Tag: reggio calabria

  • Gli assassini del podere accanto

    Gli assassini del podere accanto

    Morire per un filare di olivi in più, per un pascolo conteso, per il confine di un podere spostato di una manciata di metri: non ci sono solo gli interessi del narcotraffico e del “controllo” del territorio a insanguinare le strade del reggino, anzi. Da tempo, con la sostanziale “pace” armata siglata dalle cosche del crimine organizzato che nel reggino, dopo l’esaurirsi degli ultimi rinculi delle guerre di ‘ndrangheta, hanno ridotto drasticamente l’abitudine di spararsi tra loro, le pagine di cronaca del territorio si sono colorate del nero degli omicidi tra familiari, vicini di casa o di terreno.

    «Qualche assassinio senza pretese» – cantava De André – maturato in un mondo antico, legato alla terra, agli animali, a quella “roba” verghiana che continua a dividere le famiglie e a provocare lutti. Un mondo che sembra non tenere conto del tempo che passa. E che riporta indietro agli scenari delle pagine di Saverio Strati e Corrado Alvaro, quando la legna di una quercia da abbattere o un vitello da portare al pascolo rappresentavano praticamente l’unica ancora di salvataggio per un futuro sempre incerto.

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    Lo scrittore di San Luca, Corrado Alvaro

    L’erba del vicino

    I tempi sono cambiati, ma per i fatti legati alla terra si muore ancora, e non solo per volere della ‘ndrangheta. Ultimo, in ordine di tempo, l’omicidio di Leo Romeo, morto per un colpo di fucile che lo ha colpito al collo in seguito ad una rissa con un suo cugino, Rosario Foti: una rissa, ha confessato il presunto autore dell’omicidio agli inquirenti, maturata sullo sfruttamento di un pascolo conteso tra le due famiglie. Teatro della vicenda, la piccola Gallicianò, gioiello semi-deserto della valle dell’Amendolea: è alla periferia del piccolo borgo che ricade nel comune di Condofuri che i dissidi tra i due parenti, storia di una paio di settimana fa, sono naufragati nell’omicidio.

    Da quanto emerso – il gip ha confermato il fermo del presunto assassino nei giorni scorsi – la lite tra i due andava avanti da tempo. Si era incancrenita a causa dello sfruttamento di un pascolo al confine tra le due proprietà. Pascolo che la vittima avrebbe utilizzato senza autorizzazione. Un omicidio maturato fuori dai contesti del crimine organizzato, anche se la vittima, un pastore di 42 anni, era stato in passato coinvolto, e infine assolto, in un’indagine della distrettuale antimafia che lo bollava come appartenente alla locale di Condofuri. Resta il mistero sull’arma, un fucile: l’omicida reo confesso ha raccontato agli inquirenti di averlo preso alla sua vittima e di averlo abbandonato accanto al corpo dopo la lite. Nessuno però lo ha mai ritrovato.

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    La valle dell’Amendolea

    «Poso il fucile e ti aiuto»

    Per una disputa sulla raccolta delle olive sarebbero invece morti Giuseppe Cotroneo e Francesca Musolino, marito e moglie di mezza età, dipendenti dell’Asp di Reggio, giustiziati nella campagne di Calanna, alle porte della città, da un loro parente, Francesco Barillà. I carabinieri lo hanno arrestato dopo un mese di indagini serrate.

    Secondo la ricostruzione degli inquirenti Barillà, anziano cugino delle vittime e loro vicino di casa, avrebbe discusso violentemente con la coppia – intenta a raccogliere le olive in un terreno di una terza persona, adiacente al podere del presunto omicida – prima di fare fuoco con il suo fucile da caccia registrato legalmente.

    Un duplice omicidio assurdo, commesso da un anziano incensurato che, per una manciata di olive, avrebbe aperto il fuoco sui suoi stessi parenti. Un blitz eseguito approfittando della momentanea assenza del figlio delle due vittime. Quella mattina era al lavoro con loro e si era allontanato per sistemare in auto parte delle cassette raccolte. E fu proprio al presunto omicida che il ragazzo, ironia della sorte, chiese aiuto quando si accorse della strage: un appello a cui Barillà rispose con un surreale «poso il fucile e torno».

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    Africo vecchio

    L’omicidio per qualche albero in più

    Un confine territoriale conteso sarebbe invece la causa dell’omicidio di Salvatore Pangallo, il giovane agricoltore ammazzato a colpi di fucile nella sua casa tra le campagne di Africo. Ad aprire il fuoco sarebbero stati Santoro e Pietro Favasulli, padre e figlio costituitisi ai carabinieri di Bianco dopo una caccia serrata durata tre giorni e, anche in questo caso, parenti del ragazzo ucciso. In quell’occasione, rimase gravemente ferito anche il padre di Pangallo, che durante lo scontro aveva provato a fare scudo al figlio con il suo corpo. Un epilogo tremendo per una lite che sembra andasse avanti da anni a causa di una linea di confine spostata di pochi metri. Una furia omicida che, secondo le ricostruzioni degli investigatori, sarebbe stata organizzata in anticipo dai due presunti omicidi che, dal loro parente a discutere di quel terreno, ci sarebbero andati armati di un fucile mai ritrovato dalle forze dell’ordine.

  • Mimmo Lucano al contrattacco: 140 pagine per ribaltare la condanna

    Mimmo Lucano al contrattacco: 140 pagine per ribaltare la condanna

    Una ricostruzione della realtà «macroscopicamente deforme rispetto a quanto emerso in udienza», un atteggiamento «aspro, polemico, al limite dell’insulto» e la preoccupazione di trovare Mimmo Lucano colpevole «ad ogni costo». Hanno ritmi sferzanti le argomentazioni utilizzate da Giuliano Pisapia e Andrea Daqua nelle quasi 140 pagine di richiesta d’appello alla sentenza con cui, in primo grado, il Tribunale di Locri ha “sepolto” l’ex sindaco di Riace, condannato nel settembre scorso a 13 anni e due mesi di reclusione.

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    La lettura della sentenza di condanna per Mimmo Lucano

    Una puntigliosa ricostruzione del lungo processo a carico di Mimmo “il curdo” Lucano, che prova a smontare, pezzo per pezzo, le monumentali motivazioni (oltre 900 pagine) con cui i giudici locresi hanno messo la parola fine a quel progetto di accoglienza integrata che aveva portato il piccolo paese jonico all’attenzione dei media internazionali. Nel fascicolo presentato in Appello, i legali di Lucano ribadiscono quanto espresso in udienza, sottolineando la totale estraneità del loro assistito alle accuse che lo hanno visto condannato per i reati di associazione a delinquere, falso in atto pubblico, peculato, abuso d’ufficio e truffa: 21 i reati in totale, contenuti in 10 capi d’accusa dei sedici originari.

    Pezzo per pezzo

    Sono tanti e dettagliati i punti che non tornerebbero nella sentenza di primo grado e che gli avvocati difensori sottolineano per sostenere l’innocenza di Mimmo Lucano. Punti che bollano la sentenza emessa dal giudice Fulvio Accurso come «in toto censurabile» e dalla cui lettura «matura la netta convinzione» che il giudicante «sia incorso in un palese errore prospettico che ha condizionato pesantemente il giudizio, restituendo una ricostruzione della realtà macroscopicamente deforme rispetto a quanto emerso in udienza».

    Incongruenze e errori che secondo Pisapia e Daqua avrebbero riguardato tutte (o quasi) le determinazioni della sentenza: dalle intercettazioni «utilizzate oltremodo» con un’interpretazione «macroscopicamente difforme dal suo autentico significato», al cambio in corsa del capo di imputazione da abuso d’ufficio a truffa aggravata, fino all’ipotesi di associazione a delinquere dove la sentenza «appare raggiungere il massimo livello di creatività». E poi le spinte all’accoglienza dell’ex sindaco che sarebbero state dettate dalla voglia di arricchirsi e dalla necessità di mantenere gli equilibri per continuare a guidare Riace da primo cittadino: tutte, mettono nero su bianco gli avvocati difensori «letture forzate, se non surreali, dei risultati intercettivi».

    Mimmo Lucano, un caso politico

    Travolto da una copertura mediatica imponente, il processo a Mimmo Lucano si è soffermato a lungo sul ruolo politico rivestito dall’ex sindaco. Dichiaratamente disobbediente e legato agli ambienti della sinistra radicale, Lucano ha riproposto attraverso il modello Riace un’idea diversa dell’accoglienza, nella stessa terra in cui gli slums di Rosarno e San Ferdinando riempiono le pagine della cronaca. Ed è proprio analizzando il ruolo politico di Lucano – e il conseguente utilizzo dei migranti per ottenere la rielezione, come ipotizzato dal Tribunale – che gli avvocati affondano il colpo.

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    Giuliano Pisapia

    Pisapia e Daqua sottolineano «le malevoli interpretazioni, le contraddizioni, il rovesciamento di senso, le enfatiche distorsioni» di un giudizio «preoccupato, più che a valutare gli elementi probatori forniti dall’istruttoria dibattimentale, a “dipingere” e “romanzare” la figura di Lucano. Dov’è lo scambio politico? – si chiedono gli avvocati nell’istanza di appello – Dove sono i voti di riscontro all’atteggiamento omissivo che Lucano avrebbe tenuto? Dov’è quella tanto ricercata (ma inesistente) ricchezza, quel vantaggio economico acquisito dal Lucano attraverso lo sfruttamento del sistema integrazione?».

