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  • Vins Gallico, sullo Stretto c’è un dio ed è noir

    Vins Gallico, sullo Stretto c’è un dio ed è noir

    Senigallia. 15 settembre 2022. Mi trovo in città per dare il via a un’iniziativa a cui lavoro da mesi. Il cielo, carico di pioggia, è minaccioso. Mentre va in scena il primo evento, in sala fa breccia un messo comunale trafelato che inizia ad urlare di sgomberare: sta arrivando la piena del fiume. Di lì a poche ore il Misa strariperà rovinosamente. La mattina successiva, dopo una notte di inferno, ricevo una chiamata da un amico reggino che vive in zona e che decide di raggiungermi.
    Nonostante la città sia una distesa di fango e detriti, Giandiego arriva e, dopo un caffè stravolto e straniante, mi regala una copia di A Marsiglia con Jean Claude Izzo, invitandomi a contattare il suo autore Vincenzo Gallico, interessato all’iniziativa marchigiana ormai abortita per cause di forza maggiore.

    Il mio dialogo con Vincenzo Gallico, per gli amici e i lettori Vins, inizia così. Scambiamo qualche messaggio, gli passo alcuni dei miei scritti da cui parte un confronto virtuale che entro qualche mese approderà alla vita reale.
    Scilla, 24 giugno 2023. Ci incontriamo per la prima volta dal vivo in occasione della presentazione de Il Dio dello Stretto. Reggino, trasferitosi a Roma, ammiratore di Paul Preciado, un passato come ricercatore in Germania, Vincenzo “Vins” Gallico è ormai un autore di lungo corso e già finalista al Premio Strega. Concordiamo un’intervista che si concretizzerà solo diversi mesi dopo.

    Come sta andando?

    «Il libro sta andando bene. Sono contento. Rispetto all’andamento della narrativa italiana non ho di che lamentarmi. Siamo già in fase di ristampa. E, a considerare il numero di inviti che sto ricevendo in giro per l’Italia e l’accoglienza che mi viene riservata, devo considerami fortunato. È successo quanto mi aspettavo».

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    La copertina de Il Dio dello Stretto, ultimo romanzo di Vincenzo “Vins” Gallico

    In che senso?

    «Ritornare al romanzo per me non era così scontato. Quando te ne allontani, alcuni posti vengono rioccupati, altre voci vengono dimenticate. Invece vedo che c’è stato parecchio affetto e calore intorno a questo libro».

    Mi hai detto «ritorno al romanzo». Perché?

    «Dopo Portami Rispetto del 2010 e la commedia Final Cut, avevo scritto La Barriera, un romanzo a quattro mani uscito nel 2017. Poi era stata la volta di due volumi, due saggi, A Marsiglia con Jean Claude Izzo e La Storia delle librerie italiane. Di fatto non scrivevo un romanzo da solo dal 2015. Sette anni. E non ne scrivevo uno noir da circa tredici. Quindi mi sembra di poter parlare di ritorno».

    Il tuo romanzo non è una semplice storia di fantasia. C’è dietro uno studio sul contesto italiano politico e giudiziario, sulla guerra di mafia che negli anni Ottanta ha insanguinato Reggio Calabria e sui nuovi equilibri raggiunti negli anni Novanta. C’è dentro tutto lo Spirito del Luogo: dai tramonti mozzafiato del lungomare alla decadenza umana e urbana…

    «E non sarebbe potuto essere altrimenti. Sono cresciuto al Gebbione (quartiere dell’area Sud di Reggio Calabria, n.d.r.) e mi porto dietro tutto quello che le mie origini comportano. Reggio è un luogo complesso e stratificato dove una bellezza struggente si accompagna a una ferocia senza scrupoli. Camminano insieme in un ossimoro. Non riesco a non parlare di queste mie origini, legate a un territorio che già parte da una evidente condizione di svantaggio in cui anche il contesto della borghesia cittadina non è certo paragonabile a quello del Centro-Nord. In più, porto un cognome che può ingannare: nonostante non abbia parentele di un certo tipo, mi rendo conto che a volte questo cognome abbia una ricezione scomoda. Raccontare certe storie e certi territori è il mio modo di affrontare il trauma di nascita, che è mio e di tutti i calabresi per bene».

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    Case popolari nel quartiere Gebbione di Reggio Calabria

    Una lettera scarlatta?

    «Un qualcosa che è assieme prigione, spinta evolutiva, bisogno di affrancamento. È chiaro che certi luoghi, specie se natali, ti segnano: sono la tua sventura, ma anche il tuo trampolino. Essere cresciuto a Reggio mi dà maggiore sicurezza nella mia vita odierna e nella gestione di situazioni critiche. Un punto di forza, non di vanto».

    Nel tuo noir racconti una storia di passioni, malaffare, maschilismo in cui l’eroe – il giovane magistrato Mimmo Castelli – si trova a indossare le scarpe dell’antieroe e antagonista, il malavitoso Logoteta…

    «Mimmo Castelli è il protagonista della vicenda. E lo è in due direzioni e dimensioni: sia per quanto riguarda il motore esterno della storia – l’eventuale risoluzione dell’indagine – sia per quel che concerne il motore interno – i dubbi etici, i rapporti con la moglie, gli amici, il gruppo, la religione. Di fatto si tratta di una storia che si sviluppa su questi due pilastri. Meglio: due tiranti. Due elastici. Entrambi ispirati agli stilemi del romanzo di detection. Sul versante esterno: riuscirà il nostro eroe a risolvere il caso? E, nel caso, riuscirà a sconfiggere l’antagonista? Su quello interno: riuscirà a sciogliere i suoi crucci interiori?».

    Tra le recensioni che ho letto c’è chi ha sottolineato la tua capacità di non perdere il ritmo. Che è un aspetto essenziale per il gradimento dei lettori.

    «L’aspetto ritmico è complicatissimo nella scrittura. I miei editor mi hanno più volte contestato che corro troppo, che c’è troppa storia. Per cui ho molto lavorato su questo aspetto: ho provato a evitare troppi colpi di scena e a entrare un po’ più nei personaggi. Anche perché trovare un’intimità con chi ti legge è un’operazione complessa. Non so quanto mi sia riuscita, ma ho provato a farlo: per cui ho corso un po’, mi sono fermato un attimo, ho ripreso fiato e sono ripartito nella corsa».

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    Vincenzo “Vins” Gallico durante una presentazione del suo ultimo libro

    Un ritmo che accompagna dubbi, inquietudini e turbamenti di Castelli con un capovolgimento che rasenta il coup de théâtre: da giudice integerrimo a uomo troppo umano.

    «A me la roba delle stanze chiuse interessa parecchio. Mi riferisco all’aspetto non manicheo per il quale “quello è una-bravissima-persona”. Vero! Ma anche la-bravissima-persona combatte i suoi demoni. Che spesso sono tappati, o repressi, ma possono venir fuori da un momento all’altro. Mimmo Castelli è un personaggio che è convinto di essere buono ma deve arrendersi di fronte alla verità che la bontà tout court non esiste. Nemmeno nei santi. Il retro-pensiero fa parte di qualsiasi essere umano».

    Che è un po’ il tema principe trattato con cruda lucidità da Rocco Carbone in “L’Assedio”: la dimostrazione plastica di come la pretesa assolutistica dell’etica abdichi di fronte alla relatività di certe circostanze legate all’emergenza o alla sopravvivenza. Un tema che tu enunci chiaramente nelle citazioni che introducono il tuo romanzo.

    «Con Rocco ho un legame speciale, che tu conosci, e che inevitabilmente, in maniera conscia o inconscia, mi riporta a lui e alla sua poetica. A margine de Il Dio dello Stretto cito Aristotele: per lui la giustizia – in qualità di virtù prima – rappresenta il Giusto Mezzo per antonomasia. Può essere padroneggiata solo al compimento di un processo di ricerca incessante che oscilla tra sentimenti, esperienze, incontri e riflessioni. Una Giustizia che può anche smarrirsi tra le pieghe di verità giuridiche che non sempre coincidono con le realtà dei fatti. Senza dimenticare – come ti ho detto – che i nostri natali calabresi e il processo di crescita vissuto a certe latitudini ha influenzato molto la nostra visione dell’etica».

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    Rocco Carbone

    Ossia?

    «Trattare il tema del bene e del male a volte può voler dire fissare il limite tra l’eroismo e la scelta di vivere. Nel nuovo romanzo che sto preparando, il sequel de Il Dio dello Stretto, viene ucciso il fratello di Patrizia, amica di Miriam (moglie di Mimmo Castelli, n.d.r.). La stessa Miriam viene da una famiglia complicata. Mimmo allora inizia a interrogarsi su quale sia la normalità: quella della sua famiglia che lo ha cresciuto nella bambagia o quella dei contesti di degrado da cui è circondato?».

    Che Calabria racconta Vins Gallico?

    «Cerco di tenermi lontano sia dallo sciovinismo, quindi dallo stereotipo di una Calabria favolistica dalle magnifiche tradizioni, sia dalla classica narrazione di ‘ndrangheta. In realtà non sono un “esperto” di Calabria, ma mi pongo come narratore dello Stretto. Sono più vicino a Carbone che a Corrado Alvaro: Gente in Aspromonte mi è più lontano rispetto a L’Apparizione. Più semplicemente ho cercato di raccontare i fermenti di un territorio all’alba di quella che si presentava come una stagione di speranza. Il Dio dello Stretto è anche un romanzo legato alla speranza.

    Corrado Alvaro

    In che senso?

