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  • I gran rifiuti: Reggio e provincia in cerca di una discarica

    I gran rifiuti: Reggio e provincia in cerca di una discarica

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    Una discarica “di servizio” da realizzare ma ancora in attesa dell’individuazione di un comune disposto ad accollarsela. Un’altra in costruzione da oltre un decennio ma sospesa nel limbo per il rischio di infiltrazioni nell’acquedotto che serve il centro più popoloso della provincia. Poi un impianto di trattamento dei rifiuti profondamente trasformato e (quasi) in consegna. E un altro che resta appeso al braccio di ferro tra la città metropolitana – che lo ha inserito come parte integrante dell’Ato provinciale – e il Comune di Siderno.

    Quest’ultimo, invece, teme i rinculi ambientali che l’opera provocherebbe e si è rivolto ai giudici amministrativi per ottenere una sospensiva ai cantieri. E, ancora, i lavori al termovalorizzatore di Gioia Tauro – l’unico in Regione – che da anni va avanti a mezzo servizio. In questo marasma disordinato e costoso, Reggio e la sua provincia annaspano sotto il peso di un miserrimo 32% di raccolta differenziata. Sono circa 15 punti percentuali in meno della media regionale.

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    Il termovalorizzatore di Gioia Tauro

    Guarascio re dei rifiuti e le proroghe

    È un disastro che pone la città più grande della Calabria appena sopra il fanalino di coda Crotone e che è andato peggiorando – certifica il report annuale di Arpacal – negli ultimi due anni. Un disastro gestito “a monte”, di proroga semestrale in proroga semestrale, da Ecologia Oggi, il gruppo che fa capo al “re dei rifiuti” Eugenio Guarascio. Gruppo che, dopo avere preso in mano l’intero comparto al dileguarsi della multinazionale francese Veolia, ha gestito, di fatto da monopolista, tutti gli impianti presenti nel Reggino. Ma è uscito sconfitto nella gara – l’unica finora espletata dalla Città metropolitana – per la gestione dell’impianto di Sambatello, i cui lavori di rewamping dovrebbero essere completati entro fine anno.

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    L’ingresso dell’impianto di Sambatello

    Reggio città e l’ecodistretto

    Reggio città ha contabilizzato negli ultimi anni una perdita percentuale di quasi 6 punti sul dato della raccolta differenziata. Il suo ecodistretto – tre in totale quelli previsti per tutta la provincia, con Siderno e Gioia – se la passa meglio, almeno in prospettiva: i lavori appaltati nel 2020 per l’impianto di Sambatello dovrebbero essere consegnati entro fine anno. I 41,5 milioni di euro finanziati con fondi Por hanno consentito una profonda trasformazione del sito.

    Si è passati da tecnologia meccanica-biologica a una piattaforma di recupero dei rifiuti con una linea per il secco e una per il trattamento anaerobico dell’organico con produzione di biometano. Un passo avanti importante, per un impianto che si appoggerà alla discarica di Motta San Giovanni per i materiali di scarto frutto della lavorazione del differenziato. Scarti che ad oggi, per la mancanza di siti attualmente attivi, finiscono fuori dai confini provinciali, con inevitabile aumento delle tariffe.

    Melicuccà: la storia infinita

    La mancanza di discariche finali rappresenta uno dei punti più dolenti dell’intera vicenda legata al trattamento dei rifiuti in Calabria e ancora di più nel reggino. In attesa di una ancora lontanissima autosufficienza, sono state previsti i lavori per la realizzazione di due siti distinti: il primo, individuato nel territorio di Melicuccà e destinato a servire gli scarti del termovalorizzatore di Gioia, è diventato, suo malgrado, simbolo ormai storico dell’inefficienza dell’intero comparto.

    Posto a 550 metri di quota sul versante tirrenico d’Aspromonte, il sito di contrada La Zingara “vanta” una storia antica di violenze ambientali. Sede per decenni della vecchia discarica comunale, nel 2006 arrivò l’ordine di dismissione per una serie di violazioni alle leggi di tutela dell’ambiente. Poi, nel 2009, la Regione anche nell’ottica dell’eterna emergenza rifiuti, individuò, proprio accanto alla vecchia discarica dismessa, un altro sito dove costruirne una nuova.

    L’interno del sito di trattamento dei rifiuti di Melicuccà

    Falde a rischio inquinamento

    La scelta portò in piazza centinaia di persone in protesta. «Sotto il sito individuato dalla Regione – dicevano i rappresentanti delle associazioni di cittadini che si oppongono all’opera – scorrono le falde che alimentano l’acquedotto Vina che serve Palmi e Seminara». La successiva denuncia presentata da Legambiente portò al sequestro dell’area. Siamo nel 2014, quando i lavori erano già iniziati da un pezzo.

    Per uscire dallo stallo servirebbe un’approfondita analisi geologica del terreno, ma nessuno se ne occupa e l’indagine decade per decorrenza termini. Passano gli anni ma quello di contrada La Zingara è sempre il sito su cui Regione e città Metropolitana puntano per costruire la discarica di servizio, e così nel 2021, con un finanziamento di 15 milioni di euro, i lavori per una discarica “monstre” da 400 mila tonnellate ripartano.

    Le indagini (e lo stop) a cantieri quasi pronti

    Prima però che le indagini tecniche affidate al Cnr (incaricato dalla Città Metropolitana) e all’Ispra (chiamata in causa dal comune di Palmi) possano stabilire se esista un rischio di inquinamento delle falde acquifere. E così, come da migliore paradosso calabrese, quando arrivano i risultati delle due indagini, i cantieri – siamo nel dicembre dello scorso anno – sono quasi pronti.

    Ma le conclusioni dei due istituti di ricerca concordano nel ritenere possibile il rischio di inquinamento delle falde. Per entrambi gli studi, infatti, la conformazione geologica del terreno, fatto di sabbie e rocce granitiche frammentate, ha creato una serie di sacche d’acqua. E queste potrebbero alimentare, a valle, i torrenti sotterranei che alimentano la sorgente Vina.

    Una sorta di pietra tombale scientifica sulla possibilità dell’entrata in esercizio del sito (e conseguentemente sul completamento delle strutture previste dall’Ato 5 Reggio Calabria) a cui Regione e metrocity proveranno a mettere una pezza attraverso Arpacal che dovrebbe realizzare la «perimetrazione della fonte» mettendo così una parola definitiva all’ennesimo rischio ambientale.

    L’emergenza rifiuti…che nessuno vuole

    Se sul Tirreno il tira e molla sulla discarica va avanti da quasi venti anni, sul versante jonico della provincia, il sito destinato a servire l’impianto di trattamento dei rifiuti di Siderno, non è stato nemmeno individuato. Nonostante la possibilità di incassare le royalties per la presenza del sito sul proprio territorio comunale (Siderno incassa 7 euro per ogni tonnellata di monnezza trattata nel Tmb) nessuno dei 42 sindaci infatti si è fatto avanti per avanzare la propria candidatura.

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    I capannoni dell’impianto di Siderno

    Questo stallo imbarazzante dura da anni. Non si è fermato nemmeno davanti alla nomina dell’ennesimo sub commissario regionale che, nel 2020, avrebbe dovuto d’imperio individuare un sito. Alla soluzione dall’alto, però, si preferì una scelta condivisa tra tutti gli amministratori della Locride che, da allora, non sono riusciti a trovare un’intesa. Sul rinvio della scelta del luogo, va detto però che almeno in questa occasione si è preferito, al contrario di quanto successo a Melicuccà, attendere la relazione sui territori che rispondono alla caratteristiche tecniche necessarie ad un intervento di questa portata.

    Ne resterà solo uno

    Arrivata la mappa, ora ci si concentrerà sui comuni da escludere: quelli che non rientrano per conformità del terreno così come quelli che ospitano, o hanno ospitato in passato, impianti o siti destinati ai rifiuti. Escluse quindi Caulonia, Bianco e Melito, che ospiteranno i centri di smistamento di zona. Fuori anche Casignana, nel cui territorio ricade la terrificante discarica dismessa. E fuori quindi anche Siderno, dove è presente il Tmb su cui a giorni si attende la pronuncia del Tar che dovrà decidere sui lavori di rewamping che prevedono nuove costruzioni per oltre 60 mila metri quadri. Di quanti ne mancano, ne resterà soltanto uno. E dovranno sceglierlo gli stessi sindaci.

  • Totò, il punk ucciso a Bovalino per un debito di 300mila lire

    Totò, il punk ucciso a Bovalino per un debito di 300mila lire

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    Luglio 1986, Arena Lido di Reggio Calabria. Gli ambientalisti hanno organizzato un concerto contro il nucleare dopo il disastro alla centrale di Chernobyl di aprile. Sul palco i CCCP e i Gang: un evento. Ad aprire la serata c’è una band di esordienti, gli Invece. Sono quattro musicisti poco più che ragazzini – Salvatore Scoleri, Mimmo Napoli, Totò Speranza e Peppe De Luca – vengono dalla Locride e, come loro stessi ammetteranno anni dopo, quel giorno sapevano a malapena accordare gli strumenti.

    Il pubblico li guarda perplessi, ma è questione di pochi istanti. Gli Invece hanno energia da vendere, uno sguardo originale sul mondo e cantano in dialetto le loro canzoni punk-reggae. Un mix vincente.
    È l’inizio di una ribellione impossibile, di una piccola grande storia di passioni e rabbia, libertà e ingiustizie, dolore e morte vissuta nella Locride degli anni ottanta, terra di rapimenti, faide e tradimenti.
    Decidono di chiamarsi Invece per questo. Meglio, contro tutto questo.

    Adolescenti a Bovalino

    Salvatore, Mimmo e Totò vivono a Bovalino, un piccolo comune che si affaccia sul mare, dove l’aria sembra rarefatta e immobile. È forte l’oppressione della ‘ndrangheta aspromontana, così come il sentimento diffuso che nulla possa mai cambiare. È a questo orizzonte asfissiante che i tre ragazzi non vogliono rassegnarsi. Per questo in paese tutti li considerano gli strani e i disadattati, peggio ancora i drogati solo perché ogni tanto fumano erba. Si spalleggiano a vicenda, soli contro tutti. Diventano inseparabili.

    «Totò ed io passavamo intere giornate e lunghissime notti insieme, c’erano anche Mimmo Napoli e Ciccio Sacco, pochi altri», ricorda Salvatore. Il loro rifugio è la camera di Totò, nella casa sopra il negozio di fiori di famiglia. Il balcone si affaccia sulla piazza di Bovalino, «ma per noi che avevamo colorato le pareti con le bombolette spray, che ci avevamo scritto sopra le frasi di De André e Orwell, di Marley e Guevara e che consumavamo i 33 giri di Clash, Sex Pistols e Cure, quella piazza poteva essere a Londra, a Bologna o a Berlino». Avevano praticato «una rottura con l’ombelico del luogo madre».