    Ricostruzioni fantasiose

    Una sentenza pesantissima quella emessa dal Tribunale di Locri che ha, di fatto, raddoppiato la pena avanzata dalla Procura che in sede di requisitoria aveva chiesto la condanna a sette anni. Una sentenza che, scrivono ancora i difensori di Lucano si baserebbe su «ricostruzioni apodittiche e fantasiose» e che si rivolge all’imputato Lucano con «espressioni caratterizzate da una aggettivazione aspra, polemica, al limite dell’insulto», descrivendolo «coma una figura avida, infida, arrogante, una controparte da perseguire più che una persona da sottoporre a giudizio»

  • Sergio Pugliesi, la rivoluzione della liuteria si fa a Scilla

    Sergio Pugliesi, la rivoluzione della liuteria si fa a Scilla

    Uscire dal recinto obbligato delle tarantelle classiche. Allontanarsi dalle atmosfere ipnotiche della tradizione popolare calabrese. Sposare ritmi e melodie che non si vergognano ad abbracciare il jazz e il pop e virano su rotte che guardano senza timore al passato remoto (e a quello più prossimo) restando con i piedi nel presente. Un presente fatto di un nuovo interesse per uno degli strumenti principe della tradizione popolare: la chitarra battente. È il percorso di tradizione “in movimento” che è diventato il marchio di fabbrica di Sergio Pugliesi. Artista del legno per vocazione familiare e liutaio quasi per caso, con le sue Oliver si è ritagliato negli anni la fiducia di tanti musicisti in giro per il mondo.

    Autodidatta

    Il Dams nella Cosenza degli anni ’90, gli studi e le ricerche sugli strumenti della tradizione, il laboratorio di falegnameria che era stato di suo padre e di suo nonno prima di lui: gli elementi c’erano tutti. Il detonatore lo fa la passione per la musica. L’innesco, la voglia di costruirsi, da autodidatta, un basso elettrico. «Sì, ma alla fine il risultato non fu eccelso. Avevo già fatto delle cose con il legno – racconta Puglisi appoggiato al banco da lavoro del piccolo laboratorio sul lungomare di Scilla, a due passi dallo Stretto – se vieni da una famiglia come la mia, dove tutti avevano in qualche modo a che fare con il legno, è inevitabile. Ma non avevo nessuna esperienza e non suonava bene».

    Da quel primo tentativo – che ricorda da vicino il modello suonato da Les Claypool dei Primus e che ora osserva dall’alto del soffitto la creazione dei nuovi strumenti – molte cose sono cambiate. Le prime riparazioni agli strumenti dei musicisti locali, le prime creazioni originali sul solco della tradizione, l’intuizione di trasformare passione e talento in un lavoro vero e proprio.

    Animo rock

    L’approccio di Sergio Pugliesi al mondo della tradizione popolare è quindi influenzato dalla contemporaneità – «ai tempi dell’università con un mio professore avevamo fondato il nucleo combattente contro la tarantella», racconta sorridendo – che consente all’artigiano di sforare i dogmi dei «talebani della tradizione» ritagliando alla chitarra battente, strumento divenuto ormai cavallo di battaglia della sua produzione, un nuovo ruolo nel panorama musicale contemporaneo, per uno strumento camaleontico, capace di sposare la musica colta da cui nasce, e quella popolare da cui è stato adottato.

    Un pezzo alla volta

    L’ebano o il palissandro per la tastiera, il mogano per il manico e la sequoia centenaria e il tiglio per la cassa armonica. E poi il pero, il gelso e l’ulivo, in una ricerca continua di materiali e tecniche che seguono la tradizione anche nell’utilizzo delle ricchezze del territorio. Ma anche la fibra di carbonio come rinforzo al manico, e l’acciaio inox per i tasti. E ancora colle e solventi di origine naturale. Tutti elementi essenziali che entrano nel processo creativo di Sergio Pugliesi che realizza a mano ogni suo lavoro.

    Un percorso solitario e che va incontro alle esigenze di chi si è messo in fila per ottenere una battente Oliver. «Istruire un aiutante sospenderebbe di fatto la produzione. Questo è un lavoro di estrema precisione, non ho davvero tempo per insegnarlo a qualcuno. Forse un giorno, se qualcuno dei miei figli dimostrerà interesse…».

    Lunghe attese per le chitarre Oliver

    Ci vogliono infatti diversi mesi di lavoro per realizzare ogni pezzo e la lista d’attesa per ordinare l’agognato strumento può arrivare anche a sfiorare un anno. I prezzi variano da strumento a strumento – oltre alle chitarre, il laboratorio sforna anche lire calabresi e altri strumenti della tradizione che si affiancano a chitarre e bassi elettrici.

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    Sergio Pugliesi e il basso rivestito di peluche realizzato per sua figlia (foto Vincenzo Imperitura)- I Calabresi

    «Quello nero ricoperto con il peluche l’ho fatto per mia figlia che sta imparando a suonare». Per una battente si arriva a pagare anche 2.500 euro, un prezzo che non ha scoraggiato decine di musicisti in giro per il pianeta. Che si sono messi in fila, in questo piccolo laboratorio affacciato sul mare, per poter utilizzare l’arte di questo artigiano calabrese: la battente sul tavolo da lavoro aspetta gli ultimi ritocchi prima di approdare in Cile.

    I sogni nella capsula del tempo

    All’orizzonte, frontiere ancora più sfacciate rispetto all’intoccabile mondo della tradizione calabrese. «Sto pensando a una battente elettrica, ma non mi invento niente, Pino Daniele la usava già negli anni ‘80». E, soprattutto, l’idea di fissare nel tempo la “paternità” degli artisti che suoneranno le battenti di Scilla in giro per il mondo. «Il processo di creazione di ogni battente si alimenta del confronto continuo con il musicista che l’ha ordinata e che la vuole realizzata secondo le proprie indicazioni».

    Francesco Loccisano, compositore e docente della prima classe di chitarra battente in Italia al Conservatorio Tchaikovsky, con una delle creazioni di Sergio Pugliesi

    «Chiederò a ogni musicista con cui lavorerò di scrivere una lettera che descriva il suo carattere, le sue motivazioni, i suoi sogni e la inserirò all’interno della cassa. Sto già lavorando al tipo di colla migliore da utilizzare per fissarla. Ogni chitarra battente diventerà una piccola capsula del tempo che porterà al suo interno la storia del suo possessore originale». Per uno strumento che nella tradizione popolare è costruito con materiali di fortuna – e che, di norma, non è destinato a durare nel tempo – è un’altra piccola rivoluzione targata Sergio Pugliesi.

  • “Opera” di Tresoldi come la torre di Pisa: l’ironia del web travolge le colonne

    “Opera” di Tresoldi come la torre di Pisa: l’ironia del web travolge le colonne

    Dovevano essere un’attrazione culturale e caratteristica. Qualcosa di “Instagrammabile” anche per chi viene da fuori. Stanno diventando l’emblema della vocazione turistica che fallisce miseramente per Reggio Calabria e il suo hinterland. Sono le colonne che rappresentano “Opera”, dell’artista Edoardo Tresoldi. Oggetto di arrampicata da parte dei topi in estate. E quasi divelte dal vento, nella stagione invernale.

    L’Opera di Tresoldi (ma da 950mila euro)

    Eppure l’installazione artistica, inaugurata due anni fa sul lungomare Italo Falcomatà di Reggio Calabria, era stata presentata in pompa magna. Non senza polemiche, dato che le 46 colonne commissionate dal Comune e incastonate all’interno di un’area verde panoramica a pochi metri dal mare dello Stretto, erano costate ben 950mila euro.

    “Opera è un monumento alla contemplazione attraverso cui il luogo definisce ulteriormente se stesso” si legge sul sito ufficiale dell’artista Tresoldi. Che attraverso la rete metallica e lo studio della trasparenza ha voluto esaltare la bellezza dello Stretto, con il colonnato permanente.

    L’arrampicata dei topi

    Un’idea di marketing territoriale, che per un po’ ha anche funzionato. Proprio tra quelle colonne in fil di ferro, infatti, è girata una parte del videoclip “Kiss me again”, realizzato dal celebre musicista Giovanni Allevi a Reggio Calabria.

    Ma la magia sembra essere svanita ben presto. Quest’estate, infatti, sono diventate virali le immagini che immortalavano un topo arrampicarsi lungo l’installazione artistica. Polemiche social e politiche, per attaccare l’allora Amministrazione comunale del sindaco oggi sospeso Giuseppe Falcomatà sullo stato di degrado del centro cittadino. E sull’incuria con cui viene conservato il patrimonio artistico.

    Le colonne piegate

    Qualcuno ha parlato di “colonna infame” di manzoniana memoria. Le forti raffiche di vento che negli ultimi giorni hanno interessato la città hanno infatti danneggiato l’installazione. Non repentinamente, ma per giorni e, inizialmente, nel disinteresse generale.

    Almeno due delle 46 colonne ideate da Tresoldi, infatti, hanno iniziato ad ondeggiare. Infine, il cedimento strutturale che ha spinto l’Amministrazione Comunale a chiudere tutta l’area interessata per motivi di sicurezza. Quell’area, che doveva essere un fiore all’occhiello panoramico, ora è transennata.

    La posizione ufficiale del Comune

    Attraverso una dichiarazione ufficiale diramata dal sindaco facente funzioni Paolo Brunetti, il Comune di Reggio Calabria precisa di aver comunicato all’artista le criticità emerse sul complesso monumentale. Lo stesso staff tecnico di Tresoldi – sempre a detta dell’amministrazione comunale – avrebbe già visionato le parti danneggiate.

    «È stato inoltre programmato l’avvio dell’intervento di revisione dell’intera struttura e contestuale verifica delle cause che hanno determinato la problematica», dicono ancora da Palazzo San Giorgio.

    L’ironia sul web

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    Lo striscione affisso dal Nuovo Fronte Politico

    Ovviamente, tutto ciò ha causato anche polemiche politiche. Il movimento di destra Nuovo Fronte Politico ha anche affisso uno striscione – “Via col vento” – nei pressi dell’installazione. Eterna disputa tra chi definisce uno spreco i soldi spesi dal Comune per “Opera”. E chi giustifica il danneggiamento, portando ad esempio i danni causati dal vento anche in altre città d’Italia.

    Ma, più interessante, appare l’ironia social, che ha scatenato le pagine satiriche maggiormente seguite. I paragoni con la Torre di Pisa (e non solo) si sono sprecati. A sbizzarrirsi un po’ tutti: da “Lo Statale Jonico” al “Reggino Imbruttito”.
    Insomma, da installazione “instagrammabile” a meme ironico il passo è stato tragicomicamente breve.

