
L’abate illuminista di Martone
Marrapodi ambasciatore in Austria e Turchia
La “rotta turca” dei migranti che porta nella Locride
Un primo ministro d’Australia

Ministro dell’Istruzione in Canada






Trasformare i bunker in sale espositive, riconvertendo i cunicoli del malaffare scavati nel ventre del paese in moderne “passeggiate” sotterranee aperte ad «arte ottica e concettuale, folklore, sistemi con pannelli e mostre». Un progetto che il comune di Platì intende portare avanti – al costo di oltre due milioni di euro – per provare a dare nuova (e diversa) vita al sistema di capillari collegamenti criminali scavati nella roccia in quasi mezzo secolo per nascondere latitanti, prigionieri, droga e armi. Un “controcanto” che il piccolo centro – poche migliaia di abitanti sul versante jonico d’Aspromonte – vorrebbe intonare per mostrare il volto ripulito di una cittadina che, suo malgrado, è considerata da sempre come una della capitali storiche della ‘ndrangheta.
Un progetto dai tratti vagamenti bipolari, nato per smarcarsi da una nomea pesantissima e che non manca di cedere alla retorica un po’ vittimistica di tv, giornali e social che «le hanno riccamente documentate, spesso in maniera malevola con intenti di criminalizzazione generalizzata della popolazione» in una narrazione «folkloristica che contribuisce a infangare l’intera comunità». Da una parte vuole contrastare il binomio Platì uguale mafia. Dall’altra intende portare i turisti proprio in quello che a lungo è stato il regno sommerso di alcune delle più influenti famiglie di narcos a livello globale.

E d’altronde erano state proprio le cosche platiesi a costruire la città sotto la città. Gallerie, cunicoli, bunker e stanze nascoste che i boss, in anticipo di un ventennio sulle gallerie scoperte al confine tra Messico e Stati Uniti, avevano commissionato per i propri intenti criminali. E che squadre di “bunkeristi” specializzati avevano realizzato collegando le nuove strutture a vecchi scarichi fognari e grotte naturali per un reticolo imponente di nascondigli e vie di fuga che a lungo avevano protetto i segreti del crimine organizzato locale.
Era il marzo del 2010 quando i carabinieri del gruppo di Locri durante una retata si erano imbattuti nella “catacombe” platiesi. Perquisendo un garage nella disponibilità del clan Trimboli, i militari avevano scovato un portello automatizzato e ben mimetizzato tra calcinacci e vecchi mobili. Dietro si nascondeva l’ingresso al “sottosopra” criminale platiese. Un mondo al contrario che le cosche avevano fatto scavare negli anni e che, grazie al lavoro mastodontico di una serie di operai “specializzati”, aveva sostituito le precedenti gallerie (meno sofisticate) scoperte nel 2003.

Gli investigatori, che a lungo tennero riservata la notizia del rinvenimento, si trovarono di fronte ad una vera e propria opera di ingegneria mineraria. Dal piccolo box nel cuore del paese vecchio infatti, partiva una galleria lunga più di 200 metri costruita 8 metri sotto il livello del suolo e larga poco meno di un metro. Dotata di un moderno impianto di aerazione che consentiva il continuo ricambio dell’aria e di un funzionale impianto di luci al neon, la galleria collegava diversi bunker, a loro volta infrattati nelle intercapedini nascoste delle case dei boss, per un sistema quasi perfetto di mimetizzazione. Grazie ad esso capi e gregari delle cosche – che, come da tradizione mafiosa, difficilmente si allontanano dal proprio feudo d’appartenenza – erano rimasti a lungo al sicuro.
E così, attorno alle case cadenti del centro storico, le magioni dei mammasantissima – nudo intonaco fuori, rubinetti d’oro nei bagni e mobilio d’ebano nel tinello –erano state dotate, tra picchi d’ingegneria mineraria e folkloristiche immagini della Madonna di Polsi lasciate a presidiare il territorio, di un sistema “arterioso” artificiale che poteva essere usato di volta in volta dalle primule rosse del malaffare della montagna. Un mondo al contrario che, scavato sotto i ruderi di un paese in rovina e stritolato dallo strapotere dei clan di ‘ndrangheta, oggi vuole essere riconvertito in un’operazione “acchiappaturisti” dal retrogusto amaro.

E se le “catacombe” di Platì rappresentano, probabilmente, un unicum dell’ingegneria votata al malaffare, i bunker dentro cui si rintanano i pezzi da novanta del crimine organizzato calabrese sono invece una presenza costante in tutto il territorio reggino. Anche perché una delle regole non scritte del crimine organizzato, prevede che un capo, anche se braccato, non si allontani mai troppo dal proprio territorio di “competenza”. E così, nascosti dietro finte pareti, occultati dietro porte scorrevoli e botole meccaniche, i nascondigli dei boss sono sempre più sofisticati e costruiti con tutte le comodità dettate dai tempi moderni, per consentire un soggiorno degno del blasone di chi lo ha commissionato.
Come nel caso del mini appartamento che Francesco Pesce, alias Ciccio Testuni, si era fatto costruire proprio sotto un deposito giudiziale nelle campagne di Rosarno. Braccato dalle forze dell’ordine in seguito all’operazione All Inside, l’allora reggente del potentissimo clan della Piana, si era “sistemato” in un bilocale sotterraneo di circa 40 metri quadri costruito di nascosto da veri esperti del settore. Tv satellitari, impianto di video sorveglianza esterno, collegamento internet e consolle per videogiochi: nella residenza nascosta di Pesce, i carabinieri del Ros (che la mattina del ritrovamento si presentarono al cancello della Demolsud con ruspe e scavatori meccanici) trovarono tutto l’occorrente per trascorrere una latitanza tranquilla.

Una tradizione, quella dei bunker, che coinvolge praticamente tutte le cosche criminali del territorio e che ha creato, paradossalmente, operai specializzati che le stesse cosche si contendono: «Ricordo – aveva raccontato agli inquirenti la collaboratrice di giustizia Giusy Pesce, che di Ciccio Testuni è prima cugina – di avere più volte visto un muratore di Rosarno, uscire dalla casa abbandonata di mia nonna. Era sempre vestito con una tuta da lavoro e mio padre mi spiegò che l’operaio stava ristrutturando per conto suo un vecchio bunker nascosto nella casa».

È durato poco più di due anni e mezzo l’interregno di Michele Di Bari al comando del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero degli Interni, organo che si occupa di gestire tutti, o quasi, i migranti nel nostro Paese. L’ex Prefetto di Reggio e Vibo ha presentato alla ministra Lamorgese le proprie dimissioni. Pochi minuti prima le agenzie avevano battuto la notizia dell’indagine costata a Rosalba Livrerio Bisceglia – moglie di Di Bari – un provvedimento di obbligo di dimora e l’obbligo di firma alla Pg.