    «Con la fine della seconda guerra di ‘ndrangheta, si era aperta una stagione in cui un po’ ci si credeva che qualcosa potesse cambiare».

    Questa speranza è finita?

    «Diciamo che in questi ultimi 20 anni ha preso un bel po’ di pugni in faccia».

    Chi è il Dio dello Stretto che vorrebbe Vins Gallico?

    Una nuova comunità di giovani che prova a cambiare Reggio. Recentemente sono stato al “Da Vinci” (uno dei due licei scientifici di Reggio Calabria, n.d.r.) e ho buttato lì una proposta agli studenti: perché non provate a diventare la prima scuola green in Italia? Lasciate auto e motorini e raggiungete la scuola a piedi. Nonostante si trattasse di una boutade, la mia speranza e il mio augurio riguardano la capacità ricettiva di Reggio: spero che prima o poi la città si svegli, recepisca e faccia proprie le istanze di reale cambiamento».

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    Il liceo Da Vinci di Reggio Calabria

    Cos’altro bolle in pentola?

    «Lo scorso 17 dicembre si è concluso il primo Festival dell’Ascolto promosso da Fandango, di cui sono responsabile. Abbiamo iniziato a lavorare in modo più strutturato su un format che coniuga podcast e nuove forme di inchiesta. La risposta è stata molto positiva e presto ci saranno delle novità».

  • Propaganda e poca ricerca: se lo Stretto sembra il bis del Vajont

    Propaganda e poca ricerca: se lo Stretto sembra il bis del Vajont

    «Il ponte tra Calabria e Sicilia sarà il ponte sospeso più lungo al mondo, una eccellenza dell’ingegneria italiana»

    Con questo slogan il Ministero per le Infrastrutture e Trasporti presentava, per l’ennesima volta, il progetto del ponte sullo Stretto di Messina, una vecchia idea che affonda le radici nel 1840. Progetto che è risultato divisivo sin dalle sue origini e oggetto di proteste da parte della popolazione locale e parte della comunità scientifica, sia per il suo impatto ambientale su uno dei panorami più belli d’Italia che per i rischi relativi alla geologia dell’area.
    Infatti, dal 28 dicembre 1908, quando un terremoto di magnitudo 7.1 e relativo tsunami distrussero le città di Reggio Calabria e Messina provocando la morte di circa 120.000 persone, lo Stretto di Messina è considerato da un punto di vista sismico una delle aree a maggior rischio dell’intera regione mediterranea.

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    Il sismogramma del terremoto del 1908

    Ponte sullo Stretto di Messina e geologia

    Popolazione e comunità scientifica hanno sollevato alcuni dubbi legati a

    • il potenziale impatto di un terremoto di simile o maggiore magnitudo di quanto registrato nel 1908 sul ponte, Reggio Calabria e Messina
    • la mancanza nell’area di dati recenti acquisiti con tecnologie avanzate per meglio comprendere la geometria, attività ed evoluzione di un assetto tettonico molto complesso, e l’organizzazione stratigrafica e proprietà meccanica delle rocce.

    Le risposte dei sostenitori dell’opera alla possibilità del verificarsi nell’area di un terremoto (impossibile da predire ma statisticamente possibile) sono

    • il progetto del ponte considera questo aspetto
    • il ponte sarà capace di resistere a terremoti con magnitudo maggiore di quanto registrato nel 1908.

    Gli stessi dimenticano però di riportare che ad oggi i materiali necessari per la costruzione del ponte come previsto dal progetto preliminare, e che resista agli stress normali ed eccezionali richiesti da un ponte di tale portata, non esistono ancora.

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    Il lungomare di Messina dopo il terremoto del 1908

    Inoltre, a seguito del terremoto del 1908, le città di Reggio Calabria e Messina furono ricostruite senza particolare attenzione nel seguire procedure antisismiche. Questo significa che anche se gli ingegneri riuscissero a costruire un ponte capace di resistere a forti terremoti, il risultato sarebbe di avere una bellissima struttura ingegneristica che collegherebbe due aree completamente distrutte.

    Tanta propaganda, pochi fondi per la ricerca

    Allo stesso tempo, non è chiaro quali e quante strutture a supporto del ponte sono state pensate e quale possa essere l’impatto delle stesse sul territorio e sulle comunità che ci vivono.
    Dove e quanto cemento sarebbe previsto?
    Quale l’impatto su un precario assetto idrogeologico già caratterizzato da fenomeni franosi?
    Molto si parla in modo propagandistico del ponte sensu stricto. Poco o niente si dice del suo impatto sulle comunità locali che nelle aree interessate dal ponte vivono.

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    Stretto di Messina, una delle opere accessorie nel progetto del ponte

    Non molta diversa la storia rispetto alla mancanza di fondi destinati alla ricerca per la comprensione della geologia a terra, dove il ponte dovrebbe essere ancorato, ed a mare.
    Ad oggi, con l’Italia che destina solo l’1.35% del suo PIL alla ricerca scientifica (circa la metà della media degli altri stati europei) non deve sorprendere se gli eccellenti studi di ricerca pubblicati nell’area si basino su dati limitati che lasciano importanti domande ancora aperte.
    Per esempio, non c’è ancora consenso nella comunità scientifica su quale faglia sia stata responsabile del terremoto del 1908.

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    Foto aerea dello Stretto di Messina con rappresentazione di alcune delle faglie che controllano la sua evoluzione Credit: Dorsey et al., 2023

    Una foglia di fico?

    Per un progetto così ambizioso, prima di prendere qualsiasi tipo di impegno verso la costruzione del ponte e spendere soldi che si potrebbero investire diversamente (si stima che ad oggi la spesa ammonti già a circa 300 milioni di Euro, per un costo totale dell’opera di 14,6 miliardi di Euro), ci si aspetterebbe quindi un grosso investimento di risorse e fondi per finanziare progetti di ricerca e l’acquisizione di dati utili a comprendere il contesto geologico e ambientale dentro il quale si voglia costruire l’opera.

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    Matteo Salvini e i presidenti di Calabria e Sicilia, Roberto Occhiuto e Renato Schifani, di fronte a un plastico del ponte

    Il recente annuncio dell’inizio dei lavori relativo alla realizzazione del foglio Villa San Giovanni come parte del progetto nazionale CARG è sicuramente una notizia positiva che contribuirà ad aumentare le conoscenze dell’area. L’uso di quello che dovrebbe essere un aggiornamento regolare delle conoscenze geologiche del territorio atteso da decenni e sempre posticipato, però, potrebbe rappresentare una foglia di fico per distrarre l’attenzione dalla mancanza di studi specifici.
    Inoltre, la recente notizia che Sicilia e Calabria dovranno aumentare il loro contributo finanziario per la costruzione del ponte, senza che lo stesso sia stato discusso e approvato dalle regioni, solleva qualche dubbio sulla sostenibilità finanziaria dell’opera.

    Stretto di Messina e Vajont: il ponte come la diga?

    Se guardiamo al recente passato, l’Italia ha già intrapreso un simile ambizioso progetto con la costruzione della diga del Vajont. Considerato come si è drammaticamente concluso per la popolazione locale e il suo territorio, le similitudini tra i due progetti non sono confortanti.
    Il progetto della diga del Vajont risale al 1920. La costruirono tra il 1957 e il 1960 per realizzare una riserva di acqua da usare per supportare la produzione di elettricità.
    Il 9 ottobre 1963 una mega frana causò uno tsunami che produsse grosse inondazioni e distruzione dei paesi di Erto e Casso posizionati sulle rive del lago e di Longarone e altri paesi lungo la valle del Piave. Morirono circa 2.000 persone. La diga rimase intatta.

    La si può osservare ancora oggi, a testimonianza che da un punto di vista ingegneristico il lavoro fu progettato ed eseguito correttamente. La ferita inferta al territorio e alla popolazione locale, però, ne azzerano il presunto valore.
    Indagini post disastro hanno evidenziato come gli indicatori geologici per prevedere l’instabilità del fianco della montagna erano già presenti prima della frana.
    La mancanza di studi specifici nelle fasi preliminari e la mancanza di coinvolgimento dei geologi durante la realizzazione del progetto, con tutte le decisioni chiave lasciate in mano agli ingegneri, crearono le perfette condizioni per il disastro.

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    Il dolore dopo il disastro del Vajont

    Bene, bravi… bis?

    Ora guardiamo a come le autorità nazionali presentarono il progetto della Diga del Vajont nel 1943: La più alta diga ad arco al mondo. Il biglietto da visita per il lavoro italiano all’estero. Per il ponte sullo Stretto di Messina assistiamo alla riesumazione dello stesso tipo di propaganda che usarono per convincere la popolazione 80 anni fa ad accettare un’opera faraonica.
    Antonio Gramsci diceva che «la Storia insegna, ma non ha scolari». Speriamo che questa citazione non sia valida per il ponte sullo Stretto di Messina. E che questo progetto non si concluda con un bellissimo e intatto ponte che collega due città fantasma.