    Così Bovalino li respinge, ma loro non fanno nulla per essere accettati. Totò, il primo punk della Locride, è quello che si fa notare di più. Indossa un giubbotto di pelle su cui ha disegnato una siringa spezzata per dire no all’eroina. Porta i capelli tinti e la cresta, usa borchie e anfibi. Facile immaginare che «tantissimi compaesani ci guardassero come fossimo degli alieni». Così Totò inizia a girare per strada con un binocolo al collo. E ai passanti che indugiavano troppo con occhi giudicanti chiede divertito: «Vuoi il binocolo per guardare meglio?». Altre volte, invece, ha raccontato l’amica Deborah Cartisano, estrae un pettine dal taschino, lo bagna in una pozzanghera e poi se lo passa tra i capelli. Ama stupire.

    Arriva la musica

    Ma presto le provocazioni non bastano più. Quel gruppetto di adolescenti sensibili e inquieti sente il bisogno di dare voce alla propria rivoluzione e sogna una band. Accade nella primavera del 1986 quando, poco più che 16enni, incontrano Peppe De Luca, che è più grande di loro e s’è laureato a Bologna in Scienze politiche con una tesi sul punk. Tornato a San Luca, trova naturale avvicinarsi agli strani di Bovalino, con cui condivide la rabbia per le ingiustizie e l’amore per la musica. È lui a far scoprire ai ragazzi la potenza del reggae.

    Gli Invece nascono così: Salvatore, che strimpella la chitarra e scrive poesie, ne diventa il cantante, Mimmo Napoli si accomoda alla batteria, Totò – che non ha mai imbracciato uno strumento in vita sua – si procura un basso e inizia a suonarlo, mentre Peppe fa da chioccia con la sua chitarra elettrica. In quei giorni, l’amico Ciccio Sacco scatta una foto alla band in una posa improbabile davanti a un muro scrostato da qualche parte tra Bova e Palizzi: diventerà la loro immagine storica. L’avventura può avere inizio. «Eravamo una cosa completamente nuova, eravamo all’avanguardia», rivendica fiero Scoleri. La loro musica viene definita “combat reggae”, le loro canzoni contro la guerra e le ingiustizie fanno presto il giro della Locride su nastri di fortuna.

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    Salvatore Scoleri alla chitarra

    Il concerto con i CCCP e i Gang a Reggio Calabria potrebbe essere il trampolino giusto. Tuttavia mentre in tutta Italia si afferma la nuova musica indipendente, gli Invece faticano. È sempre tutto più difficile in Calabria. Così i ragazzi si dividono ed emigrano. Mimmo trascorre alcuni mesi all’estero, Salvatore gira l’Europa come artista di strada (una passione mai sopita), Peppe sceglie il quartiere afrocaraibico di Brixton a Londra, Totò prima raggiunge la sorella Teresa in Liguria poi, dopo un periodo in Portogallo, si trasferisce da Peppe a Londra.

    Ma anche se sono dei giramondo, gli Invece trovano sempre il tempo di tornare a Bovalino e ogni volta è una buona occasione per scrivere canzoni e suonare. Nel 1988 la band organizza un tour calabrese e nei due anni successivi registra dei nastri promozionali. Ma la fortuna non gira e all’improvviso le cose precipitano: Totò finisce nell’inferno dell’eroina. Cade e si rialza molte volte, anche passando per una comunità. Nel frattempo continua a girovagare tra l’Italia e la Francia, la Spagna e il Portogallo dove, nel 1993, diventa padre di un bambino che si chiama Diego. Totò combatte contro i demoni e trova rifugio in paese, dove si unisce ai tanti giovani che animano il movimento antindrangheta “Pro Bovalino Libera” che si batte contro i sequestri di persona e chiede la liberazione del fotografo Lollò Cartisano.

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    Il bassista degli Invece, Totò Speranza, ucciso dal pusher

    Totò ci riprova

    Dopo quella stagione di impegno, si sente pronto per una nuova sfida e si trasferisce a Roma dove lavora come cuoco e si specializza in una paella in versione calabrese. Le cose vanno talmente bene che decide di investire con alcuni amici romani in un locale nel rione Trastevere, il Punto G. Ma il momento fortunato dura troppo poco. Nessuno sa davvero quali tormenti lo abbiano attraversato, ma per Totò sono mesi difficili. S’innamora di una ragazza che si fa spazio nel mondo della tv evocando messe nere e dicendo di far parte della famigerata setta dei Bambini di Satana. Scoppia uno scandalo e si apre un’inchiesta della magistratura.

    Totò, pur estraneo a quel mondo, finisce in carcere per avere difeso la compagna dalle pressioni della polizia, per lui ingiuste, durante un interrogatorio. Crolla, litiga con i soci del locale e all’inizio del 1997 fa ancora una volta ritorno in paese. Questa volta però non ha più voglia di essere considerato un corpo estraneo, dà una mano al negozio di famiglia e lancia lo slogan “Vogliamoci bene a Bovalino”, subito sposato dagli Invece che riprendono a suonare. I primi di marzo la band raccoglie l’affetto di tanti amici esibendosi nel bar dove i ragazzi spesso trascorrono le loro serate. Sarà l’ultimo concerto insieme.

    Il passato che ritorna

    Perché è vero che Totò è cambiato, ma non è facile chiudere con il passato. Soprattutto se hai accumulato troppi debiti con gli spacciatori. Per alcuni interviene la famiglia, l’ultimo, che risale al 1995, gli è fatale. Quella volta Totò aveva riempito la valigia con 200 grammi di marijuana per portarla agli amici romani – l’erba dell’Aspromonte è conosciuta in tutta Italia. L’aveva presa da un ventenne, diventato il principale pusher di zona, Giancarlo Polifroni. Totò gli deve trecentomila lire, ma il tempo passa e non riesce a pagare. Polifroni non vuole soprassedere – ne andrebbe del suo prestigio.

    Nella terra delle vittime di mafia

    Totò sparisce nel tardo pomeriggio del 12 marzo 1997, dopo avere bevuto una birra al bar con un amico. Il giorno seguente una telefonata anonima ai carabinieri segnala la presenza di un cadavere sotto un ponte della statale 106. Totò Speranza, 28 anni, è stato ucciso con un colpo alla tempia sinistra, il killer ha poi infierito sparandogli cinque volte alla schiena. Nel 2004 Giancarlo Polifroni viene condannato in contumacia a 17 anni in via definitiva. Sarà arrestato alcuni anni dopo, quando – rivelano le inchieste – è ormai un narcotrafficante capace di rifornire le piazze di spaccio di mezza Europa.

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    Gli Invece senza Totò Speranza

    Comu si faci

    Il dolore è insopportabile, per il gruppo la tentazione di mollare è forte. A riaccendere la fiamma è la ricercatrice tedesca, Eva Remberger, studiosa della musica dialettale italiana che insiste perché la band non si sciolga e si offre di sostenere le spese del primo disco. Durante quelle ore concitate Salvatore compone di getto una poesia per l’amico ucciso, si intitola Ma comu si faci – come si fa ad ammazzare ancora in Calabria, una terra che somiglia al paradiso – una struggente ballata, la canzone manifesto degli Invece. Tre mesi dopo l’omicidio, è un nuovo inizio: la band diventa il riferimento delle battaglie per i diritti in Calabria, arrivano le recensioni sulle riviste specializzate, i concerti oltre il Pollino, un memorial per Totò Speranza – che sarà organizzato per un ventennio. Anche per ricordare storie e nomi delle vittime di mafia.

    Nel 1999 escono due dischi da cui nasce un fortunato tour in Norvegia dove «creammo gli Invece in versione multietnica con musicisti di ogni parte del mondo», ricorda Scoleri. Tra una partenza e un ritorno, va avanti così per anni, poi forse la spinta si esaurisce, forse cambiano le priorità della vita e i concerti si fanno sempre più rari. La storia di Totò però è ormai un simbolo di ingiustizia e ribellione che trova alimento nei racconti delle associazioni antimafia, nelle parole del rapper Kento che al «sogno di Totò Speranza» nel 2016 dedica uno splendido pezzo, nelle testimonianze dei compagni di sempre che, 25 anni dopo quella morte assurda, conservano «nel cuore un ricordo che non sbiadisce». Non può.

    «Nascendo in un altro posto avremmo avuto più fortuna», ne è stato convinto Peppe De Luca. D’altra parte, si sa, la Calabria sa essere ostile e crudele. «Ma non avremmo potuto cogliere la quotidianità che si vive qua». E comunque, per dirla oggi con Scoleri, «non saremmo stati gli Invece». Quegli strani ragazzini, felici e disperati, che crescendo si sono battuti, che forse hanno anche commesso degli errori, ma che in fondo hanno solo desiderato essere liberi. Magari anche di cadere e di ricominciare. E che per questo hanno pagato – e pagano – un prezzo enorme e ingiusto. Nessuno mai avrebbe dovuto, nessuno mai dovrebbe.

  • IN FONDO A SUD| Reggio Calabria: mare, miti e cemento

    IN FONDO A SUD| Reggio Calabria: mare, miti e cemento

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    È un posto duro da raccontare Reggio Calabria. La più difficile tra le città e i luoghi che incrocio da anni in questa regione nei miei giri solitari da antropologo e narratore sul campo. Ci arrivo ancora una volta in auto seguendo il lungo spago della SS 18. Dopo aver attraversato traffico, agitazione e scompiglio, allacciando lungo il tragitto tutto quello che sorge sulla costa tirrenica calabrese da nord a sud, la lunga strada delle Calabrie si arresta qui, in riva allo Stretto. E poi si spegne quasi anonimamente, in un modesto vialetto che si perde tra le auto parcheggiate sotto le case del quartiere urbano di Santa Caterina.

    Gli stereotipi, la realtà e le sue contraddizioni

    E già guardandola oltre i finestrini dal nastro sconnesso della SS 18, ti accorgi che Reggio è un enorme geroglifico scarabocchiato sopra il mare dello Stretto. Un luogo di soglia, margine estremo del disegno confuso dello stato dei luoghi e delle persone in questa Calabria di adesso. Una sorta di documento/monumento concreto. La sigla più indecifrabile e ostica tra i segni della scrittura umana e della geopolitica incisa nella regione.

    Difficile innanzitutto sottrarne la descrizione dalle immagini stratificate nel tempo, dagli stereotipi che la precedono e che ne compongono il quadro, stigmatizzandola senza appello. Lo stesso accade se invece prendiamo per buone tutte le rappresentazioni più ravvicinate che all’opposto, e in parte, ne giustificano la realtà e le sue più paralizzanti e vittimistiche contraddizioni. Ancora più difficile è separarne la vicenda contemporanea dall’oscurità delle cronache che da decenni la raccontano non solo sulla stampa e sui media.

    Reggio, la capitale immorale della Calabria

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    Il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri

    Gratteri nel 2011 dichiarava che la densità criminale, con il coinvolgimento a vario titolo nelle attività illecite di una parte della popolazione, nella provincia di Reggio era stimata al 27% della popolazione totale. Perciò comincio a credere che, forse, solo sottraendola dalle narrazioni corrive e dall’inappellabilità della sua storia recente, riprogettandola nell’atemporalità e nella ricchezza solare dei suoi miti, rifondandola tra le suggestioni dei racconti e delle pagine che la nominano, a Reggio si può immaginare una via d’uscita per il riscatto e la costruzione di un futuro rinnovato.

