Tag: reggio calabria

  • Stretto di Messina: traghetti troppo cari, maxi multa per Caronte & Tourist

    Stretto di Messina: traghetti troppo cari, maxi multa per Caronte & Tourist

    Caronte & Tourist, la società che gestisce i traghetti sullo Stretto di Messina, dovrà sborsare quasi 4 milioni di euro di multa. A deciderlo è stata l’Antitrust, che ha irrogato una sanzione di oltre 3,7 milioni di euro.

    Tutto nasce dalla posizione di assoluta dominanza che Caronte&Tourist ha sul traghettamento passeggeri con auto al seguito. La società, secondo l’Autorità che regola la concorrenza sul mercato, la ha sfruttata a danno dei consumatori, applicando prezzi troppo elevati senza alcuna giustificazione.

    Traghetti sullo Stretto, i motivi della multa a Caronte

    Il calcolo sull’eccessiva onerosità delle tariffe è il frutto di un test in due fasi. Il risultato dell’analisi dell’Antitrust sui costi imposti da Caronte & Tourist per i traghetti sullo Strettoè la maxi multa. Le tariffe applicate ai passeggeri con autoveicolo che attraversano lo Stretto risultano sproporzionate rispetto ai costi sostenuti, ergo eccessive.

    Non solo: la sproporzione è irragionevole rispetto al valore del servizio reso, quindi iniqua. Ora Caronte & Tourist dovrà restituire “il maltolto” – anche se non direttamente agli utenti danneggiati – pagando una multa milionaria.

  • BOTTEGHE OSCURE| Bergamotto: l’oro verde come Reggio comanda

    BOTTEGHE OSCURE| Bergamotto: l’oro verde come Reggio comanda

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    Se si chiedesse a qualcuno d’indicare un prodotto strettamente identificabile con la Calabria, al netto degli stereotipati ‘nduja e peperoncino, in molti risponderebbero «il bergamotto». Questo agrume noto per le essenze che è possibile ricavare dalla sua scorza, giunse in Calabria quasi per caso e non si sa bene quando. E ottenne un discreto successo per la sua bellezza come pianta ornamentale. Secondo la tradizione si diffuse agli inizi del Seicento, altri studiosi ne attestano la presenza più di un secolo prima.

    Ma è dalla seconda metà del XVIII secolo che la coltura si è estesa gradualmente. E, comunque sia, la sua fortuna, e quella dei proprietari, giunse all’apice tra Ottocento e Novecento, quando la sua coltivazione era divenuta molto redditizia.

    https://www.youtube.com/watch?v=R8lohpOthd0

     

    Come Reggio comanda

    C’è da fare un’altra precisazione. La coltivazione di questo agrume era caratteristica non dell’intera regione ma di una zona specifica: il circondario di Reggio Calabria. In una relazione del Ministero dell’Agricoltura del 1879 si sottolinea proprio questa specialità del Reggino: «Quasi esclusivamente proprio del solo territorio di Reggio, è la cultura fatta su larga scala del bergamotto (Citrus Bergamia), il quale vi sostituisce ogni altra specie di agrumi ed è fonte di grandi guadagni per l’essenza che si trae dalla corteccia dei suoi frutti». Qui, nella zona tra Scilla e Palizzi affacciata sullo Stretto di Messina, questa coltura veniva portata avanti «con arte insigne, e con pari arte si conducono le relative industrie».

    Ma cosa se ne ricavava? La coltivazione di questo agrume aveva, e in larga parte ha tuttora, come scopo principale l’estrazione dell’essenza dalla sua scorza, molto ricercata da industrie come quella profumiera. Dalla polpa si ricavava invece «agro cotto ed acido concentrato o citrato di calcio».

    Quest’idea che il bergamotto fosse «una pianta tutta propria del territorio di Reggio» e che se trapiantata altrove non avesse gli stessi risultati, nell’Ottocento era tanto radicata che in regioni vicine con clima simile, come le coste siciliane, il bergamotto non aveva riscosso molto successo.  A Messina, ad esempio, «molti proprietari, allettati dai più lauti profitti che i bergamotti fra tutti gli agrumi son capaci di dare, in varie epoche ne hanno tentato con pieno successo la coltura», ma la minore richiesta e la mancanza di persone dedite alla cura e al commercio del prodotto, non permetteva di trarne «quei vantaggi che ordinariamente ne ricavano i proprietari ed i coloni del territorio di Reggio».

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    Antichi macchinari per l’estrazione dell’essenza di bergamotto (foto Consorzio tutela del Bergamotto di Reggio Calabria)

    Le statistiche del 1879

    Le statistiche del 1879 riportano per la provincia di Reggio la presenza, contando insieme bergamotti, cedri e mandarini, di più di 400mila piante. Un numero che, da solo, rappresentava oltre il 70% dell’intera produzione italiana, percentuale che, se si considera l’alto tasso di prodotto medio per pianta, superava l’85% del totale della produzione in frutti.

    Si tratta di numeri che reggevano il confronto con le vaste produzioni di aranci e limoni delle province siciliane. Meno di venti anni dopo il numero di piante di bergamotti, cedri e mandarini dei “giardini di Reggio” era ulteriormente aumentato superando le 750mila piante, segno di una industria molto florida e di una significativa vivacità economica.

    La Zagara contro gli speculatori siciliani

    Tra Otto e Novecento quasi tutta la produzione reggina finiva per foraggiare le industrie di Francia, Germania, Russia, Inghilterra. Il polo principale dello smercio era Messina, dove «commercianti siciliani accaparrano i prodotti calabresi che vengono esportati nelle varie direzioni». Per sfuggire a questi “accaparramenti” degli speculatori, nel 1903 a Reggio venne costituita la Zàgara, una società di proprietari terrieri che cercavano di acquistare e vendere direttamente le essenze, creare depositi di prodotti agrumari, incrementare scambi e depositi di essenze.

    Nei primi anni di attività la Zàgara ottenne un discreto successo, ed era ancora attiva un trentennio dopo nel settore della produzione di essenze di agrumi. In generale, però, la produzione era «esercitata alla spicciola, proprietario per proprietario», tanto che nel 1903 erano attivi 160 piccoli stabilimenti di fabbricazione che impiegavano, nelle varie fasi, 1748 lavoratori.

    Contadini, coloni, proprietari

    I libri e le statistiche ovviamente tralasciano le fatiche insite nel lavoro di raccolta, o le sfiorano appena. I vantaggi economici che spinsero molti proprietari a impiantare coltivazioni di bergamotto si riflettevano solo parzialmente sui contadini, assoggettati in genere a patti agrari particolari. In generale negli agrumeti vigeva un sistema di “colonia mista”.