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    Disegno originale raffigurante il ponte sullo Stretto di Messina che collega due aree metropolitane non provviste delle necessarie infrastrutture per supportare l’eventuale traffico veicolare prodotto dal ponte

     

     

  • GENTE IN ASPROMONTE | Da… Zero a l’Espresso, nonostante la Regione

    GENTE IN ASPROMONTE | Da… Zero a l’Espresso, nonostante la Regione

    Nel cuore della Piana di Gioia Tauro, ai piedi del versante più tropicale dell’Aspromonte, c’è un manipolo di quattro coraggiosi che, qualche anno fa, ha deciso di tornare sui passi della propria diaspora e rientrare.
    Siamo a Taurianova, terra di agricoltura e antico insediamento dei Taureani, un tempo popolato dai Calcidiesi di Zancle e dai Bruzi della Colonia Tauriana, prima di soccombere a una delle più feroci incursioni saracene. Quella del X secolo d.C.
    Per arrivarvi da Gioia bisogna passare tra distese di ulivi e agrumeti, rotonde, centri commerciali e sfacciati esempi della più bieca speculazione edilizia. Ogni volta che mi ci dirigo, mi pare di varcare un confine impalpabile oltre il quale si apre una terra avulsa, soggetta a proprie regole non scritte, che parla un dialetto diverso dal mio.
    Da una parte il mare, col suo grande porto, dall’altra la montagna, con i suoi muraglioni verdi.

    A volte ritornano

    Federica Ferrazzo, Martino e Andrea Latella, Rocco Buonanno sono i proprietari di Osteria Zero e, assieme a Pasquale Polifroni, anche i ritornati di questa puntata.
    «Siamo uno degli ormai tanti esempi di ritornati. Facciamo parte di quel gruppo di persone che ha deciso di rientrare con la speranza di potercela fare. Come molti, abbiamo alle spalle un passato di emigrazione. Siamo stati fuori, ci siamo formati, abbiamo costruito il nostro bagaglio culturale, fatto di competenze e sudore. Abbiamo lavorato. Ma non volevamo vivere fuori dalla nostra terra. Il nostro obiettivo era lavorare bene e farlo a casa nostra. Il progetto Osteria Zero (Osteria Zero – Taurianova) è nato così», attacca Martino con un gran sorriso e tanta voglia di raccontare.

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    Un’anteprima della Guida Espresso Ristoranti d’Italia 2024

    Insieme a sua moglie Federica, suo fratello Andrea e l’amico Rocco hanno messo in piedi un progetto di ristorazione che lo scorso novembre a Milano è stato premiato con l’inserimento nella Guida de l’Espresso ai migliori 1000 ristoranti d’Italia 2024. «Un po’ come essere a Sanremo giovani», scherza Martino.
    Ma andiamo con ordine. Torniamo al 2016. Federica, Rocco e Martino, anni nella ristorazione come dipendenti, fanno il salto indietro. Andrea, un passato in Francia come sommelier, imbocca la stessa strada. «Fino ad allora avevamo sempre lavorato per altri, pensando di poter arrivare ad ottenere soddisfazioni che in realtà non sono mai arrivate. Noi, però, avevamo un sogno», spiega Martino.

    Il progetto Osteria Zero

    «Osteria Zero nasce dalla volontà di rientrare in Calabria e proporre la nostra idea di ristorazione. Molti pensano che il nome del ristorante sia ispirato alla filosofia del “km 0”. Invece no. Il punto è che abbiamo deciso di ripartire da capo. Da zero. Con un nuovo percorso, un nuovo modo di guardare a noi stessi e alla Calabria. Un nuovo assetto mentale. Volevamo far capire alle persone che anche qui in Calabria è possibile fare impresa. Ci vuole coraggio e determinazione perché è una terra da cui parti svantaggiato. Ma, se ci credi, pian piano le difficoltà si possono superare e si può lavorare anche bene. Alla fine i calabresi apprezzano quando rientri e cerchi di fare qualcosa per la comunità e i suoi territori», mi dicono.

    La luce di mezzogiorno entra obliqua dalle grandi finestre del locale. Di fronte alla telecamera accesa, i ragazzi iniziano a raccontare una storia di passione. I loro sguardi trasudano orgoglio, devozione e fiducia.
    «Offriamo una cucina fondata sulla stagionalità dei prodotti della nostra terra. È una cucina semplice dove all’ingrediente buono del piccolo produttore applichiamo le tecniche che abbiamo appreso in giro, nei vari ristoranti dove abbiamo lavorato. Cerchiamo di rappresentare al meglio i produttori e di valorizzare ingredienti e materie prime. Col tempo, abbiamo dimostrato che si può mangiare in un determinato modo senza dover spendere una fortuna», spiega Rocco che, assieme a Martino, è il secondo cuoco dell’osteria.

    La rete di piccoli produttori

    «Il fulcro della nostra attività si basa sul rapporto diretto con i produttori. Il territorio offre prodotti straordinari, spesso poco conosciuti, che affondano le radici in una cultura contadina millenaria», continua Rocco.
    Rocco, Martino e gli altri intrecciano fili, tracciano percorsi, riannodano sentieri che dalla montagna arrivano in pianura. Le loro vie del gusto partono dall’Aspromonte. «Per noi l’Aspromonte è una miniera di risorse: piante selvatiche, erbe aromatiche, grano, legumi, ortaggi cui attingiamo in abbondanza e proponiamo a una clientela disabituata a determinati sapori ed assuefatta a una certa massificazione culinaria. Noi puntiamo sui piccoli produttori: con loro collaboriamo e studiamo nuovi abbinamenti. Prendi il cavolo rosso locale. Dall’esigenza di smaltirne un grande esubero è nata l’idea di un gelato alla senape di accompagno. O il fagiolo di Canolo che andiamo ad acquistare direttamente in montagna. O il grano jermano. Abbinamenti moderni, a volte spericolati che però ci hanno premiato».

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    Andrea Latella, sommelier di Osteria Zero

    In effetti, insieme a Osteria Zero è venuta emergendo una rete di produttori che parte da Zomaro, passa da Cittanova, dove esiste ancora un punto di macinatura a pietra, e arriva a Taurianova. Passando, come vedremo tra poco, anche dalla Locride.
    «I fornitori che operano in montagna fanno un grande lavoro. Siamo ancora troppo pochi quelli che sanno di avere a disposizione una grande risorsa come l’Aspromonte che è valorizzata poco, forse al 10%, e che spesso è vissuta solo come spazio ricreativo temporaneo per le gite della Pasquetta o della domenica. La verità è che chi sta lassù, produce e crea impresa è un eroe. Come Antonello Stilo che a Canolo, dal nulla, ha creato una grande realtà in cui si lavorano i grani antichi, il latte, i formaggi, i salumi, tra cui spicca il conosciutissimo prosciutto di San Canolo. E come Antonello tanti altri che ci credono», aggiunge Martino.

    Fiducia e divulgazione, per una nuova cultura culinaria

    «Diamo loro una fiducia che ci viene pienamente restituita. Chi vede passione e impegno, ripaga in termini di adesione, affiancamento e supporto. Credo che sia il valore aggiunto e la diversità di fare impresa in Calabria, qualcosa che non sempre si può riscontrare quando gestisci un’attività altrove. Ci si aiuta. Questo è il bello. Qui da noi ci si aiuta», continua Rocco.
    Le sue parole hanno un’eco antica. Riportano a un meridionalismo dove il mutuo soccorso incarnava la prima strategia di sopravvivenza: “i vicini devono fare come le tegole del tetto, a darsi l’acqua l’un l’altro”.

    «Se noi ce la facciamo, vincono anche i piccoli produttori con cui lavoriamo. Questo è il senso del nostro impegno per il territorio». Che non si misura solo in termini di crescita economica, ma anche di divulgazione di un nuova cultura culinaria capace di coniugare tradizione e modernità. «A chi viene in osteria e vede un ingrediente insolito proviamo a raccontare cosa è, da dove viene, che uso se ne può fare, qual è la sua storia e che percorso ha compiuto per arrivare nel piatto. La cultura e la storia del nostro territorio passano anche da qui. E questo e il modo a noi più consono di svelarlo».

    Le peripezie di Osteria Zero con la Regione Calabria

    Il percorso, però, non è stato semplice. A raccontarmelo è Federica: «Non avevamo un capitale a disposizione da investire per tirare su l’impresa, per cui ci siamo rivolti alla Regione Calabria. Abbiamo presentato il progetto e avuto accesso ai finanziamenti. Abbiamo firmato all’inizio del 2017. A distanza di quattro anni siamo stati costretti a chiudere i nostri rapporti con la Regione per chiedere il mutuo in banca con cui siamo riusciti a partire».
    Domando maggiori dettagli. «Il fatto è che dal 2017 i soldi ci sono arrivati nel 2021, subito dopo la pandemia. Con tutte le difficoltà del caso. Ci risultava impossibile spendere i fondi secondo le regole e i tempi dettati dal progetto», chiarisce Federica. «Per evitare grane successive, abbiamo dovuto rinunciare e restituire la cifra con tanto di mora», rincara Martino.

    «Nonostante avessimo effettuato tutte le operazioni di chiusura, restituendo quanto ci era stato dato, ci è mancato poco che la vicenda finisse sul penale. Questo perché alla Regione nessuno aveva mai letto la pec con cui comunicavamo l’avvenuta e comprovata restituzione dei fondi. Ad oggi, dopo il calvario vissuto, non riteniamo Regione Calabria un interlocutore credibile e affidabile. Abbiamo constatato che, al di là di tante belle parole, il supporto e l’affiancamento ai piccoli imprenditori che la Regione dovrebbe fornire è una chimera. Purtroppo la realtà è questa», conclude Federica. Cui fa eco Martino: «Un po’ ti scoraggi. Perché un ente che dovrebbe darti una mano alla fine ti crea soltanto problemi».