    Reggio Calabria è infatti lo Scilla e Cariddi di tutta la Calabria contemporanea, la capitale immorale che ne assomma tutti i mali e le dismisure, la luce e l’ombra, il suo distillato di società disegnata – male, malissimo – su un territorio che un tempo fu abitato dalla bellezza e dalla sapienza degli antichi. «Reggio, città bella e gentile», si diceva una volta. Se la metamorfosi del moderno ne ha sino ad oggi imbruttito e mostrificato il volto, non ha però svuotato del tutto l’aura luminosa del suo sigillo originario. Qualcosa vi resta ancora impresso come un calco, oltre i dissidi e le contraddizioni del moderno, nella forza sommersa dei princìpi.

    Miti di ieri e di oggi

    La realtà che mostra oggi le evidenze e i contorni di Reggio è però, come in tutti i miti, intrappolata nelle opposizioni flagranti che ne costituiscono il senso. Miti di ieri e miti di oggi, che qui cozzano e lottano senza mai raggiungere un ragionevole punto di sintesi. Odisseo e le sirene, la Fata Morgana, lo Stretto e il panorama del chilometro più bello d’Italia, Eracle e la fondazione dei coloni della Ionia, la Magna Grecia, il culto dei Dioscuri, Aschenez, San Paolo e le radici cristiane.

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    Il fenomeno della Fata Morgana

    Sul lato opposto, la ’ndrangheta e la pervasività delle cosche, la corruzione diffusa, la città fascistissima e irredenta dei moti del 1970, la malapolitica e il famigerato “modello Reggio”, il Circolo del Tennis e il Circolo del Cinema, gli Amici del Museo e quelli delle logge coperte dei capi della massomafia e dei servizi deviati, i Boia chi molla! e le associazioni cattoliche, il pescestocco e i cudduraci, i ruderi greci abbandonati in mezzo alla città, il Calopinace interrato e pieno di detriti, i bronzi di Riace nel Museo Archeologico e il genio futurista di Boccioni, il colonnato di Tresoldi piegato dal vento, palestra per i topi che ci ballano sopra, la devozione alla Madonna e quella al Santuario di Polsi, il centro con le palazzine liberty da nobile decaduta e appena fuori i quartieroni abusivi senz’acqua, l’incuria, le strade sommerse di monnezza, l’urbanistica miserabile da gran bazar del cemento.

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    Una delle statue di Rabarama sul lungomare di Reggio Calabria

    Reggio Calabria sottosopra

    Ciò che di Reggio colpisce al primo colpo anche l’occhio di un profano è il suo aspetto sottosopra. Una città che sembra costruita a immagine e somiglianza del provvisorio che gareggia con l’eterno, del brutto che sottomette il bello, del privato che prevarica il pubblico. Il regno perfetto del geometra alla Cetto la Qualunque, che qui in anni e anni di abusi a mano libera ha deturpato il volto di Reggio in faccia al panorama più bello d’Italia. La città è oggi una colata di macerie del moderno dallo skyline barcollante e instabile, con costruzioni alte e basse spruzzate ovunque, sino ai recessi di una enorme retrovia periferica che ormai assedia quello che resta della città storica. Anche la vita che si volge in questi spazi in subbuglio ha un che di pericolante, un fondo tellurico che si nasconde nelle pieghe dell’ostentata indolenza caratteriale degli abitanti.

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    Il quartiere Arghillà a Reggio Calabria

    Il fantasma del terremoto

    Il reggino inurbato di recente si nasconde in un dialetto limaccioso e sciovinista (che è già un orpello dell’isolanità siciliana a cui Reggio aspira), da cui spunta sempre un senso di fatalismo, di noia, di aggressività trattenuta. Tutta la città vive in una sorta di perenne stato d’emergenza, e l’inquietudine la scuote sotterraneamente come un’onda sismica. Il fantasma del terremoto è da sempre presente come attesa di un cataclisma venturo. Dilatata in “città metropolitana” Reggio è esplosa in un’interrotta colata di cemento solcata da un labirinto di strade anguste, scassate o troppo grandi e spesso senza nome, come quelle che portano tra vicoli e ridossi in cima al nuovo compound fuori scala delle torri dell’Università, verso il nuovo Centro Direzionale e il Tribunale.

    Quel che resta del bello a Reggio Calabria

    Quasi sparito il “panorama” naturale che ammaliò i viaggiatori del Grand Tour, con «la sera che scende sull’Etna ammantato di nubi e le tremule luci che balenano su Scilla e Cariddi» (spettacolo che ormai si coglie a sprazzi solo dal Lungomare intitolato al sindaco Falcomatà, il primo), nonostante la riproposizione del progetto di Waterfront dell’archistar Zaha Hadid, quello che resta della bellezza di Reggio oggi sono solo interstizi e sparuti frammenti.

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    Il Waterfront progettato da Zaha Hadid

    Il corpo della città è una accozzaglia deforme, interrotta solo dagli spazi residuali che si intravedono tra i palazzoni nuovi, con riquadri di terra e di mare sempre più striminziti e impolverati ai lati sfiancati delle strade, con le sponde dei fossi delle fiumare interrate e le antiche aree agricole abbandonate che presto saranno preda della nuova speculazione.

    Radici nel cemento

    Città apologo urbanistico dell’intero sfacelo ambientale che affligge tutta la Calabria, a Reggio si consumano gli ultimi suoli di quella battaglia ormai persa tra vuoti e pieni, tra natura e spazio costruito (male, malissimo), con la vittoria e l’estensione dell’abuso sulla misura, il trionfo incontrastato della cancellazione progressiva di ogni remora nella distruzione sistematica dei beni comuni e della salvaguardia della bellezza. È la legge della “crescita” illimitata inseguita da politici e amministratori, che qui continuano a legittimare il consumo di suolo e l’annichilimento di risorse irripetibili, quasi che tutto il territorio possa essere considerato “spazio in attesa di destinazione”.

    I paradossi di Reggio Calabria

    Uno dei paradossi di Reggio sta nel fatto che il saccheggio continua anche a dispetto dell’insediamento (risalente a più di 50 anni fa) della prima università calabrese, l’Università Mediterranea di Reggio Calabria, il cui primo nucleo nel 1968 fu l’Istituto Universitario di Architettura, oggi DARTE diretto dal professor Gianfranco Neri.
    Dipartimento e università in cui anche Renato Nicolini insegnò architettura fino alla morte nel 2012. Reggio possiede dunque una brillante università che si occupa di architettura e pianificazione territoriale, di scienze agrarie e innovazione ambientale, di progetti di sostenibilità e di azioni di riqualificazione. L’ateneo sembra vivere però una vita a parte, con la scienza e un patrimonio di buone prassi che Reggio rifiuta.

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    La facoltà di Architettura di Reggio Calabria

    L’unica Città Metropolitana

    Nonostante il caos dal 2016 Reggio è l’unica città che in Calabria ha ottenuto statuto di Città Metropolitana. È oggi la più grande conurbazione della regione, e conta, nell’espansione incontrollata di un’area metropolitana simile nel disordine urbanistico a una new town asiatica, sparpagliati dalle cime dell’Aspromonte e spruzzati fin sulle rive dello Stretto, circa 200.000 abitanti. Con un aeroporto che funziona sì e no, un porto asfittico monopolizzato dal traffico dei traghetti, riemerge a tratti anche il mito sacrilego del Ponte sullo Stretto (incombenza retorica rievocata anche in questi giorni per fare un po’ di grancassa mediatica da un politico come Calenda).

    La sacralità dello Stretto

    La storia infinita del ponte è all’opposto del genius loci meridiano che dall’antichità prescrive l’inviolabile sacralità dello Stretto. Il mare tra le due sponde di questo Sud è stato mito, lingua, letteratura, spazio culturale e memoria. Sin da quando un responso dell’Oracolo di Delfi guidò su queste rive i fondatori greci di Reggio: «Laddove, mentre sbarchi, una femmina si unisce ad un maschio, là fonda una città; il dio ti concede la terra Ausonia» (Diodoro, XIII, 23).

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    L’Oracolo di Delfi

    Nella letteratura più recente il passaggio dello Stretto il 4 ottobre 1943, segna invece la scena tragica in dell’odissea minore del marinaio ‘Ndrja Cambrìa, narrata nell’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, romanzo-mondo che ha inciso un nuovo valore simbolico e figurale su questi luoghi. ‘Ndrja trova una terra stravolta e devastata dalla guerra, offesa dal degrado e dalla miseria. Non ci sarà un’altra Itaca da raggiungere. Dopo mille traversie nel «paese delle Femmine» (ritorna il mito fondativo di Reggio), ‘Ndrja non tornerà più a casa; mentre rema su una barchetta in mezzo allo Stretto e si avvicina a una enorme portaerei americana, nel buio parte un colpo che lo prende in mezzo agli occhi uccidendolo.

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    Il mare dello Stretto

    «La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli… come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare». Il pathos di ‘Ndrja Cambrìa si è chiuso tra le pagine di quel libro magnifico, ma in riva al mare di Reggio un’altra guerra non è mai cessata. È la guerra dei tempi di pace che disprezza la storia, con il consumo per il consumo, l’abuso ininterrotto della bellezza e dei beni comuni. E siamo noi i veri invasori.

    «Un mondo che non è più riconoscibile»

    Se n’era accorto Pier Paolo Pasolini già nel 1959, quando la prima ondata modernizzatrice del cemento senza regole si abbatteva su questi paesaggi magnifici e su luoghi che nemmeno la guerra mondiale appena trascorsa aveva oltraggiato e sfregiato così irrimediabilmente come oggi. Di passaggio su queste sponde per il reportage La lunga strada di sabbia, dopo l’incanto del mare incontrava i primi avamposti della città nuova di Reggio. E scriveva: «Sui camion che passano per le lunghe vie parallele al mare si vedono scritte “Dio aiutaci” – mi stupiva la dolcezza, la mitezza, il nitore dei paesi, della costa… Poi si entra in un mondo che non è più riconoscibile».
    È l’impostura infinita che stiamo ancora vivendo.

  • Gioffrè: «Lobby masso-bancarie e colletti bianchi creano così il buco nei conti della Sanità»

    Gioffrè: «Lobby masso-bancarie e colletti bianchi creano così il buco nei conti della Sanità»

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    La metafora veicola una suggestione da scrittore, ma la sostanza restituisce il pragmatismo del managerSanto Gioffrè nella vita ha fatto e fa entrambe le cose. Dunque, se gli si chiede cosa pensi della creazione dell’Azienda Zero come cura per la sanità calabrese, risponde così: «Mi sembra un tentativo di prendersi la carne e lasciare le ossa alle Asp».

    La lobby masso-bancaria e la Sanità calabrese

    Lui un’Asp l’ha guidata. Nel 2015 è stato commissario straordinario dell’Azienda più inguaiata di Calabria, quella di Reggio, raccontando poi quell’esperienza in un libro-testimonianza sulla «grande truffa nella sanità calabrese» . Quanto il suo sguardo sul «sistema» sia disincantato lo si intuisce subito: «C’è, almeno dal 2005, una lobby masso-bancaria che in combutta con i colletti bianchi ha creato un meccanismo attraverso il quale si è reso impossibile conoscere o risalire alla vera contabilità delle Asp».