    Se in quel fondo era possibile piantare anche ortaggi, il colono si occupava della raccolta dei bergamotti. Percepiva una percentuale del prodotto e pagava un fitto per il terreno sul quale coltivava l’orto per sé. Al colono che effettuava la raccolta dei bergamotti poteva spettare una percentuale tra 1/4 e 1/7 del prodotto. Il resto era del proprietario. Ed era quest’ultimo a occuparsi delle spese per l’estrazione delle essenze e l’acquisto e la manutenzione dei macchinari. Proprio la fase dell’estrazione dell’essenza dal frutto era particolarmente delicata.

    Il reggino che inventò la macchina per l’estrazione

    Anticamente si ricavava tramite spremitura a mano. I frutti venivano tagliati in due. La polpa era tolta e la scorza lavorata attraverso delle spugne con un particolare recipiente di terracotta. Intorno al 1840 la svolta. Il reggino Nicola Barillà inventò una macchina per l’estrazione dell’essenza.

    Presto venne chiamata comunemente “macchina calabrese”. Permetteva di estrarre una maggiore quantità di prodotto. Col tempo i sistemi migliorarono, ma il prodotto continuò a rimanere pregiato: con 10 quintali di frutti si ricavavano in media 12 libbre di essenza e 35 kg di citrato. La quasi totalità del prodotto veniva esportata, ma non mancavano alcuni tentativi di lavorazione in loco. Negli anni ‘20 del ‘900, ad esempio, erano attivi tre stabilimenti che producevano acqua di colonia: a Melito Porto Salvo la “Melita”, a San Giorgio Morgeto la “Calabresella” e a Cannitello la “Efel” dei fratelli La Monica.

    Autarchia e rilancio del Mezzogiorno

    Proprio dal Reggino provenivano le sequenze filmate di un cinegiornale (in alto nel video da Youtube) del Luce del 1936. Il titolo è “Un prodotto nostrano: il bergamotto” in pieno stile autarchico. Nel video chiari messaggi in linea con la retorica del regime fascista: «Italiani che giustamente boicottate i prodotti di profumeria dei paesi sanzionisti, ecco una coltivazione e un’industria di carattere prettamente nazionale».

    Meno di trent’anni dopo, il bergamotto è nuovamente al centro di  un documentario dell’Istituto Luce sulla “XVI fiera degli agrumi a Reggio Calabria” (1964). In un tono meno aulico del precedente ma fiducioso in un rilancio del Mezzogiorno, l’agrume viene presentato come l’elemento «alla base della moderna profumeria». Prodotto che, secondo il cronista, avrebbe portato a un «aumento dell’economia a tutto vantaggio delle popolazioni del Sud».

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    Una fase della raffinazione dell’olio essenziale di Bergamotto (foto Consorzio di tutela del bergamotto di Reggio Calabria)

    Denominazione di origine protetta

    Oggi nel Reggino la coltivazione del bergamotto e la preparazione degli oli essenziali continua. Il prodotto è sempre ricercato e, per le sue peculiarità, il “Bergamotto di Reggio Calabria – Olio essenziale” ha ottenuto nel 2001 l’iscrizione nel «registro delle denominazioni di origine protette e delle indicazioni geografiche protette».

    Il riconoscimento ne fissa caratteristiche, processi di lavorazione ed enti di sorveglianza, in modo che il prodotto possa mantenere alta la sua qualità, ed è sorto un apposito consorzio. Di pari passo è cresciuta la consapevolezza dell’importanza anche culturale del bergamotto, divenendo anche oggetto di studi e pubblicazioni, fino alla realizzazione di un apposito “Museo Nazionale del Bergamotto” a Reggio Calabria.

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    Il pregiatissimo olio essenziale di bergamotto
  • Gratteri capo della DNA? Il toto-procure in Calabria è già partito

    Gratteri capo della DNA? Il toto-procure in Calabria è già partito

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    Nel giro di poche settimane potrebbe innescarsi un complesso effetto domino in seno alla magistratura calabrese. Il Consiglio Superiore della Magistratura, infatti, sembra intenzionato ad accelerare sulla nomina del nuovo procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. E tra i papabili, figura anche il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri.

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    Federico Cafiero De Raho è stato fino a febbraio procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo

    Il successore di Federico Cafiero De Raho

    Sono in tutto sette i candidati per ricoprire il ruolo che, fino alla scorso febbraio, è stato di Federico Cafiero De Raho. Magistrato per anni in prima linea contro i Casalesi a Napoli e poi contro la ‘ndrangheta da procuratore di Reggio Calabria. Proprio nello scorso febbraio, Cafiero De Raho è andato in pensione, lasciando vacante la postazione.

    Per la successione nella Direzione nazionale antimafia, uscito di scena l’ex procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, nel frattempo nominato procuratore di Roma, in corsa ci sono il procuratore di Napoli, Giovanni Melillo, il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, il pg di Firenze, Marcello Viola, i procuratori di Catania, Carmelo Zuccaro, di Messina, Maurizio De Lucia, e di Lecce, Leonardo Leone De Castris, e il vicario Giovanni Russo.

    Ma la lotta sembra essere ristretta proprio ai primi due: Melillo e Gratteri. Con il primo favorito. Proprio negli scorsi giorni, la Commissione Direttivi del Csm ha effettuato le sue audizioni sui papabili. E da più parti trapela la voglia di Palazzo dei Marescialli di stringere i tempi.

    Che dipenderanno, però, da quelli di un’altra nomina. Quella, altrettanto delicata, per il successore di Francesco Greco come procuratore di Milano. La Commissione ha indicato una rosa di tre nomi: il Pg di Firenze Viola, il procuratore di Bologna Giuseppe Amato e l’aggiunto della procura di Milano Maurizio Romanelli, con il primo favorito (e che, quindi, uscirebbe dalla corsa verso la DNA).

    L’obiettivo del Csm, pesantemente screditato da quanto emerso con il “caso Palamara” è quello di dare segnali non solo di velocità. Ma anche di meritocrazia.

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    Il coronamento di una carriera

    Per Gratteri, tra i massimi esperti di ‘ndrangheta al mondo, la nomina a procuratore nazionale antimafia sarebbe il coronamento della propria carriera. Che, peraltro, è arrivata a uno snodo cruciale. Gratteri, infatti, si è insediato a capo della Procura di Catanzaro nel maggio del 2016. Praticamente sei anni fa.

    E come è noto, per gli incarichi direttivi, il termine massimo di durata è di otto anni, per evitare incrostazioni di potere. Tradotto: entro due anni, il procuratore dovrà lasciare l’attuale posto per scegliere quello che, verosimilmente, lo porterà alla pensione. Ma, chiaramente, la velleità di ambire alla Direzione Nazionale Antimafia, oltre che una legittima aspirazione di Gratteri, è dovuta al fatto di non arrivare al termine ultimo, quando, poi, il trasferimento di funzione diverrebbe obbligatorio.

    Gratteri in Direzione Antimafia: gli scenari

    Non è facile. Ma, in un modo o nell’altro, il vertice della Procura di Catanzaro dovrà cambiare nei prossimi due anni. E questo potrebbe aprire un effetto domino molto ampio in seno alla magistratura calabrese. Quel posto, infatti, potrebbe essere molto ambito.