    Come facevano gli antichi

    Eppure, a dispetto dei molti ostacoli sulla strada, questa trama di relazioni, merci e persone che attraversa e oltrepassa picchi e vallate, si allarga dal Tirreno allo Jonio. Dalla piana di Gioia scavalco la montagna e giungo sul versante jonico, località Ciminà, già famosa per il suo caciocavallo dop. Mi aspetta Pasquale Polifroni, patron di Aspromonte Vini (Aspromonte Vini – Vini artigianali biologici di Calabria), una delle cantine di vini naturali sponsorizzate da Osteria Zero di cui mi aveva molto parlato Andrea Latella, sottolineandone la qualità, i metodi di produzione e quelli di conservazione.

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    Pasquale Polifroni

    Arrivo in località Vignali, un toponimo legato all’antico passato vitivinicolo. «Anche io sono un ritornato. Dopo gli studi a Perugia, mi sono trasferito con un buon contratto di lavoro a Milano nel campo della concessioni pubblicitarie per i media. Ho condotto quella vita per qualche anno fino a rendermi conto che non la trovavo più soddisfacente. Mi sono licenziato e, con la buona uscita, mi sono preso un anno sabbatico alla fine del quale, dopo una serie di vicissitudini, ho deciso di rientrare. La mia attività di agricoltore è cominciata con i frutti di bosco: lamponi, more e i mirtilli, che ancora produco».
    Il dettaglio che dai racconti dei ragazzi di Osteria Zero mi aveva colpito di Polifroni era l’utilizzo degli orci di creta per la conservazione dei suoi vini. Mentre ci rechiamo verso la vigna, Pasquale si ferma. «Devo mostrarti qualcosa». Lo seguo fino ad arrivare a quella che, immersa nel verde fitto dei campi, sembra un’antica vasca. «Per l’esattezza si tratta di un palmento romano di 2000 anni fa. Il manufatto è composto di due vasche di roccia arenaria costruite su livelli sfalsati e collegate da un piccolo scolo. La prima serviva da pigiatoio e filtro e riversava nell’altra il succo della spremitura che veniva raccolto in vasi di coccio e trasportato a maturare».Dirigendoci verso la viti, attraversiamo la fiumara dei Gelsi Bianchi sulle cui rive insisteva una fiorente produzione di gelso.

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    Palmento romano a Ciminà

    I vitigni autoctoni

    «L’amore per il vino l’ho sempre avuto. Ho cominciato a bere vini naturali – che oggi è la mia nicchia di mercato – e poi ho deciso di impiantare la mia prima vigna: 200 piante per provare a produrre 150 litri di vino. Fosse andata male, avrei registrato una perdita minima. Invece venne fuori un buon prodotto. La mia passione cresceva e mi incamminai su un percorso fatto di visite a fiere, studi dedicati, una formazione da sommelier».
    Pasquale oggi è componente della prestigiosa associazione Vi.Te. che anche nel 2023 ha rappresentato il mondo dei vini naturali al Vinitaly. Mi racconta che è partito tutto così: «Ho iniziato a impiantare 3 ettari di vigna. Solo vitigni autoctoni calabresi: magliocco, mantonico e greco nero. Vitigni millenari, come il mantonico, che esiste da 2.500 anni, è stato importato dai greci ed è uno dei padri della viticultura italiana. Chi ne mastica un po’ sa che il mantonico è il papà del gaglioppo e del nerello mascarese. C’è stato tanto lavoro. I contributi pubblici mi hanno aiutato: i fondi del Programma di Sviluppo Rurale 2014/2020 della Regione sono serviti a impiantare la coltivazione di vite sul terreno che vedi, completamente vergine e fino ad allora adibito a pascolo, e a ristrutturare i locali della cantina».

    La vigna di Aspromonte Vini
    La vigna di Aspromonte Vini

    Dalla Calabria a Milano, ancora una volta

    Sul crinale della montagna, completamente in pendenza, si apre di fronte a noi una distesa di viti non trattate con un’ottima esposizione al sole e alle correnti d’aria che trasportano fin qui la brezza marina. E senza potersi ispirare ad altri né una tradizione familiare alle spalle. Nella zona, ad oggi, Pasquale resta l’unico produttore.
    «Ho chiesto qualche consulenza e ho iniziato una piccola produzione naturale che contempla il solo utilizzo di prodotti biologici: zero pesticidi, disserbanti e prodotti di sintesi, ma solo l’uso di componenti naturali, come lo zolfo e un uso moderato di solforosa. Alla fine ho mandato i vini a Milano a un buyer ebreo che, dopo qualche settimana, ha preso l’aereo e mi ha raggiunto tre giorni. Quando è ripartito, avevamo già chiuso un contratto di distribuzione in tutta Italia».

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    Le anfora di terracotta dove matura il vino

    Da allora le cose sono andate in crescendo. «Oggi produco e poi faccio maturare nelle giare di terracotta, un po’ come si faceva nell’antichità. Come il legno, la creta consente una particolare micro-ossigenazione, ma a differenza del legno e come l’acciaio, non cede nulla, lasciando il vino in purezza. La creta però non fa trasformare l’aceto in vino. La differenza la fanno la qualità delle uve, l’esposizione e la posizione delle coltivazioni, il metodo per tirare su le viti e i procedimenti in cantina. Lavoriamo attraverso fermentazioni spontanee con lieviti indigeni. Il vino ottenuto non viene chiarificato né filtrato e i sedimenti che si possono trovare in bottiglia lo proteggono, conservandone le proprietà organolettiche».
    E che non sia stato facile posso solo immaginarlo. «Il comparto enologico è estremamente concorrenziale e l’Italia è uno dei maggiori produttori ed esportatori mondali. Ho avuto dalla mia la passione, l’amore, la cocciutaggine. E un pizzico di fortuna», chiosa Pasquale.

    Fare impresa in Calabria

    Le storie dell’Osteria Zero di Martino, Rocco, Federica, Antonello o quella di Pasquale sono la testimonianza di come sia possibile fare impresa in Calabria dove, se la fatica è maggiore, le soddisfazioni dei traguardi sono più grandi. A difficoltà oggettive rispetto ad altre regioni italiane – pastoie burocratiche, carenze logistiche, scarsi servizi – imprenditori come loro rispondono con il mutuo soccorso, il coraggio, la determinazione dei sogni. Tra approcci diversi e fortune alterne dove si ha l’impressione che la Regione sia ora madre, ora matrigna.

    Se a questi elementi si affiancassero politiche attive di formazione alla cultura di impresa, di incubazione e accompagnamento, di promozione e valorizzazione delle filiere, attente alla geografia e alle relazioni tra territori, l’energia sprigionata e i risultati che ne deriverebbero potrebbero contribuire sostanzialmente a mutare il volto di una terra dalle grandi risorse.

  • Parco Aspromonte: tra Autelitano e Putortì è guerra sulle assunzioni

    Parco Aspromonte: tra Autelitano e Putortì è guerra sulle assunzioni

    All’Ente Parco Aspromonte è ormai guerra totale tra il presidente Autelitano e il direttore amministrativo Putortì. Da quando I Calabresi  hanno dato notizia del parere dell’Avvocatura dello Stato sui quesiti di Giuseppe Putortì in relazione alla legittimità delle assunzioni di 5 ex LSU e LPU volute da Leo Autelitano, è in atto una battaglia senza esclusione di colpi.
    Nell’attesa che si svolga la riunione del Consiglio Direttivo il prossimo 24 novembre con, tra i punti all’ordine del giorno, le “Contestazioni al Direttore dell’Ente. Determinazioni”, il presidente e il direttore se le stanno dando di santa ragione.
    È di pochi giorni fa, il 17 novembre, la pubblicazione di due atti: un decreto del Presidente, n°3 del 17/11/2023 e una determina del direttore, n° 501 della stessa data.

    Parco Aspromonte: Autelitano blocca Putortì

    Il primo annulla i provvedimenti disciplinari che ha preso la Direzione amministrativa contro Silvia Lottero. È la funzionaria che firmò i provvedimenti di passaggio nella dotazione organica di 5 dei 17 LSU/LPU stabilizzati. Ad oggi risulterebbe colpevole di un ingente danno erariale per l’ente.
    Putortì, nella qualità di componente dell’ufficio procedimenti disciplinari, avrebbe infatti dato il via ad un procedimento disciplinare contro di lei.
    Il Consiglio Direttivo, lo scorso 23 ottobre 2023, aveva audito Lottero in merito alle circostanze. In quell’occasione nessuno avrebbe sollevato osservazioni, almeno secondo quanto riportano le premesse del decreto di Autelitano.
    La nostra redazione ha dato piena disponibilità a raccogliere le dichiarazioni della funzionaria sulla vicenda in corso. In risposta, ad oggi, nessuna nota o sollecitazione però.

    Leo Autelitano, il presidente dell’Ente Parco dell’Aspromonte

    Ora, nonostante i richiami alla violazione dell’articolo 4, commi 1 e 4, del regolamento disciplinare dell’Ente Parco, il decreto presidenziale potrebbe configurarsi come un abuso.
    Non rientrerebbe nelle prerogative del presidente né del Consiglio direttivo – il primo dei quali è, ricordiamolo, un organo di indirizzo e orientamento politico – annullare atti datoriali. Né tantomeno potrebbero occuparsi dei procedimenti disciplinari. Essi sono prerogativa esclusiva del datore di lavoro e/o dell’ufficio procedimenti disciplinari per questo nominato.