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    L’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria

    Il nodo, secondo Santo Gioffrè, sta tutto lì: «Se non ricostruiscono il debito, portando a galla tutti gli interessi che ci sono dietro, possono inventarsi pure la luna». Dunque l’Azienda zero «in linea di principio potrebbe anche funzionare, ma in un contesto sano». In quello attuale, «se non sai se ciò che stai pagando è già stato pagato, come fai?». C’è poco da girarci attorno: «Bisogna accertare chi si è preso i soldi, quanti ne ha presi e come li ha presi. Un’operazione di questo tipo si vuole fare? Serve una volontà di ferro».

    Il debito mai quantificato

    Proprio in questi giorni Roberto Occhiuto si è mostrato sicuro: «Abbiamo messo su una procedura – ha annunciato su Facebook – per accertare il debito entro il 31 dicembre 2022». Se ne occuperanno dei «gruppi di lavoro» che, tra il Dipartimento regionale e le Aziende del servizio sanitario, dovrebbero avere il supporto della Guardia di finanza per provare a capire quanto sia grande il buco nei conti. E così riuscire dove hanno fallito, in 12 anni di commissariamento, fior di generali delle stesse Fiamme gialle e dei carabinieri.

    Fin dall’avvio del Piano di rientro (era la vigilia di Natale del 2009) sono stati macinati commissari e spesi miliardi senza cavare un ragno dal buco. Con l’aggravante che ci si è avvalsi di una società, la Kpmg Advisory, che doveva appunto dare una mano nella ricognizione e riconciliazione del debito pregresso. È finita malissimo. Carlo Guccione ha dichiarato in consiglio regionale che, dal 2008, questa società ha ricevuto compensi per 11 milioni di euro. Ma l’entità del debito ancora non la sappiamo.

    La Kpmg e quell’ufficio regionale

    La storiaccia calabrese della Kpmg si incrocia, a questo proposito, con quella di una sigla poco nota ai non addetti ai lavori, BDE, che significa Bad Debt Entity. «Si trattava di un ufficio creato in Regione nel 2010 con l’intento di ripianare i debiti delle Aziende sanitarie e ospedaliere», spiega il manager-scrittore. I soldi, circa 500 milioni di euro, arrivavano da un mutuo contratto dalla Regione. «I debiti si pagavano in base alla certificazione delle fatture effettuata da Kpmg. Dopo 4 anni (fine ottobre del 2014) le somme residue sono state date, con una specie di forfait, alle Aziende: “pagate voi”, dissero da Catanzaro. E le Aziende cominciarono a fare le transazioni in base alle tabelle fornite da Kpmg».

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    Una delle sedi dela Kpmg, colosso internazionale della revisione contabile

    Il meccanismo si inceppa

    In uno schema di transazione utilizzato spesso dalle Aziende si sostiene che grazie alla BDE ci sarebbe stata «una riduzione del livello di indebitamento verso gli istituti tesorieri e un decremento dei relativi interessi passivi sulle anticipazioni di cassa nel corso dell’esercizio 2015». Qualcosa però deve essersi poi inceppato visto che negli anni successivi sono emerse «varie difficoltà da parte delle Aziende Sanitarie nell’efficace utilizzo delle risorse ricevute per il pagamento del debito pregresso, dovute principalmente alla carenza di figure professionali e competenze tecnico specialistiche nello svolgimento delle attività amministrative per il perfezionamento con i debitori di transazioni e nella emissione dei mandati di pagamento, nonché a difficoltà connesse alla verifica delle partite debitorie già pagate in esecuzione di assegnazioni giudiziarie, al fine di evitare pagamenti multipli per medesime fatture».

    Le origini del bilancio orale secondo Santo Gioffrè

    Ecco, le fatture pagate due volte ai privati. È proprio ciò che si è puntualmente verificato – come di recente confermato dalla Corte dei conti – e che Gioffrè ha denunciato. Da anni va ripetendo, carte alla mano, cosa si celi dietro i «pignoramenti non regolarizzati» a cui «mai nessuno, dal governo a ogni istituzione che ne avrebbe il dovere, ha voluto mettere mano». Come funzionava il sistema? «Le aziende creditrici si rivolgevano al giudice, che ordinava il pignoramento presso terzi, cioè alla banca che svolgeva il servizio di Tesoreria per l’Azienda. L’istituto bancario però non trasmetteva all’Asp le minute delle fatture che pagava. È questa l’origine del famigerato “bilancio orale” che ha sconquassato tutto. L’Asp non negativizzava quel debito, che rimaneva sempre attivo, anche se i soldi se li erano presi».

    Dietro ci sarebbe la «lobby» che, grazie ai mancati controlli e a qualche complicità nelle stanze delle Asp, avrebbe provocato una lievitazione spropositata di pignoramenti non regolarizzati. Che quando Gioffrè si è insediato, a marzo del 2015, ammontavano a «circa 400 milioni di euro», ai quali va aggiunto il resto del contenzioso. «Quando ho capito il meccanismo mi sono messo in testa di ricostruire il bilancio, per farlo però avevo bisogno di venti persone che esaminassero ogni tipo di pagamento fatto. E lì mi hanno fermato».

    In nove anni 600 commissari ad acta

    Questo fa capire perché nessuno, dal 2013, sia riuscito ad approvare il bilancio dell’Asp di Reggio, dove in due anni si sono insediati «ben 600 commissari ad acta per il recupero crediti». Gioffrè legge incredulo la relazione in cui un suo predecessore parlava – era il 2014 – di «quasi 349 milioni corrispondenti a mandati di pagamento effettuati ma non ancora contabilmente imputati e regolarizzati». Vi si aggiungeva che «nel passaggio di consegne dal vecchio al nuovo tesoriere non sarebbero state fornite le carte e tutto ciò che veniva pagato non veniva inserito nel sistema di contabilità».

    Tutte fuori dal Piano di Rientro, Calabria esclusa

    Questa sarebbe l’origine di un disastro debitorio che, negli anni successivi, sarebbe arrivato a sfiorare, solo a Reggio, il miliardo di euro. Tutto a causa di una «complicità verticale» che ha reso «marcio» l’intero settore. La controprova? Semplice: «Su 10 Regioni entrate in Piano di rientro ormai oltre un decennio fa 9 ne sono uscite. La Calabria invece rimane in questa condizione e rischia di non uscirne mai. Perché il Piano di rientro ha a che fare con la finanza e l’economia. I calabresi sono numeri».

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    La sede della Regione Calabria a Germaneto

    «Tutto ciò – conclude amaramente Gioffrè – ha prodotto un blocco delle assunzioni che ha fatto saltare due generazioni di professionisti e ha ridotto la capacità di dare risposte terapeutiche e di prevenzione. Con un aumento di mortalità pari al 4% rispetto alle regioni che non sono più in Piano di rientro. Non ci sono medici. C’è una sola università. Intanto paghiamo 330 milioni all’anno alle regioni del Nord per la mobilità passiva. Il sospetto che da Roma vogliano mantenerci in questa condizione sorge, eccome».

  • Rocco Gatto: il mugnaio rosso che non aveva paura della ‘ndrangheta

    Rocco Gatto: il mugnaio rosso che non aveva paura della ‘ndrangheta

    «È venuto uno e mi ha chiesto la mazzetta, i soldi. E io non glieli ho dati. Qualcuno invece paga e non dice niente: non c’è unità nella lotta a questa gente. Io, da parte mia, li lotto sempre, fino alla morte». Quando Rocco Gatto racconta allo sbigottito inviato Rai come ci si oppone alla mafia nella Gioiosa del 1976, le coppole storte agli ordini di Vincenzo Ursini gli hanno già bruciato il mulino e la casetta sulle colline di Cessarè. Gli hanno fatto sparire gli orologi che amava riparare nei ritagli di tempo. Gli hanno fatto sentire quanto pesi, nella Calabria di quei tempi, mettersi di traverso agli ordini di una mafia che ha già fatto il grande salto verso i traffici di droga e i sequestri di persona.

     

    Il Colore Del Tempo (2008), scritto e diretto da Alberto Gatto, nipote di Rocco, con Ulderico Pesce, Renato Scarpa, Nino Racco, Carlo Marrapodi e Lara Chiellino

     

    È un periodo duro quello a metà degli anni ’70 in questo pezzo di Calabria: la prima guerra di ‘ndrangheta è ancora in pieno svolgimento. Gli equilibri cambiano, i morti ammazzati si contano a decine in tutto il reggino. A Gioiosa il bastone del comando lo ha preso il clan degli Ursini: feroci e famelici, agli ordini del capobastone Vincenzo, i picciotti puntano le terre migliori del paese, quelle di Cessarè. Vogliono quei terreni, li pretendono. Iniziano uno stillicidio di richieste e intimidazioni. I campi coltivati sono devastati dalle mandrie di vacche sacre lasciate libere dagli uomini del clan. Una situazione asfissiante.

    Gioiosa e il sindaco Modafferi

    Ma quelli sono anche mesi di grandi fermenti politici e culturali. E Gioiosa ne è attraversata in pieno. Sindaco della cittadina jonica è Ciccio Modafferi, intellettuale arguto e dirigente del Pci: incurante delle minacce subite, Modafferi si mette alla testa dei cittadini che reclamano giustizia e insieme a sindacati, parrocchie, alleati e avversari politici proclama lo sciopero generale. Nel dicembre del 1975, per la prima volta nella storia, un paese calabrese si ferma per protestare contro la ‘ndrangheta.

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    Il sindaco di Gioiosa Jonica, Ciccio Modafferi

    Rocco Gatto è in prima fila in quel giorno di presa di coscienza collettiva. E lo sarà nei mesi a seguire, quando continuerà a scacciare dal suo mulino gli sgherri del clan che pretendono il pizzo dal suo lavoro e quando, decretando così la sua condanna a morte, denuncerà ai magistrati i mafiosi che volevano chiudere la città per il lutto del loro capo.

    Rocco Gatto e il clan Ursini

    Rocco Gatto ha poco più di cinquant’anni, è il primo dei dieci figli di Pasquale, classe 1907, contadino e stalinista. Dal padre ha ereditato la passione per la politica e il rigore sul lavoro e nella vita. Entra da giovanissimo come tuttofare in un mulino di Mammola e piano piano riesce a mettere da parte i soldi per mettersi in proprio. Attivista politico e antimafioso coriaceo, è convinto che non bisogna mai abbassare la testa alle prepotenze della ‘ndrangheta. Idee pericolose che il mugnaio comunista mette in pratica contrastando e denunciando gli uomini del clan – figli della sua stessa Gioiosa – che strozzano il paese.

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    La manifestazione contro la ‘ndrangheta del 1976 a Gioiosa

    Nonostante la manifestazione, infatti, gli Ursini continuano a taglieggiare i commercianti e ad accumulare potere e ricchezze. Quando, nel novembre del 1976, Vincenzo Ursini viene ammazzato in uno scontro a fuoco con i carabinieri del capitano Niglio, il clan decide di rispondere nel più eclatante dei modi all’attacco dello Stato.

    Chiuso per lutto

    È la notte tra il 6 e il 7 di novembre. Tra poche ore gli ambulanti di mezza provincia converranno a Gioiosa per il tradizionale mercato della domenica. Non ci arriveranno mai. Gli Ursini hanno presidiato tutte le vie d’accesso in città, obbligando con le minacce i malcapitati ambulanti ad una frettolosa marcia indietro. Quel giorno il paese deve considerarsi chiuso per lutto, in onore del mammasantissima ammazzato dai carabinieri. Un ordine perentorio che, con una deriva inarrestabile, si muove dalla periferia fino al centro: anche i negozi del paese devono tenere le serrande abbassate.