    In primis dall’attuale procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, che a Catanzaro è già stato aggiunto. Secondo i rumors, Bombardieri tornerebbe volentieri a Catanzaro. Peraltro, essendo alla soglia dei quattro anni di mandato in riva allo Stretto, Bombardieri deve iniziare a guardarsi un po’ intorno. E le Procure importanti, nei prossimi anni, potrebbero essere tutte occupate. Roma ha un nuovo capo da pochi mesi e lo avranno a brevissimo anche Milano, Firenze e Palermo. E, ovviamente, il posto in DNA non sarebbe più vacante.

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    Il procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri

    Resterebbero, quindi, Napoli (in caso di vittoria di Melillo) o Catanzaro (in caso di vittoria di Gratteri). Ma, certamente, da calabrese, Bombardieri sceglierebbe più di buon grado la seconda destinazione.

    Da non trascurare, però, la soluzione interna dell’aggiunto Vincenzo Capomolla, dell’outsider Giuseppe Capoccia (procuratore di Crotone) e di Pierpaolo Bruni, che a Catanzaro ha già lavorato e che ora è procuratore di Paola.

    E se si libera Reggio?

    Esponente della corrente di Unicost romana, Bombardieri è stato, da sempre, molto vicino all’ex magistrato Luca Palamara, per anni dominus del Csm e destituito dopo gli scandali in cui rimarrà coinvolto. «Per me Giovanni Bombardieri è come se fossi io, ti prego di non dimenticarlo» – scriveva in una chat. «Ora penso di poter chiudere la mia esperienza qui» – aggiungeva dopo la nomina dello stesso a capo della Procura reggina.

    E quindi, a quel punto, si aprirebbe anche la corsa per Reggio Calabria. Una Procura che, negli anni, ha rivestito un ruolo di avanguardia nella lotta alla ‘ndrangheta. Con Giuseppe Pignatone prima e con Federico Cafiero De Raho poi. Ma che negli ultimi anni è stata decisamente fagocitata dall’opera di Catanzaro (soprattutto con la maxi-inchiesta “Rinascita-Scott”) e dalla forza mediatica di Gratteri.

    Ma le cose potrebbero cambiare. Perché, con quella poltrona vacante potrebbe arrivare il momento di Giuseppe Lombardo, attuale procuratore aggiunto di Reggio Calabria, che nelle scorse settimane ha già presentato domanda per Firenze, come successore di Giuseppe Creazzo. Al pari proprio di Pierpaolo Bruni. Insomma, l’ambizione al grande salto non manca. E Reggio Calabria potrebbe essere la piazza giusta.

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    L’ex magistrato Luca Palamara

    Valzer delle nomine

    Dove, peraltro, è ancora vacante il ruolo di procuratore aggiunto lasciato libero da Gerardo Dominijanni, divenuto negli scorsi mesi procuratore generale in riva allo Stretto. Con otto magistrati in corsa: il Procuratore della Repubblica di Caltagirone (Catania), Giuseppe Verzera, ed il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Salvatore Dolce. Poi, ancora, Stefano Musolino e Walter Ignazitto, sostituti procuratori nella Dda di Reggio Calabria ed i sostituti procuratori di Roma Pietro Pollidori, di Salerno Marco Colamonici, di Caltanissetta Pasquale Pacifico e il gip di Napoli Maria Luisa Miranda.

    E presto potrebbe liberarsi anche un altro posto: quello dell’altro procuratore aggiunto, Gaetano Paci, indicato all’unanimità come procuratore della Repubblica di Reggio Emilia.

    E, a quel punto, partirebbe un’altra girandola per le nuove nomine.

  • Vino, orto e poi genetica: ecco i segreti di Bivongi, paese dei centenari

    Vino, orto e poi genetica: ecco i segreti di Bivongi, paese dei centenari

    Puntini sulle mappe. Minuscole aree geografiche lontane tra loro, abitate da popoli diversi, con caratteristiche climatiche e sociali differenti, ma unite nello strano destino di una longevità fuori dall’ordinario. L’arcipelago di Okinawa in Giappone e le valli del Gennargentu in Sardegna, e ancora le spiagge del Costa Rica e la parte più meridionale della California. E in mezzo Bivongi, il piccolo centro appoggiato alle Serre reggine, che in questa particolare classifica viene fuori con il titolo di paese della longevità.

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    Bivongi, il paese dei centenari ai piedi delle Serre reggine

    Il festival dei centenari a Bivongi

    Passato alle cronache per un filotto di oltre 30 concittadini che hanno oltrepassato il solco del secolo di vita negli ultimi 15 anni, Bivongi vanta, in percentuale rispetto al numero di abitanti totale, la maggiore incidenza di ultracentenari sulla popolazione. Un record figlio di tanti fattori e che il minuscolo comune – 1300 abitanti, la maggior parte dei quali, ovviamente, anziani – si tiene stretto, e che ha anche imparato a sfruttare, con serata a tema, riunioni di ascolto e un vero e proprio festival, che nello scorso settembre ha registrato la sua prima edizione.

    L’esercito dei 90enni

    E se lo scorrere del tempo e i due anni di pandemia, hanno inevitabilmente ristretto il numero dei più longevi, si contano ancora a decine quelli che hanno da tempo passato la soglia dei 90 e si preparano alle tre cifre. Una particolarità oggetto di numerosi studi scientifici e che ha portato il centro dello Stilaro anche sulle pagine del National Geografic. Una particolarità che porta con sé anche il lato oscuro dei tanti casi di demenza senile che si sono registrati negli anni. Un risvolto amaro e che è diventato a sua volta materia di studi sulla neurogenetica: studi che incrociano i dati del pesino della Locride a quelli di La Plata nella provincia di Buenos Aires, dove risiede buona parte della popolazione bivongese emigrata nell’ultimo secolo.

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    Ritmi lenti e vita tranquilla: l’ambiente ideale per superare i cento anni

    In vino “longevitas”

    Tanti i fattori che determinano il particolare attaccamento alla vita degli abitanti di questo paesino affacciato alla fiumara. A partire ovviamente da quelli genetici: studi statistici su alcune famiglie storiche del paese, hanno dimostrato la particolare longevità di alcuni “ceppi” parentali, già dal diciassettesimo secolo. E poi il clima e l’alimentazione: è facile sentirsi raccontare da uno dei vecchietti del posto che il vero segreto della longevità sta nel vino, che da questa parti è cosa estremamente seria e da quando ha strappato il marchio Doc è riuscito a ritagliarsi anche una buona fetta di mercato.

    E ancora la qualità dell’acqua – nei dintorni del paese esistono diverse sorgenti attive – e le particolarità geologiche del terreno: si è scoperto infatti che il sottosuolo di Bivongi – in passato centro importante nel panorama minerario nazionale – è ricco di molibdenite, un particolare minerale, comune anche nella Sardegna dei centenari, che nasconderebbe qualità salvifiche.