Secondo le accuse della procura di Foggia la donna, proprietaria di un’azienda agricola in Puglia, si sarebbe rivolta ad un uomo di origine gambiana per il reclutamento di alcuni operai, risultati poco più che schiavi e vittime di quel sistema di caporalato e sfruttamento del lavoro che accomuna il nord della Puglia al sud della Calabria. «Sono dispiaciuto moltissimo per mia moglie che ha sempre assunto comportamenti improntati al rispetto della legalità. Mia moglie – ha dichiarato Di Bari comunicando il suo passo indietro – insieme a me, nutre completa fiducia nella magistratura ed è certa della sua totale estraneità ai fatti contestati, confidando che presto la misura dell’obbligo di dimora sarà revocata».
C’è dell’ironia nelle dimissioni dell’ex Prefetto di Reggio che, completamente estraneo all’indagine, è caduto per “opportunità politica” proprio a causa di un’inchiesta che affonda le radici in quel sistema di mancata integrazione e semi schiavitù che, da prefetto calabrese, lo ha visto protagonista di tante pagine della cronaca recente. Sbarcato in riva allo Stretto nel 2016 Di Bari può “vantare” un curriculum fatto di 19 commissioni d’accesso spedite in altrettanti comuni del reggino, con uno score di 18 commissariamenti per mafia ottenuti, praticamente un record.
Ma è con i migranti che Di Bari si fa notare, guadagnandosi sul campo il posto nella cabina di regia del Viminale mantenuto fino a venerdì. I carabinieri di Manfredonia hanno individuato nella baraccopoli della “ex pista” di Borgo Mezzanotte lo slum dove i migranti vittima di caporalato protagonisti della vicenda foggiana trovavano rifugio. Uno slum praticamente identico a quello sorto alle spalle del porto di Gioia Tauro all’indomani della rivolta del 2010 e che la Prefettura guidata da Di Bari fece sgomberare in favore di telecamera durante una visita dell’allora titolare del Viminale, Matteo Salvini.

Uno sgombero reso necessario dalle condizioni disumane in cui erano costretti i migranti ospitati (e nel quale trovò la morte, tra gli altri, anche Becky Moses, la donna nigeriana costretta dai decreti sicurezza ad abbandonare i progetti di Riace, e arsa viva nella baracca dove aveva trovato rifugio). E che si dimostrò praticamente inutile, visto che a distanza di qualche giorno, una nuova tendopoli, autorizzata dalla stessa Prefettura, fu installata 500 metri più in là, in uno dei tanti slot vuoti del deserto post atomico della zona industriale del porto di Gioia.
E se a Rosarno era stato necessario l’utilizzo delle ruspe per radere al suolo la baraccopoli della vergogna, a Riace furono gli ispettori inviati dalla Prefettura di Di Bari, a smantellare il progetto di accoglienza ideato dall’ex sindaco Mimmo Lucano. Progetto che di quello che succedeva a Rosarno rappresentava l’esatta antitesi. Sono almeno cinque le relazioni che i funzionari reggini hanno stilato, a partire dal 2016, sul modello di integrazione e accoglienza che tra mille difficoltà aveva portato Riace, minuscolo e semi spopolato paesino dello Jonio reggino, all’attenzione di mezzo pianeta.

E se in una delle relazioni – sulla quale si è basata parte dell’indagine della guardia di finanza – si sottolineavano le tante criticità legate alla gestione del denaro, in un’altra – a lungo “impantanata” negli uffici della Prefettura reggina da cui è riemersa solo dopo una formale denuncia – si certificava la capacità propositiva e inclusiva di un “modello” capace di ripopolare con profughi e richiedenti asilo, un centro abbandonato dai suoi stessi abitanti a loro volta migrati lontano in cerca di maggiore stabilità. Un modello ormai sepolto dai 13 anni di condanna inflitti all’ex sindaco dal tribunale di Locri, ma che era stato già minato dalla progressiva serrata dei progetti d’accoglienza. Serrata in cui Di Bari recitò un ruolo da protagonista.
Di Bari non è l’unico funzionario finito – seppure di riflesso – nel tritacarne di un’indagine sui migranti in seguito alla chiusura dei progetti di Riace. Per uno strano caso del destino infatti anche altri due funzionari sono rimasti invischiati in altrettante indagini a pochi mesi dalla chiusura del paese dell’accoglienza. Come nel caso di Salvatore Del Giglio, che di una di quelle relazioni prefettizie fu estensore e che finì indagato dalla Procura di Palmi per una presunta relazione falsa legata ai progetti d’accoglienza a Varapodio, sul versante tirrenico d’Aspromonte. O come nel caso di Sergio Trolio – che nel processo locrese fu uno dei testimoni dell’accusa come ex tutor dei servizi Sprar – finito indagato dalla Procura di Crotone per una serie di presunte truffe legate proprio al mondo dei migranti.

Anche quest’anno niente soldi per i libri degli alunni delle scuole elementari di Cosenza. Il Comune in dissesto non paga le librerie scolastiche che, a loro volta, dopo avere fornito i libri nel 2019 senza essere stati pagati in tempo e integralmente, hanno deciso di fare anticipare – come già successo nel 2020 – il costo dei libri alle famiglie dei bambini anche per quest’anno. Somme che saranno restituite non appena il Comune liquiderà le fatture alle librerie. «Non è mancanza di volontà», ribadiscono in coro i librai della città, «purtroppo siamo arrivati al limite delle nostre forze. Non riusciamo più ad anticipare somme che poi non ci restituiscono».
I titolari delle librerie scolastiche di Cosenza portano ad esempio quanto accaduto nel 2019. «Abbiamo fornito a tutti coloro che presentavano le cedole di acquisto i testi richiesti. Sapete come è andata a finire? Che siamo stati “costretti” ad accettare una transazione con cui il Comune ci ha liquidato il 40% del totale fatturato». E dal momento che sui testi scolastici l’utile è di appena il 15%, il conto è presto fatto: su circa 90mila euro che il Comune avrebbe dovuto rimborsare, i librai ne hanno intascati appena 36mila.
Il nocciolo della questione sta qui. A Cosenza, complice il dissesto finanziario, il Comune non eroga somme che dovrebbero già essere in bilancio su uno specifico capitolo di spesa. Così le librerie devono sospendere le forniture e ai genitori tocca aprire il portafogli.
Laura G. è la mamma di una bambina in prima elementare. «Nel mio caso – dice – non sono i 50 euro per i sussidiari di Aurora a fare la differenza, ma cerco di mettermi nei panni anche di chi sta passando un periodo difficile. Magari non è in condizione di anticipare neanche una somma relativamente modesta come questa».
Dal canto loro, le librerie scolastiche della città non ci stanno a fare da parafulmine alle inadempienze della pubblica amministrazione. E, dopo avere chiuso con una transazione estremamente onerosa (per loro) la vicenda dei vecchi crediti, hanno (ri)proposto di fare anticipare alle famiglie il costo dei libri.

A pagare i testi delle scuole primarie, per legge erogati gratuitamente dallo Stato, sono state le famiglie. Che poi, quando e se il Comune sarà nelle condizioni di liquidare le fatture, riavranno i loro soldi direttamente dalle librerie. Basterà presentare le cedole di acquisto, «ed entro 60 giorni effettueremo il rimborso», spiega il titolare di una delle attività che hanno proposto questa soluzione.
Nelle altre province la situazione è molto diversa, fortunatamente. Ad agosto il settore Pubblica istruzione del Municipio di Catanzaro ha divulgato un avviso per lo stanziamento di 140mila euro per l’acquisto gratuito dei libri di testo delle scuole primarie. Le librerie accreditate sono state 11; gli aventi diritto 3.958.
Luana P., mamma di Andrea: «Noi abbiamo pagato solo un euro per le copertine “obbligatorie”, per il resto più nulla». Manuela C.: «A gennaio abbiamo scelto la scuola per la piccola Ginevra, in primavera sono arrivate le cedole on-line e a settembre, non appena abbiamo avuto indicazioni delle classi, siamo andati in libreria a ritirare i testi».