     

  • Caos calmo nella gauche reggina: Falcomatà, i social e quel congresso… Irto d’ostacoli

    Caos calmo nella gauche reggina: Falcomatà, i social e quel congresso… Irto d’ostacoli

    Una condanna, ormai di circa tre mesi fa, che non ha sostanzialmente nulla sotto il profilo istituzionale. Un dibattito politico inesistente. L’ombra, tuttora alta, che le ultime elezioni comunali possano essere state viziate da brogli elettorali. Sfiducia dei cittadini crescente, con la conseguenza che persino un consiglio comunale aperto – espressione più alta della partecipazione – vada pressoché deserto, trasformandosi in una farsa. E il Pd che annaspa, nonostante il nuovo corso di Nicola Irto. Con il rischio dei “soliti noti” nei ruoli che contano.

    Tre mesi dopo

    Di tempi bui, Reggio Calabria ne ha vissuti tanti. Dalla guerra di ‘ndrangheta tra gli anni ’80 e ’90, quando a imporre il coprifuoco era la paura delle ‘ndrine e non le restrizioni per il Covid, agli anni del “Modello Reggio”, culminati con lo scioglimento del consiglio comunale per contiguità con la ‘ndrangheta.

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    L’ex presidente della Regione ed ex sindaco di Reggio, Giuseppe Scopelliti

    Quello attuale, invece, è certamente uno dei periodi più apatici della storia recente di una città che, solitamente, si è sempre divisa un po’ su tutto. Reggio Calabria è passata dalla centralità regionale, avuta negli anni di Giuseppe Scopelliti, a un ruolo sempre più marginale. Ma come si può avere un’importanza esterna se non si riesce nemmeno a discutere internamente? Ormai il reggino medio sembra aver perso anche la voglia di alzare le barricate. E per una popolazione che di quelle del “Boia chi molla” ha fatto il proprio vessillo è preoccupante.

    Il sindaco Giuseppe Falcomatà, infatti, è stato condannato ormai circa tre mesi fa per il cosiddetto “Caso Miramare”. Una decisione di primo grado che ha portato all’automatica sospensione del primo cittadino, in forza della Legge Severino. Da quel giorno, però, nulla sembra essere cambiato. Falcomatà ha deciso di non dimettersi. Ha piazzato, poche ore prima di essere condannato, un anonimo assessore alla carica di facente funzioni. Quel Paolo Brunetti che, in due mesi e mezzo, ha tirato a campare.

    Dov’è la politica?

    «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia», diceva Giulio Andreotti. Può darsi. Ma nella sindacatura, seppur da facente funzioni, di Brunetti non si ricorda al momento un provvedimento simbolo. Anzi no, uno sì. La chiusura delle scuole per il riacutizzarsi della pandemia da Covid-19. Brunetti è stato l’unico sindaco di una grande città calabrese a optare per questa scelta. Né Catanzaro, né Cosenza e nemmeno le più piccole Vibo Valentia e Crotone o Lamezia Terme avevano preso questa decisione. Brunetti è andato in controtendenza. Forse anche perché “imboccato” da uno dei tanti post pubblicati su Facebook dal sindaco sospeso, Falcomatà, che quasi invocava la chiusura degli istituti. Il risultato è che, dopo pochi giorni, il Tar, investito della questione da alcuni genitori, ha dato torto all’Amministrazione Comunale di Reggio Calabria, disponendo la riapertura delle scuole. Con il Comune che non ha nemmeno impugnato il provvedimento.

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    Giuseppe Falcomatà, sindaco di Reggio sospeso dopo la condanna per il caso “Miramare”

    Falcomatà ancora sindaco sui social

    L’impressione è che Brunetti sia lì a tentare di tener calda la poltrona di Falcomatà, in attesa che questi possa ritornare al proprio posto esaurita la sospensione. Il primo cittadino sospeso, peraltro, non ha quasi mai smesso di parlare da sindaco tramite i propri seguitissimi social. Ha visionato cantieri, ha, come detto, reso pubblica la propria posizione circa la gestione della pandemia. Recentemente ha anche stigmatizzato l’inciviltà di alcuni reggini che, continuamente, che insozzano il waterfront, una piazza o una scalinata. Ma, a proposito di decoro e civiltà, non ha inteso dimettersi dopo la condanna di primo grado. Né, ancor prima, per lo scandalo dei presunti brogli elettorali nel corso delle elezioni che lo hanno riconfermato primo cittadino.

    L’ombra dei brogli a Reggio Calabria

    Sì perché un po’ ovunque, tra il serio e il faceto, in città si parla della grave vicenda che ha portato Reggio Calabria sulle prime pagine di tutti i media nazionali. In riva allo Stretto, ha semplificato molta stampa, avrebbero “votato anche i morti”. Un’inchiesta ancora aperta. La Procura di Reggio Calabria non ha infatti ancora chiuso le indagini su quanto accaduto nel settembre 2020.
    Ma, al netto delle facili e ironiche narrazioni, da quanto fin qui emerso, sarebbe consolidato lo scenario di una macchina amministrativa che non solo non ha gli anticorpi per resistere a tali disfunzioni ma che, anzi, le avrebbe avallate. Eppure, a distanza di mesi dall’esplosione del caso, nulla è stato fatto.

    Il consiglio comunale aperto: una farsa

    Uno dei primi a sollevare la questione, fu il massmediologo Klaus Davi, da anni impegnato in città. Con la sua lista, Davi non entrò in consiglio comunale per una manciata di voti. E, fin da subito, segnalò una serie di presunte anomalie. Fu uno degli ultimi rantoli del dibattito politico cittadino. Poi, il nulla. Con la voglia dei cittadini di partecipare, di incidere sul processo democratico, ormai pari allo zero.

    Alcuni mesi fa un Comitato spontaneo – “Reggio non si broglia” – ha chiesto la celebrazione di un consiglio comunale aperto per discutere del caso. Una seduta che si è svolta, con ritardo siderale, solo alla fine del mese di gennaio. E che si è trasformata in una farsa. Appena 15 gli iscritti a parlare. E neanche un terzo a presentarsi effettivamente in aula. Un’occasione persa, in cui a intervenire sono stati (pochi) oppositori politici, con alcuni nostalgici dell’era Scopellitiana. E poi, la solita ridda di interventi – non troppo significativi – da parte dei consiglieri comunali.

    Il buco nero del consiglio comunale

    Proprio quell’aula che dovrebbe essere la massima espressione della democrazia cittadina è diventata, sostanzialmente, una mera passerella – neanche particolarmente interessante – per qualche istante di celebrità dei singoli consiglieri. Nel corso del consiglio comunale aperto, peraltro, la maggioranza ha bocciato la proposta dell’opposizione di istituire una commissione d’indagine sui brogli elettorali. Ma non è tutto.

    Proprio nelle ultime ore, i consiglieri comunali di centrodestra hanno denunciato lo stallo amministrativo in seno a Palazzo San Giorgio: «A tre mesi dalla condanna e successiva sospensione del sindaco Falcomatà e dei consiglieri comunali in carica, nessuna delle Commissioni consiliari permanenti è stata convocata nei tempi previsti dal regolamento e dallo statuto comunale per procedere alle surroghe e alle sostituzioni necessarie per garantire l’operatività», lamentano i gruppi consiliari di centrodestra. La convocazione dovrebbe avvenire entro 10 giorni dalla cessazione della carica in seguito alla sospensione. «L’impressione è che l’attuale maggioranza consideri le Commissioni consiliari permanenti solo come una concessione fatta alle opposizioni e non come un valido ed importante strumento di lavoro istituzionale»,  dicono ancora dal centrodestra.

    La Svolta?

    Dopo gli anni del “Modello Reggio” targato centrodestra e l’ignominia dello scioglimento per ‘ndrangheta e del successivo commissariamento, Falcomatà e il centrosinistra si erano proposti come l’antidoto per riportare la città a una situazione di normalità. Lo slogan dell’allora giovane candidato sindaco era “La Svolta”. Anche una delle liste a suo sostegno portava questo nome. Dopo otto anni di amministrazione ininterrotta, però, il centrosinistra e Falcomatà raccolgono i cocci.

    La città continua ad avere i problemi di sempre, se possibile anche riacutizzati: dall’emergenza rifiuti a quella idrica. Ma ciò che preoccupa maggiormente è l’assenza di un dibattito e di proposte culturali. Un vuoto, questo, figlio anche di quanto accaduto in questi anni. Non solo la condanna di primo grado del sindaco e di numerosi tra i suoi fedelissimi. Ma anche lo scandalo dei brogli, con l’arresto del consigliere comunale Antonino Castorina. Uomo forte del Pd fino al momento in cui finirà ai domiciliari. Castorina, infatti, non solo era capogruppo dei Democratici nel consiglio comunale, ma anche membro della Direzione Nazionale del Pd, con entrature molto importanti nella politica romana.

    Il Pd, Nicola Irto e i “soliti noti”

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    Nicola Irto, segretario regionale del Pd

    Già, il Pd. L’elezione, anzi, l’acclamazione del reggino Nicola Irto alla carica di segretario regionale del Partito Democratico aveva illuso qualcuno circa la possibilità di riportare la politica reggina al centro della scena. Ma il giovane ex presidente del Consiglio regionale ha probabilmente già imparato sulla propria pelle quanto possa essere lacerato il Pd reggino. Ancora in mano ai colonnelli di sempre: da Sebi Romeo al ripescato Nino De Gaetano.

    Per la scelta del segretario provinciale, infatti, si va di rinvio in rinvio. Con ogni capocorrente che prova a imporre la sua linea. Falcomatà sarebbe persino arrivato a proporre quel Giovanni Muraca condannato con lui nell’ambito del processo “Miramare”. Dal canto suo, Nicola Irto non riesce a venirne a capo e sembra essersi consegnato mani e piedi a un’altra vecchia conoscenza come Sebi Romeo, ras dei democrat fino al momento in cui verrà coinvolto in un’indagine per corruzione.