    Parco Aspromonte: Putortì, Autelitano e la determina 

    Il secondo provvedimento emanato lo scorso 17 novembre annulla con effetto immediato la determina 295/2021 che portò a quelle assunzioni e stabilizzazioni.
    In particolare, il documento dichiara

    • «la caducazione automatica dei rapporti di lavoro stipulati in data 01 Luglio 2021 (…) essendo venuto meno il presupposto in base al quale il rapporto di lavoro è stato costituito»;
    • la ricollocazione «con effetto immediato tra i soprannumerari con conseguente ed immediata modifica del proprio status e trattamento retributivo e contributivo di cui al contributo assegnato per i lavoratori ex Lsu-Lpu stabilizzati»;
    • il recupero di «tutte le somme (…) corrisposte e versate dalla data di stipula dei singoli contratti di lavoro (…) per effetto della [loro] illegittima assunzione in ruolo sino alla data della disposta risoluzione» da reinserire nel bilancio dell’Ente Parco.

    La determina è stata trasmessa alla Procura Generale della Corte dei Conti, al Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, al Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, e a quelli dell’Economia e del Lavoro, nonché alla Regione Calabria ed al Collegio dei revisori dei conti.

    Pino Putortì, il direttore del Parco dell’Aspromonte

    In sostanza le contestazioni sarebbero di tre ordini:

    1. l’assunzione illegittima di 5 delle 17 risorse in oggetto;
    2. la procedura illegittima, con una commissione – cui avrebbe preso indebitamente parte la Lottero – che avrebbe effettuato le prove selettive in violazione di un avviso secondo cui per le categorie C sarebbe stato necessario un concorso, sotto la gestione del Dipartimento della Funzione Pubblica;
    3. l’assorbimento dei 12 con competenze e funzioni diverse da quelle che avrebbero dovute avere.

    Il Consiglio direttivo ratificherà?

    Sono i due volti di quel Giano bifronte su cui si fonda l’attuale governance degli Enti Parco Nazionali italiani (legge 394/1991), le cui criticità aveva richiamato proprio Putortì in un’intervista su questo giornale.
    Ora a ratificare il decreto del presidente, come richiama il documento stesso, dovrà essere il Consiglio Direttivo. Vi siedono anche i rappresentanti dei Ministeri competenti, dell’ISPRA e delle associazioni di tutela ambientale. Ammesso che l’atto per cui si richiede ratifica ottenga il via libera, la presenza di tutti i componenti e il raggiungimento del numero legale valido darà già la misura di quanto ancora possa crescere l’intensità del conflitto in atto. E rappresenterà un forte segnale politico.

    La posizione delle associazioni

    Nel frattempo molto si è mosso. L’Associazione Guide Ufficiali del Parco ha rilasciato un comunicato in cui ha dichiarato come da tempo si conoscessero «i problemi e le criticità all’interno dell’Ente Parco». Così come che «il quadro delineato dalla pronuncia dell’Avvocatura dello Stato è a dir poco preoccupante» perché «la funzionalità e il regolare svolgimento dell’attività amministrativa dell’Ente pare sia stata compromessa da azioni e scelte dell’attuale governance».
    Per loro è ora di «difendere il Parco, che deve funzionare e deve farlo bene», in virtù della sua funzione per tutto il territorio della Città Metropolitana di Reggio. Operazione che si può realizzare solo se prevalgono istanze di chiarezza e trasparenza troppo spesso disattese o perdute in quello che ad oggi, per opacità, si configura come un vero e proprio porto delle nebbie.
    La prossima puntata della saga andrà in onda dopo il 24 novembre.

  • Rom, malavita e non solo: in manette Patrizio Bevilacqua

    Rom, malavita e non solo: in manette Patrizio Bevilacqua

    L’arresto di Patrizio Bevilacqua lo scorso sabato notte rappresenta un nuovo capitolo nelle vicende della criminalità legata ai clan rom di Reggio Calabria. L’uomo aveva già riportato una condanna per estorsione in relazione al caso Ventura. Stavolta lo hanno fermato mentre trasportava su un’Audi di sua proprietà un ingente quantitativo di stupefacenti assieme a dei bilancini di precisione.
    Il tutto avviene a qualche giorno dalla conferenza stampa sull’operazione Garden contro la ‘ndrangheta reggina dello scorso 14 novembre. A condurla, la Guardia di Finanza del Comando provinciale di Reggio Calabria col coordinamento della Procura distrettuale antimafia diretta da Giovanni Bombardieri.

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    Il procuratore Giovanni Bombardieri

    Il do ut des tra i rom e la ‘ndrangheta

    L’indagine, che colpisce le attività delle cosche Borghetto-Latella e ha portato alle misure cautelari per 27 persone, conferma le ipotesi tracciate nell’inchiesta de I Calabresi sul nuovo ruolo dei clan rom all’interno della ‘ndrangheta.
    Secondo gli inquirenti, i rom dei quartieri Modena-Ciccarello e Arghillà sarebbero ormai organici alla criminalità reggina nell’organizzazione dello spaccio di stupefacenti, di traffico di armi, estorsioni e usura, in continuità con le vicende che riguardano anche altre aree della Calabria, come la Piana di Gioia Tauro, la Sibaritide, il Lametino.
    In particolare i rom avrebbero fornito le armi da guerra trovate dalla Finanza. In cambio avrebbero ottenuto l’autorizzazione a esercitare i crimini in modo libero e autonomo. Potrebbero, infatti, contare su «un’organizzazione autonoma con all’attivo decine e decine di persone, soprattutto giovanissimi», hanno affermato alcune fonti investigative.

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    Una veduta del quartiere Arghillà

    Patrizio Bevilacqua e i guai a casa Ventura

    Si tratta di due vicende che seguono a un altro segnale inquietante: l’attentato intimidatorio dello scorso 24 ottobre alla famiglia Ventura. Ignoti, appropinquandosi all’abitazione dei Ventura, hanno esploso cinque colpi armi da fuoco contro la loro auto. Tutto ciò nonostante la Prefettura di Reggio Calabria avesse messo Francesco Ventura sotto tutela.
    L’episodio è avvenuto dopo l’uscita di diversi articoli sul tema e a margine di un’ulteriore condanna riportata da Patrizio Bevilacqua per violazione dei sigilli.
Osservando le immagini dell’attentato registrate dalle telecamere a circuito chiuso posizionate fuori dall’abitazione la mente torna gli anni Ottanta, quando a Reggio si sparava e vigeva una sorta di coprifuoco non dichiarato.

    Patrizio Bevilacqua, la politica e i Ventura

    Estorsione, trasporto e spaccio di stupefacenti, minacce: questi i segmenti di un filo che legherebbe Bevilacqua a logiche e azioni che vanno ben oltre la bassa manovalanza criminale per saldarsi al racket delle case popolari e alle nuove piazze di spaccio sotto il controllo dei clan rom.
    In merito al tema delle case popolari, la ricostruzione pubblicata da I Calabresi dopo l’analisi dei verbali di alcune commissioni consiliari del Comune di Reggio tratteggiava una situazione opaca e caotica. L’avevano denunciata sia l’allora dirigente del settore, l’avvocata Fedora Squillaci, sia l’ex delegato al patrimonio edilizio Giovanni Minniti.
    Si va avanti così da diversi anni, senza trovare soluzione. E senza che, alla luce delle nuove notizie, la politica abbia speso una parola o un gesto di solidarietà verso i Ventura che da anni, anche alla luce delle risultanze delle loro audizioni in quelle stesse commissioni, denunciano una condizione di illegalità diffusa e perdurante.

    Che diranno Ripepi e Lamberti?

    Le domande (e le risposte) che una politica usualmente prodiga di dichiarazioni – ma in questo caso muta – non può più ignorare sono di due ordini.

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    Massimo Ripepi

    Il primo riguarda quali provvedimenti si vogliono prendere per diradare la cortina di nebbia che regna sul settore dell’edilizia popolare del Comune di Reggio.
    Il secondo concerne la posizione che Massimo Ripepi ed Eduardo Lamberti Castronuovo assumeranno nei confronti di Bevilacqua. Quest’ultimo con Ripepi è stato candidato al Consiglio Comunale. Con Lamberti, invece, intratterrebbe rapporti di lavoro tali da avere a disposizione, per stessa ammissione di Lamberti, le chiavi di casa sua.

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    Eduardo Lamberti Castronuovo

    Entrambi i politici reggini hanno già da tempo lanciato la propria campagna elettorale per le prossime amministrative come papabili candidati sindaco.
    In attesa di ulteriori sviluppi dei filoni d’indagine, non guasterebbe una presa di posizione da parte dei due.

  • Parco d’Aspromonte: assunzioni illegittime e guai in vista

    Parco d’Aspromonte: assunzioni illegittime e guai in vista

    Tanto tuonò che piovve. Potrebbe riassumersi così la vicenda della stabilizzazione a tempo indeterminato degli ex Lsu e Lpu già assunti dall’Ente arco Aspromonte.
    Adesso emergono novità su almeno una delle tre criticità – governance del territorio, programmazione e risorse umane – di cui aveva ampiamente parlato a I Calabresi il direttore amministrativo Pino Putortì.

    Lsu ed Lpu l’Avvocatura dello Stato dice no

    Si tratta del parere dell’Avvocatura dello Stato su due quesiti posti proprio da Putrortì riguardo la legittimità dell’assunzione degli ex Lsu e Lpu voluta da Leo Auteliano lo scorso giugno 2023.
    Per dirla con un luogo comune, abbiamo scherzato: l’Avvocatura ha dichiarato illegittima la determina 295 del 30 giugno 2023 con cui sono stati assunti i 17 ex Lsu e Lpu. Questa determina, nello specifico, violerebbe l’articolo 3 della legge 56 del 2019 e il comma 7 dell’articolo 14 del DL 95 del 2012. Spieghiamo meglio: la procedura di stabilizzazione fuori organico dei 17 lavoratori socialmente utili è corretta. Viceversa, risulterebbe illegittimo il passaggio nella dotazione organica di 5 dei 17 stabilizzati.
    L’Avvocatura dello Stato ha sottolineato, inoltre, che le indebite assunzioni hanno «compromesso la funzionalità e il regolare svolgimento dell’attività amministrativa» dell’ente dovuta alla «perdita della capacità assunzionale in termini di spesa massima consentita».