    Ipotesi e leggende che si intrecciano a studi più strutturati; e anche se non esiste una ricetta magica che consenta di vivere più a lungo, certo le caratteristiche sociali e il tenore di vita degli abitanti hanno dato una mano. A Bivongi come a Okinawa e come in Sardegna, si registrano piccole comunità che vivono vite interconnesse tra loro e con l’ambiente che le circonda. Vite condite da ritmi lenti e ripetitivi: l’orto da curare, la passeggiata fino alla piazza, l’immancabile partita a tresette. Sono gli uomini a vivere di più in media, anche se la più anziana del paese, l’unica attualmente a sforare le tre cifre, è un’arzilla signora di 102 anni. Il paese, abitato per lo più da anziani, è riuscito a trovare nuovo slancio dalla statistica che mette Bivongi sul tetto dei paesi longevi.

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    Superati i cento anni non può mancare un giro in 500

    Caffè alzheimer

    Manifestazioni, cerimonie, feste e convegni con i più avanti negli anni al centro del progetto e il centro anziani che diventa punto di incontro tra generazioni. Come l’oratorio, dove ormai da cinque anni, vanno avanti i caffè alzheimer. Incontri con base mensile – ma che durante le fasi più acute della pandemia sono stati sospesi – dove la comunità di vecchietti del posto si confronta tra loro con il supporto di medici e psicologi per affrontare i tanti problemi che saltano fuori con la vecchiaia.

    Un modo per tenere la mente sveglia in un paesino dove la longevità fuori dal comune che registrano le statistiche, si accompagna ad un numero non trascurabile di casi di demenza senile. Anche in questo caso una particolarità tutta bivongese finita nel primo studio a livello mondiale sulla demenza frontotemporale. Uno studio portato avanti dal centro di neurogenetica di Lamezia che ha messo in evidenza come la popolazione bivongese presa in esame presentasse una maggioranza schiacciante di casi di questa patologia, rispetto alle percentuali di “comune” alzheimer registrati nel resto del pianeta.

  • Arghillà, morire in cella a 29 anni e senza processo

    Arghillà, morire in cella a 29 anni e senza processo

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    Potrebbe restare senza colpevoli la morte di Antonino Saladino, il ventinovenne deceduto nel carcere di Arghillà a Reggio nel marzo del 2018 in seguito alle conseguenze di un’infezione interna. Nonostante la proroga alle indagini disposta dal Gip poco più di un anno fa, infatti, i magistrati dello Stretto hanno nuovamente avanzato richiesta di archiviazione. Rischia così di cadere nel dimenticatoio il caso di quel ragazzone di Santa Caterina finito in galera con l’accusa di essere parte di una banda di spacciatori. E morto, dopo un anno di carcere preventivo, in seguito ad una ventina di giorni di sofferenze di cui nessuno – esclusi i compagni di cella – sembra essersi accorto.

    Centocinquanta morti ogni anno

    Una storia come ne succedono tante nelle carceri italiane – si aggirano attorno ai 150 ogni anno le morti all’interno degli istituti di correzione in tutto il Paese, una cinquantina delle quali sono relative a suicidi – e su cui potrebbe calare definitivamente il sipario, almeno sul versante della ricerca di eventuali responsabilità da parte del sistema sanitario del maxi carcere reggino.

    Numeri che non tornano, testimonianze ritenute inaffidabili, registri che non coincidono. Sono tanti i punti rimasti oscuri in questa vicenda nonostante quasi un anno di nuove indagini: oscurità che non hanno però convinto i pm dello Stretto che, nell’udienza di qualche giorno fa, hanno presentato una nuova richiesta di archiviazione. Richiesta a cui l’avvocato Pierpaolo Albanese, legale della famiglia del detenuto morto, si è opposto nella speranza di non fare diventare Antonino Saladino l’ennesimo numero nella terribile statistica dei decessi dietro le sbarre.

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    Antonio Saladino è morto prima di arrivare in un aula di tribunale

    Un anno ad Arghillà senza processo

    Saladino in carcere ci era finito in seguito ad un’inchiesta della distrettuale antimafia dello Stretto. Siamo nel 2017 e gli investigatori, nell’ambito dell’inchiesta Eracle, individuano una serie di soggetti che gestiscono parte del traffico di droga nel quadrante nord della città. Tra loro c’è anche Saladino. Ventinove anni, molto conosciuto nel quartiere di Santa Caterina, qualche incidente per possesso di di droga, da anni sbarca il lunario come imbianchino.

    Consumatore abituale di marijuana – pochi mesi prima dell’arresto viene sorpreso in seguito ad un controllo delle forze dell’ordine con nove grammi di erba – il suo nome salta fuori in alcune intercettazioni dei capi dell’organizzazione che ne parlano come di un pusher. L’accusa, sempre respinta dall’indagato, passa il vaglio del Gip e Antonino Saladino finisce ad Arghillà. Ne uscirà, poco più di un anno dopo, in una cassa di legno.

    Il processo che lo vede imputato intanto è andato avanti e attende ora il vaglio della suprema Corte: i primi due gradi di giudizio hanno stabilito 20 condanne e sei assoluzioni. Saladino però non ha fatto in tempo a farsi giudicare: è morto mentre era sotto custodia dello Stato.

    Antonino Saladino sta male

    I problemi fisici del ragazzo iniziano nei primi giorni del marzo 2018. Dai registri medici finiti agli atti dell’inchiesta viene fuori che Saladino si presenta in infermeria il 5 e il 6 lamentando sintomi che vengono interpretati come una banale influenza e curati con antipiretici e cortisonici. Poi un buco di 12 giorni. Infine il 18 marzo i registri medici annotano tre nuove visite al detenuto: alle 15,30 alle 19,15 e poco prima della mezzanotte, quando ormai la situazione è degenerata irrimediabilmente. I medici del 118 arrivati in carcere, non possono fare altro che certificare la morte del ragazzo.

    Medici e infermieri: due registri che non combaciano

    Sono le nuove indagini disposte dal Gip a fare emergere l’esistenza di altri registri tenuti nelle infermerie del carcere. In particolare, dal diario infermieristico – quello dove vengono annotate le terapie somministrate dal personale paramedico nel caso di visite non programmate – salta fuori che Saladino si era recato in infermeria anche nei giorni 11, 16 (due volte) e 17 lamentando gli stessi sintomi e ricevendo come terapia pastiglie di Maalox e di Acetamol. Accessi in infermeria che non corrispondono però ad altrettante visite mediche e che quindi non vengono presi in considerazione nella relazione del perito nominato dal pm.