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    Sebi Romeo, ex capogruppo del Pd in consiglio regionale

    Nicola Irto e Sebi Romeo

    Proprio Sebi Romeo e Nicola Irto sarebbero i principali sponsor dell’avvocato Antonino Morabito, figlio dell’ex presidente della Provincia di Reggio Calabria, Pinone Morabito. Dovrebbe essere proprio lui il candidato unico per tentare di ritrovare unità. Una candidatura tirata fuori dal cilindro (Morabito non ha particolari esperienze di politica e partitiche) per arginare l’avanzata dell’ex consigliere regionale Giovanni Nucera, rientrato nel Pd dopo una lunga esperienza in Sel. Ma anche lui è invischiato in un’inchiesta sui rifiuti a Reggio Calabria.

  • Da Rosarno a San Ferdinando: il Far West del lavoro nero in Calabria

    Da Rosarno a San Ferdinando: il Far West del lavoro nero in Calabria

    Ammassati nella tendopoli a San Ferdinando o nel campo di contrada Russo a Taurianova. Ospiti dell’accampamento container di Testa dell’Acqua a Rosarno o dei tanti casolari abbandonati tra gli aranceti della Piana di Gioia: dalla rivolta dei migranti del 2010 poco o niente è cambiato, con i nuovi insediamenti (più o meno) abusivi, che si sono sovrapposti ai vecchi, mutuandone le stesse dinamiche. Una situazione grave, sostanzialmente immutata nel tempo e incancrenita da inefficienze e sprechi. Una situazione che si lega, inevitabilmente, con il mercato del comparto agricolo – che della manodopera migrante, nella Piana, si serve per sopravvivere – divenuto a sua volta un vero e proprio Far West fatto di caporalato e sfruttamento, norme cervellotiche e finanziamenti a pioggia.

    La rivolta di Rosarno del 2010

    Le battaglie solo annunciate

    Sono tra sei e settemila (anche se un censimento accurato non è mai stato realizzato) i lavoratori migranti che nella stagione della raccolta convergono nelle campagne alle spalle del porto di Gioia Tauro. E se anche i numeri si sono parzialmente ridimensionati nei due anni di pandemia, sono sempre i lavoratori africani a sostenere l’intero comparto, fatto, in questo pezzo di Calabria, di una proprietà più che atomizzata, costituita da migliaia di minuscole aziende a conduzione familiare.

    Micro appezzamenti di uno, massimo due ettari di estensione, divisi tra filari di agrumi e kiweti, per aziende – circa 13 mila in totale – che non riescono a creare rete e che, in genere, sopravvivono con ricavi che somigliano a mance. Quelle delle grandi aziende di produzione di succhi, che pagano per i frutti, in molti casi raccolti direttamente a terra, meno di dieci centesimi al chilo. E quelle delle catene della grande distribuzione, che comprano attraverso aste al ribasso arance e mandarini destinate al consumo e pagate ai produttori tra i 20 e i 25 centesimi al chilo. Va un po’ meglio con i kiwi, che riescono a ritagliarsi un prezzo vicino agli 80 centesimi.

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    Frutta e verdura in esposizione all’interno di un supermercato

    Una decina di anni fa, le associazioni di categoria (Confagricoltura e Coldiretti) avevano annunciato – con tanto di convegno in grande stile e annessa sfilata di trattori – una battaglia campale su due fronti: da una parte il prezzo minimo al chilo da ottenere dalle multinazionali che si riforniscono nella Piana, dall’altra la percentuale minima di succo da inserire nelle bevande. Una rivoluzione che avrebbe fatto bene all’intero settore. Passati gli anni, di quella battaglia su cui si sarebbe dovuta riscrivere la nuova economia agricola della Piana, resta solo qualche poster ingiallito dal tempo, ma di risultati neanche a parlarne.

    Far West

    E se la parcellizzazione esasperata della proprietà agricola non aiuta, a complicare ulteriormente le cose per uno dei settori che in passato era stato la forza di questo territorio ci sono una serie di regole legate al mercato del lavoro agricolo che sembrano essere state scritte per facilitare il lavoro nero. Regole che fissano a 102 il tetto massimo per le giornate lavorative per ogni ettaro di terra che possono essere frazionate a più lavoratori e che possono essere regolarizzate nei giorni successivi all’effettiva prestazione resa.

    Un meccanismo controverso che, anche a causa della antica carenza di ispettori del lavoro, favorisce la mancata contrattualizzazione dei raccoglitori che, quando va bene, riescono a farsi mettere in regola solo per poche giornate al mese. Il resto, raccontano le innumerevoli operazioni della Procura, finisce sul “mercato” delle attestazioni lavorative false. Un mercato illegale così esteso (sfruttato principalmente per ottenere benefici pensionistici) che diventa difficile anche solo provare a quantificarlo. A pagarne il prezzo, ovviamente, i migranti, che di questa Babele sono l’anello più debole. La mancata o, nel caso migliore, la parziale contrattualizzazione, favorisce infatti il fenomeno dello sfruttamento del lavoro in nero, con i braccianti africani costretti per bisogno ad accontentarsi di salari più che dimezzati rispetto alla norma.

    In strada per salari decenti

    Una deriva che, sul campo, è contrastata dalle associazioni di volontariato e dal cosiddetto “sindacato di strada” che la Flai Cgil mette in campo da anni nel tentativo di informare i lavoratori di San Ferdinando e dintorni rispetto ai loro diritti. Tra le complanari di campagna alla ricerca dei braccianti che attendono il “caporale” di turno o all’esterno delle aziende agricole, durante le poche pause dal lavoro, Rocco Borgese e i suoi colleghi del sindacato, passano le giornate a tentare di convincere i lavoratori a non piegarsi ai salari da fame che gli vengono proposti.

    Un servizio su base volontaria (a cui si aggiunge quello di assistenza legale e sanitaria) portato avanti anche da due lavoratori africani che si perpetua tre volte a settimana e che è riuscito anche a raccogliere i primi frutti. Ma che rappresenta, purtroppo, solo una goccia nel mare in un’emergenza lavorativa che si ripercuote anche sulla possibilità di affittare una normale abitazione. Fatta salva una consistente sacca di razzismo e diffidenza infatti, molti dei migranti non riescono ad affittare un alloggio decente proprio a causa della precarietà del loro lavoro. Nessuno (o quasi) è disposto ad affittare loro un casa vera e, di conseguenza, insediamenti abusivi e baraccopoli più o meno regolarizzate sono spuntate come funghi in tutti i comuni della Piana.

    Nuova chiusura per San Ferdinando

    Sorto qualche giorno dopo e a distanza di poche centinaia di metri dalla baraccopoli sgomberata dopo un blitz dell’ex ministro dell’interno Salvini, l’accampamento nato nel retroporto continua ad essere uno dei punti di riferimento per la forza lavoro africana che nelle stagioni della raccolta si concentra sul territorio da tutta Italia. Ufficialmente dismessa dall’estate del 2021 (ma ancora popolata da circa 500 persone che ci vivono in condizioni subumane), la tendopoli di San Ferdinando dovrebbe avere i giorni contati. Nelle settimane passate infatti il Prefetto di Reggio ha annunciato la futura chiusura del sito: chiusura che però resta condizionata all’intervento della Regione, che dovrebbe dare il via alla riconversione in foresteria di una delle tante strutture industriali abbandonate presenti in zona.

    In seguito ad un vertice tra i sindaci di Gioia e San Ferdinando (Rosarno è guidata da una terna prefettizia in seguito all’arresto del sindaco Idà) e i funzionari regionali, la scelta è caduta sui capannoni dell’ex Opera Sila, lo stabilimento per la trasformazione delle olive da anni in rovina e già utilizzato dai lavoratori africani come rifugio improvvisato, prima dello scoppio della rivolta. L’area, di proprietà della Regione, necessita però di un radicale intervento di bonifica e trasformazione e i tempi di realizzazione del progetto non saranno brevi. Così, in attesa della riconversione dell’opificio regionale si naviga a vista, con progetti in corso d’opera che, per tamponare l’emergenza, ripropongono l’uso di moduli abitativi temporanei (leggi container) o si appoggiano a fondi di garanzia di matrice assistenzialistica che finora non hanno riscosso risultati apprezzabili.

    Le case fantasma da tre milioni di euro

    Sullo sfondo, rimangono le palazzine nuovissime costruite alla periferia di Rosarno grazie ai quasi 3 milioni di euro di fondi per l’emergenza migranti e ancora in attesa di assegnazione. Restano disabitate, in contrada Torricelle, ennesimo monumento incompiuto all’inefficienza amministrativa calabrese. Sostanzialmente completate da tre anni, le palazzine (4 padiglioni in tutto capaci di ospitare comodamente 250 persone) avrebbero bisogno degli ultimi lavori di rifinitura e del collettamento alla rete fognaria cittadina. Un progetto nato tra le polemiche e che sembra essersi smarrito a un passo dal traguardo, soffocato da vecchie e nuove baraccopoli.

  • “Pazza idea”: una funivia nel cuore dell’Aspromonte senza che il Parco ne sappia nulla

    “Pazza idea”: una funivia nel cuore dell’Aspromonte senza che il Parco ne sappia nulla

    Raggiungere in funivia il cuore dell’Aspromonte direttamente dal mare, garantendo un collegamento veloce tra Condofuri e Roccaforte del Greco, seguendo il corso dell’Amendolea. Si tratta della fiumara più importante del reggino che, partendo da quota 1900 metri, taglia in due la parte grecanica della Montagna fino allo Jonio. Un progetto ambizioso (e costosissimo) pensato dalle amministrazioni dei due piccoli centri e presentato nei giorni scorsi tra le proteste di una decina di agguerrite associazioni locali. Ma, soprattutto, tra lo sconcerto dei vertici del Parco nazionale (entro i cui confini si troverebbe a passare per intero il tracciato “volante”). Dell’idea della funivia immaginata dai sindaci Tommaso Iaria e Domenico Penna, non sapevano assolutamente nulla.