Anche a Catanzaro qualcuno aveva provato a chiedere di anticipare i soldi dei libri. «Ma il Comune ha bocciato subito l’attività dichiarandola illecita», spiega Liana N., mamma di Giuseppe e Gaia. L’iter previsto dalla Legge 448/98 dovrebbe essere uguale per tutti: i genitori acquistano i libri tramite le cedole ricevute a scuola e i librai fatturano al Comune. Funziona così un po’ dappertutto, anche a Crotone e Vibo Valentia.
Il meccanismo si è inceppato a Cosenza ed a Reggio Calabria. Anche qui i genitori devono anticipare i soldi per l’acquisto dei libri per le scuole primarie. Il motivo è sempre lo stesso: pure in riva allo Stretto i librai non riescono ad incassare in tempo le fatture dal Comune. Che, in questo caso, non può neanche sfruttare l’alibi del dissesto finanziario per difendersi.
Amaro lo sfogo di una mamma sui social: «Abbiamo tre figli. Se consideriamo una spesa media per i libri di 65 euro a testa, viene fuori che la somma da anticipare per una famiglia non benestante non è per nulla indifferente».
Lo scorso anno ci ha provato l’assessore Spadafora Lanzino a gettare acqua sul fuoco delle polemiche giustificando i librai e rassicurando le famiglie: «Purtroppo, la consueta anticipazione degli importi da parte delle librerie su ricezione delle apposite cedole, non è resa possibile, oggi, dalla circostanza che le librerie stesse sono, al momento, in attesa della liquidazione delle spettanze relative all’anno scolastico 2019/2020, oggetto della procedura di liquidazione dinanzi alla Commissione straordinaria operante presso l’Amministrazione Comunale. Ciò giustifica la soluzione dell’anticipazione, ossia del temporaneo e provvisorio pagamento dei libri di testo da parte delle famiglie degli alunni, che tempestivamente riceveranno la restituzione di quanto versato non appena, con sicura tempestività, il Comune procederà a liquidare, su presentazione delle fatture da parte delle librerie, le somme in credito».

A piazza dei Bruzi solo in questa ultima settimana è arrivata la nomina dei presidenti delle commissioni consiliari e la nuova giunta del sindaco Caruso sta iniziando ad avviare la macchina amministrativa.
Dai banchi della maggioranza fanno sapere che «stiamo iniziando ora ad esaminare il bilancio. Solo dopo saremo in grado di capire dove sono finite e come sono state usate dalla precedente Amministrazione le somme per l’acquisto dei libri e come fare a recuperarle».
Una cosa però è certa: il capitolo Istruzione è tra i più complessi nel bilancio del Comune di Cosenza. Stessi fondi ministeriali, destini diversi per le risorse della scuole primarie e secondarie a Cosenza. Le fatture dei librai delle primarie sono finite nella massa passiva. Per recuperare i soldi integralmente – salvo stralci dal 30 al 60% – ci vorranno dai sei ai dieci anni. I fondi destinati alla scuole secondarie di 1 e 2° grado, invece, sono finiti su un capitolo di spesa ad hoc. Questo ha garantito già dallo scorso anno l’erogazione di 450mila euro.
Sempre più sconcertati i librai : «Non riusciamo a capire come essendo anche i nostri fondi ministeriali siano finiti nella massa passiva. Certo è che se anziché destinare le risorse ad altro le avessero impiegate per pagare le cedole oggi non ci troveremmo in questa situazione».

11 marzo 2011. Giuseppe Scopelliti è presidente della Giunta Regionale da poco più di un anno. E dichiara: «Confermo anche l’impegno assunto durante la mia sindacatura. Il nuovo Palazzo di Giustizia di Reggio Calabria porterà il nome di Antonino Scopelliti». Sono passati oltre dieci anni da quell’annuncio. E l’inaugurazione del palazzo di giustizia di Reggio Calabria resta una chimera.
Il palazzo di giustizia è l’incompiuta per eccellenza a Reggio Calabria. L’opera più importante, per mole, per investimenti, ferma da anni. A circa il 75% dello stato di avanzamento. E che rischia di essere inaugurato (quando accadrà) già vecchio.
Il progetto del nuovo Tribunale era stato approvato nel maggio 2004 per un importo di quasi 88 milioni di euro. Lavori affidati alla Bentini Spa di Faenza, che aveva vinto l’appalto del Comune fissando l’offerta a un ribasso di quasi il 20% rispetto ai concorrenti.
Un appalto da poco più di 50 milioni di euro che, in oltre 17 anni di lavori, ha già visto quasi raddoppiare i costi, a causa di varianti e ritardi.
Reggio si è ormai abituata a convivere con quella struttura mastodontica mai inaugurata. Dà il benvenuto a chi arriva dallo svincolo autostradale principale: quello che porta al centro cittadino. Negli ultimi giorni è stata la presidente del Tribunale, Mariagrazia Arena, a fare una grave denuncia pubblica sullo stato di abbandono della struttura: «L’incuria del nuovo palazzo di Giustizia di Reggio Calabria è causata o dall’incapacità di risolvere i problemi o, cosa più grave, dalla mancanza di vero interesse a risolvere i problemi».

I lavori, infatti, sono fermi da tempo. Si è lavorato fino all’inizio del 2013. Quelli sono gli anni del commissariamento del Comune per contiguità con la ‘ndrangheta, avvenuto nell’ottobre 2012. I commissari chiamati a riportare decoro e legalità nell’amministrazione reggina restano inermi. Lavori bloccati a causa di un contenzioso da 38 milioni di euro tra il Comune e la Bentini. Con gli operai in cassa integrazione. E poi, inevitabilmente e inesorabilmente, licenziati. Ci pensa la prima Amministrazione di Giuseppe Falcomatà ad avviare il concordato fallimentare. Ma lo stato dei lavori non cambia.
In mezzo, come spesso accade, le infiltrazioni della ‘ndrangheta. Anzi, le presunte infiltrazioni della ‘ndrangheta. Perché l’inchiesta “Cosmos”, curata dalla Dda di Reggio Calabria sosteneva di aver scoperto l’opera di vessazione del potente clan Libri sulla ditta Bentini. Secondo le indagini, la cosca si era accaparrata il servizio mensa e tavola calda per i dipendenti del Cedir e gli operai della Bentini. Ma già in primo grado il boss Pasquale Libri sarà assolto dall’accusa.
Dovrà invece aspettare l’Appello, Edoardo Mangiola considerato il collettore di una raffinata forma di estorsione perpetrata in danno della “Bentini Spa”. Piuttosto che ricorrere al classico metodo della “mazzetta”, i Libri avrebbero realizzato l’attività di infiltrazione attraverso la stipula di contratti di fornitura di servizi. Con cui avrebbero imposto le proprie prestazioni in regime di assoluto monopolio. Nonché attraverso la somministrazione controllata di forza lavoro con l’imposizione di operai.
E così gli uffici giudiziari di Reggio Calabria si trovano nel paradosso di essere dislocati in almeno tre sedi. C’è il Centro Direzionale, dove si trova la sede della Procura della Repubblica e dei tribunali, penali e civili. Poi le strutture di Piazza Castello, con la Procura Generale e il vecchio palazzo dove si trovano le aule d’udienza. Infine l’aula bunker.
Il Tribunale, che tratta tutti i processi di criminalità organizzata del Distretto, è ospite in un immobile comunale dove quotidianamente si devono fare i salti mortali per celebrare le udienze perché le aule sono insufficienti. E in condizioni spesso non decorose: troppo fredde d’inverno, veri e propri forni da maggio in avanti.
Gli uffici della Procura della Repubblica non fanno eccezione. Chiunque li abbia visitati, non può non aver notato la caratteristica, più unica che rara, di dover attraversare i bagni per potersi spostare tra i vari corridoi. Con le stanze dei magistrati chiuse da porte leggerissime, attraverso le quali un orecchio attento può anche carpire alcuni dei delicati e riservati discorsi fatti all’interno.
La gravità della situazione, quindi, torna alla ribalta con la denuncia del presidente Mariagrazia Arena. Le parole del magistrato vanno oltre l’aspetto logistico della situazione: «A Reggio Calabria, dove è presente una criminalità organizzata che manifesta plasticamente il proprio potere economico e il controllo del territorio, – ha sottolineato Arena – il cittadino che vede questo palazzo perché dovrebbe riporre fiducia e affidamento nella giustizia? E se non ripone fiducia nella giustizia, perché mai dovrebbe rispettare le leggi dello Stato?».
Anche e soprattutto perché quella struttura dovrebbe essere il simbolo della giustizia, della lotta alla criminalità organizzata, in un territorio vessato dalla ‘ndrangheta. Ma anche perché, quell’immobile dev’essere intitolato e dedicato al giudice Antonino Scopelliti, magistrato sulla cui uccisione non è mai stata fatta piena luce.