    Gli uomini degli Ursini non sono gli unici però a muoversi in quelle ore. Anche Rocco Gatto sta facendo i soliti giri mattutini legati alla raccolta del grano e si accorge di quei movimenti strani sulle vie d’accesso a Gioiosa: riconosce gli sgherri del clan che impongono la chiusura ai negozianti e non ci pensa due volte. Telefona ai vigili urbani, avvisa i carabinieri che intervengono per fare riaprire almeno i negozi cittadini, non si nasconde, in pubblico dice «li spezzo».

    Rocco Gatto deve morire

    Tutti in paese sanno chi è stato a denunciare. Anche gli Ursini lo sanno. Passano le settimane, le minacce di fanno ancora più insistenti, ma Gatto non demorde e pur consapevole di cosa lo aspetti, nel febbraio del 1977 firma davanti ai magistrati di Locri, la denuncia contro i setti picciotti che è riuscito a riconoscere. Nessun altro lo farà.
    Ormai è solo questione di tempo prima che il clan faccia la sua mossa, anche Rocco lo sa. Da qualche giorno ha preso a portarsi dietro il suo fucile da caccia con il colpo in canna, nei suoi giri per le campagne della Locride. La mattina del 12 marzo del 1977 – 45 anni fa – due uomini aspettano il suo furgoncino carico di sacchi di grano dietro una curva della vecchia provinciale che porta verso Roccella. Lo colpiscono tre volte: per il mugnaio che si era opposto alla ‘ndrangheta non c’è scampo.

    La riscossa: il primo Comune parte civile contro i clan

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    L’Unità del 16 aprile 1978

    L’omicidio di Rocco Gatto lascia ferite profonde in quelli che avevano creduto nel cambiamento. Ma non ferma quel sentimento di rivalsa contro le prepotenze della mafia che era maturato negli anni precedenti. A tenere alta la guardia della società civile ci pensa Pasquale, l’anziano padre di Rocco che da quel giorno e fino alla sua morte, combatterà la sua personale battaglia contro il crimine organizzato: «A uno lo possono sparare, a cento no» dirà davanti alle telecamere di Piero Marrazzo. Le denunce per il raid al mercato intanto sono andate avanti, le indagini dei carabinieri sono state meticolose e si arriva così a processo dove, con un mandato forte dell’unanimità del Consiglio comunale, il sindaco Modafferi, per la prima volta in Italia, si costituisce parte civile contro la mafia in nome del comune di Gioiosa Jonica.

    Il quarto stato dell’antimafia

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    Il murales dedicato a Rocco Gatto nel 1978 e restaurato trent’anni dopo dall’associazione Da Sud

    Una svolta epocale che contribuirà a tenere alta l’attenzione degli italiani – anche grazie all’opera del partito e della Cgil – su quel paesino a sud della Calabria che aveva saputo trovare una spinta di innovazione da tutta quella violenza. Quando, esattamente un anno dopo l’omicidio, la Corte d’assise di Locri firmò la condanna per i sette picciotti che volevano chiudere il paese, le vie di Gioiosa accolsero un’altra grande manifestazione. Migliaia di persone da tutta Italia, nella primavera del ’78, arrivarono nella Locride per marciare in ricordo di quel mugnaio coraggioso. In ricordo di quel giorno sulla piazza che la mafia voleva chiusa campeggia il murale del quarto stato dell’antimafia.

    Pertini e la medaglia al padre di Rocco Gatto

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    Sandro Pertini consegna a Pasquale Gatto la medaglia

    Anche il processo per l’omicidio di Gatto arriva in tribunale. Alla sbarra ci sono Luigi Ursini e un suo sodale. A sostenere l’accusa non bastano però la forza e la dignità del vecchio Pasquale che racconta in aula di come fosse maturato l’omicidio, indicandone i colpevoli. I due imputati vengono condannati per le violenze subite dal mugnaio, ma l’accusa d’omicidio cade per insufficienza di prove. Nessuno pagherà per la morte di Rocco Gatto. Sarà lo stesso Pasquale a ricordarlo al Presidente Sandro Pertini che, durante la cerimonia ufficiale di consegna della medaglia d’oro alla memoria, mandò al diavolo il cerimoniale per abbracciare quel vecchio ostinato che non si era stancato di combattere.

  • Caulonia, il paese che sprofonda

    Caulonia, il paese che sprofonda

    A Caulonia più di mille anni di storia sono, letteralmente, in bilico sullo sbalanco. Chiese barocche, antichi teatri, una manciata di abitazioni e giardini da cartolina: tutto appeso agli umori di ciò che resta della rupe su cui sono stati costruiti. La stessa rupe, che per secoli ha protetto l’antica Castelvetere dalle incursioni degli eserciti e dalle scorrerie dei saraceni, e che ora si sgretola. Il dissesto idrogeologico –  incurante dei cantieri realizzati e di quelli pronti a partire, degli interventi rimasti solo sulla carta e dei lavori da ultima spiaggia messi in campo dopo ogni pioggia seria – è andato avanti negli anni, minando la solidità stessa di una parte di Caulonia.

    Un video della frana girato da Ivan Reale nel 2017: da allora la situazione si è aggravata

    La situazione si è incancrenita con il tempo nonostante i quasi 20 miliardi di vecchie lire già spesi fino ad ora. Adesso si proverà a mettere una pezza – l’ennesima – con i nuovi lavori di consolidamento in partenza a giorni. Il finanziamento è di 1,9 milioni di euro, da dividere tra la rupe del borgo e la parte alta della Marina. Tolta l’Iva e gli oneri, restano poco più di 900mila euro di corsa contro il tempo, in attesa di altri fondi. Si tratta di altri 900mila e rotti attualmente in attesa di approvazione per la base della rupe. A questi bisogna aggiungere i soldi per gli ulteriori cantieri, in fase di progettazione, che dovranno completare quelli che stanno per partire. È uno stillicidio senza fine, cucito sulla pelle di un paese già fortemente vandalizzato da incurie e abusi.

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    I segni visibili del dissesto idrogeologico a Caulonia

     

    Cronaca di un disastro

    Mortida, Maietta, Carminu: hanno nomi figli delle dominazioni che si sono alternate nel corso dei secoli i quartieri di Caulonia già colpiti dal disastro. Le case costruite sul ciglio della rupe, alla Mortida, sono state le prime a venire giù. Sono state sgomberate e abbattute negli anni ’90 a causa di un concreto rischio crollo.

    Ma il problema è più antico e già alla fine del decennio precedente l’erosione della rupe su cui poggia la parte di Caulonia che guarda alla valle dell’Amusa, era finita al centro dell’attenzione della commissione Grandi rischi dell’allora ministero della Protezione civile. Due sopralluoghi degli ingegneri della Prociv hanno certificato la necessità di intervento immediato. Il problema, comune a quasi tutti i centri del territorio, investiva la rupe nella sua interezza.

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    Crepe profonde sulle strade di Caulonia

    E già dal 1988 esisteva un piano di fattibilità da 12 miliardi che avrebbe consentito di mettere in sicurezza l’intero paese. I primi tre miliardi di finanziamento per il dissesto arrivano nel ’91. Sarebbero destinati agli interventi di risanamento per la zona di San Biagio e di Tinari oltre che per quella della Maietta. Ma i soldi non bastano e i lavori vanno avanti solo nei primi due rioni.

    Si deve aspettare qualche anno prima che i cantieri raggiungano il lato meridionale della rupe. Però gli interventi, seppure economicamente impegnativi, non risulteranno decisivi per contrastare il dissesto idrogeologico. Si arriva così alla fine dei ’90 quando si interviene in modo consistente. La rupe viene bloccata con contrafforti intirantati connessi tra loro da un cordolo in cemento armato. Un intervento importante, figlio di quel piano di fattibilità elaborato 10 anni prima e realizzato solo in parte. Così si blocca, almeno temporaneamente, il degrado del costone e mette in sicurezza il sito.

    Le avvisaglie a Caulonia

    Almeno fino all’ottobre del 2015, quando in seguito a diversi giorni di pioggia battente, una parte di via Maietta sprofonda di un paio di metri. L’ha mangiata da sotto lo sbriciolarsi delle argille che compongono la parte superficiale della rupe. Un crollo improvviso, ma che aveva avuto le prime avvisaglie qualche anno prima. All’epoca, infatti, diverse costruzioni poste alla base della rupe furono pesantemente crepate (e sgomberate) da un movimento franoso sotterraneo che scende verso la fiumara.

    Il problema dipende questa volta soprattutto dalle infiltrazioni d’acqua. Tra quella piovana e quella mal regimentata degli scarichi fognari della zona, la rupe si ritrova corrosa “dall’interno”. Lo certificano, pochi giorni dopo il crollo, gli ingegneri della protezione civile. Nella loro relazione di primo intervento annotano tra gli scenari attesi «nuovi sprofondamenti simili a quello già evidenziato» e la loro «accentuazione». Suggeriscono tra le altre cose «la regimentazione delle acque di ruscellamento che insistono sul piazzale impedendone o riducendone significativamente l’infiltrazione».

    Parole al vento

    Ma di quel suggerimento nessuno sembra prendersi cura. E le cose, mese dopo mese, continuano a peggiorare. L’acqua piovana si infiltra anche dalle nuove voragini che via via si aprono su via Maietta. Solo nel 2017, un ulteriore finanziamento pubblico di 100mila euro consentirà l’installazione di una serie di tubi di plastica per regimentare le acque piovane e riversarle alle spalle della rupe, lungo le vinede strette del paese. L’ennesimo intervento di rattoppo serve però a poco e la gravità della situazione comincia a mostrarsi anche sui muri della chiesa che dà il nome alla piazza. Crepe profonde sull’abside barocca, sul sagrato, nei passaggi che portano all’organo monumentale e al giardino.

    I tubi di plastica per regimentare le acque piovane a Caulonia

    La situazione è così grave che dal novembre del 2019, l’intera area – su cui si trova anche la seicentesca chiesa di San Leo a Caulonia, da qualche anno riconvertita a sala prove per la banda del comune – è stata interdetta anche al traffico pedonale: sgomberate le case che affacciano sulla rupe – anche se è non raro trovare qualcuno tra i vecchi abitanti ancora affacciato alle finestre –, chiusa al culto la chiesa costruita sui ruderi del convento degli Agostiniani. Tutto sbarrato sperando che nuove forti piogge non facciano venire giù tutto prima della fine dell’ennesimo intervento. Vengono anche installati dei sensori per monitorare continuamente lo stato della frana.

    I nuovi lavori

    Arriviamo così ai giorni nostri, con il nuovo cantiere per il «consolidamento rupe centro storico» che dovrebbe essere aperto nel mese di marzo. E che, non ancora partito, già segna il passo rispetto ad una situazione drammatica che è continuata a peggiorare. Nella relazione tecnica inviata dal Rup del progetto alla Cittadella regionale, infatti, si legge che «l’area di intervento individuata nel progetto appare meno preoccupante di zone limitrofe non comprese nel Ppbg, in cui sono stati rilevati fenomeni di retrogressione del ciglio, sprofondamenti significativi e scavernamenti della parete. Tali risultanze – scrive ancora il Rup Ilario Naso analizzando i rilievi eseguiti in parete dai geologi rocciatori – sono maggiormente gravose rispetto a quelle rilevate in passato ed evidenziate sul progetto finanziato».