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    Pino Putortì, il direttore del Parco dell’Aspromonte

    Lsu ed Lpu: un danno erariale da 300mila euro

    Infatti, la copertura delle 9 unità che hanno ottenuto provvedimenti di mobilità in uscita, sarebbe dovuta avvenire in regime di finanza invariata. Così non è stato. Perciò l’Avvocatura dello Stato ha profilato un danno erariale di circa 300mila euro a carico di Silvia Lottero, la direttrice che aveva preceduto Putortì.
    L’Avvocatura avrebbe anche chiesto a Putortì di portare tutte le carte in Procura. E il direttore ha dovuto informare il Consiglio direttivo del Parco.

    Lsu ed Lpu: assunzioni illegittime

    La bomba è esplosa. E il botto dà ragione a chi, nel corso del tempo, aveva accusato Autelitano di una gestione personalistica del Parco. E ci sarebbero profili di reato, va da sé da verificare: i contratti di stabilizzazione violerebbero infatti una normativa di rango superiore.
    Inoltre, le assunzioni, inserite nel Piano integrato di attività e organizzazione (Piao) 2023-2025 recentemente approvato, invaliderebbero lo stesso documento di programmazione con un effetto domino dirompente su una serie di provvedenti adottati dall’Ente Parco.
    Quello che accadrà nei prossimi giorni è da vedere. Per ora sembra si sia arrivati a un punto di non ritorno. Con un unico vantaggio indebito agli assunti e un danno all’Ente e tutta la sua comunità.

    Leo Autelitano, il presidente dell’Ente Parco dell’Aspromonte

    Silenzi, proteste e dimissioni eccellenti

    La Comunità del Parco che, come noto, riunisce i rappresentanti dei 37 Comuni del territorio dell’Ente, ha mandato deserta l’ultima seduta dedicata all’approvazione del bilancio. Un segno chiaro di sfiducia nei confronti dell’operato del presidente.
    La parola dovrebbe quindi passare alla Procura, nel rumoroso silenzio del Ministero dell’Ambiente, destinatario di numerosi dossier sul tema.
    E non è detto che non si registrino nel frattempo reazioni eclatanti. Come le già paventate dimissioni di chi, già funzionario di prefettura e con una specchiata carriera alle spalle, ha cercato di mettere ordine nella situazione.
    La politica, sempre prodiga di nomine, resta a guardare un disastro annunciato?

  • GENTE IN ASPROMONTE | Finché c’è scuola c’è speranza… per il grecanico

    GENTE IN ASPROMONTE | Finché c’è scuola c’è speranza… per il grecanico

    Visitare la Bovesìa, con i suoi centri spopolati, è come fare un salto nel tempo. Tra l’alternarsi dei gialli, dei verdi, di quei marroni sovrastati dal bagliore delle rocce bianche della fiumara Amendolea, ogni metro percorso racconta pezzi di una storia spezzata. Pezzi di comunità sparite che si sono lasciate alle spalle un passato di compattezza ed unità che non c’è più.

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    La piazzetta di Gallicianò

    Arrivando nella piazzetta di Gallicianò, comune di Condofuri, alveo di una delle tante varianti linguistiche del grecanico, una bandiera greca sventola solitaria.
    Gallicianò è un paese ormai per lo più vuoto. Eppure è ancora teatro di manifestazioni culturali come quella cui sono venuto a partecipare: la presentazione del progetto europeo Coling, un percorso di ricerca e di studio internazionale per la valorizzazione, il rafforzamento e la rivitalizzazione del greco di Calabria come lingua minoritaria. La mia visita segue quella di qualche mese fa a To Ddomàdi Grèko, la settimana di formazione linguistica intensiva che da alcuni anni si svolge a Bova Marina e in cui si sono formati molti dei collaboratori di Coling.

    To Ddomàdi Grèko

    «Negli ultimi 50 anni la nostra associazione si è battuta per la tutela, la promozione e la valorizzazione della grecità calabra. Da nove anni, ogni agosto, realizziamo a Bova un corso di grecanico che è in realtà percorso formativo full immersion di una settimana. Partiti in 15, oggi siamo in 70, l’interesse va via via crescendo ed ospitiamo giovani e adulti di Reggio, provenienti da altre regioni di Italia e stranieri. Abbiamo creato un’iniziativa che combina la pura formazione linguistica alla riscoperta di tradizioni, cultura e territorio. La lingua è il collante che ci fa incontrare, confrontarci, dialogare».

    Danilo Brancati firma gli attestati di partecipazione alla Settimana Greca di Bova

    Danilo Brancati è il presidente di Jalò tu Vua, una delle più longeve associazioni culturali che, dagli anni Settanta, si occupa di quest’ambito. La sua associazione è l’ideatrice di quest’iniziativa che trasporta la formazione classica in uno spazio totale di apprendimento collaborativo. E promuove l’incontro tra gli ultimi nativi parlanti ed i neofiti.
    Grazie a questo impegno, la Bovesìa ha fatto scuola. Me lo racconta Gian Lorenzo Vacca, attivista salentino e ricercatore del progetto Coling: «La Calabria Greca per me è un pezzo di cuore perché è dove ho capito qual era la mia strada. Guardando il lavoro dei ragazzi di Jalò tu Vua, ho capito che il modello funzionava e poteva essere replicabile. Ho formato un gruppo di appassionati, abbiamo rilevato l’associazione Grika Milume, siamo venuti a partecipare ai lavori di To Ddomàdi Grèko e, nel giro di un anno, nel 2021, abbiamo organizzato la prima edizione della Settimana Greco-salentina, I Ddomàda Grika. Senza questa esperienza calabrese non saremmo stati qui a parlarne adesso».

    Una lingua deve vivere

    «Per noi era importante insegnare una lingua che sta scomparendo, ma non volevamo che avvenisse in un contesto accademico. La lingua non vive – non solo – attraverso lo studio di regole grammaticali. Vive se viene usata. In un confronto costante con i pochi parlanti nativi ancora in vita. Perché consente di entrare in contatto con quel sistema culturale, valoriale, di saperi giunto fino a noi. Che esisterà fin quando ci sarà anche un solo parlante. Di parlanti oggi ne abbiamo persi parecchi. Per questo è importante trasmettere questo patrimonio».

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    Danilo Brancati

    Il problema per Danilo non è (solo) legato al numero di parlanti effettivi, ma all’approccio con cui una lingua e la sua cultura di riferimento vengono vissute. A prescindere dal numero. «Quest’anno abbiamo ampliato l’offerta formativa ed esperienziale che Jalò tu Vua propone. Alle classi standard – principianti, livello intermedio, avanzato – e a quelle per bambini che prevedono forme di apprendimento giocoso, si è aggiunta quella rivolta agli insegnanti di latino e greco. Vogliamo favorire connessioni culturali tra il sapere autoctono e quello che si studia ad esempio nei Licei classici».

    Studenti dialogano con i grecanici anziani

    Il progetto Coling

    To Ddomàdi Grèko si è rivelata un laboratorio di ricerca e applicazione didattico-linguistici anche nel progetto “Coling – Lingue minoritarie, maggiori opportunità. Ricerca collaborativa, coinvolgimento della comunità e strumenti didattici innovativi”, il primo del genere a mettere in contatto la comunità dei Greci di Calabria con l’accademia. Coordinato dall’Università di Varsavia, con il contributo di Università e centri di ricerca europei e del Gruppo di Azione Locale Area Grecanica, il progetto ha svolto una ricerca collaborativa assieme alla comunità dei parlanti greco-calabri, elaborando metodologie e strumenti didattici nuovi per un insegnamento a 360 gradi del grecanico fin dalla più tenera età.

    Un momento della presentazione del progetto Coling

    Cofinanziato con oltre 1 milione di euro e partito nel 2014, si è chiuso a fine settembre a Gallicianò con la presentazione di risultati: un manuale grammaticale, un corso on line di lingua grecanica., un videogioco, due giochi da tavolo educativi, schede di apprendimento linguistico per l’infanzia. Oltre all’elaborazione di un sistema di standardizzazione ortografica delle varianti linguistiche greco-calabre.

    Una comunità di parlanti in agonia

    A chiarirmi la complessità della situazione è Salvino Nucera, intellettuale, poeta, autore grecanico di Chorio di Roghudi e antesignano della battaglia per la tutela della minoranza greco-calabra. «Oggi i grecanici sono circa un migliaio, di cui parlanti 300 scarsi». Uno stillicidio che nei secoli ha degradato il greco di Calabria da lingua predominante di tradizione orale in tutto l’Aspromonte a macchia culturale resistente.
    Un processo lungo, durato secoli, in cui la compattezza della grecità culturale e linguistica entra in crisi: il declino politico e culturale di Bisanzio, la diffusione del rito latino nella liturgia e nella predicazione della Chiesa, il tramonto del monachesimo basiliano e, più recentemente, le ragioni unitarie, la propaganda fascista, l’emigrazione, la delocalizzazione, il pubblico ludibrio e il senso di inferiorità culturale percepito assestano un colpo quasi mortale a questo “spazio” culturale. Oggi i grecanici sono una comunità sfilacciata, a volte sparsa, quasi frutto di una diaspora e preda di un inesorabile disfacimento.