Secondo Arena, quello del nuovo palazzo di Giustizia «è un problema intanto di immagine, di quello che lo Stato vuole davvero a Reggio Calabria, in un posto di frontiera». Se non si trova una soluzione, secondo la presidente Arena, il palazzo di Giustizia diventerà «il simbolo del fallimento dello Stato. Il Palazzo di Giustizia di Reggio è la scommessa che lo Stato deve giocarsi su Reggio Calabria. Se è capace di giocarsi questa scommessa, bene, sennò vorrà dire che lo Stato si è arreso».
Dopo la denuncia della presidente Arena, l’amministrazione comunale di Reggio Calabria, che continua a patire le grane politiche dopo la condanna e la sospensione di Falcomatà, ha tentato di correre ai ripari. A intervenire, il consigliere comunale Carmelo Romeo, delegato municipale che in questi mesi si è occupato della vicenda del Palazzo di Giustizia dopo l’ennesimo stop dovuto alla rescissione forzata con l’impresa aggiudicataria dell’appalto.
«Nella mattinata di oggi abbiamo ricevuto comunicazione dalla direzione generale del Ministero della Giustizia. Finalmente siamo pronti ad attivare il protocollo d’intesa con il Ministero per il completamento del Palazzo di Giustizia. Da lunedì saremo concretamente al lavoro per individuare la soluzione più adeguata a riattivare l’iter per l’ultimazione definitiva di un’opera che attende da lungo tempo di entrare in funzione», ha detto poche ore dopo il grido della presidente Arena.
Che tempismo.

L’aeroporto Tito Minniti fu pensato per essere porta d’ingresso per le due città metropolitane, canale d’arrivo e di partenza privilegiato per una fetta di Sud da oltre un milione di abitanti. Ma è finito nell’angolino più angusto del sistema dei trasporti del fondo dello Stivale. Lo scalo di Reggio Calabria arranca tra un emorragia di passeggeri che non conosce sosta – è all’ultimo posto per utenti trasportati tra gli scali calabresi – e un’offerta anemica che si limita a Roma e Milano, con prezzi da tratte internazionali che dirottano su altri aeroporti (Catania e Lamezia) anche buona parte dell’utenza “domestica”.
Incastrato tra le ultime ombre d’Aspromonte e la meraviglia dello Stretto, lo scalo reggino paga, tra le altre cose, una serie di limitazioni dettate proprio dalla posizione in cui lo hanno costruito e dalla difficoltà nelle manovre di atterraggio. Dotato di due piste (anche se i voli di linea atterrano e decollano solo su quella principale) è uno dei pochi scali italiani a prevedere un’abilitazione particolare per il pilota (in fase di atterraggio è necessaria una manovra gestita direttamente in cabina).
Limitazione che si somma a quelle legate all’impossibilità di dotare lo scalo con i moderni sistemi di radiofaro per l’atterraggio strumentale degli aerei e che, di fatto, resta come un macigno sospeso sui progetti di sviluppo visto che molte compagnie, low cost in testa, preferiscono puntare su scali incatenati da minori restrizioni e quindi accessibili a costi più bassi.
Reggio e Messina come bacino naturale, il Tito Minniti (in memoria dell’aviatore reggino protagonista della guerra colonialista d’Abissinia) non è mai riuscito a diventare veramente attrattivo per i viaggiatori in partenza e in arrivo dalla sponda siciliana dello Stretto. Più veloce e più comodo per l’area metropolitana di Messina (nonostante la maggiore distanza) raggiungere lo scalo catanese di Fontana Rossa, che garantisce una maggiore offerta e prezzi decisamente più competitivi.
Oggi, se un utente messinese volesse decollare da Reggio servendosi di mezzi pubblici potrebbe scegliere tra: prendere un autobus (privato) dalla città peloritana che, attraversato lo stretto via traghetto fino a Villa, lo lasci in aeroporto dopo il tragitto in autostrada o, in alternativa, prendere un aliscafo fino al porto di Reggio e da lì raggiungere lo scalo con un mezzo Atm: in entrambi i casi, oltre un’ora di tragitto scomodo e costoso che scoraggerebbe anche il più entusiasta dei viaggiatori.
Eppure qualcosa era stato fatto in passato per migliorare il collegamento. Nata durante la primavera di Reggio con Italo Falcomatà, l’idea di dotare il Minniti con un approdo pensato per gli aliscafi, si concretizzò nell’era Scopelliti, ma le cose non andarono bene. Modificato il vecchio molo della stazione aeroporto e “sistemata” la via d’accesso diretta tra la stazione e il Minniti, il nuovo percorso che consentiva l’accesso diretto allo scalo (con check in possibile direttamente a Messina) non riuscì mai a sfondare.

Troppo lungo il tragitto via mare (nell’entusiasmo di quei giorni un consigliere comunale arrivò a invocare l’adozione degli hovercraft per il collegamento super veloce delle due sponde dello Stretto), scomodo e lento il trasbordo sulla navetta dalla stazione. Il servizio rimase in piedi per una manciata di mesi soltanto. Poi, così come era venuta, l’idea di arrivare al Minniti dal mare è naufragata in fretta. E ha lasciato come (costosa) dote, un molo ristrutturato e ormai in disuso e un sottopassaggio inutilizzato prima vandalizzato da una discarica abusiva e poi mestamente chiuso al traffico.
Il Minniti è passato sotto la gestione di Sacal all’indomani del rovinoso fallimento della Sogas, la compartecipata pubblica che gestiva lo scalo andata a gambe per aria nel 2016 con uno strascico di 10 indagati. Ha evitato così una rovinosa chiusura grazie a una gestione provvisoria che gli ha consentito di non perdere le necessarie autorizzazioni. Ma l’aeroporto reggino ha continuato a perdere collegamenti e passeggeri in un’emorragia senza fine aggravata dal baratro Covid e dalle scelte di Sacal che, accusano da Reggio, «spinge Lamezia e lascia al palo Reggio e Crotone».
Sul piatto restano i milioni del rinnovato piano industriale previsti dal gestore per i tre scali calabresi. Una fetta dovrebbe essere destinata a Reggio per l’adeguamento della pista e dell’aerostazione e il rilancio dello scalo: «Vogliamo portare Reggio a un milione di viaggiatori», disse l’allora facente funzioni Spirlì durante una conferenza stampa della scorsa estate.

In attesa del milione di passeggeri, al Minniti, nel mese di ottobre, si sono avventurati poco più di 13 mila utenti che rendono lo scalo reggino ultimo tra i tre aeroporti calabresi per numero di passeggeri. Anche perché, prenotare per la settima di Natale, un andata e ritorno sia da Roma che da Milano (uniche tratte sopravvissute alla desertificazione dei voli) costa al malcapitato viaggiatore poco meno di 400 euro. Circa 200 euro in più delle medesime tratte in vendita, nel medesimo periodo, sullo scalo lametino.