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    Roccaforte del Greco, capolinea della funivia che dovrebbe attraversare la valle dell’Amendolea

    Il progetto della funivia

    Quasi 15 chilometri di tracciato, un dislivello di 930 metri e una capacità potenziale di 800 – 1000 passeggeri ogni ora che, se la scheda presentata in Regione nell’ambito dei Cis (contratti istituzionali di sviluppo) dovesse essere finanziata, porterebbe i potenziali utenti da San Carlo di Condofuri fino a Roccaforte del Greco in 16 minuti. Un risparmio di una mezz’oretta sul tragitto consueto lungo le stradine di uno degli ultimi ritagli di natura non vandalizzata del reggino, che verrebbe a costare 2,7 milioni di euro a chilometro: un percorso “aereo” coperto da una ropeway di sei cabine in continuo movimento in grado di trasportare 20 persone per ogni “guscio”. Un progetto ambizioso e controverso che ha scatenato il consueto vespaio di polemiche. E che ha messo a nudo, ancora una volta, la sconcertante assenza di comunicazione tra il Parco nazionale d’Aspromonte e i comuni, 37 in tutto, che ne costituiscono il cuore.

    Zona protetta

    Tutta la valle dell’Amendolea – la fiumara colonizzata dai primi migranti greci che tanto hanno caratterizzato il territorio nei secoli passati, da lasciarvi in dote, tra le altre cose, anche una lingua vera e propria – ricade nella “Zona di protezione speciale” prevista dalla “Rete natura 2000”, il progetto europeo nato a tutela dell’avifauna; e in questi mesi, proprio in quell’aerea, è attivo il progetto per il ripopolamento del nibbio, un particolare tipo di rapace trasferito sulle montagne reggine da un’analoga riserva in Basilicata. Il percorso della funivia, con i suoi tralicci, i suoi cavi, le sue sei cabine coperte e con la stazione di sosta di metà percorso alla periferia della meravigliosa Gallicianò, ci passerebbe proprio in mezzo.

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    Un grifone in volo sull’Amendolea

    Rette parallele

    «Io, come sindaco, non sono tenuto a informare il Parco per ogni progetto che presento per il mio comune. Con il Parco ne parleremo se e quando il progetto verrà finanziato». Arroccato dietro l’autonomia comunale, il primo cittadino di Condofuri Tommaso Iaria – passato alle cronache per avere esposto nel suo ufficio il manifesto di giuramento delle Waffen SS italiane, prima di rimuoverlo in seguito alle proteste dell’Anpi – difende l’idea della funivia e rilancia: «I Cis chiedevano progetti riguardanti le “vie verdi”, e noi ci siamo adeguati. La funivia è un progetto ecosostenibile e bellissimo e va a colmare una parte del gap infrastrutturale che la nostra terra paga nei confronti del resto del Paese. Con questo progetto raggiungiamo due obiettivi: da una parte favoriamo l’afflusso di un sempre maggiore arrivo di turisti togliendo le auto e i pullman dalla strada, dall’altra garantiamo la mobilità per i residenti dei due paesi collegati».

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    Gallicianò (foto Parco Nazionale dell’Aspromonte)

    E poco importa se, tra Gallicianò e Roccaforte del Greco, i residenti siano poco più di un centinaio e di autorizzazioni e nulla osta dai vari enti interessati non se ne è proprio parlato. «Non capisco che problema possa esserci. Le Dolomiti sono patrimonio dell’umanità eppure sono sature di impianti di risalita. È vero siamo nel territorio del Parco – dice ancora il sindaco che del Parco d’Aspromonte, paradossalmente, è membro del Consiglio direttivo e della Giunta esecutiva – e quando riceveremo la risposta dagli uffici regionali a cui abbiamo sottoposto la nostra idea, parleremo di autorizzazioni e nulla osta».

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    Leo Autelitano, presidente del Parco

    E se il comune si è guardato bene dall’informare dell’iniziativa i vertici dell’ente, dal canto suo, il presidente Leo Autelitano – travolto dalle polemiche la scorsa estate in seguito ai devastanti incendi che in pochi giorni hanno distrutto ettari e ettari di montagna protetta, portando devastazione e morte proprio in quei territori dove si vorrebbe far passare la funivia – cade dal pero, relegando a boutade l’intera faccenda. «Abbiamo saputo di questo progetto dai giornali – dice Autelitano – ma stiamo parlando del sesso degli angeli. Io sono di Bova superiore e di funivie se ne parla da quando ero ragazzo. Ma così, tanto per dire. Io ufficialmente non so niente di questa storia, quando ci presenteranno il progetto lo valuteremo, ma io non posso andare dietro alle stravaganze di 37 comuni».

    Le associazioni contro la funivia

    Ufficialmente, il Parco non ha preso nessuna posizione restando in attesa del progetto. Una posizione netta l’hanno presa invece una decina di associazioni del territorio, che del progetto della funivia non ne vogliono proprio sentire parlare. Presenti all’esterno dell’auditorium comunale durante la conferenza stampa di presentazione, i rappresentanti delle associazioni contrarie – guide turistiche, residenti, appassionati di archeologia e di montagna – si sono messe di traverso ai piani di Iaria e Penna.

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    Lo striscione di protesta contro la funivia esposto durante la presentazione del progetto

    «Il nostro è un turismo molto particolare» racconta Francesco Manglaviti, responsabile dell’associazione archeologica Valle dell’Amendolea. «Un turismo lento, che punta a scoprire un angolo alla volta di questa meraviglia che abbiamo la fortuna di abitare, e che non ha bisogno di scorciatoie. La funivia rappresenta una vera e propria violenza. Da anni ci battiamo per l’azzeramento del consumo del territorio, ogni angolo qui ha qualcosa da raccontare, e sono proprio gli stessi turisti che ogni anno accompagniamo su e giù per la valle che ci spingono, con le loro considerazioni e i loro suggerimenti, a tenere duro su questo aspetto».

     

  • Spendi, spandi e scendi: tra Gallo e Reggina la luna di miele è finita?

    Spendi, spandi e scendi: tra Gallo e Reggina la luna di miele è finita?

    “Come si cambia” canta Fiorella Mannoia. E come sono cambiati a Reggio Calabria il clima e l’umore nei confronti del presidente della Reggina, Luca Gallo. Arrivato in riva allo Stretto da trionfatore, rilevando la società dalla famiglia Praticò, Gallo è stato, per anni, osannato. Quasi idolatrato. Esternazioni di giubilo, propositi di risalita, per una società che, nei primi anni 2000, è stata capace di rimanere in serie A per circa un decennio. Cori allo stadio. Amato più dei bomber che gonfiavano le reti in campo. I tifosi preferivano una foto con Gallo piuttosto che uno scatto con El Tanque, German Denis. O un autografo del “presidentissimo”, anziché la firma dell’ex Roma e Milan, Jeremy Ménez. Ma qualcosa sembra essersi rotto.

    Gli scarsi risultati

    I primi anni, con la promozione dalla Lega Pro alla serie B lasciavano presagire un miracolo amaranto. Con una città che, notoriamente, ha sempre vissuto a pane e calcio, i tifosi sognavano ritornare a vincere all’Olimpico. O fare ammattire Inter e Milan. A far uscire la Juventus con le ossa rotte dal Granillo. Ma la spinta propulsiva dell’avvio dell’esperienza in riva allo Stretto, sembra essersi un po’ spenta per Luca Gallo e il suo entourage.

    Una società che, negli anni, ha cambiato diverse volte il proprio organigramma. Con il fedelissimo Vincenzo Iriti, prima vicinissimo al presidente con il ruolo di direttore generale, poi scomparso dai radar con le dimissioni e ora, solo recentemente, rientrato nei ranghi. Ma anche la fugace esperienza di una bandiera della Roma come Tonino Tempestilli, per un po’ di tempo responsabile dell’area giovanile amaranto. Poi dimessosi senza troppe spiegazioni. Per non parlare dell’altrettanto oscura (e polemica) interruzione del rapporto con un altro dg, Giuseppe Mangiarano.

    Le scelte sbagliate

    Insomma, è possibile da tempo udire distintamente gli scricchiolii nel percorso di Gallo a Reggio Calabria. E anche l’operato del direttore sportivo Massimo Taibi, ex grande portiere amaranto, è sul banco degli imputati. Tra acquisti improbabili, giocatori pagati a peso d’oro a fine carriera e scelte di mercato che continuano a non convincere, l’attuale stagione della Reggina, iniziata con fiducia e con ottimi risultati in serie B, sta prendendo una piega preoccupante.

    La dirigenza aveva puntato sull’appartenenza amaranto. E così, all’inizio della stagione, il ruolo di trainer era stato affidato una vecchia gloria come Alfredo Aglietti. Indimenticato attaccante delle stagioni in serie C, prima di approdare al Napoli. Un avvio promettente fino al secondo posto in classifica, che aveva fatto immaginare un po’ a tutti una stagione alla ricerca dei playoff. Ma poi un crollo verticale che, alla fine, è costata la panchina all’allenatore.

    Mimmo Toscano, ex tecnico della Reggina (foto pagina Facebook Reggina1914)

    E così, Gallo e Taibi hanno tentato di sistemare le cose con una scelta low cost. Richiamando cioè l’ex allenatore Mimmo Toscano, reggino doc, ancora sotto contratto, dopo l’esonero della scorsa stagione. Poche partite, risultati, se possibile, ancor più deludenti, anche sotto il profilo del gioco espresso. A costare la panchina a Toscano è stata la sconfitta in casa del Monza.

    Tre allenatori in metà stagione

    La crisi amaranto sembra senza fine. L’ultima mossa del duo Gallo-Taibi è ancora nel solco della tradizione. Con l’esonero di Toscano, infatti, arriva il terzo tecnico nella sgangherata stagione amaranto. Questa volta la società punta su Roberto Stellone, ex attaccante della Reggina nella stagione 2003-2004.

    Ma adesso gli obiettivi sono ben altri. La Reggina, infatti, si trova attualmente in 14esima posizione con 23 punti. Viene da un solo pareggio nelle ultime otto giornate. E deve guardarsi le spalle, dato che la maggior parte delle squadre dalla 13esima posizione in giù ha addirittura disputato una partita in meno rispetto agli amaranto. Insomma, il rischio di perdere ulteriori posizioni, quando alcune gare rinviate per Covid saranno recuperate, è concreto. E inquietante.