    Il circo può ripartire quindi, con la speranza che nuove bombe d’acqua non mandino tutto all’aria e anche se già si sa che l’intervento, così come è strutturato, non sarà risolutivo. Almeno fino al prossimo finanziamento.

  • Zona economica speciale, il circo della burocrazia che frena sviluppo e innovazione

    Zona economica speciale, il circo della burocrazia che frena sviluppo e innovazione

    Capita frequentemente nel nostro Paese che le riforme si approvino e poi restino per lungo periodo nel cassetto, senza che si riesca per molto tempo a fare alcun passo in avanti. Dalla metà degli anni Ottanta, l’economia meridionale conosce una lunga stagione di arretramento competitivo. Si è spento l’intervento straordinario nel Sud, mentre le imprese pubbliche hanno abbandonato questi territori.

    Zes? Una legge con buone intenzioni

    Il futuro della industrializzazione nel Mezzogiorno doveva essere consegnato alla istituzione delle zone economiche speciali (Zes). Nel 2017 il governo ha emanato un decreto poi convertito in legge dal Parlamento. È cominciato un dibattito surreale sulla attuazione, perché la legge era sostanzialmente un enunciato di buone intenzioni. Ma era sostanzialmente provo di tutti gli elementi che avrebbero garantito la realizzazione di ciò che si predicava. Era stata realizzata la cornice, il quadro era ancora tutto da dipingere.

    Tra qualche mese sarà trascorso un lustro dalla approvazione della legge che ha istituito nelle regioni meridionali le zone economiche speciali, che nel mondo hanno costituito, nei passati decenni, uno dei vettori principali di sviluppo industriale.
    Questo processo è stato reso possibile della definizione di una fiscalità di vantaggio e dalla una semplificazione amministrativa. Tali due leve sono state affiancate, nei paesi in via di sviluppo – il vero laboratorio di questo strumento di politica industriale – da un basso costo del lavoro e da uno smantellamento sostanziale del peso e del ruolo delle organizzazioni sindacali.

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    Il porto di Gioia Tauro

    Parole, soltanto parole

    L’avvio delle Zes è stato invece nel Sud molto lento, secondo la più classica tradizione italiana. Si fanno leggi che poi si affossano nella fase della attuazione. L’importante non è fare, quanto piuttosto fare finta di fare, salvo poi maledire il destino cinico e baro che impedisce il cambiamento.
    Nel mondo, le zone economiche speciali sono circa 5.500: una buona metà è stata in grado di generare uno sviluppo economico sostanziale di quei territori. Nel caso della Calabria e del Mezzogiorno, alla legge istitutiva sono seguiti cinque decreti interministeriali di attuazione. Si tratta di una discussione durata più di due anni se gli incentivi fiscali dovessero essere automatici o meno, se l’autorizzazione per l’insediamento di una azienda nella Zes dovesse essere unica, oppure se era più attrattivo mantenere le trentaquattro autorizzazioni esistenti, aggiungendone una specifica per la Zes.

    Stupisce anzi che nessuno abbia proposto che un imprenditore intenzionato ad insediare una impresa nel Mezzogiorno non dovesse fare prima un salto nel cerchio di fuoco con le gambe legate e gli occhi bendati. Insomma, a volte (per la verità, sempre più volte) l’architettura istituzionale italiana è alla ricerca di un “effetto Gabibbo”, quasi nella ostinata convinzione che serva una risata liberatoria per poter cambiare uno stato insostenibile della realtà.

    Cambia il commissario alla Zes calabrese

    Da un solo mese è stato nominato il nuovo commissario straordinario per la Zes calabrese, il secondo in ordine di nomina. Federico d’Andrea, ex colonnello della Guardia di Finanza, ha preso il posto di Rosanna Nisticò. Nella governance non resta peraltro ancora chiaro se abbia o meno un ruolo il comitato di indirizzo che precedentemente rappresentava la struttura incaricata di gestire e coordinate le azioni della zona economica speciale. Insomma, come spesso capita in Italia, ci si occupa di più degli organigrammi rispetto ai contenuti.

    Ma l’Italia non è un paese in via di sviluppo

    Poco inoltre si è riflettuto su un elemento essenziale, nel considerare l’assetto istituzionale che doveva essere definito nel Mezzogiorno per le zone economiche speciali. Per quanto strano possa sembrare, l’Italia non è un paese in via di sviluppo, quanto piuttosto un paese ad industrializzazione matura. La nostra crisi deriva proprio dalla stagnazione che si è determinata nel vecchio modello di articolazione manifatturiera.

    Anche ad occhio, fotocopiare una legislazione pensata ed attuata, a livello internazionale, per realtà che dovevano incamminarsi su un sentiero di attrazione industriale che partiva dalla assenza di un tessuto e di una esperienza manifatturiera, non poteva essere la via maestra per chi invece aveva l’obiettivo di sperimentare le Zes in un territorio caratterizzato da una economia non solo storicamente radicata nel capitalismo, ma anche testardamente finora incapace di generare un solido sviluppo economico, nonostante le molteplici strade che sono state sperimentate nel corso di tanti decenni.

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    Un piccolo tratto del porto di Tangeri in Marocco

    Zes meridionali poco competitive

    Certo, per tante ragioni di contesto, le regioni meridionali non possono essere attrattive, nel contesto internazionale. Innanzitutto non possono esserlo per il basso costo del lavoro o per un tasso di sindacalizzazione sotto il controllo delle volontà imprenditoriali. E nemmeno si intravedono le condizioni per una radicale sforbiciata delle tasse, così come si è fatto per le Zes maggiormente competitive nel mondo.
    Oltretutto gli strumenti di incentivazione messi in campo dal legislatore italiano, se confrontati con quelli delle altre Zes nel mondo, sono davvero poco attrattivi. Si limitano ad un credito di imposta parziale sugli investimenti e ad una timida operazione di risparmio sulla fiscalità aziendale negli anni iniziali di attività.

    Meno burocrazia, più impresa e università

    Ed allora, quali possono essere le leve sulle quali si può finalmente provare a far decollare le zone economiche speciali in Campania e nel resto del Mezzogiorno?
    Innanzitutto, si dovrebbe promuovere un programma basato sul disboscamento di quella inutile burocrazia ottusa che non solo allontana le decisioni di investimento degli imprenditori, perché spaventa per la sua lentezza, ma spesso è piuttosto diventata la radice della corruzione, essenzialmente per generare corsie preferenziali di velocità rispetto alla palude nella quale restano impigliati gli imprenditori onesti.
    Poi, c’è da far decollare un rapporto strutturato tra industria e ricerca scientifica, tra imprenditori ed Università. Un territorio collocato in un Paese ad industrializzazione matura deve puntare sull’economia della conoscenza, sul valore aggiunto determinato dalla innovazione che genera competitività.

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    L’Università della Calabria

    Mentre ci avviamo a festeggiare un lustro dalla nascita delle Zes, forse qualche riflessione più matura e più consapevole sarebbe il caso di farla. Assistere alle consuete giaculatorie sull’ennesima occasione sprecata sarebbe davvero irritante, a meno di non voler convocare il Gabibbo nella squadra titolare delle istituzioni.
    Non è un traguardo ormai molto ambizioso, considerata la qualità media della classe dirigente negli ultimi decenni, non solo nell’intero Paese ma soprattutto nelle regioni meridionali. Almeno, si potrebbe dire che vedendo il Gabibbo in azione ci si divertirebbe certamente di più.
    Ma invece, in Calabria come nel Mezzogiorno, forse non c’è più tempo per crogiolarsi nella ironia. Sarebbe finalmente l’ora per mettere in campo strumenti e politiche per lo sviluppo e per il miglioramento della competitività.

  • Capitale della cultura 2025: la Locride sogna senza cinema, scuole e teatri

    Capitale della cultura 2025: la Locride sogna senza cinema, scuole e teatri

    «Superare gli stereotipi, rendere visibile il patrimonio materiale e immateriale di una terra unica al centro del Mediterraneo, ancora tutta da scoprire»: usa slogan intriganti la campagna di lancio per la candidatura della Locride a Capitale della cultura per il 2025. Slogan che parlano di territorio che «genera cultura» e che sperimenta «metodologie e buone prassi per il recupero e la valorizzazione del patrimonio culturale» ma che sembrano fare a pugni con la quotidianità di un territorio che negli anni ha visto diminuire – e di molto – l’offerta culturale destinata ai residenti e ai turisti che scelgono di passarci del tempo.

    Teatri con le porte sbarrate da anni o mai aperti, fondi librari lasciati a marcire in improbabili sottotetti, sfregi e violenze sul patrimonio architettonico e urbanistico ereditato da secoli di dominazioni diverse, persino i Rumori Mediterranei di Roccella jazz – per 40 anni massima espressione della “cultura diffusa” in tutto il territorio reggino – “ridimensionati” ed esclusi dai finanziamenti dei Grandi eventi regionali per opera dell’ex facente funzioni Nino Spirlì. Per non dire delle scuole, con buona parte dei micro paesi della Locride che, negli anni, hanno perso anche gli istituti primari o, nel migliore dei casi, li hanno mantenuti ricorrendo al sistema delle multiclassi.

    L’ex presidente facente fuzioni della Regione Calabria, Nino Spirlì

    Locride Capitale della cultura

    L’idea di avanzare la candidatura unitaria dei 42 paesi che compongono il territorio a Capitale italiana della cultura per il prossimo 2025, è venuta al Gal Terre locridee. Ha visto l’immediata adesione dei sindaci che, in ordine sparso, stanno firmando il protocollo d’intesa presentato nei mesi scorsi. Così come quella dell’assessore regionale all’agricoltura, Gallo, che ha garantito «il sostegno della Regione e il pressing sul Ministero». L’idea, si legge nel manifesto, è quella di costruire «un progetto unitario che attivi forme di resilienza, economia circolare, partecipazione, sostenibilità» lungo un percorso in grado di rappresentare la Locride «in modo complessivo come territorio che genera cultura, in modo coeso, partecipato e condiviso».

    Un’idea – l’ennesima – nel tentativo di rilanciare il territorio. «Sulla falsariga di quello che è successo a Matera – dice il presidente dell’assemblea dei sindaci Giuseppe Campisi – quando fu scelta come Capitale italiana della cultura. Ci saranno eventi, progetti e manifestazioni per sponsorizzare la nostra candidatura. Contiamo di fare conoscere meglio il nostro territorio con le sue particolarità e con le sue ricchezze, a partire da quelle archeologiche di Locri e Kaulon».