In politica non esistono spazi vuoti. È una regola conosciuta da tutti. E così, da scelte poco coraggiose, da comportamenti ondivaghi, non può che nascere il caos. Con il ritorno in auge anche di chi sembrava ormai finito nell’oblio definitivo sotto il profilo istituzionale. È quanto sta accadendo a Reggio Calabria. La città è nel bel mezzo di una crisi politico-amministrativa, dopo la condanna del sindaco Giuseppe Falcomatà nell’ambito del processo sul cosiddetto “Caso Miramare”. Un anno e quattro mesi per aver di fatto “regalato” a un imprenditore amico una parte di uno dei “gioielli di famiglia” della città. Una sentenza che ha portato all’automatica sospensione del primo cittadino in base alla Legge Severino.
A distanza di una settimana, la città naviga a vista. Falcomatà si è affrettato a spargere nomine qua e là, tagliando fuori, di fatto, il Partito Democratico. Il Comune di Reggio Calabria e la Città Metropolitana sono oggi retti da un nuovo vicesindaco, Paolo Brunetti. Esponente di Italia Viva, nominato in fretta e furia prima che la condanna cadesse sulla testa del giovane sindaco. Inoltre, per la nomina di vicesindaco della Città Metropolitana, Falcomatà ha dato un ulteriore schiaffo al Pd: con la nomina di Carmelo Versace, esponente di Azione, il movimento di Carlo Calenda.
Ma non finisce qui. Con una mossa che per molti è sembrata incredibile, Falcomatà ha rimosso dal ruolo di vicesindaco il professor Tonino Perna. Intellettuale molto conosciuto e stimato in città, era stato chiamato per rianimare l’Amministrazione dopo i primi cinque anni oggettivamente deludenti. Senza nemmeno una telefonata, Falcomatà lo ha degradato ad assessore.

Una scelta che Perna non ha accettato. Non poteva accettarla. E così, ha rassegnato le dimissioni. Non prima, però di aver demolito la figura personale e politica di Falcomatà nel corso di una conferenza stampa. Perna ha parlato di «città allo sbando». Ha ammonito sul concreto rischio, per Reggio Calabria, di perdere cospicui fondi per l’occupazione giovanile, se non si interverrà entro dicembre. «Sarebbe un atto criminale» ha detto. Ha definito Falcomatà «una personalità complessa, da studiare». Dove per molti il «da studiare» significa “da curare”.
La chiarezza non è di casa. Per nessuno dei protagonisti. Falcomatà, infatti, ha preannunciato ricorso contro la sospensione. Di fatto, continua a fare il sindaco, almeno stando a quanto emerge dai social, dove commenta interventi di manutenzione e supervisiona i cantieri. Eppure è ormai acclarata quella che sembra essere una exit strategy per il primo cittadino: la vittoria di un concorso come dipendente amministrativo presso il Comune di Milano. Qualcosa che parrebbe presagire un piano B per il giovane esponente del Pd, ormai ai ferri corti con il suo partito.
Già, il Pd. I retroscena raccontano della furia del responsabile Enti locali dei Democratici, Francesco Boccia, in alcune riunioni dopo la sospensione di Falcomatà. Al Pd, le scelte del sindaco sospeso sono sembrate un appiattimento sulla posizione di Matteo Renzi. Cui Falcomatà, un tempo, era molto legato. In tanti ricordano endorsement e selfie tra i due. Maestri della (eccessiva) comunicazione tramite social. Ma, come spesso accade quando di mezzo c’è il Partito Democratico, la montagna ha partorito un topolino. Perché dalle lunghe riunioni interne, l’ira funesta del Pd si è trasformata in una posizione a dir poco ibrida. I Democratici si limitano a chiedere nuovo slancio all’Amministrazione Falcomatà/Brunetti. Con un rimpasto o, al massimo un azzeramento della Giunta.
Posizione ben diversa rispetto a quanto sostenuto, in passato, tanto dal Pd, quanto da Italia Viva, sostanzialmente. «Ora bisogna andare subito al voto anticipato: lo dobbiamo ai calabresi». Così si esprimeva l’allora segretario regionale del Pd, Ernesto Magorno. Fine marzo 2014. Giuseppe Scopelliti è presidente della Giunta Regionale della Calabria e poche ore prima è stato condannato in primo grado a sei anni nell’ambito del “Caso Fallara”. Sentenza, negli anni, divenuta definitiva e irrevocabile, portando l’ex sindaco del “Modello Reggio” dietro le sbarre.

Magorno chiedeva le dimissioni di Scopelliti: «La notizia di questa sera conferma, anche dal punto di visto etico, la necessità di ridare la parola ai calabresi. La Calabria deve voltare pagina, ritrovare fiducia nella politica e affidarsi ad un’esperienza di rinnovamento e buon governo, che ponga come priorità la questione morale e della lotta alla criminalità». Oggi il Pd tace sulla cosiddetta “questione morale”. È infatti palese che condurre il Comune verso il commissariamento significherebbe correre verso una sonora sconfitta elettorale alla prima occasione utile. Il consenso di Falcomatà e del centrosinistra, infatti, è ai minimi termini. Gode invece Italia Viva. Irrilevante nei numeri, ma ad amministrare il comune di una città metropolitana. E lo stesso Magorno, renziano della prima ora e quindi passato a Italia Viva, è, ovviamente, tra i principali sostenitori dell’Amministrazione Comunale di Reggio Calabria, decapitata.
Un simile scenario non può non aver fatto ringalluzzire chi sembrava (giustamente) destinato all’oblio. Nelle riunioni partitiche e interpartitiche, infatti, è tornato a fare la voce grossa persino l’ex assessore regionale al Lavoro, Nino De Gaetano. Scomparso dai radar dopo essere finito agli arresti domiciliari nell’ambito dell’inchiesta “Erga omnes”, sullo scandalo dei rimborsi elettorali del Consiglio Regionale. Soggetto che il Pd aveva, per un periodo, tenuto ai margini, anche per via di alcune pesanti risultanze investigative della Dda di Reggio Calabria. Nel covo dove verrà catturato il superboss Giovanni Tegano, infatti, saranno ritrovati “santini” di Nino De Gaetano. Indicato come candidato gradito alla potente famiglia di Archi, per il tramite del suocero, oggi defunto.
Ma già nel corso delle ultime consultazioni regionali, De Gaetano era riuscito a infiltrare nuovamente il Partito Democratico piazzando lì il suo fidato Antonio Billari. Consigliere regionale uscente, perché ripescato dopo le dimissioni di Pippo Callipo nel corso della precedente consiliatura. Oggi sogna un nuovo ingresso, qualora Nicola Irto dovesse optare per una candidatura alla Camera dei Deputati, appena possibile.
De Gaetano, quindi, è riaffiorato dalla penombra in cui era sprofondato. E adesso detta la linea. È stato lui stesso a parlare per primo di azzeramento della Giunta comunale. Un messaggio alla città che doveva arrivare dal sindaco sospeso Falcomatà. O dal suo facente funzioni, Brunetti. O, magari, dal Pd, che è il principale partito rappresentato in consiglio comunale.