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    La presentazione di Stellone

    A Stellone, quindi, la dirigenza ha chiesto di evitare i playout. Una vera e propria lotteria che potrebbe condurre la Reggina alla clamorosa retrocessione in Lega Pro. Che dopo le spese pazze di questi anni potrebbe aprire scenari fin qui inesplorati sul futuro di Luca Gallo in riva allo Stretto e, quindi, della società amaranto.

    Tempi bui per Luca Gallo?

    Sì perché in questi anni Luca Gallo ha speso tanto. Male, ma tanto. Lui che ha acquistato la Reggina per togliersi uno sfizio. Per alimentare il proprio ego. Per emulare grandi presidenti del calcio italiano, spostatisi con successo dal proprio core business ai campi verdi. Lui che, nella vita, ha costruito le sue fortune su altri aspetti. Per qualcuno, sullo sfruttamento degli esseri umani, spolpati professionalmente senza troppe garanzie.

    Da anni, le attività di somministrazione della manodopera delle aziende del presidente della Reggina sono al centro di accertamenti e polemiche. La sua azienda, la M&G, con sede a Roma, fornisce dipendenti ad alcune migliaia di aziende. Oltre 4.000, secondo le ultime stime. Ma già da tempo, a seguito di diverse segnalazioni, la società è finita nel mirino dell’Ispettorato del Lavoro. Soprattutto in Emilia Romagna, ma non solo. In diversi casi sono stati segnalati il mancato pagamento di uno o più stipendi ed il mancato versamento dei contributi previdenziali.

    La galassia aziendale di Luca Gallo

    Qualche anno fa il Ministero del Lavoro sosteneva che il sistema con cui opera Gallo racchiudesse una serie di illeciti, penali e amministrativi. Ma anche recuperi contributivi per circa 30 milioni di euro.

    Nel 2018, la M&G si è anche impegnata a versare 7 milioni di euro all’Agenzia delle Entrate, evitando in questo modo l’insorgere di una lite tributaria. Questo perché la Guardia di Finanza, nel giugno 2017, avrebbe effettuato delle indagini a carico della M&G, con riferimento ai pagamenti riguardanti il quadriennio d’imposta 2013-2016. Trovando, evidentemente, delle irregolarità per svariati milioni di euro.

    Nel corso della scorsa estate, peraltro, a quasi tutti i dipendenti della Reggina 1914 srl è stato chiesto di “traslocare” il proprio contratto presso la società Azione Lavoro srls, di recente creazione, con sede a Roma e di proprietà di Luca Gallo. Una mossa che è stata interpretata come un alleggerimento sul piano economico e, forse, anche fiscale.

    La battaglia con l’Ordine Nazionale dei Consulenti del Lavoro

    Sì perché quella è una delle principali accuse mosse nei confronti del modo di operare di Gallo. Da tempo, infatti, l’Ordine Nazionale dei Consulenti del Lavoro taccia Gallo e le sue aziende di sfruttamento delle persone. Sul sito ufficiale dei Consulenti del Lavoro è possibile trovare anche una lettera aperta alla M&G in cui la si invita “a certificare la genuinità dei contratti di appalto da questa stipulati, attraverso le Commissioni di certificazione istituite presso i Consigli Provinciali dei Consulenti del Lavoro; nonché ad asseverare con l’AsseCo la regolarità dei rapporti di lavoro instaurati dalla Cooperativa”. Secondo le denunce dei sindacati, i soldi che la M&G dovrebbe versare all’INPS non arriverebbero mai. Parliamo di 13esime, 14esime e persino i tfr.

    L’interrogazione di Laura Boldrini

    Tra il luglio 2020 e la fine dello stesso anno, sono anche arrivate anche due interrogazioni al Ministero del Lavoro sulle aziende di Gallo. Una delle due è firmata, tra gli altri parlamentari, anche dall’ex presidente della Camera, Laura Boldrini: «Nella sola Bologna sono state presentate circa 90 denunce da parte di lavoratori che non si sono visti corrispondere la tredicesima, il trattamento di fine rapporto o parte dei contributi e i controlli effettuati hanno messo in luce l’irregolarità di almeno 43 aziende. La questione è stata denunciata all’Ispettorato nazionale del lavoro, che aveva già inviato un’informativa alle sezioni territoriali per metterle in guardia sulla vicenda e avviare i controlli e che, sempre secondo quanto riportato dal quotidiano, stava svolgendo attività di vigilanza» – è scritto nell’interrogazione al Ministero.

    Gallo e Reggio: la fine del feeling

    Adesso, per Gallo sembra anche essere finita la “luna di miele” con una piazza esigente come Reggio Calabria. Lui che, nei primi mesi, ci aveva saputo fare. Puntando sulla goliardia e sull’orgoglio del popolo amaranto. Rimane celeberrima la maglietta Lavati i peri e va curcati dopo il derby con il Catanzaro. Il sindaco Giuseppe Falcomatà (oggi sospeso) gli ha anche conferito la cittadinanza onoraria.

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    Quando Luca Gallo, presidente della Reggina, sfotteva i tifosi del Catanzaro dopo la vittoria nel derby

    Tempi che sembrano molto lontani. Al momento, la Curva Sud, cuore pulsante del tifo amaranto, si è limitata solo a qualche coro per stigmatizzare il difficile momento sportivo vissuto dalla Reggina. Ma online, sul forum ufficiale dei tifosi, su alcune pagine social seguitissime, iniziano ad apparire i primi segni di una contestazione nei confronti del presidente.

    Per adesso virtuale, ma col tempo chissà. «Gallo non è diverso dagli altri che ci mettono i soldi» –  scrive un utente da 3 stelle su 6 nel ranking del forum ufficiale Regginalife. «Vero colpevole: la società. Inefficiente e alla deriva più che mai, il resto è una conseguenza» gli fa eco chi, invece, è un utente ancor più storico e attivo, con 5 stelle su 6.«La cosa più grave di tutta questa situazione è che né la squadra né soprattutto la società hanno capito la gravità della situazione, ancora non hanno preso coscienza che così retrocederemo sicuro al 100%»risponde un altro tifoso. E si inizia a puntare il dito sull’aspetto gestionale: «Agire subito prima che sia la fine, se non ci sono i soldi per farlo, allora che si ritorni pure in serie D e basta!» si legge ancora sul forum.

    Dagli striscioni di repertorio a quelli veri?

    Molti contestano a Gallo una gestione dissennata delle finanze, l’affidamento totale a persone giudicate incompetenti e un atteggiamento smargiasso e accentratore, con sparate, dette in varie occasioni, come «voglio la serie A subito» oppure «porto subito la Reggina in A e poi mollo». La realtà, adesso, è tutt’altra. Lo spettro della Lega Pro inizia a materializzarsi. E tutto ciò potrebbe portare a conseguenze ben più gravi dell’insuccesso sportivo.

    Striscioni accompagnano il disappunto dei supporter della Reggina contro la società (foto Instagram Regginanews)

    Non è solo il forum ufficiale del malcontento (per adesso virtuale) che cresce attorno alla società e al suo presidente. Negli ultimi giorni, il seguitissimo profilo Instagram “Regginanews” ha pubblicato due foto di repertorio, dove campeggiano due striscioni che sembrano dei chiari segnali alla società. Il primo afferma: «Non basta una vittoria per ricominciare, il nostro sostegno lo dovete meritare. Solo per la maglia». Ancor più esplicito l’altro, dove si legge: «Oltre i risultati, oltre i presidenti, la Reggina siamo noi!».

    Un evidente messaggio al presidente che, un tempo, non riusciva a fare due passi in città senza che qualcuno gli chiedesse una foto o un autografo. E se quegli striscioni, quando il calciomercato, tra pochi giorni, sarà chiuso dovessero essere veri e non più di repertorio?

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    Striscioni accompagnano il disappunto dei supporter amaranto contro la società (foto Instagram Regginanews)
  • Ciccio Cannizzaro, quando la politica è questione di profumo

    Ciccio Cannizzaro, quando la politica è questione di profumo

    Profumato è profumato, nessun dubbio. La fragranza che lo identifica – adatta a chi paga tavolo e bottiglie di champagne quando la comitiva si riunisce nei privé delle disco – ne annuncia l’arrivo ancor prima che si manifesti fisicamente, alle riunioni politiche come alla Camera. È forte a tal punto, quell’effluvio, che alcuni colleghi lo hanno ribattezzato con la perfidia dei ragazzi un po’ invidiosi: «Ciccio profumo». Ecco, sta arrivando «Ciccio profumo», e partono i sorrisini beffardi di chi, ogni volta, prova a metterlo in ridicolo, pur temendolo parecchio.

    Che sia un ragazzo dal buon odore, dunque, è fuori discussione. Ma Francesco “Ciccio” Cannizzaro può anche essere considerato un profumiere, ovvero uno che promette qualcosa di impossibile, che seduce nella consapevolezza di deludere, insomma uno che millanta un potere che, in effetti, non ha? Qui la questione si fa molto molto più complicata, senza che peraltro si possa giungere a una risposta univoca o condivisa.

    Un politico che ostenta

    Certo è che il giovane deputato e coordinatore provinciale reggino di Forza Italia, quarant’anni a giugno, è uno che ostenta parecchio. Si pavoneggia, si intesta successi, pensa in grande. E, spesso, riesce a convincere gli interlocutori di turno del fatto che lui stesso sia grande, un grande politico.
    Non prova mai imbarazzo, Cannizzaro; come quando, pochi giorni fa, per ben due volte ha dato il suo personale e convinto – ancorché, ovvio, del tutto ininfluente – endorsement nientemeno che al Cavalier Silvio Berlusconi («è ultramotivato e sarà un presidente super partes»).

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    Berlusconi e Cannizzaro

    Solo una civetteria, in fondo, una comune cosetta da politici mitomani; ma il punto è che, quando il giovane Ciccio fa una mossa, instilla sempre il dubbio che, davvero, lui possa essere arbitro e decisore di quella ben determinata questione, fosse anche il voto per il presidente della Repubblica.
    È uno che ci crede, Cannizzaro, uno che non ha mai coltivato dubbi e che la politica, quella cosa fatta di «sangue e merda», checché ne dicano i (tanti) detrattori, la mastica meglio di tanti altri mestieranti sulla breccia.