    Il passato glorioso della Locride

    Poco più di 150 mila abitanti distribuiti tra il mare e le montagne d’Aspromonte e delle Serre, la Locride ha maturato un rapporto quasi bipolare con le meraviglie naturali e storiche che ha avuto la fortuna di ritrovarsi. Un patrimonio – borghi medievali, monasteri arroccati, castelli e torri di guardia, oltre naturalmente ai resti delle civiltà magnogreche e romane – buono da esibire quando si tratta di vendere pacchetti turistici ma che si scontra con una realtà caratterizzata da inefficienze e sprechi. Come nel caso del parco archeologico di Monasterace, minacciato da anni dall’irruenza dello Jonio e che attende ancora il completamento della recinzione e l’istallazione dell’impianto di video sorveglianza. O quello della rupe su cui sorge Caulonia, che si disfa pezzo dopo pezzo in attesa dell’ennesimo intervento.

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    Il mosaico dei draghi e dei delfini nel parco di Kaulon

    E poi una serie di sfasci e storture che hanno riguardato decine di singoli beni un po’ in tutto il comprensorio. Come il settecentesco casino di caccia sulle colline di Stignano, privo di ogni controllo e vittima indifesa di graffitari dozzinali e zozzoni da gita fuoriporta. O come il balcone in cemento e mattoni costruito impunemente sulla cinquecentesca abitazione natale di Tommaso Campanella a Stilo. Un’oscenità denunciata durante un convegno sugli studi campanelliani nel 2019 e che la terna prefettizia alla guida del Comune, pochi giorni dopo, ordinò di rimuovere.

    Serbatoio di acqua sui ruderi del Castello di Caulonia

    Caulonia e gli scontri tra Comune e Soprintendenza

    E ancora Caulonia, borgo tra i più belli in Regione, che negli anni, non si è fatto mancare proprio niente. Dalla costruzione del serbatoio dell’acqua potabile, edificato negli anni ’50 in spregio a un migliaio di anni di storia, sui resti del castello normanno, all’invasivo restauro della cinquecentesca chiesa matrice, fino alla polemica sul recupero dell’affresco del Cristo Pantacreatore, testimonianza antichissima della lunga dominazione bizantina e vittima suo malgrado di un tira e molla tragicomico. Il Comune voleva farci attorno una piazzetta in cotto con contorno di colonne doriche; la Soprintendenza minacciò di staccare la pittura da ciò che resta dell’abside di San Zaccaria per portarlo “in salvo” all’interno di un museo.

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    L’orribile copertura in vetro che protegge il mosaico del Cristo Pantacreatore a Caulonia

    La polemica è durata mesi ed è finita con un’imbarazzante copertura in acciaio e vetro. La stessa soluzione che a Placanica, pochi chilometri a nord, è stata individuata per il nuovo ascensore esterno in dotazione al castello. Un intervento pesante e dal forte impatto visivo che consentirà l’accesso ai disabili ma che ha scatenato una montagna di polemiche che hanno coinvolto la stessa Soprintendenza.

    L’ascensore esterno in vetro e acciaio del Castello di Placanica

    Accesso negato

    E se il patrimonio ereditato dal passato – punto di forza della candidatura – continua a camminare su un terreno minato, il rapporto attuale tra il territorio e la possibilità di accesso e fruizione alla cultura, è altrettanto contorto. Solo due i cinema superstiti in tutto il comprensorio, uno a Locri, l’altro a Siderno, e trovare un film che non sia un giocattolo della Marvel o un cartoon della Pixar, non è cosa da tutti i giorni. Sulle dita di una mano di contano poi le librerie, fatte salve quelle che riforniscono i testi scolastici, e anche ascoltare della semplice musica dal vivo, tolti i canonici due mesi di stagione estiva, è diventato molto più difficile che in passato.

    Il fantasma del palcoscenico

    Capitolo a parte meritano i teatri. Se buone vibrazioni arrivano dai ragazzi di Fuorisquadro – che hanno recuperato e rimesso a nuovo a loro spese il vecchio cinema liberty del paese per riconvertirlo in un teatro da 90 posti – pessime notizie arrivano da Gioiosa, unica struttura “ufficiale” che era rimasta aperta al pubblico nella Locride. Problemi all’impianto elettrico hanno fermato il cartellone: «I lavori da fare – dice il direttore artistico Domenico Pantano – sono tanti, soldi non ce ne sono. Ad oggi non è possibile ipotizzare una data per la riapertura».

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    Il teatro mai finito di Siderno: in costruzione dal 2002

    E se a Gioiosa il teatro chiude, a Siderno non ha mai aperto. E dire che la prima pietra per l’opera risale ai primi anni del nuovo secolo. Un iter elefantiaco fatto di errori e ritardi che ha fatto salire all’inverosimile i costi dal progetto iniziale e che si nutre di continui nuovi finanziamenti: l’ultimo, 2 milioni di euro garantiti con delibera del Cipe del 2018, prevede il completamento del teatro e la sistemazione della piazza adiacente ma i tempi di realizzazione non sembrano brevi.

    Il collaudo in contumacia

    Surreale poi la storia del teatro comunale Città di Locri – centro che dalla sua può comunque vantare un antico cartellone estivo in scena nel parco archeologico – che non solo ha chiuso i battenti pochi mesi dopo essere stato inaugurato nel 2018, ma è finito, suo malgrado anche nelle aule del tribunale cittadino. Il montacarichi, indispensabile per spostare su è giù dal palco le attrezzature necessarie alla messa in scena degli spettacoli infatti, non era mai stato installato.

    Lo ritrovarono a casa di un privato cittadino che, ignaro, lo aveva acquistato al doppio del prezzo dallo stesso imprenditore che aveva vinto l’appalto per il teatro, e di cui era suocero. Una storia dai tratti surreali, finita con sei rinvii a giudizio e una condanna con pena sospesa in abbreviato. Alla sbarra, oltre all’imprenditore che avrebbe messo in moto il doppio raggiro, ci sono finiti anche i tecnici che hanno firmato il collaudo dello stesso montacarichi: una sorta di collaudo “in contumacia” visto che il piccolo ascensore era da un’altra parte.

  • Dai riti voodoo alla tratta delle donne: la mafia nigeriana è sbarcata a Reggio

    Dai riti voodoo alla tratta delle donne: la mafia nigeriana è sbarcata a Reggio

    L’inizio dell’incubo ha una data certa: siamo nel 2014. Proprio in quell’anno una giovane ragazza nigeriana sarebbe arrivata in Italia, a Reggio Calabria, per la precisione. La promessa è quella di farla lavorare in un bar. Qualcosa di paradisiaco se raffrontato alla fame e alla miseria che si vive in Africa. Ma, se possibile, quella giovane nel nostro Paese vivrà atrocità pari a quelle patite in Africa.

    L’arrivo a Reggio Calabria e l’inizio dell’incubo

    Lo chiamano “Fred” o “Friday”. Il suo nome reale è Favour Obazelu. Sarebbe lui il suo principale aguzzino. È un 43enne, considerato un elemento di spicco della mafia nigeriana. Fred/Friday l’avrebbe costretta a prostituirsi per ripagare il debito di averla “salvata” dalla povertà della Nigeria. Ma non solo.  L’avrebbe sequestrata in un appartamento a Bari, l’avrebbe violentata e messa incinta, cacciandola poi di casa, trattenendo però i documenti della giovane e del figlio nato dallo stupro.

    La giovane, quindi, sarebbe arrivata nel 2014 a Reggio Calabria, per essere trasportata poi a Bari. Con la promessa di quel lavoro in un bar. Ma nel capoluogo pugliese non vi sarebbe stato nessun bar ad aspettarla. Anzi, l’avviamento alla prostituzione, insieme ad altre due giovani. Anche loro dovevano “ripagare il debito” per l’arrivo in Italia dalla Nigeria.

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    Il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri

    L’indagine

    Il presunto boss della mafia nigeriana è stato arrestato dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria, con l’accusa di riduzione in schiavitù, tratta di esseri umani, sequestro e violenza sessuale. Le indagini sono condotte dal procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, e dal pm antimafia Sara Amerio.

    Questo perché Favour Obazelu è considerato uno dei boss della mafia nigeriana presente sul territorio italiano.  Assieme al fratello, Eghosa Osasumwen detto “Felix” di 32 anni, e ad altri soggetti che si trovano in Libia e in Nigeria, Obazelu avrebbe reclutato in patria ragazze da condurre con l’inganno in Italia. Nell’inchiesta sono indagati altri tre nigeriani, due donne di 30 e 22 anni, e un uomo di 25.

    Il rito voodoo

    Inquietanti i dettagli raccontati da una delle vittime. Le donne, infatti, non solo erano costrette a prostituirsi. Ma, nei periodi in cui non lavoravano, venivano tenute segregate, talvolta legate materialmente. Ma, soprattutto, mentalmente incatenate tramite un rito voodoo che le avrebbe tenute in uno stato di completa prostrazione.

    Stando al racconto di una delle vittime, in quel periodo appena 21enne, la giovane sarebbe stata sottoposta ad un rito di magia nera per vincolarla al rispetto dell’impegno di pagare la somma di 25mila euro. Questo il debito calcolato da Fred/Friday e dai suoi fratelli per l’arrivo in Italia.

    Sempre la vittima, che ha trovato il coraggio di denunciare, sarebbe stata sottoposta a una vera e propria cerimonia tribale: in quell’occasione lei e la sua famiglia sarebbero state minacciate di morte nel caso in cui avessero infranto il giuramento.

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    L’ingresso della Questura di Reggio Calabria

    La mafia nigeriana in Italia

    E’ un allarme che risuona da tempo quello della presenza della mafia nigeriana nel nostro Paese: «La criminalità nigeriana è dedita prevalentemente al traffico di esseri umani, allo sfruttamento della prostituzione e al narcotraffico ed è risultata anche in osmosi con organizzazioni criminali albanesi» –  è scritto nell’ultima relazione semestrale redatta dalla Direzione Investigativa Antimafia.

    Una vera e propria mafia. Così come è stata riconosciuta da recenti sentenze italiane, che ne hanno sottolineato i caratteri di mafiosità: «…Si manifesta non solo internamente attraverso l’adozione di uno stretto regime di controllo degli associati ma, anche, esternamente attraverso un’opera di controllo del territorio e di intimidazione nei confronti di terzi appartenenti alla comunità nigeriana ovvero appartenenti a gruppi malavitosi contrapposti, i cui intenti criminali devono essere stroncati così da evitare ogni forma di concorrenza delinquenziale…» – si legge in una di esse.

    Un’organizzazione caratterizzata da una grande ritualità, che mischia elementi della tradizione ancestrale con la necessità di fidelizzare gli affiliati. Tra le più importanti investigazioni che di recente hanno confermato la forza e la pericolosità dei sodalizi nigeriani si rammentano le operazioni “Maphite – Bibbia verde” e “Burning Flame”, coordinate rispettivamente dalle DDA di Torino e Bologna.

    La “Supreme Vikings Confraternity”

    Favour Obazelu, quindi, è considerato un elemento di spicco della mafia nigeriana. Dal 2019, infatti, è detenuto nel carcere di Agrigento perché coinvolto nell’inchiesta “Drill”, coordinata dalla Procura di Bari che lo accusa di far parte di un’associazione a delinquere di stampo mafioso denominata Cults. Fred/Friday è considerato il capo della “Supreme Vikings Confraternity”, una sorta di cosca conosciuta anche come “i rossi”.

    Le caratteristiche di queste realtà criminali sono: l’organizzazione gerarchica, la struttura paramilitare, i riti di affiliazione, i codici di comportamento e in generale un modus agendi tale che la Corte di Cassazione si è più volte espressa riconoscendone la tipica connotazione di “mafiosità”.