Non di certo da De Gaetano, che non avrebbe titolo per parlare. Ma la sua compagine politica è determinante nei numeri. E, quindi, passano appena poche ore e il facente funzioni Brunetti, con una nota ufficiale, cede ai desiderata. Annunciando un azzeramento delle deleghe nel giro di pochi giorni.
E, ovviamente, si scatena il toto-nomi. Il Pd, principale azionista dell’amministrazione comunale reggina, si ritrova attualmente con un solo assessore, l’anziano Rocco Albanese, in consiglio comunale da una vita. Ma De Gaetano & co. chiedono spazio. E sono almeno quattro i consiglieri comunali che fanno riferimento all’ex assessore regionale. Uno o forse due, tra questi, potrebbero entrare in Giunta. Mentre il Pd, che vanta il maggior numero di donne, potrebbe puntare ad alcuni ingressi in nome delle “quote rosa”.
A fare spazio potrebbe essere qualche esterno, quindi. Vacilla, allora, la posizione di Rosanna Scopelliti, figlia del giudice Antonino Scopelliti. Anche lei, come Perna, era entrata nel “secondo tempo” dell’Amministrazione Falcomatà per ridare slancio. Ma adesso potrebbe ricevere un “arrivederci e grazie”.
In tutto ciò, sul podio delle posizioni imbarazzanti, non può che salire anche la (non) posizione del centrodestra. Che, almeno sulla carta, dovrebbe effettuare una serrata opposizione alla maggioranza di centrosinistra. E, invece, nell’arco di una settimana, non è riuscito a mettere in piedi una posizione pubblica che fosse una. Solo nelle ultime ore, una nota firmata, tra gli altri, dal deputato di Forza Italia, Francesco Cannizzaro e dalla sua omologa di Fratelli d’Italia, Wanda Ferro. I due hanno chiesto una posizione netta al Governo sul caso Reggio Calabria. Attribuendo anche al sottosegretario Nicola Molteni frasi che lascerebbero presagire la possibilità di decisioni gravi sul Comune di Reggio Calabria. Ma, al momento, tutto sembra un bluff. Anche per celare l’imbarazzante comportamento dell’opposizione nella lunga settimana post sentenza sul “Caso Miramare”.

Nelle ore successive alla condanna di Falcomatà trapelava l’idea di dimissioni di massa. Ma, alla conta, non più della metà dei consiglieri di minoranza avrebbe effettivamente lasciato il proprio posto. Tra i fondoschiena maggiormente incollati alla poltrona, quello del (presunto) capo dell’opposizione. Quell’Antonino Minicuci che, per il voto del settembre 2020, era stato scelto addirittura da Matteo Salvini. Perderà nettamente contro Falcomatà, ma dopo averlo costretto al ballottaggio. A distanza di un oltre un anno, di Minicuci si ricordano solo alcune tragicomiche uscite in Consiglio Comunale. Tra frasi dialettali e parolacce.
Ma l’impressione è che, se si tornasse al voto, persino lui potrebbe vincere contro un centrosinistra così ridotto ai minimi termini.

Come un sovrano che prova a salvare il salvabile con il nemico alle porte. A nascondere, magari bruciare, i documenti sconvenienti. Nelle ore antecedenti e successive alla condanna per il “caso Miramare”, Giuseppe Falcomatà ha fatto un po’ così. Il nemico non era alle porte. Ma il tempo stringeva comunque.
Alle 20.22 di ieri sera, sostanzialmente cinque ore dopo la sentenza pronunciata dal Tribunale, il prefetto di Reggio Calabria, Massimo Mariani, ha infatti comunicato la sospensione dalla carica del sindaco di Reggio Calabria. Poco dopo le 15, il Collegio presieduto da Fabio Lauria lo aveva condannato a un anno e quattro mesi per abuso d’ufficio. Punito per l’assegnazione diretta, senza un bando di evidenza pubblica, dell’ex albergo Miramare all’imprenditore Paolo Zagarella. Suo amico di vecchia data.
Un provvedimento automatico, in forza della Legge Severino. Falcomatà, che è pure avvocato, già nel commento a caldo della sentenza lo dava per scontato. «L’Amministrazione andrà avanti», aveva però detto al folto numero di giornalisti presenti presso l’aula bunker di Reggio Calabria.
Per questo si è adoperato parecchio. Circa un paio d’ore prima rispetto alla sospensione, Falcomatà, che, come è noto, è anche sindaco della Città Metropolitana, ha proceduto, da condannato in primo grado, alla nomina del nuovo vicesindaco metropolitano, Carmelo Versace. A essere colpito dalla sentenza (e, quindi, dalla Legge Severino) è infatti anche il fido avvocato Armando Neri, che, fino alla condanna, ha ricoperto il ruolo di vicesindaco metropolitano.
Ma le nomine per Falcomatà erano un pensiero già da tempo. Poco dopo le 14 (quindi sostanzialmente un’ora prima rispetto alla condanna) Falcomatà aveva già nominato il nuovo vicesindaco. Defenestrato in parte il professor Tonino Perna. Chiamato in pompa magna alcuni mesi prima, per dar lustro alla Giunta Comunale. Vicesindaco da esterno. Lui che aveva ricoperto ruoli importanti. Assessore con Renato Accorinti a Messina. Presidente del Parco Nazionale d’Aspromonte. Ma, soprattutto, intellettuale riconosciuto e apprezzato in città.
Parzialmente defenestrato perché Perna resta in Giunta. Con qualche delega minore. Al suo posto, Paolo Brunetti. Maresciallo della Guardia di Finanza. Una nomina che fa discutere. Perché Brunetti, negli anni, è stato assessore alla Depurazione e, oggi, all’Ambiente e al Ciclo Integrato dei Rifiuti. Che, in una città che patisce una cronica carenza idrica e che, in alcune sue zone, è letteralmente sommersa dall’immondizia, non è di certo un buon biglietto da visita.
E, sicuramente, non un motivo per una “promozione”.
Ma, soprattutto, Paolo Brunetti non è un esponente del Partito Democratico, il partito di Giuseppe Falcomatà. Brunetti, infatti, da qualche mese ha aderito a Italia Viva. Tra i pochi a scegliere il partito di Matteo Renzi. Che in altre province – non ultima quella cosentina, del renziano per eccellenza, Ernesto Magorno – ha cifre di iscritti poco lusinghiere.
Cosa si cela dietro questa scelta? Di certo Perna, per la sua storia di antagonismo, non poteva essere definito uno “yes man”. Non dava quindi sufficienti garanzie sulla linea da seguire in questi mesi. Perché, allora, accettare questa manovra al ribasso? Peraltro, Falcomatà era un po’ a corto di fedelissimi in Giunta. Non solo Neri, ma anche Giovanni Muraca è stato condannato nel processo “Miramare”. Proprio quel Giovanni Muraca candidato del sindaco alle ultime consultazioni regionali.
Brunetti non ha un profilo nemmeno paragonabile a quello di Perna. Ma, di certo, offre più garanzie sulla linea da seguire. Ma non è un esponente del Pd. E, con Italia Viva che, a livello nazionale, sembra sempre più appiattita sulle posizioni del centrodestra, questo potrebbe non essere troppo gradito.
Gioco di equilibri
Insieme a Nicola Irto, Giuseppe Falcomatà è sicuramente uno dei giovani politici emergenti del Partito Democratico. Che, come ha dimostrato la scelta non troppo convincente di Amalia Bruni come candidata alla presidenza della Regione, ha diversi problemi nel ricambio generazionale. Nonostante gli anni da sindaco di Reggio Calabria non siano stati particolarmente esaltanti, Falcomatà rimaneva comunque uno dei giovani esponenti democratici più apprezzati.
La condanna, seppur di primo grado, segna ora una prima, vera, brusca frenata nella carriera politica di Falcomatà. Ma la scelta di non designare come sindaco facente funzioni un esponente del Pd, magari un esterno, potrebbe nascondere qualcosa di molto interessante sotto il profilo politico.
Innanzitutto, dice qualcosa sui rapporti che il sindaco (sospeso) di Reggio Calabria potrebbe avere con il proprio partito. Nelle ore successive alla condanna, infatti, Falcomatà ha incassato la solidarietà dell’Anci. Persino del sindaco di Catanzaro, Sergio Abramo, già Forza Italia e oggi Coraggio Italia. Ma nessun leader del Pd è intervenuto.
Ma, ancor più interessante, forse, sarebbe la necessità di tenere compatta la maggioranza. Che, con un Comune decapitato, si sarebbe potuta anche sfaldare. E questo Falcomatà non lo vuole. E proprio nell’ultima settimana, la maggioranza consiliare aveva mostrato qualche preoccupante scricchiolio. In Commissione, alcune mozioni presentate dai consiglieri di maggioranza non erano passate, anche a causa del “fuoco amico” di altri colleghi di partito e di coalizione. Che, uscendo dall’aula, avevano fatto mancare il numero legale.
Insomma, l’obiettivo è chiaro: evitare una escalation pericolosa.
Sì, perché Falcomatà sogna già il ritorno. Innanzitutto per il ricorso pendente davanti alla Corte Costituzionale sulla Legge Severino. E poi per la possibilità di impugnare (con successo) il provvedimento di sospensione. In passato, infatti, da Luigi De Magistris a Vincenzo De Luca, tanti sono stati i politici che hanno vinto la battaglia amministrativa. Ironia della sorte, gli unici a non impugnare la sospensione, nella storia, sono stati Silvio Berlusconi e Giuseppe Scopelliti.
Falcomatà, quindi, potrebbe tornare in sella molto presto qualora decidesse di opporsi alla Legge Severino. Per questo serviva mantenere la maggioranza compatta. Lo scioglimento del consiglio comunale avrebbe portato a un commissariamento che, con i soldi del PNRR in arrivo, sarebbe stato esiziale sotto il profilo politico.
Ancor di più pensando che, appena un anno fa, Falcomatà è riuscito a essere riconfermato sindaco solo al ballottaggio. Sebbene il centrodestra esprimesse un candidato della Lega oggettivamente poco gradito alla cittadinanza. Un ritorno al voto, quindi, potrebbe avere esiti molto incerti.
Ma, al momento, nonostante alcune uscite nazionali (su tutte, quella di Matteo Salvini) l’ipotesi non sembra essere contemplata. Di certo, Giuseppe Falcomatà non si aspettava un percorso del genere. Lui, figlio di Italo Falcomatà, sindaco della Primavera Reggina. Lui che era stato eletto sindaco dopo gli anni del “Modello Reggio”. E dopo la vergogna nazionale dello scioglimento per contiguità con la ‘ndrangheta.
Lui che doveva risollevare Reggio Calabria. E che è stato travolto, come tanti, dall’onda della giustizia.