    Caridi la chioccia

    Inizia dal suo paese, Santo Stefano d’Aspromonte, luogo risorgimentale in cui il ventenne Ciccio viene eletto per due volte consigliere e scelto per altrettante come assessore. Il paese nei cui confini sorge la più rinomata Gambarie sta stretto alle sue ambizioni e se ne allontana presto. Coltiva amicizie e legami importanti, tra cui quello privilegiato con Antonio Caridi, potente assessore regionale nella Giunta Scopelliti e poi senatore, prima della rovinosa caduta per via giudiziaria.

    Cannizzaro diventa consigliere della Provincia guidata da Peppe Raffa ma quello scranno lo occupa per poco tempo. Dopo l’elezione in Parlamento dell’amico Antonio, infatti, si libera uno spazio in Regione e lui, che di quel blocco di potere è uno dei più promettenti terminali politici, fa il primo grande salto. Siamo nel 2014 e trionfa il centrosinistra di Oliverio. Cannizzaro entra in assemblea con la Casa della libertà e con in dote più di 6mila preferenze.

    Il modello Reggio a processo

    L’area destrorsa che lo ha svezzato è però in pieno disfacimento. Il Consiglio comunale di Reggio sciolto per mafia nel 2012 ha fatto partire la slavina: si accavallano le inchieste sui presunti rapporti con la ‘ndrangheta di tanti protagonisti di quella stagione e poi, soprattutto, inizia il declino del leader assoluto e incontrastato, Peppe Scopelliti. Nel 2014 si dimette da presidente della Regione dopo la condanna in primo grado per il crac finanziario di Palazzo San Giorgio e, inevitabilmente, via via si trascina dietro l’intera «classe dirigente» del «modello Reggio» già sublimato in «modello Calabria».

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    Antonio Caridi e Peppe Scopelliti

    Finisce male, anzi malissimo, anche il politico-chioccia di Cannizzaro, Caridi. Da senatore, nell’agosto 2016 viene arrestato nell’ambito dell’operazione “Gotha” contro i capi della ‘ndrangheta reggina. Ne uscirà completamente pulito dopo sei anni e tante, indicibili, sofferenze personali, ma la sua carriera politica è già bella che morta nel momento in cui varca il portone del carcere di Rebibbia.

    Cannizzaro, da sergente a generale

    Pochi mesi dopo, pure Cannizzaro finisce in una brutta storia di mafia: viene indagato dalla Dda di Reggio e accusato di aver ricevuto sostegno elettorale dalla cosca Paviglianiti di San Lorenzo. Il calvario del consigliere non prevede il carcere ed è decisamente più breve di quello del senatore Caridi: meno di un anno dopo, nel settembre 2017, Cannizzaro viene assolto «perché il fatto non sussiste».

    Ed è allora, probabilmente, che il giovane Ciccio si rende conto di essere l’unico superstite in quel deserto che è ormai diventato il centrodestra reggino. Fino a pochi anni prima offuscato dalla luce splendente e fatua degli Scopelliti, dei Caridi, ma perfino da quella dei Bilardi e dei Raffa, adesso Cannizzaro, da semplice ufficiale di complemento, è diventato colonnello, se non addirittura generale: non c’è nessuno più in alto di lui.

    Le occasioni da cogliere

    Tutto si può dire, tranne che il politico «stefanita», come lo appella chi tenta di sminuirlo, non colga le occasioni al volo. Si candida immantinente alle Politiche del 2018 ed è eletto parlamentare nel collegio uninominale di Gioia Tauro per la Camera, uno dei pochi – assieme al senatore forzista Marco Siclari e alla deputata Wanda Ferro – a resistere all’ondata grillina che in Calabria fa man bassa di seggi, ben 18.
    Da lì in poi, è tutta discesa. Il Cannizzaro “onorevole” è un politico diverso rispetto agli esordi: non si può dire propriamente che studi a fondo i molteplici dossier di cui si occupa, ma riesce a perorare le cause a cui tiene come nessuno.

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    Jole Santelli e Ciccio Cannizzaro in Parlamento

    Porta risultati, o almeno così sembra: si intesta il merito di aver fatto arrivare 25 milioni per l’ammodernamento dell’aeroporto dello Stretto, celebra anzitempo il completamento della strada Gallico-Gambarie («pronta entro la fine del 2022»), si mette alla testa della larga opposizione al governo cittadino di Falcomatà.

    Sulle orme di Peppe

    Nel mentre, tiene conferenze stampa a profusione, invita ministri per ogni bazzecola (ospite fissa: l’«amica» Mara Carfagna), organizza convention con migliaia di ospiti in cui il pezzo forte di serata è sempre lui, che chiude ogni evento e ogni comizio in un crescendo di urla vibranti e ad alto tasso emozionale, che ai nostalgici ricordano tanto lo stile da capopopolo di Scopelliti.

    Sembra di vederlo, Cannizzaro, mentre, da sotto il palco, poco più che ragazzo, studia mimica, movenze e repertorio del suo leader: la mano a paletta che si muove ritmica per scandire i momenti topici del discorso, l’«e alloraaaa…» usato a mo’ di intermezzo prima, magari, di una nuova intemerata contro i «nemici di Reggio» o contro i giornalisti «cialtroni».

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    Roberto Occhiuto, Mara Carfagna e Ciccio Cannazzaro

    Io ballo da solo

    Quello stile, quei toni, quei gesti, Cannizzaro li fa suoi. E col tempo diventa un oratore efficace e sicuro di sé, in più capace di ammantare tutto il suo agire politico di uno strato composito di furbizia e cinismo sconosciuto a Scopelliti. Per dire: l’ex governatore, parallelamente alla sua ascesa, ha allevato la sua «classe dirigente»: spesso sgangherata, per certi versi ridicola, in qualche caso collusa con la ‘ndrangheta, ma pur sempre un ceto politico che a Reggio, prima, e in Calabria, poi, ha esercitato potere, il più delle volte fine a se stesso, ma pur sempre potere.

    Cannizzaro, invece, ama fare il solista, forse perché teme che, domani, qualcuno possa fare ciò che ha fatto lui e soffiargli il posto. Non ha eredi, sia perché è troppo giovane sia perché, in un certo senso, teme il parricidio. La sua paranoia – alimentata dalla paura di perdere la preminenza conquistata per una serie di tragiche (per gli altri) coincidenze – traspare dalle sue scelte politiche. Si spiega in questo modo perché mai, in tutte le elezioni successive alla sua nomina a coordinatore provinciale, abbia sempre scelto candidati non reggini e, perciò, difficilmente in grado, in futuro, di rubargli il bacino elettorale più fecondo.

    I Ciccio boys

    Il politico di Santo Stefano ha insomma ereditato un intero mondo elettorale e ha desertificato la concorrenza interna. Il centrodestra reggino oggi è inodore, eccezion fatta per il profumo del capo; è spopolato di dirigenti, a meno che non si vogliano considerare tali i “Ciccio’s boys”. Già, loro fanno narrativa a parte: vestiti in serie, tali e quali al capo. Prediligono i risvoltini ai pantaloni, i mocassini di cuoio, possibilmente senza calzini, talvolta gli occhiali da sole a goccia e, d’estate, la camicia bianca aderente e arrotolata sulle braccia.
    Non si è mai capito se si tratti di un dress code o del semplice desiderio di emulare chi sta al vertice della catena gerarchica.

    L’apparenza che conta

    Cannizzaro sa che l’apparenza conta tantissimo. Quando, nel 2019, Mario Occhiuto forza la mano e organizza la mega convention lametina che avrebbe ufficializzato la sua candidatura a governatore, poi naufragata miseramente, il deputato reggino fa arrivare a Lamezia diversi bus carichi di militanti. Risultato: gli applausi per Cannizzaro sono di gran lunga più scroscianti di quelli dedicati al protagonista dell’evento.

    Sa, Cannizzaro, che per continuare a contare deve piazzare uomini, anzi, donne, di fiducia nelle stanze dei bottoni. È il più leale degli occhiutani quando Mario sembra in rampa di lancio per la Cittadella, ma quando Berlusconi designa Jole Santelli ne sposa senza esitare la causa fino a farsi descrivere come il migliore amico della governatrice, l’alleato di ferro che con lei balla la tarantella in chiusura di campagna elettorale. Nella Giunta Santelli, poi, Cannizzaro riesce appunto a piazzare la fedelissima Domenica Catalfamo.

    La stessa trama si ripete, più di recente, con Roberto Occhiuto, che lo tiene buono nominandone la cugina, Giusi Princi, nel suo Governo. Le deleghe sono tante e di quelle che contano, tra cui l’ambitissima vicepresidenza, un tempo promessa al leghista Nino Spirlì (il ticket rinnegato). Fino a qui, quella di Cannizzaro non sembra certo la carriera di un profumiere. Eppur bisogna andare più a fondo e scoprire che quel potere così ostentato, con ogni probabilità, è meno forte di quanto Ciccio non voglia far credere. Perché, nei momenti davvero decisivi della sua carriera, Cannizzaro ha fallito, anche se nessuno se ne è accorto.

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    Cannizzaro e la vice presidente della Giunta regionale, sua cugina Giusy Princi

    Le sconfitte

    Partiamo dalla fine. Alle ultime Regionali, il deputato azzurro, che ha il vizio di sopravvalutarsi, appoggiava almeno tre candidati (tutti “periferici”, of course): Giovanni Arruzzolo, di Rosarno, Raffaele Sainato, di Locri, e Patrizia Crea, di Melito Porto Salvo. Le ricostruzioni apocrife su quelle elezioni riferiscono di un Cannizzaro che, pochi giorni prima del voto, si rende conto del rischio di non eleggere nemmeno un consigliere per via della mal calcolata forza elettorale di altri due candidati di Fi, Giuseppe Mattiani e Domenico Giannetta, a lui profondamente ostili.

