targato Calabria

    Un primato nella Giustizia la Calabria lo ha, peccato che sia alla rovescia. A stabilirlo è la relazione della Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato della Corte dei conti, pubblicata ieri. Dal documento emerge infatti come le decisioni delle Corti d’Appello di Catanzaro e Reggio Calabria costino allo Stato milioni e milioni di euro ogni anno. Il motivo? I risarcimenti – o, nel gergo tecnico, l’equa riparazione – da pagare a chi è finito in carcere, agli arresti domiciliari o in regime misto di custodia cautelare per poi essere successivamente prosciolto dalle accuse. Gli errori capitano in tutto lo Stivale, ma i numeri dei due tribunali calabresi surclassano quelli di tutti i concorrenti.

    Un terzo della spesa nazionale in Calabria

    La relazione – che incrocia i dati forniti dal Mef con quelli del ministero della Giustizia – accende i riflettori sul triennio 2017-2019, un periodo in cui lo Stato ha sborsato oltre 111 milioni di euro a chi è rimasto in galera o ai domiciliari ingiustamente . Quasi 37 milioni – un terzo della spesa complessiva – sono dovuti a Catanzaro e Reggio. A volte il capoluogo regionale costa da solo quanto Roma, Milano, Napoli e altre grandi città italiane messe assieme.

    2017, Catanzaro sbaraglia tutti

    Nel 2017, ad esempio, il costo delle ingiuste detenzioni targate Catanzaro sfiora i nove milioni di euro (8.866.654,67 ad essere precisi). La Capitale arriva a meno della metà di quella cifra, fermandosi a poco meno di 4 milioni di euro. Il capoluogo campano non arriva nemmeno a 2,9. Il “bello” è che – nonostante i bacini demografici d’utenza siano ben diversi – il numero di ordinanze considerate nella relazione non è poi così divergente tra le tre città: 158 a Catanzaro, 137 nella Città eterna, 113 ai piedi del Vesuvio. Reggio Calabria, nonostante nel suo caso le ordinanze siano soltanto 21, costa comunque allo Stato poco più di un milione di euro.

    2018, la spesa cresce ancora

    Nel 2018 la spesa cresce ulteriormente. A Catanzaro le ingiuste detenzioni arrivano a costare poco meno di 10,4 milioni di euro, quasi cinque volte quanto speso per Napoli coi suoi 2,4. E stavolta anche Reggio “si fa valere”, con i risarcimenti che gravano sulle casse statali per quasi 2,3 milioni.
    È l’inizio di una “rimonta” che le farà superare Catanzaro in cima alle graduatorie italiane dell’anno successivo.

    2019, il sorpasso di Reggio

    Per le ingiuste detenzioni in riva allo Stretto nel 2019 la spesa sale a quasi dieci milioni di euro (9,88), doppiando quella relativa alla Corte d’Appello di Catanzaro. Un dato che le permette di “brillare” anche nella classifica degli esborsi medi per risarcimento. Scrive la Corte dei Conti che «nell’ambito delle ingiuste detenzioni, gli importi di media oscillano dai 5.474 euro di Potenza, per 11 casi, a 82.400 euro di Palermo, per 39 casi, sebbene la spesa complessiva più alta si riscontri a Reggio Calabria con quasi 82.000 euro per 120 ordinanze».

    Gli altri record negativi

    Il 2019 però è un anno di “risparmi” da record per Catanzaro rispetto al recente passato, visto che l’esborso si ferma a 4,45 milioni. Non è l’unico primato poco meritorio del capoluogo regionale. Nella relazione della Corte dei Conti si legge, ad esempio, che «nel caso della detenzione carceraria è stato liquidato l’importo pari ad euro 14.244,76 con l’ordinanza n. 83/2018 da parte della Corte d’appello di Catanzaro per 18 giorni, che con la media giornaliera di 791,38 euro rappresenta oltre il triplo dei 235,82 euro quale soglia proporzionale stabilita». Ma Catanzaro è anche quella che ha speso di più per risarcire un detenuto dopo gli arresti domiciliari: «L’importo giornaliero maggiore è stato liquidato per 79 giorni (1.383,73 euro gg.) con l’ordinanza n. 34/2018, cioè oltre 11 volte la soglia proporzionale di 117,91 euro».
    Il 15 febbraio la Consulta dovrà decidere se i quattro referendum sulla giustizia, tra cui quello sulla responsabilità civile dei magistrati, siano ammissibili. E chissà se questi dati influiranno sull’eventuale voto dei calabresi.