Un anno e quattro mesi per il sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà. Un anno per l’ex segretario generale e per assessori ed ex assessori. Tutti condannati per abuso d’ufficio, ma assolti dal reato di falso. Per tutti la pena è stata sospesa.
Questa la decisione, dopo diverse ore di camera di consiglio, del Tribunale di Reggio Calabria. Il Collegio presieduto da Fabio Lauria ha letto il dispositivo di sentenza intorno alle 15.15.
Si conclude così il processo di primo grado sul cosiddetto “Caso Miramare”. Celebrato per far luce sull’assegnazione, con affidamento diretto, che la Giunta Comunale di Reggio Calabria fece alla semisconosciuta associazione “Il Sottoscala”, dell’imprenditore Paolo Zagarella. Un’assegnazione che suscitò grande polemica politica e sociale in città. Perché Zagarella era unanimemente riconosciuto come un amico di vecchia data del sindaco.
Secondo l’accusa, tale «regalo» sarebbe stato effettuato in virtù del rapporto di amicizia tra Falcomatà e il noto imprenditore reggino. Questi era ritenuto il dominus della compagine associativa. Nel corso del suo esame in aula, Falcomatà ha definito Zagarella solo «un buon conoscente». Ma sarebbe notorio, a Reggio Calabria, il rapporto datato tra i due. E consolidato attraverso diverse serate danzanti nelle discoteche più esclusive e alla moda della città.
Da qui, dunque, l’assegnazione diretta. Senza un bando di evidenza pubblica. «Il sindaco Falcomatà non solo non si è astenuto, ma è stato il vero regista dell’operazione» aveva detto l’accusa nel corso della propria requisitoria. I pubblici ministeri Walter Ignazitto e Nicola De Caria avevano chiesto un anno e dieci mesi di reclusione per il sindaco di Reggio Calabria. Al termine della propria requisitoria, i rappresentanti dell’accusa ritenevano il primo cittadino responsabile dei reati contestati.
Per tutti gli altri, la Procura aveva chiesto un anno e otto mesi di reclusione ciascuno. Oltre a Falcomatà e a Zagarella erano imputati anche l’ex segretario generale del Comune, Giovanna Acquaviva, l’ex dirigente Maria Luisa Spanò, l’assessore in carica ai Lavori Pubblici e candidato al Consiglio regionale, Giovanni Muraca, e gli ex assessori Saverio Anghelone, Armando Neri, Patrizia Nardi, Giuseppe Marino, Antonino Zimbalatti e Agata Quattrone. Tutti puniti con un anno di reclusione ciascuno e la sospensione della pena.
La requisitoria della Procura, il 22 ottobre scorso. In questo mese, le arringhe difensive hanno provato in tutti i modi a smontare il costrutto accusatorio. Sostenendo come non vi fosse dolo nella condotta degli imputati. Né alcun illecito profitto per Zagarella. Dato che uno dei punti su cui ha sempre puntato la difesa era il fatto che per il Comune di Reggio Calabria quella delibera (poi ritirata) non avrebbe portato alcun esborso per l’Ente.

L’affidamento della gestione della struttura di pregio, notissima in città, sarebbe avvenuto in maniera diretta a Zagarella. Questi, infatti, è uno storico amico del sindaco Falcomatà. E gli avrebbe anche concesso, in forma gratuita, i locali che avevano ospitato la segreteria politica nella campagna elettorale. La prima, quella che porterà l’attuale primo cittadino alla schiacciante vittoria sul centrodestra nella corsa verso Palazzo San Giorgio
«Con Zagarella, Falcomatà aveva un debito di riconoscenza» hanno detto i pm Ignazitto e De Caria. Per questo, quindi, il “Miramare” sarebbe stato affidato all’associazione “Il Sottoscala” dietro cui si celava (seppur senza cariche formali) Zagarella. Questi, esperto di feste e serate danzanti, avrebbe dovuto realizzare eventi e, quindi, intascare soldi, nell’immobile di pregio comunale.
Una delibera, quella del 16 luglio 2015, che sarebbe stata approvata a maggioranza con l’assenza dell’allora assessore, Mattia Neto. Che infatti non verrà coinvolta nell’inchiesta della Procura di Reggio Calabria. Ma secondo alcune testimonianze raccolte nel corso del dibattimento, l’associazione “Il Sottoscala” avrebbe avuto la disponibilità dell’immobile di pregio anche prima della votazione della delibera. Tra le persone escusse, che sosterranno tale versione, anche l’allora sovrintendente per i Beni archeologici della Regione Calabria, Margherita Eichberg. Impegnata con una sua collaboratrice nel sopralluogo di un immobile limitrofo al “Miramare” avrebbe sorpreso Zagarella e alcuni operai intenti a fare dei lavori all’interno della struttura.

La Procura aveva ritenuto di sostenere la penale responsabilità di tutti gli imputati, solo con un minimo distinguo di pena. Ma, certamente, un ruolo maggiore – morale e materiale – era riconosciuto ai due fedelissimi di Falcomatà, l’assessore Armando Neri e l’assessore Giovanni Muraca. Quest’ultimo, nell’impostazione accusatoria, sarebbe stato colui il quale avrebbe, di fatto, consegnato a Zagarella le chiavi per avere la disponibilità del “Miramare”. Forse anche in tempi antecedenti alla delibera stessa, come dichiarato proprio da Eichberg e dalle sue collaboratrici.
La condannata
Unica a scegliere il rito abbreviato, l’allora assessore comunale ai Lavori Pubblici, Angela Marcianò. È già stata condannata, in primo grado, a un anno di reclusione. Già collaboratrice del procuratore Nicola Gratteri, Marcianò, dopo l’esplosione del caso (politico e giudiziario) diventerà la grande accusatrice di Falcomatà. Marcianò ha sempre dichiarato di essersi schierata contro l’assegnazione del “Miramare” a Zagarella.