    Così, secondo questa interpretazione, il coordinatore provinciale sarebbe stato costretto a dirottare tutti i “suoi” voti sul solo Arruzzolo (poi primo eletto), abbandonando al proprio destino Sainato e Crea, che infatti restano fuori. È però sempre il racconto a fare la storia, e Cannizzaro, a urne chiuse, si attribuisce tutto il merito del 21% ottenuto da Fi, record regionale e risultato, dice, in linea con i tronfi berlusconiani del 1994. I 20mila e passa voti di Mattiani e Giannetta, su un totale di 44mila, nello storytelling di «Ciccio profumo» non guadagnano neppure una piccola nota a margine.

    Cannizzaro profumiere?

    Un millantatore, dunque? Un profumiere? Di sicuro Cannizzaro è bravissimo nel far passare una sconfitta come una vittoria. Come in occasione della scelta del nuovo coordinatore regionale di Fi, decisiva in vista delle candidature per le prossime Politiche. Il deputato reggino schiera tutta la sua batteria di ministri amici e plenipotenziari forzisti per ottenere la nomina a scapito dell’altro pretendente, il senatore Giuseppe Mangialavori. Alla fine la spunta, e anche piuttosto agevolmente, quest’ultimo. E Cannizzaro? Un altro si sarebbe abbattuto, invece lui briga per farsi nominare “responsabile nazionale per il Sud”, uno di quegli incarichi fuffa che il Cavaliere ha sempre usato per salvaguardare gli equilibri interni.

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    Cannizzaro e Occhiuto

    Il passo falso sulla segreteria calabrese non sopisce le ambizioni del giovane parlamentare. Che, raccontano i bene informati, avrebbe fatto di tutto e di più per sottrarre a Occhiuto la candidatura a governatore. Proprio così: oggi, film già visto, Cannizzaro sembra il miglior amico del presidente, ne appoggia le politiche, lo difende, lo accompagna a Roma e in giro per la Calabria come fosse il suo primo cavaliere; lo stesso ha fatto in campagna elettorale, quando, da “responsabile nazionale per il Sud”, teneva sempre il penultimo discorso per riscaldare la folla a beneficio del futuro vincitore. Ma prima, quando Berlusconi e gli alleati hanno ancora dubbi sul nome del candidato, Cannizzaro avrebbe giocato tutte le sue carte – e, dicono, usato ogni mezzo politico – per ottenere quella nomination a scapito dell’«amico Roberto».

    Il tonfo di Reggio

    Il tonfo più clamoroso di Cannizzaro, tuttavia, avviene nella sua Reggio. Ottobre 2020: Falcomatà, uno dei sindaci più contestati della storia cittadina, si impone al ballottaggio su Nino Minicuci, improbabile candidato scelto da Salvini. Che c’entra dunque il deputato di Fi? C’entra eccome, perché Cannizzaro aveva aspettato quel momento per anni, assicurando a tutto il centrodestra che lui, l’ex consigliere di Santo Stefano diventato un big nazionale, sarebbe stato il kingmaker della coalizione e avrebbe scelto il nome più adatto per asfaltare Falcomatà.

    Invece, Salvini, con il beneplacito di Berlusconi, manda avanti Minicuci e Cannizzaro, in buon ordine, si adegua e gli fa pure la campagna elettorale. Lo Scopelliti dei tempi migliori si sarebbe mai fatto imporre il candidato nella sua città? Forse no. E allora, è giusto chiedersi: è «Ciccio profumo» o è «Ciccio profumiere»? Blowin’ in the wind, canterebbe Bob Dylan: «La risposta, amico mio, se ne va nel vento». Come il profumo.

  • La diga da 70 miliardi con la monnezza al posto dell’acqua

    La diga da 70 miliardi con la monnezza al posto dell’acqua

    Più di dieci anni di cantiere, un capitolato di spesa lievitato fino all’inverosimile e uno status di servizio breve e un po’ deprimente, prima dello svuotamento e del sostanziale abbandono in cui versa da quasi dieci anni: la storia della diga sul Lordo, invaso artificiale alle spalle di Siderno, è lunga e piena di inciampi. Pensata per soddisfare il fabbisogno irriguo della Locride e costruita – assieme alla “gemella” sul Metramo, sul versante tirrenico d’Aspromonte – dal consorzio di imprese Felovi (acronimo per Ferrocemento, Lodigiani e Vianini), la diga, di proprietà regionale ma gestita dal consorzio di bonifica dell’alto Jonio reggino, avrebbe dovuto garantire il fabbisogno d’acqua dei numerosi paesi a vocazione agricola del territorio e implementare, di molto, la capacità di acqua potabile disponibile. Ma è diventata, in attesa dell’ennesimo finanziamento, un enorme catino vuoto e desolante.

    Cancelli chiusi dopo la chiusura del 2013

    Vent’anni dopo…

    Partito nel 1983, il cantiere per la costruzione dell’invaso artificiale – i fondi li mette la Cassa del Mezzogiorno – procede a mozzichi e bocconi. Per dieci anni ingloba una serie di terreni agricoli e vecchi poderi che si trovano nella piccola valle di contrada Pantaleo. Nel 1993, pochi metri alla volta, l’acqua inizia a confluire nel catino appena costruito. Arriva dal Lordo, piccola fiumara che vive praticamente solo dell’afflusso delle acque piovane. E a farle compagnia c’è quella del Torbido, grazie ad una condotta sotterranea lunga più di 9 chilometri che si collega nel comune di Grotteria, poco più a nord.

    Le operazioni di parziale riempimento e di collaudo vanno avanti per quasi 10 anni fino al raggiungimento dei 9 milioni di metri cubi di acqua che rappresentano il limite massimo a pieno regime. Dalla posa della prima pietra sono ormai trascorsi quasi 20 anni. I costi sono lievitati fino a 70 miliardi e del progetto iniziale è sparita una buona parte. Nessuno ha realizzato le condotte previste che avrebbero dovuto rifornire di acqua ad usi irrigui i paesi a nord e a sud dell’impianto. La diga si limita, per i pochi anni in cui è rimasta in esercizio, a rifornire solo le campagne di Siderno, che del territorio è il comune con meno vocazione agricola.

    L’oasi e la cattedrale

    Poco dopo la messa in esercizio dell’invaso, partono anche i lavori per la potabilizzazione delle acque che dovrebbe “ripulire” parte del carico della diga prima di ridistribuirlo nelle reti dei comuni vicini. L’impianto viene costruito proprio di fronte alla muraglia artificiale che chiude la valle, sotto uno dei viadotti della nuova 106. Finiti i lavori però, la struttura, di proprietà della Sorical, non è mai entrata in funzione. Da anni rimane inutilizzata, ennesima cattedrale nel deserto della Locride.

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    Nonostante i mille problemi funzionali però, il nuovo lago artificiale piace. Incastrata sotto Siderno superiore, affacciata allo Jonio e circondata da una natura prepotente, la diga diventa presto uno dei posti più frequentati del comprensorio. Appassionati di trekking, pescatori, cultori del jogging e della mountain bike: le colline di questo pezzo di Calabria si popolano di turisti e cittadini e anche molte specie di uccelli migratori iniziano a fare tappa fissa sulle acque del Lordo durante le loro migrazioni da e verso l’Africa. Le associazioni cittadine più volte avevano lanciato la proposta dell’istituzione di una oasi naturalistica – anche nel tentativo di fermare i cacciatori di frodo che degli stormi di uccelli migratori che facevano tappa a Siderno ne avevano fatto la propria personale riserva di caccia – senza però ottenere alcun risultato.

    Danni alla diga, svuotare tutto

    I problemi veri però, iniziano nel 2013. I tecnici del consorzio che curano la funzionalità della diga si accorgono infatti di una serie di crepe nella struttura in cemento armato del pozzo dentro cui è ospitata la camera di manovra per le paratie che regolano il deflusso delle acque dalla diga. Inizialmente si pensa ad un danno superficiale ma le cose peggiorano in fretta e, poco meno di un anno dopo, in seguito ad un ispezione dei tecnici del Ministero, si decide per il progressivo svuotamento dell’invaso che viene portato al 70% della capacità massima.

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    L’invaso svuotato dopo la scoperta dei problemi per il cemento armato

    Gli ingegneri si accorgono infatti che le crepe nel cemento sono il frutto di un movimento franoso (traslazione, in termini tecnici) che interessa il costone destro dell’impianto, quello posto sotto il versante dell’antico borgo collinare di Siderno. Movimento di cui nessuno, né durante la fase di costruzione, né durante quella di collaudo e di messa in esercizio si era accorto prima. Il rischio è serio, la decisione inevitabile: se il pozzo crolla, i comandi per muovere le paratie (e quindi regolare il livello dell’acqua contenuta nella diga) diventano irraggiungibili, l’unica strada è quella di svuotare tutto. In pochissimo tempo, quella che era diventata un’oasi nel cuore della Locride, diventa terreno di conquista per discariche abusive e pascoli altrettanto illeciti.

    Un nuovo progetto per la diga

    Questa situazione si trascina da anni e si è incastrata anche con le guerre intestine all’interno del Consorzio di bonifica, retto oggi da un commissario – l’ex sindaco di Sant’Ilario, Pasquale Brizzi – nominato dall’allora presidente Oliverio e in gara per il rinnovo delle cariche previste a giorni. Ma potrebbe sbloccarsi grazie a un nuovo progetto di intervento attualmente al vaglio del Ministero per la fase esecutiva dello stesso. Vale 9,27 milioni di euro, già finanziati dal fondo Coesione e Sviluppo e approvati con delibera del Cipe, e prevede il consolidamento del costone e la ricostruzione del pozzo con la camera di manovra.

    L’invaso oggi

    La progettazione dell’intervento è andata a bando per oltre 600 mila euro ed è stata vinta dallo studio Di Giuseppe con un ribasso – unico discriminante previsto dal bando – di circa il 60%. Burocrazia permettendo – l’intero progetto potrebbe passare sotto l’ala del Pnnr, pappandosi così quasi un terzo dei finanziamenti previsti nel comparto idrico per la Calabria e strappando altri sei mesi alla scadenza massima, per non perdere i fondi già stanziati, a metà 2023 – la diga potrebbe essere rimessa in funzione entro il 2026. Sempre se, nel frattempo, l’invaso che per un breve tempo era stato un’oasi, non continui a riempirsi con spazzatura e scarti di cantiere.