    Salvino Nucera

    Salvino Nucera, il poeta greco-calabro 

    «Sono contento che una nuova generazione volenterosa e curiosa stia proseguendo sulle nostre orme, perché per me si è trattato di un impegno e di una passione per la vita».
    Salvino Nucera non è solo colui che, assieme ad Alessandro Serra, fondatore di Teatropersona, sta traducendo le tragedie di Euripide in greco di Calabria. È anche l’antesignano che, tra gli anni Settanta e Ottanta, assieme agli allora ragazzi dell’associazione Jonica si batte per la tutela della minoranza greca. Ed è tra coloro che hanno riaperto la stagione della produzione scritta in grecanico.

    «L’ultimo precedente è databile alla fine del Seicento: un testo scritto da un sindaco bovese pro-tempore. Nel 1981 Giovanni Andrea Crupi pubblica La Glossa di Bova, traduzione di cento favole esopiche in greco di Calabria. Nel 1986 esce il mio primo libro. All’inizio pensavo in dialetto, scrivevo in grecanico e ritraducevo in italiano. Poi ho capito che avrei dovuto partire pensando direttamente in greco».
    Dal nucleo originario di Jonica si staccarono una serie di cellule. E andarono a costituire organizzazioni diverse: Apodiafazzi, Comelca – Comunità greca di Calabria -, Jalo to Vua, per citarne qualcuna. Ma qualcosa secondo Salvino non ha funzionato.

    I fondi della legge 482 

    «C’è stata poca sinergia. I fondi stanziati dalla Provincia di Reggio Calabria attraverso la legge 482 per le minoranze linguistiche hanno scatenato gelosie e sono stati male utilizzati. L’impatto di quanto finanziato è stato limitato. Ha prevalso lo spirito greco della divisione. Faccio un esempio: i corsi di lingua grecanica promossi dalla Provincia come specializzazione per la Pubblica Amministrazione venivano pagati profumatamente. Spesso però i partecipanti non figuravano e il controllo era scarso. Successivamente con quei fondi il GAL Area Grecanica realizzò alcune pubblicazioni. Una la feci anche io con Rubbettino. Poi poco altro». Tuttavia, dopo la recente presentazione del piano regionale di dimensionamento scolastico, appellandosi alla 482, i sindaci dell’area Grecanica sono riusciti a scongiurare la chiusura di alcune scuole. Infatti il piano prevede agevolazioni per le aree delle minoranze linguistiche, fissando a 600 anziché a 1000 studenti la soglia sotto cui attuare il ridimensionamento.

    Diversa la situazione della comunità arbëreshe che, con i suoi oltre 50mila membri (fonte Wikepedia) e con impegno e peso politico ben diversi, ha raggiunto importanti obiettivi. Uno su tutti: il nuovo contratto di servizio RAI 2023 -2028 garantirà produzione e distribuzione di trasmissioni e contenuti in arbëreshë. Anche il presidente Occhiuto ha ritenuto l’Arbëria di tale importanza da assegnare a Pasqualina Straface la delega ai rapporti tra il Consiglio Regionale e le comunità arbëreshë. Con buona pace di Danilo, i numeri contano, eccome!

    Al di là di una legge regionale vigente che tutela lingua e patrimoni delle minoranze calabresi, le differenze sono molte. Tanto che la stessa Straface ha accennato a una prossima riforma del provvedimento, i cui lavori vanno avanti dallo scorso aprile.

    L’esposto contro il Bando 

    Oggi intanto presso la Corte dei Conti pende un esposto contro l’avviso pubblicato lo scorso febbraio dalla Città Metropolitana di Reggio. Poco meno di 100mila euro per associazioni e organizzazioni senza scopo di lucro impegnate nella tutela del greco di Calabria. Il bando prevede l’attivazione di 10 sportelli linguistici con interprete/traduttore per le sedi dei comuni di Bagaladi, Bova, Bova Marina, Cardeto, Condofuri, Melito Porto Salvo, Reggio Calabria, Roccaforte del Greco, Roghudi e Staiti.
    Peccato che lo faccia incaricando enti terzi cui verrebbe delegata la verifica dei requisiti di idoneità. Tra questi anche la “qualifica di interprete e traduttore di lingua greco-calabra”.

    Lo stesso Danilo Brancati, raccontandomi l’attività di Jalò tu Vua nelle scuole, aveva sollevato tutte le criticità del caso. A cominciare dall’assenza di un sistema di certificazione della conoscenza di una lingua tramandata oralmente. L’avviso, anche secondo il Movimento Federativo delle Minoranze Linguistiche, rischierebbe di «alimentare pratiche clientelari sotto le mentite spoglie della promozione e della valorizzazione della lingua greco-calabra».

    Daniele Castrizio

    La ricetta di Castrizio

    Nel frattempo chi può e sa, fa sui territori. E chi non le manda a dire è il professor Daniele Castrizio, storico, archeologo, docente di numismatica all’Università di Messina e neo-direttore del Museo della Lingua Greca di Bova Gherard Rohlfs: «Siamo ormai all’anno zero. Non c’è visione, né progettualità. Io ho tutta l’intenzione di riorganizzare il Museo di Bova. Per cui mi chiedo e chiedo: quale progetto abbiamo per la lingua e l’universo grecanico? Ritengo la questione della lingua parlata una battaglia ormai persa».

    Che fare allora? «Riconosco e apprezzo l’impegno di Jalò tu Vua che sta effettuando un’attività di rivitalizzazione eccezionale, ma adesso dobbiamo puntare sulla valorizzazione di questa nostra grecità: filoxenia, enogastronomia, archeologia, monumenti, territorio. Dobbiamo spiegare che cosa vuol dire essere grecanici, costruendo una narrazione del territorio che non viene praticata da nessuno e che, spesso, quando c’è stata, ha prodotto dei falsi storici. Pensa che nella versione cattolica i greci di Calabria sarebbero piccole comunità insediatesi nel Settecento, quando invece un filone di studi ha dimostrato come la presenza greca in Calabria sia millenaria».

    Piccoli alunni della Settimana Greca a Bova

    DNA greco-calabro

    Castrizio porta diversi esempi: «Prendi i risultati della mappatura del DNA della Bovesìa condotte da Giovanni Romeo dell’Università di Bologna: un DNA talmente antico da essere privo di elementi italici, slavi, dori o joni e simile a quello degli abitanti di Creta. Prendi le fonti storiche – in ultimo Dionigi di Alicarnasso – che attestano che 14 generazioni prima della guerra di Troia gli Arcadi si mossero verso il Sud Italia. Oppure prendi gli studi di John Robb che dimostrano la presenza dei grecanici prima del periodo miceneo. O, ancora, prendi anche solo un mero dato linguistico: ci sono parole di greco-calabro che si trovano nei poemi omerici e addirittura nella Lineare B. Quanti sanno che la produzione di seta del Reggino, protetto da 11 fortificazioni, rappresentava il cuore economico dell’impero Romano? Quando Reggio cadde in mano ai normanni la moneta si deprezzò del 30%».

    Il nuovo ruolo del Museo Rohlfs

    «Sono cose che andrebbero raccontate, così come andrebbe raccontato che le comunità dell’Arbëria sono originariamente greche, tanto che adottano il rito religioso greco. Bisogna abbandonare il particolare delle singole narrazioni con un’operazione di verità e trasparenza che restituisca la memoria e la dignità necessarie per decodificare, valorizzare e raccontare il territorio».
    Castrizio ha tutta l’intenzione di dare nuovo impulso all’azione del Museo della Lingua Greca: «Voglio fare diventare il museo di Bova un museo Storico. Sto organizzando una prima mostra, suddivisa in tre aree: storia e archeologia, linguistica e territorio. Nel frattempo stiamo programmando una serie di attività educative con le scuole. E puntiamo ad aprire il Museo al territorio, per trasformarlo in un centro di produzione culturale».

    Premere di più sugli attrattori culturali

    L’idea di Castrizio sembra fare il paio con le linee della nuova programmazione regionale che puntano sugli attrattori culturali: meno opere murarie e maggiori investimenti culturali. In un contesto in cui i parlanti sono ormai sparuti e i numeri delle nascite tracciano un orizzonte grigio, la rivitalizzazione linguistica rischia di rivelarsi un tentativo per ritardare una morte annunciata.
    I (pochi) nuovi parlanti, sempre meno autoctoni, avulsi da un contesto che incoraggia un uso quotidiano e indefesso del grecanico, trasmetteranno ai propri figli quanto appreso o lo terranno per sé? Combinare invece l’apprendimento linguistico con un’azione più incisiva nelle scuole e una strategia più ampia di narrazione e valorizzazione della grecità calabrese potrebbe migliorare la situazione.

    Studenti di grecanico
  • Reggio di cuore: volontari e migranti nel doc di Melasi

    Reggio di cuore: volontari e migranti nel doc di Melasi

    La proiezione di un bellissimo documentario, dal titolo Armo, storie di volontari e di migranti, ha impreziosito i festeggiamenti in onore di San Luca, nella parrocchia di Reggio Calabria retta da don Bruno Cipro. Proprio don Bruno, in apertura, ha sottolineato ciò che in tanti pensano: la mancanza di coerenza di chi, pur professandosi cristiano, ha difficoltà (eufemismo, n.d.r.) ad accogliere chi fugge da fame, guerre, siccità.