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    L’ingresso del carcere di Arghillà a Reggio Calabria

    Quest’ultimo, confermando quanto aveva già affermato in passato, ipotizza una infezione dal decorso accelerato e quasi asintomatico che non era ipotizzabile a fronte dei registri presi in considerazione. Considerazioni contrastate però dalla perizia di parte presentata dal legale dei familiari di Saladino che invece ipotizzano un decorso lento e inesorabile dell’infezione, iniziato nei primi giorni del mese e passato inosservato al vaglio dei sanitari.

    I compagni di cella di Antonino Saladino

    Questa tesi troverebbe conforto anche nelle testimonianze dei compagni di cella dell’imbianchino. Sentiti nell’ambito delle indagini difensive, avevano raccontato di un malessere che durava da tempo e di continue visite all’infermeria. Testimonianze, però, che i pm reggini non hanno ritenuto attendibili. Nella richiesta di archiviazione, i magistrati annotano come le stesse testimonianze, pur convergendo sul fatto che Saladino lamentasse dolori e si presentasse spesso in infermeria, differissero tra loro nella tempistica: alcuni parlavano di visite quotidiane, altri di visite saltuarie, altri ancora di visite settimanali.

    Ombre sul carcere

    Una vicenda dai tratti amari che si trascina da ormai quattro anni e che coincide con un periodo molto controverso della casa circondariale reggina. All’epoca del decesso, direttrice della struttura di Arghillà era Maria Carmela Longo, arrestata nel 2020 e rinviata a giudizio nel gennaio scorso con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. L’ipotesi degli inquirenti è che abbia favorito alcuni detenuti ‘ndranghetisti all’interno del carcere.

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    Maria Carmela Longo, ex direttrice del penitenziario reggino

    La madre di Antonino Saladino

    Una vicenda, quella di Antonino Saladino, su cui ora dovrà esprimersi il giudice per le indagini preliminari e sul cui sfondo resta il coraggio della madre del detenuto che, durante un convegno sulla sanità nelle carceri lo aveva ricordato così: «Nino era un ragazzo come tanti. È entrato in carcere perché sospettato di un reato, ma non era un criminale, ancora doveva svolgersi un processo. Quando lo hanno arrestato era in piena salute, è morto il 18 marzo del 2018 in solitudine, con tanta sofferenza e lontano dai suoi cari. Non conosco le leggi, ma penso che se lo Stato arresta una persona perché sospetta che abbia commesso un reato e lo trattiene prima ancora di giudicarlo, allora è responsabile della sua persona e deve fare in modo che riceva tutte le cure, perché anche se ha sbagliato deve avere la possibilità di curarsi»

  • Gioia Tauro: alla ricerca del rigassificatore perduto

    Gioia Tauro: alla ricerca del rigassificatore perduto

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    Sono passati diciassette anni da quando è cominciata la storia del rigassificatore a Gioia Tauro. Lo scenario geopolitico e geostrategico intanto è cambiato completamente: abbiamo attraversato tre crisi economiche mondiali, è venuta la pandemia. La Russia, da ultimo, dopo essersi impadronita della Crimea nel 2014, ha invaso nel 2022 l’Ucraina.
    A Gioia Tauro non è successo intanto assolutamente nulla, se non una lunghissima storia italiana di ordinaria burocrazia. Eppure, sarebbe stato strategico realizzare questo investimento per una nuova infrastruttura energetica, nell’interesse della Calabria e dell’Italia.

    Un investimento da un miliardo di euro è rimasto nel congelatore delle decisioni perdute, per realizzare un impianto adeguato a gestire 12 miliardi di metri cubi di gas rispetto agli 80 miliardi che l’Italia consuma ogni anno. Intanto, ancora oggi, l’impianto di Gioia Tauro attende la dichiarazione di strategicità da parte dello Stato. Serviranno poi quattro anni per poter costruire il rigassificatore.

    Le forniture russe e il ricatto di Putin

    Persiste ancora oggi la nostra dipendenza energetica dalle fonti fossili, in buona parte dal gas russo. Dobbiamo, però, modificare comunque l’assetto energetico per far fronte alla emergenza climatica. Dopo quasi quattro lustri di perdite di tempo, ci accorgiamo di quello che non abbiamo fatto. Da quasi dieci anni la realizzazione dell’impianto di Gioia Tauro è sospesa da un decreto del governo.

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    Vladimir Putin

    Improvvisamente, la guerra in Ucraina ci ha risvegliati dal lungo sonno energetico. Disporre di impianti per fonti alternative sarebbe oggi indispensabile, soprattutto nel Mezzogiorno. Ed invece ci siamo fatti trovare impreparati nel momento del bisogno, quando oggi servirebbe non stare sotto il ricatto di Putin. Le nuove infrastrutture per l’energia sono largamente inadeguate, in particolare nel Mezzogiorno.

    Da gas a liquido e viceversa

    Una delle strade per diversificare le fonti energetiche è quella di ricorrere al gas naturale liquefatto. In assenza di gasdotti, il gas naturale liquefatto si può trasportare su apposite navi metaniere. Questa tecnica consente di occupare un volume circa 600 volte inferiore: una metaniera può trasportarne una quantità molto maggiore. Il trasporto via nave, dunque, ha bisogno di impianti per la trasformazione del gas allo stato liquido nel punto di partenza (quindi impianti che lo raffreddano e comprimono) e di rigassificatori nel punto di arrivo.

    Il GNL si trasporta nelle navi a pressione poco superiore a quella atmosferica e a una temperatura di -162 °C. Nei rigassificatori torna allo stato originario grazie a un processo di riscaldamento controllato all’interno di un vaporizzatore, che ha un volume adeguato per permettere l’espansione del gas. Il riscaldamento avviene facendo passare il GNL all’interno di tubi immersi in acqua marina, che ha chiaramente una temperatura più alta. Una volta tornato com’era prima, il gas si può immettere nei gasdotti di un territorio, per poi distribuirlo nelle case e impiegare nelle centrali elettriche per la produzione di energia.

    Un rigassificatore al Sud ancora non c’è

    I rigassificatori italiani attualmente in uso sono tre strutture diverse tra loro. Sono tutti al Nord. Il più grande è il Terminale GNL Adriatico, ed è un impianto offshore: un’isola artificiale che si trova in mare al largo di Porto Viro, in provincia di Rovigo, e ha una capacità di produzione annuale di 8 miliardi di metri cubi di gas.

    Anche nel mar Tirreno, al largo della costa tra Livorno e Pisa, c’è un rigassificatore offshore: è una nave metaniera che è stata modificata e ancorata in modo permanente al fondale e immette gas in rete dal 2013. Ha una capacità di 3,75 miliardi di metri cubi annuali.

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    L’impianto onshore di Panigaglia

    Il terzo rigassificatore in funzione è invece una struttura onshore, cioè sulla terraferma, e si trova a Panigaglia, in provincia di La Spezia. È il primo rigassificatore mai costruito in Italia (risale agli anni Settanta), ha una capacità annuale di 3,5 miliardi di metri cubi.
    La capacità complessiva dei tre rigassificatori non sarebbe da sola sufficiente a permettere l’immissione nella rete italiana di una quantità di gas pari a quella che negli ultimi anni è stata importata dalla Russia (29 miliardi di metri cubi di gas nel 2021).