    Ancora dalla relazione della DIA: «Si tratta di elementi tipici che costituiscono il modello operativo dell’associazionismo criminale nigeriano a connotazione mafiosa che contempla interessi per i reati di riciclaggio e di illecita intermediazione finanziaria verso la Nigeria, tratta di donne da avviare alla prostituzione, cessione di stupefacenti, reati violenti nei confronti di aderenti ad altri cults o punitivi nei confronti di connazionali. Le investigazioni hanno infatti permesso di documentare le violente punizioni corporali nei confronti di affiliati non rispettosi delle regole e il ricorso all’esercizio di violenza fisica anche nella risoluzione dei conflitti interni per costringere terzi ad affiliarsi anche contro la loro volontà oppure per opporsi e scontrarsi con cult rivali».

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    Gli uomini della Squadra mobile di Reggio hanno arrestato il presunto boss della mafia nigeriana Favour Obazelu

    La mafia nigeriana a Reggio Calabria

    La mafia nigeriana è un’organizzazione in grande crescita sul territorio italiano. Fin qui l’avevamo vista radicata in altre città. Roma, soprattutto, dove è capace di dialogare con altri cartelli. Diverse indagini, peraltro, ne hanno mostrato l’operatività in Emilia Romagna e altre regioni. Ma anche la Campania, dove, da tempo, il clan camorristico dei Bidognetti dialoga con quelle cellule. E poi in Sicilia. Ancora dalla relazione della DIA: «Si conferma infine la costante vitalità e una progressiva affermazione della criminalità di matrice nigeriana che starebbe acquisendo uno spazio operativo progressivamente sempre più ampio. Si tratta di gruppi criminali che, forti dei legami con le analoghe consorterie che agiscono a Catania e Palermo risultano attivi soprattutto nel capoluogo nell’ambito dei consueti settori degli stupefacenti e dello sfruttamento della prostituzione».

    Quello che, invece, risulta un dato nuovo è la presenza in riva allo Stretto. Per la Dda, infatti, l’organizzazione criminale di cui faceva parte Favour Obazelu sarebbe operativa tra la Nigeria e l’Italia. E in particolare a Reggio Calabria, Bari e in altri centri pugliesi.

  • Anzio e Nettuno come l’entroterra calabrese: ‘ndrine alla conquista del litorale romano

    Anzio e Nettuno come l’entroterra calabrese: ‘ndrine alla conquista del litorale romano

    Anzio e Nettuno distaccamenti o succursali di Santa Cristina d’Aspromonte, nel Reggino, o Guardavalle, nel Catanzarese. I 65 arresti con cui la Dda e i carabinieri di Roma sono convinti di aver bloccato le mire delle cosche di ‘ndrangheta sul litorale a Sud a una sessantina di chilometri da Roma cristallizzano quanto, già da tempo, gli attivisti antimafia sostengono. Quel territorio, nel silenzio generale, è finito sotto la cappa dello strapotere ‘ndranghetista.

    L’indagine

    In carcere sono finite 39 persone, altre 26 agli arresti domiciliari. Tra i soggetti coinvolti, anche due carabinieri. La Dda di Roma contesta i reati di associazione mafiosa, associazione finalizzata al traffico internazionale di sostanze stupefacenti aggravata dal metodo mafioso, cessione e detenzione ai fini di spaccio, estorsione aggravata e detenzione illegale di arma da fuoco, fittizia intestazione di beni e attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti aggravato dal metodo mafioso.

    A condurre le indagini, Giovanni Musarò, per anni pm antimafia a Reggio Calabria e noto anche per aver riaperto, con successo, il “caso Cucchi”. Le investigazioni avrebbero dimostrato l’esistenza di una articolazione operante sul territorio dei comuni di Anzio e Nettuno, una locale di ‘ndrangheta “distaccamento” dal locale di Santa Cristina d’Aspromonte. Ma composta in gran parte anche da soggetti appartenenti a famiglie di ‘ndrangheta originarie di Guardavalle. Lì, infatti, i Gallace spadroneggiano da anni ormai, grazie alla propria forza di intimidazione e alle proprie relazioni. Proprio in tal senso, si inquadrano le perquisizioni effettuate dai carabinieri all’interno degli uffici comunali di Anzio e Nettuno.

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    Giovanni Musarò

    Affari e connivenze

    A capo della struttura criminale vi sarebbe Giacomo Madaffari, originario di Santa Cristina d’Aspromonte. Ma del nucleo ristretto farebbero parte anche diversi soggetti appartenenti alle storiche famiglie di ‘ndrangheta, originarie di Guardavalle. Dai Gallace ai Perronace, passando per i Tedesco.
    Nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere, il gip parla dell’esistenza di due “associazioni finalizzate al traffico di sostanze stupefacenti anche internazionale” con una “capacità di penetrazione nel tessuto economico e politico della zona di Anzio e Nettuno”. Il giudice sottolinea i solidi legami esistenti con taluni esponenti delle forze dell’ordine e politici locali nonché con altri clan delinquenziali.

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    Il piccolo centro di Santa Cristina d’Aspromonte

    «Ad Anzio abbiamo sbancato»

    «Ieri sera abbiamo vinto le elezioni». È una delle intercettazioni relative al sostegno elettorale del gruppo criminale ‘ndranghetista attivo ad Anzio. Il riferimento è alla tornata per le elezioni amministrative del 2018 quando a vincere fu Candido De Angelis. Che comunque non risulta indagato nel procedimento.
    Il giorno dopo la vittoria di De Angelis vengono captate «tre conversazioni di eccezionale valore probatorio rivelatrici del sostegno offerto dalle famiglie calabresi in favore di De Angelis», sottolinea il gip. «Ha sbancato proprio su tutti» un’altra intercettazione.

    Anzio vista dall’alto

    Il traffico di droga

    Sarebbero due, dunque, le associazioni a fare affari illeciti, soprattutto col Sud America. Una capeggiata da Giacomo Madaffari e l’altra da Bruno Gallace. Gli sviluppi investigativi, in particolare, avrebbero consentito di ricostruire l’importazione dalla Colombia e l’immissione sul mercato italiano di 258 kg di cocaina disciolta nel carbone. Una operazione avvenuta nella primavera del 2018, tramite un narcotrafficante colombiano. Le indagini del pm Giovanni Musarò avrebbero scoperto anche il progetto di acquistare e importare da Panama circa 500 kg di cocaina occultata a bordo di un veliero.

    I carabinieri infedeli

    Non solo traffici internazionali, ma anche il business locale dei rifiuti ad Anzio. Focus anche sull’abusiva gestione di ingenti quantitativi di liquami che sarebbero stati scaricati nella rete fognaria comunale attraverso tombini, realizzati nelle sedi delle aziende. Le attività economiche erano attive nei più svariati settori: ittico, panificazione, gestione e smaltimento dei rifiuti, movimento terra.
    La locale di ‘ndrangheta nel Lazio avrebbe potuto anche contare su due carabinieri, appartenenti ad una delle caserme del litorale. I due militari avrebbero rivelato informazioni riservate a favore dei clan.

    Come si muovono le mafie nel Lazio

    Da sempre, Roma è “città aperta”. Anche sotto il profilo criminale. Nell’area della Capitale, le realtà malavitose sono sempre state capaci di convivere. Sia sotto il profilo territoriale, che sotto il profilo affaristico. Quella realtà così fluida è già stata cristallizzata, alcuni anni fa, dal rapporto Mafie nel Lazio. Il documento sottolineava come «una delle caratteristiche delle tradizionali organizzazioni mafiose è proprio quella di saper instaurare stabili relazioni con imprenditori, professionisti, esponenti del mondo finanziario ed economico di cui si avvalgono per stipulare affari e realizzare investimenti, alimentando così quel circuito di relazioni che potenzia la loro operatività».

    In quel rapporto, curato da Edoardo Levantini e Norma Ferrara, si dedica grande spazio proprio al territorio interessato oggi dai 65 arresti. E le parole messe nero su bianco risultano quasi profetiche. «Il territorio di Anzio e Nettuno rappresenta un “laboratorio” dell’interazione storica fra clan appartenenti a diverse organizzazioni criminali di stampo mafioso». Già quello studio attestava la presenza e l’operatività dei Casalesi, dei Gallace, di sodalizi locali dediti al narcotraffico e all’usura. Così come di aggregazioni criminali formate da camorristi e malavitosi di Tor Bella Monaca. «Negli anni, hanno dimostrato tutta la loro pericolosità arrivando anche ad inquinare il consiglio comunale di Nettuno, come attesta lo scioglimento nel 2005» si leggeva.

    Il litorale romano depredato dalla ‘ndrangheta

    L’indagine odierna, dunque, mostra come le cosche di ‘ndrangheta abbiano scelto il litorale a Sud di Roma come luogo congeniale per i propri traffici. Ancora una volta. Sì, perché già negli scorsi anni le indagini testimoniarono la pervasività dei clan da quelle parti. Tra il 7 novembre 2018 e il 10 dicembre del 2018 tra Anzio e Nettuno il sequestro di 100 kg di cocaina e 957mila euro di proventi del traffico e dello spaccio.
    Un’inchiesta storica è quella definita “Gallardo” che colpì due organizzazioni criminali. Una di matrice camorristica operante a Roma e a Nettuno e l’altra legata alle cosche di ‘ndrangheta della provincia di Reggio Calabria. Le famiglie Filippone e Gallico, in particolare.

    Della presenza della ‘ndrangheta in quest’area si è occupata anche la Commissione parlamentare antimafia. Dalle conclusioni messe nero su bianco nel febbraio 2018: «In questi territori opera in particolare una locale di ‘ndrangheta riferibile al clan Gallace, originario di Guardavalle in provincia di Catanzaro. Il clan Gallace, insediato lì da almeno trent’anni, ha saputo intessere, negli anni, un reticolo di relazioni con esponenti della malavita locale sia nelle realtà di Anzio e Nettuno, sia nella realtà di Aprilia, sia nelle principali piazze di spaccio della capitale come San Basilio».

    Nei confronti dei Gallace, citati dalla Commissione parlamentare antimafia, la Corte d’Appello di Roma l’11 giugno del 2018 ha confermato le condanne per associazione mafiosa sul territorio di Nettuno: «A dimostrazione dell’operatività della famiglia Gallace nel territorio del litorale laziale si deve fare riferimento […] al sequestro dell’industriale di Pomezia Maurizio Gellini, avvenuto nel 1982, per la quale Agazio Gallace fu condannato».

    «Rompere il muro di omertà»

    Per le associazioni antimafia, che da anni denunciano la presenza dei clan sul territorio, si tratta quindi di una liberazione del territorio. «In questi territori si rileva una forte cappa di omertà che purtroppo pervade una “larga fetta” della popolazione», affermano Edoardo Levantini, presidente dell’associazione Coordinamento Antimafia Anzio/Nettuno e Fabrizio Marras, presidente di Reti di giustizia.
    «Ringraziamo i carabinieri di Roma e Latina e la DDA della capitale ed invitiamo tutti i cittadini vittime delle mafie a denunciare e a rompere il muro di omertà» concludono Levantini e Marras.