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    La parrocchia di San Luca a Reggio Calabria, retta da don Bruno Cipro

    In 51 emozionanti e commoventi minuti, il filmato mette insieme una serie di testimonianze e di immagini tratte dagli sbarchi nel porto della città dello Stretto. Prodotto dalla Caritas diocesana di Reggio Calabria, col contributo di quella nazionale, è stato magistralmente realizzato dal regista Antonio Melasi, con la parte musicale curata da Mauro Giamboi.

    Melasi ci tiene a precisare che non è stato pubblicato on line per privilegiare gli incontri dal vivo, per dare la possibilità di gustarlo meglio e di commentarlo a chiunque ne abbia voglia. Per promuoverne la visione si deve semplicemente inviare una comunicazione all’indirizzo caritasreggiocalabria@gmail.com, indicando promotore, luogo e data indicativa della proiezione.

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    Il doc del filmaker Antonio Melasi (in foto) è stato prodotto dalla Caritas di Reggio Calabria

    Rendere per iscritto cosa si prova guardando quelle immagini è comunque difficile. Accanto alla sofferenza dei migranti appena sbarcati dopo i viaggi della speranza, che abbiamo imparato a conoscere ancor di più negli ultimi tempi, è ben visibile il patimento dei tantissimi volontari che si sono spesi e si spendono per aiutare, soccorrere, accogliere i migranti. Tuttavia, gli intervistati e gli intervenuti alla proiezione hanno voluto mettere in rilievo che, accanto ai momenti di sconforto, non sono mancati quelli di vera gioia. Tutti hanno rimarcato la bellezza di un’esperienza così totalizzante e coinvolgente da lasciarli certamente migliorati e arricchiti, anche rafforzati nella fede.

    Di questo comune sentire si è resa portavoce Bruna Mangiola, coordinatrice della Caritas per gli immigrati e da sempre impegnata nel volontariato cattolico. Ha elogiato il popolo reggino, che è accorso sempre più numeroso per prestare la propria opera, evidenziandone anche il cambiamento nell’atteggiamento nei confronti dei fratelli africani. Ha quindi offerto la sua testimonianza Luciano Gerardis, già presidente della Corte d’Appello di Reggio, che nel 2012 ha dato vita a Civitas, un’associazione la cui missione è quella di sensibilizzare la società civile sui temi del servizio alla collettività, della legalità, dell’affermazione dei diritti.

    La rinascita di Mussa

    Il documentario ha il pregio di descrivere passo passo il processo di crescita del movimento partecipativo alle vicende dei migranti. Due, a mio avviso, le storie più significative in esso narrate, una legata a un uomo, l’altra a un luogo. Mussa è un ragazzo del Senegal sbarcato a Reggio che è riuscito a costruirsi una nuova vita, grazie al sostegno della comunità ecclesiale di Cannavò. Oggi, oltre a lavorare, studia all’Università e nella nostra città ha trovato anche l’amore, una ragazza con la quale convive.

    Armo è la contrada che dà anche il titolo al documentario. Proprio ad Armo è stato realizzato un sito per la sepoltura di coloro, purtroppo tanti, che non ce l’hanno fatta, che hanno lasciato nelle acque del Mediterraneo vita e speranze. Anche in questo caso la collaborazione è stata il tratto distintivo della vicenda. Toccanti le immagini nelle quali si vedono le suore e altri nostri concittadini, adulti e ragazzi, posare fiori e versare lacrime sulle tombe bianche con sotto i corpi di sconosciuti, molti senza nome. Un segno tangibile dell’umanità che l’uomo è capace di tirare fuori dalla propria anima. Forse ciò accade troppo di rado, ma è motivo d’orgoglio che sia successo nella nostra terra di Calabria.

  • Mimmo Lucano: arriva la luce alla fine del tunnel

    Mimmo Lucano: arriva la luce alla fine del tunnel

    Ieri, alle cinque e mezza del pomeriggio, la mia mente è andata al teletrasporto. Che stramberia, penserete. E a ragione.
    Ma nel tumulto che mi ha investito quando Sasà Albanese mi ha confermato che Mimmo Lucano era stato (sostanzialmente) assolto, la ragione non c’entra. Perché in quel momento l’unico gesto che avrei voluto compiere era quello di abbracciare Mimmo, dal quale però mi separavano 130 chilometri.
    Mimmo, poco tempo fa mi aveva dichiarato in un’intervista che sarebbe andato in galera senza chiedere sconti di alcun genere. Condannatemi, aveva detto. Prendetevi fino in fondo le vostre responsabilità. Dopo aver coperto la distanza tra Reggio a Riace l’ho trovato lì dove m’aspettavo che fosse: in piazza, non in galera.
    A Riace, il paese dei miracoli, dove umanità, solidarietà, amore non sono parole. Sono volti, baci, abbracci, sorrisi, mani che si stringono e si protendono per soccorrere chi zoppica, chi è stanco, chi è affamato.

    Mimmo Lucano: Riace di tutti i colori

    Mani di colore diverso, perché nella Riace di Mimmo il colore che conta è quello del sangue, uguale per tutti. Del cielo, uguale per tutti. Del grano o delle foglie degli alberi, uguale per tutti.
    Abbraccio Mimmo a occhi chiusi, ma vedo bene che in quell’istante lui è il mondo intero, con le sue brutture e le sue bellezze. Imperfetto, a volte sordo. Però in momenti come questi meraviglioso.

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    Una bella immagine di Mimmo Lucano

    Tanti amici e compagni sono lì, a condividere la luce dopo un tunnel buio e triste. Troppo, insopportabilmente lungo. Certo, nell’attraversarlo, Mimmo Lucano ha dimostrato una resistenza erculea. La tenebra nella quale ha camminato è stata penetrata da tanti raggi di sole: i suoi estimatori, sparsi in tutto il mondo. Tuttavia, credo che non ne sarebbe venuto fuori se non avesse avuto, dentro di sé, la forza delle sue idee. Incrollabili. Rocce che alcun corso d’acqua ruggente e violento avrebbe potuto trascinare via.
    I principi di una vita, saldi in lui fin da ragazzo. Quelli l’hanno guidato già prima di Riace, e quindi hanno segnato anche quell’esperienza. Non poteva cedere e non ha ceduto. E anche il suo più grande timore, quello di perdere credibilità davanti alla sua gente, per colpa delle accuse e del processo, si è squagliato ieri come neve al sole.
    Una giornata storica (in questo caso certamente sì) terminata tra sorrisi e abbracci, tra canti e brindisi. Con il grande Peppino Lavorato, dalla solita postura fiera e gentile da vecchio combattente, a dirigere il coro di Bella ciao.
    Più si va in là con gli anni, pensavo tornando a casa, più le occasioni per gioire si rarefanno. Sono gemme preziose da custodire gelosamente. Quella che abbiamo incastonato ieri nelle nostre vite è una delle più raffinate e pregiate. Il nostro Mimmo potrà continuare nella sua missione, che consiste semplicemente nell’aiutare il prossimo. Con la consapevolezza di poterlo fare perché la solidarietà, da ieri, non è più un reato.

  • Colpevole di umanità

    Colpevole di umanità

    I processi politici esistono. Quello che ha dovuto affrontare Mimmo Lucano, dal quale aveva subito una condanna di tredici anni, puniva una visione differente dell’accoglienza. Una idea migliore di essere “questa sporca razza”, come avrebbe detto Beckett. Insomma, una umanità migliore.
    La sentenza di primo grado puniva la solidarietà in un mondo costruito come sostanzialmente ostile verso “l’altro”, basato sulla disuguaglianza che accanisce i meno uguali, già discriminati, contro quelli che stanno ancora più sotto, gli ultimi.
    Puniva in modo grottesco (e con motivazioni raccapriccianti per chiunque percepisca il senso del Diritto) una persona che aveva osato dimostrare che si poteva vincere l’egoismo, dando vita a una piccola oasi di uguaglianza e opportunità, di riscatto e rinascita.
    Verso quest’oasi si era rivolto anche lo sguardo internazionale, interessato a capire come fosse stato possibile in questa remota periferia del pianeta realizzare l’utopia di un mondo almeno un poco meno ingiusto.

    Niente carcere e molta dignità: Mimmo Lucano

    Fine dell’obbrobrio per Mimmo Lucano

    Oggi l’obbrobrio è stato cancellato: il processo di secondo grado ridimensiona la pena da tredici anni a uno e mezzo per irregolarità amministrative e ne sospende l’esecuzione.
    Tutto questo avviene dopo circa cinque anni dall’arresto e dalla fine di quella esperienza di umanità solidale, di rinascita di un piccolo paese, di ritrovamento smarrito di umanità. L’Appello nega le accuse più pesanti: associazione a delinquere, peculato, frode. A chi, con stupore degli accusatori, spiegava che nelle tasche di Lucano non c’era nemmeno un euro, la sentenza di primo grado replicava che questa povertà era frutto della sua furbizia. Un modo troppo semplicistico per dire che quella esperienza doveva spegnersi subendo anche l’onta dell’infamia.
    Alla fine, più ancora della gravità della sentenza di primo grado, era questo l’oltraggio con cui seppellire Lucano: trasformarlo da realizzatore di idee coraggiose in un piccolo bandito. Non ci sono riusciti. Lucano non andrà in carcere per avere dato dignità a chi non ne aveva più e proseguirà quel che in questi anni non ha mai interrotto: costruire il suo piccolo prezioso mondo di accoglienza.
    Sia scritto sui muri, sui libri di scuola, sia scritto e gridato nelle piazze: la solidarietà non è mai stata un reato.