    Un’alternativa alla Russia

    Nell’ottica di diminuire la dipendenza energetica dalla Russia, però, il governo vorrebbe ora sia sfruttare di più i rigassificatori sia aumentare le importazioni tramite gasdotti dai paesi da cui oggi l’Italia già si rifornisce: ad esempio dall’Algeria, attraverso il TransMed, e dall’Azerbaigian, attraverso il Trans-Adriatico, o TAP.

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    Come il gas arriva in Italia tramite il TAP

    Il governo ha incaricato – per questa ragione – Snam ed Eni, la più grande azienda petrolifera italiana, di trovare una o due metaniere da trasformare in floating storage regasification unit (nel gergo tecnico il rigassificatore si chiama così, o con la sigla FSRU), strutture simili a quella al largo di Livorno e Pisa che possano trattare 5 o 6 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Non si sa ancora nulla di dove saranno eventualmente collocati gli impianti.

    Gioia Tauro e Porto Empedocle: impianti nel limbo

    In questo contesto si è riparlato anche di due progetti per la costruzione di nuovi rigassificatori bloccati da anni. Uno riguarda Porto Empedocle, in provincia di Agrigento, l’altro Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria. Il primo progetto era stato inizialmente presentato nel 2004, ma – dopo varie vicissitudini burocratiche – il Comune di Agrigento aveva interrotto la realizzazione del gasdotto che sarebbe stato collegato all’impianto. I rischi sull’ambiente e per i possibili danni ai siti archeologici nello scavo del condotto erano stati giudicati troppo alti. A febbraio, però, il Tribunale amministrativo regionale di Palermo ha respinto il ricorso del Comune e ora, almeno teoricamente, il gasdotto si potrebbe costruire.

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    Porto Empedocle e Gioia Tauro sono i luoghi ipotizzati per realizzare un rigassificatore al Sud

    Non è detto però che il rigassificatore di Porto Empedocle si farà, e in tempi brevi. Il comune di Agrigento può fare appello al Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia (CGARS) contro la decisione del Tar.
    Per quanto riguarda il progetto di Gioia Tauro, avviato nel 2005, è stato sospeso dal 2013. Il ministro delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili Enrico Giovannini ha ora detto che si potrebbe riprendere in considerazione. E Roberto Occhiuto da Dubai soltanto pochi giorni fa ha insistito sulla necessità che il Governo acceleri le procedure per realizzarlo. Certo, stupisce che è dovuta giungere la crisi energetica derivante dalla guerra ucraina per ripescare dagli archivi un progetto industriale stagionato.

    Zes, rigassificatore ed energia

    È l’ennesima riprova che manca completamente l’adeguata considerazione verso il futuro del Mezzogiorno. Dei tre rigassificatori operativi, nessuno è collocato ai Sud. I due progetti meridionali sono rimasti nei cassetti per tentare di recuperarli in extremis, ma comunque non entro un raggio di azione capace di dare un apporto concreto nel percorso critico di costruzione della autonomia energetica dell’Italia rispetto al gas russo.

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    Container nel porto di Gioia Tauro

    Nella stessa costruzione delle zone economiche speciali si è esclusa la possibilità di includere gli investimenti nel settore dell’energia all’interno del perimetro delle attività agevolate, anche dai punti di vista delle norme di semplificazione. Eppure, la centralità dei porti nelle Zes avrebbe dovuto indurre a comprendere il settore energetico nel programma di sviluppo economico dei territori portali.

    Vedremo quello che accadrà sul rigassificatore di Gioia Tauro. Andrebbe tenuto accesso il riflettore su questo caso, per evitare che l’improvviso risveglio di un progetto possa durare solo lo spazio di un mattino, per tornare nei sonnacchiosi cassetti della burocrazia nazionale e locale. Il futuro della Calabria e del Mezzogiorno passa anche dalle infrastrutture energetiche.

  • La ‘ndrangheta dell’altra sponda

    La ‘ndrangheta dell’altra sponda

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    Qualcuno l’ha sempre considerata la “provincia babba” della Sicilia. A fronte di roccaforti di Cosa Nostra, come Palermo e Catania, soprattutto, ma anche Trapani, Messina è sempre stata considerata come figlia di un dio minore sotto il profilo criminale. Ma è davvero così?

    L’ultima inchiesta

    Proprio nelle ultime ore, la Procura della Repubblica di Messina, retta da Maurizio De Lucia, ha tirato le fila di un’inchiesta che dimostrerebbe come, nel capoluogo peloritano, gli affari criminali siano tutt’altro che trascurabili. Sono 21 le persone accusate, a vario titolo, di reati in materia di stupefacenti e armi. Una organizzazione criminale, armata, perfettamente organizzata che riforniva di droga i quartieri cittadini di “Gazzi” e “Mangialupi”.

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    La sede della Procura di Messina

    Le indagini condotte dalla Polizia di Stato avrebbero dimostrato l’esistenza di una centrale di spaccio nel rione “Gazzi”. Con due distinte cellule criminali: una più ristretta, che operava in Calabria ed era impegnata nel rifornire la seconda, l’altra, più articolata e capillare, che immetteva sul mercato di Messina e provincia, grosse partite di cocaina.

    Il ponte sullo Stretto esiste già

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    Messina e il suo porto affacciato sullo Stretto

    Un’organizzazione che spacciava giorno e notte e che riusciva a tirar su almeno 50mila euro mensili. Stando all’inchiesta, la continuità dei rifornimenti era assicurata da alcuni calabresi. Anch’essi arrestati, gestivano i contatti con i vertici del gruppo dei messinesi mediante apparecchi cellulari dedicati. Così si garantivano un elevato livello di riservatezza delle comunicazioni.

    E sono pressoché quotidiani gli interventi delle forze dell’ordine che agli imbarcaderi, tanto di Messina quanto di Villa San Giovanni, bloccano corrieri, talvolta insospettabili, carichi di droga. Il ponte sullo Stretto, voluto da tanti e osteggiato da altrettanti, resta una chimera. Ma sotto il profilo criminale le due sponde di terra sembrano già ampiamente collegate. E l’ultima inchiesta ne sarebbe solo l’ulteriore prova.

    Messina “provincia babba”?

    E, allora, forse, Messina è stata bollata un po’ troppo superficialmente e frettolosamente come “provincia babba”. A pochi chilometri dal capoluogo, infatti, sorge Barcellona Pozzo di Gotto. Un centro oggi di quasi 40mila abitanti che, da anni e negli anni, è stato un crogiolo di interessi e commistioni.