Ma dagli atti dell’indagine (tra cui diverse chat WhatsApp), emergerebbe in realtà solo un tardivo tentativo di intervenire per la modifica dell’atto. Accusa ancor più grave, quella mossa dalla Marcianò, è quella di risultare presente (e, quindi, con voto favorevole alla delibera) nel verbale della riunione di Giunta. Quando, invece, a suo dire, l’avrebbe abbandonata in aperta polemica con il provvedimento che si voleva adottare.
Alle elezioni del settembre 2020, si candiderà anche a sindaco, in piena contrapposizione con il giovane primo cittadino del Partito Democratico. Otterrà un buon risultato, classificandosi terza tra i candidati. Ma al momento dell’insediamento in Consiglio Comunale subirà il provvedimento di sospensione spiccato dal prefetto, proprio a causa della condanna nel “caso Miramare”.
Stessa sorte, adesso, potrebbe avvenire per Giuseppe Falcomatà è considerato uno degli esponenti più emergenti del Pd calabrese. Avrebbe così una brusca frenata l’epopea politica del figlio d’arte reggino. Figlio, infatti, del sindaco della “Primavera Reggina”, Giuseppe Falcomatà diventerà primo cittadino dopo gli anni del “Modello Reggio” di Giuseppe Scopelliti e lo scioglimento per contiguità con la ‘ndrangheta del Consiglio comunale.
Ora, però, anche Falcomatà cade sotto i colpi di un’inchiesta giudiziaria. Con conseguenze politiche tutte da vedere. Il primo cittadino, infatti, sarà colpito dal provvedimento di sospensione del prefetto. Così come gli assessori in carica. Poi, si capirà se tutti decideranno di impugnare la decisione.

Il cammino dell’eremita francese Frédéric Vermorel si ferma non lontano dall’ansa del fiume Allaro, a Caulonia, nel cuore della Locride. Ha scelto la solitudine di Sant’Ilarione, lasciandosi a valle la Statale 106 Jonica.
Gli eremiti se ne stanno in disparte; un’esperienza spirituale e religiosa non per forza cristiana. Anche se per noi calabresi il più famoso resta San Francesco di Paola.
Le piogge hanno rovinato le strade, rendendo ancora più difficoltoso il tratto che si insinua nell’entroterra. Frederic non sta con le mani in mano. Controlla lo stato della fiumara. Scorre a pochi metri dalla sua dimora.
«Nel 1979 ho incontrato in Francia Gianni Novello, il riferimento della comunità Santa Maria delle Grazie di Rossano calabro. Sapeva che sarei andato in Sicilia e mi ha invitato a visitare la comunità. L’accoglienza che la Calabria, in particolare la comunità Rossano, mi aveva riservato ha segnato profondamente il mio spirito, sentivo di non poter ripagare il debito, dovevo molto a questa umanità. Il primo modo di sdebitarmi fu di mettere a disposizione l’altro materasso che c’era in casa mia a Parigi a chiunque passasse e decisi di non chiudere più la porta di casa, l’ho lasciata sempre aperta ed è ancora così. Sono tornato molte volte qui nel sud perché l’ho sempre percepito come un luogo metafisico e non solo un luogo geografico. Alla fine ho deciso di vivere a Rossano dove sono rimasto dodici anni».
«Quello che mi piaceva molto della comunità era la capacità di coniugare il territorio con l’universale. C’era un motto che andava per la maggiore negli anni ’70: “pensare globalmente e agire localmente” e Santa Maria delle Grazie lo ha vissuto in modo incisivo. Avevamo le antenne aperte sul mondo intero, ricevevamo visite da don Tonino Bello, Helder Camara, Arturo Paoli e Carlo Carretto. Venivano da tutto il mondo a visitare la comunità perché organizzavamo molti convegni religiosi e avevamo il teatro degli oppressi. Alcuni di noi lavoravano come insegnanti o in ospedale, io facevo parte di una cooperativa che si occupava di disagio sociale, vivevamo con intensità anche le relazioni di vicinato».

«Il nostro monachesimo era ripensato in chiave contemporanea. Appoggiavamo apertamente i movimenti di liberazione in America latina e questo ci attirò molte critiche. Eravamo facilmente etichettati come quinta colonna dell’internazionale comunista. Ma le nostre erano opinioni frutto di una riflessione sincera e anche chi nel clero non era sulle nostre posizioni col tempo ha imparato ad apprezzare il nostro percorso. Nel ‘96 ho lasciato la comunità per dissidi interni che mi hanno molto ferito».
Lasciando la Calabria ti sei trovato meglio?
«In Brasile il dolore dei poveri mi è entrato nelle vene e non mi è più uscito. Ho ritrovato fiducia in me stesso, decidendo di tornare ad un’esperienza che avevo fatto durante il servizio civile, quella dell’Arche di Jean Vanier. Quelli che hanno un handicap mentale hanno un rapporto più immediato con le persone e con le cose. Sono guaritori feriti, come Gesù ti aiutano a guardare le tue ferite e non lasciarti prendere dal panico».
«Ho avuto modo di instaurare un bel rapporto con Jean Vanier. Mi ha aiutato a rimettermi in piedi senza nessuna relazione di dipendenza, gli sono molto grato e per me è stato uno choc pesante scoprire degli scandali che lo hanno riguardato (Gli abusi sessuali del fondatore dell’Arca, Jean Vanier – Il Post). Fu proprio lui a ripropormi di riprendere gli studi teologici che avevo abbandonato, così mi ritrovai a Bruxelles a studiare dai Gesuiti, anche se sentivo che la mia vocazione era ancora quella della comunità di Santa Maria delle Grazie».
«Gli studi mi hanno permesso di sistematizzare una cultura che possedevo già, che dovetti confrontare con posizioni da me distanti. Nel contempo avevo avviato una missione che coinvolgeva i funzionari della comunità europea e per guadagnare qualche soldo insegnavo anche nelle scuole della buona borghesia della città, ma nel frattempo sognavo di confrontarmi con i giovani della Sila greca o con bambini del Goias in Brasile, mondi diversi ma tutti belli».
«Fu nel monastero di Marango che ricevetti per la prima volta il suggerimento di tornare in Calabria, di confrontarmi con Giancarlo Maria Bregantini (allora vescovo di Locri) e sembrava quasi un sogno, a quarantacinque anni mi rimettevo in gioco senza sapere nulla di cosa mi potesse aspettare. La sintonia con il vescovo mi ha permesso di individuare questo luogo di cui mi sono innamorato a prima vista. L’eremo ha forgiato il mio stile di vita monastico. Un’altra Calabria rispetto a quella lasciata a Rossano, dalla lingua alla cultura».

«Qui apprezzo il tempo di solitudine che bilancio a tempi di accoglienza. La porta è sempre aperta come a Parigi. Nelle ultime feste di Natale eravamo qui provenienti da cinque Paesi diversi, con quattro religioni diverse più una ragazza non credente. Alterno tempi di preghiera con quelli della comunicazione col mondo, invio periodicamente una mail agli amici in cui unisco una riflessione di fede con quella sociopolitica».

«La mia amarezza per questa terra viene solo dalla classe dirigente, il deficit non è non solo o propriamente etico, ma questa classe dirigente è incapace di sognare, il territorio calabrese potrebbe vivere dodici mesi l’anno di turismo e invece ci si accontenta di due mesi fatti male, la Statale 106 è rimasta interrotta per cinque anni a causa del ponte rovinato sull’Allaro».
Tommaso Scicchitano