    Il boss locale, Pietro Gullotti, si dice fosse assai vicino al boss catanese Nitto Santapaola. E negli scorsi anni la “creme” della città messinese finirà al centro di una serie di scandali che riguarderanno, peraltro, l’uccisione del giornalista Beppe Alfano e il suicidio del professore Adolfo Parmaliana. Proprio a Barcellona Pozzo di Gotto, infatti, alcune inchieste mostreranno, almeno sotto il profilo storico, un coacervo di interessi tra politica, magistratura e criminalità organizzata, all’ombra di un circolo noto come “Corda fratres”.

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    Nitto Santapaola

    E di Barcellona Pozzo di Gotto è originario anche quell’avvocato Rosario Pio Cattafi, considerato elemento di congiunzione tra mondi occulti e la criminalità organizzata. Indagato anche nell’inchiesta “Sistemi Criminali”, condotta alcuni anni fa dal pubblico ministero Roberto Scarpinato sulla strategia della tensione dei primi anni Novanta, ma sfociata in un’archiviazione complessiva per personaggi del calibro del gran maestro della P2, Licio Gelli, il terrorista nero Stefano Delle Chiaie, i boss mafiosi Totò Riina e i fratelli Graviano, ma anche l’avvocato Paolo Romeo, avvocato reggino condannato in via definitiva per mafia nel processo Olimpia e considerato un’eminenza grigia delle dinamiche ’ndranghetiste.

    La ‘ndrangheta dell’altra sponda

    Già, la ‘ndrangheta. Per qualcuno, Messina sarebbe sostanzialmente una propaggine della Calabria, sotto il profilo criminale. Un locale di ‘ndrangheta distaccato. A parlarne è Gaetano Costa, capo della locale di Messina, con strettissimi legami con la ‘ndrangheta, sull’altra sponda dello Stretto. Negli anni ’90, Costa diventa collaboratore di giustizia e racconta, per esempio, della fase evolutiva che segna il passaggio dalla ‘ndrangheta basata sulle regole dello “sgarro” a una nuova formazione, quella della “Santa”.

    Ma Costa, da persona qualificata in quanto uomo forte del crimine in quei luoghi, racconta anche che tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, Messina era considerata quasi un’entità sganciata dal resto della Sicilia e, invero, una propaggine della Calabria, soprattutto sotto il profilo criminale. La città dello Stretto viene definita un “locale” di ‘ndrangheta distaccato dalla Penisola.

    L’Università di Messina e i rampolli dei clan

    E appartengono ormai all’epica della storia della ‘ndrangheta i racconti riguardanti l’Università degli Studi di Messina, soprattutto tra gli anni ’80 e ’90. Lì, con l’ormai celeberrima “pistola sul tavolo”, si sarebbero laureati i rampolli dei vecchi capibastone. E così la ‘ndrangheta si sarebbe fatta classe dirigente. Se i vecchi boss erano, infatti, semianalfabeti o quasi, le nuove leve sono diventate medici e avvocati. E, quindi, con la possibilità di occupare i posti di potere in maniera apparentemente lecita.

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    L’Università di Messina

    Parlando di don Giovanni Stilo, controverso prete di Africo, il collaboratore di giustizia Filippo Barreca racconta infatti che questi, grazie alle sue influenze massoniche, avrebbe avuto importanti relazioni, sia all’interno dell’ospedale di Locri, che all’interno dell’Università di Messina.

    Grazie ai legami massonici e ‘ndranghetisti, nell’Ateneo messinese sostanzialmente le lauree sarebbero state regalate: «Ci fu un periodo in cui l’Università di Messina era una sorta di dependance di Africo Nuovo, nel senso che vi comandavano don Stilo e i suoi accoliti» dice con chiarezza Barreca.

    La ‘ndrangheta e la massoneria

    In quanto a salotti, peraltro, Messina non ha nulla da invidiare alle più blasonate Palermo e Catania. E nemmeno alla dirimpettaia Reggio Calabria, vera capitale della masso-‘ndrangheta. Interessanti, sul punto, anche le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Cosimo Virgiglio. Pentito un tempo legato alle cosche della ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, ma anche massone e molto vicino al boss Rocco Molè.

    Virgiglio ha a che fare con grembiulini e cappucci già negli anni Novanta, ai tempi dell’università a Messina. Tra il 2007 e il 2008 coinvolto e condannato nell’ambito del processo “Maestro”, per i traffici della famiglia Molè nel porto di Gioia Tauro. In mezzo, però, tanta massoneria pesante.

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    L’ex presidente della AS Roma, Franco Sensi

    Già nel 1995, Virgiglio entra in contatto con l’allora presidente della Roma, Franco Sensi, oggi deceduto, ma ben inserito nei circuiti massonici: «Sono entrato o meglio mi sono avvicinato alla massoneria per il tramite del messinese Carmelo Ugo Aguglia, nobile messinese, intorno alla fine degli anni ’80. Io frequentavo l’università di Messina. Per la verità iniziai a frequentare il Rotary. Il Rotary era una trampolino di lancio per entrare nel GOI. Il tempio di Messina, che si trovava nella zona del Papardo. Ricordo che fra gli altri frequentatori di questi ambienti massonici di Messina vi era Franco Sensi, presidente della Roma Calcio. Nel 1992-93 arrivò a Messina, da Reggio Calabria, la soffiata su di un’indagine sulla massoneria».

    La relazione della DIA

    Storia della ‘ndrangheta? Forse no. Dato che queste dinamiche vengono cristallizzate anche nell’ultima relazione semestrale della Direzione Investigativa Antimafia. La DIA, infatti, dedica un intero paragrafo alla situazione di Messina e dintorni: «Il territorio provinciale costituisce il crocevia di varie matrici criminali. L’influenza di Cosa nostra palermitana e catanese con le loro peculiari caratteristiche hanno infatti contribuito a creare una realtà eterogenea», si legge.

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    Ma non solo, anche in quest’ultimo studio ufficiale sulla criminalità organizzata in Italia, il ruolo della ‘ndrangheta è preminente: «Ancora sono stati riscontrati rapporti con le vicine cosche calabresi soprattutto per l’approvvigionamento di stupefacenti. Le interazioni tra sodalizi appaiono come in passato orientate a rapporti di vicendevole convenienza, evitando scontri cruenti».

    La ‘ndrangheta a Messina per reinvestire capitali

    Il rapporto costante con la criminalità calabrese emerso dalle risultanze investigative è, per i vertici della Procura peloritana, aspetto su cui va posta la massima attenzione «dal punto di vista della prospettazione futura, avendo ragione di ritenere che la ‘ndrangheta possa in futuro utilizzare lo stesso canale individuato per gli stupefacenti anche per altri traffici, in particolare quello del reinvestimento dei capitali».

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    Il procuratore Maurizio De Lucia

    E tra gli allegati dell’ultima relazione è possibile leggere anche stralci dell’audizione resa proprio dal procuratore De Lucia, autore dell’ultima inchiesta riguardante le due sponde dello Stretto: «Attraverso il traffico di stupefacenti si creano degli accordi e delle convenienze comuni proprio con la ‘ndrangheta, considerato che tale traffico illecito implica una relazione costante delle organizzazioni sia della città di Messina che dell’area di Barcellona P.G. con organizzazioni ‘ndranghetiste».

    Sul punto anche il comandante provinciale dei Carabinieri, colonnello Lorenzo Sabatino, ha dichiarato che «le principali organizzazioni mafiose messinesi si sono sviluppate subendo l’influenza sia di Cosa nostra palermitana e catanese, con cui hanno intessuto significativi rapporti criminali, sia della ‘ndrangheta calabrese, di cui alcuni gruppi, in passato, mutuarono strutture, rituali e denominazioni. Il territorio provinciale del resto, è da sempre esposto all’infiltrazione da parte dei sodalizi mafiosi delle province limitrofe e a fenomeni di cooptazione in Cosa nostra di esponenti della criminalità mafiosa locale».

  • Bronzi di Riace: due statue, una sola persona?

    Bronzi di Riace: due statue, una sola persona?

    Sono trascorsi 50 anni da quel giorno del 1972 quando Stefano Mariottini, un appassionato subacqueo romano in vacanza in Calabria, riemerse dallo specchio di mare antistante Riace per annunciare una scoperta sensazionale. Aveva rinvenuto, adagiate sul fondale, quelle che si sarebbero rivelate due statue in bronzo. Ma, ancora oggi, c’è molta incertezza su chi ne sia stato l’autore o se provengano dall’Attica o dal Peloponneso. Buio pesto, poi, su chi o cosa raffigurino i due bronzi: non si è mai andati oltre il distinguerli come Statua A, quella con l’aspetto giovanile, e statua B, ritenuta quella di un uomo più anziano.

    Il Bronzo A all’epoca del ritrovamento. A sinistra, Stefano Mariottini

    Tante ipotesi sui Bronzi

    Su tutti questi aspetti, la ridda di ipotesi è davvero interminabile. Alcune sono più accreditate, ma le altre non sono state mai del tutto accantonate. Si è arrivati persino a sostenere che le sculture fossero opera di un bronzista reggino, Pitagora di Reggio, attivo dal 490 al 440 a.C., apprezzato per la sua capacità di rappresentare dettagli anatomici con verosimiglianza. D’altra parte, per avere certezze a riguardo servirebbe una macchina del tempo che permetta un balzo indietro di oltre due millenni. In mancanza di quella, ci si deve affidare alle fonti storiche e alla loro esegesi, farsi guidare da autori come Erodoto, Tucidide e Diodoro Siculo.

    Gli storici dell’epoca

    I primi due vissero entrambi nel V secolo a.C. e quindi c’erano negli anni in cui, presumibilmente, furono creati i Bronzi di Riace. E c’erano sicuramente all’epoca dell’alleanza tra Sparta e Atene in cui infuriava la guerra tra greci e persiani.

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    Una vecchia edizione de La Guerra del Peloponneso di Tucidide

    C’erano Erodoto e Tucidide e raccontarono, da contemporanei, storie di guerre ed eroi, ma anche di trionfatori caduti nella polvere. Come Pausania, uno tra i più giovani generali spartani, nipote del leggendario Leonida. Tucidide ne parla nel suo La guerra del Peloponneso. Pausania fu l’artefice della vittoria dell’alleanza tra Sparta e Atene sui persiani a Platea, ma era un uomo dall’irrefrenabile ambizione. Questo infastidiva gli alleati attici, che non lo ritenevano stratega affidabile. E ne erano consapevoli anche gli spartani, che ritennero di non affidargli più alcun ruolo nella guerra.

    Pausania, il generale che tradì Sparta

    Pausania era partito alla volta di Cipro al comando di venti navi, affiancato dalla flotta degli alleati. E dopo aver conquistato l’isola, si era diretto alla volta di Bisanzio strappando anche quella al dominio persiano. Ma la sua tracotanza e prepotenza indussero gli alleati a chiedere il comando ateniese nelle operazioni di guerra. Anche per Sparta il modo di operare del loro stratega assomigliava davvero troppo a quello di un tiranno. Il tempo trascorso dal giovane generale nelle varie campagne contro i persiani gli aveva consentito di approfondire le proprie conoscenze presso quei popoli.

    Nel Peloponneso c’era chi addirittura scorgeva negli atteggiamenti di Pausania un che di medismo. E, comunque, non era uomo che sarebbe rimasto fermo ad attendere una serena vecchiaia. Di propria iniziativa armò una nave per riprendere la lotta ai persiani, ma il suo fine si rivelò essere ben diverso: raggiungere accordi con i nemici e mettersi alla loro testa per marciare contro Sparta.

    Un’intercettazione ambientale ante litteram

    L’accusa mossa contro Pausania era pesantissima. Il suo destino era segnato, ma occorrevano prove davvero schiaccianti agli spartani per sostenere le accuse e giungere a una condanna. Quello che descrive Tucidide in merito alle indagini sembra essere il primo vero caso di quella che, ai giorni nostri, definiremmo un’intercettazione ambientale. Il giovane (ormai ex) generale spartano si rifugiò come supplice nel tempio di Atena “Calcieca” a Sparta e qui lo raggiunse un suo amico fidato.

    La conversazione tra i due avvenne in una sorta di capanna fatta piazzare appositamente dagli efori per carpirne, non visti, i contenuti. Pausania parlò delle pesantissime accuse di tradimento e della fondatezza delle imputazioni a suo carico. Era dunque un reo confesso, ignaro che ad ascoltarlo fossero proprio gli efori spartani alla ricerca di prove. Non occorreva altro per arrivare a una sentenza di morte.

    E l’oracolo disse: «Due bronzi per espiare il sacrilegio»

    Siamo nel 470 a.C,. Pausania ha 40 anni, la sua condanna è morire di fame e di sete all’interno del tempio di Atena. I carcerieri murano gli ingressi e scoperchiano il tetto dell’edificio. Contano di accorgersi in tempo del sopraggiungere dell’ora fatale ed evitare così che il prigioniero spiri tra quelle sacre mura, ma non fanno in tempo. Pausania muore, ancora quarantenne, nell’edificio dedicato ad Atena Calcieca, violando la divinità del luogo. Si stabilisce di gettare nel fiume le spoglie dell’ex generale.

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    La morte di Pausania (fonte Wikipedia)

    Ma – così racconta Tucidide – «il Dio, attraverso l’oracolo di Delfi, intimò agli Spartani di traslarne la salma nel punto stesso della morte (ancor oggi riposa infatti all’ingresso del santuario, come provano le iscrizioni di alcune stele). Ingiunse anche di espiare l’atto commesso, un sacrilegio grave, dedicando ad Atena Calcieca due corpi in cambio di uno solo. Furono così fatte erigere e consacrare alla dea due statue di bronzo, quasi a compenso di Pausania». Due statue in bronzo, dunque, erette per espiare un sacrilegio e per ripagare la divinità violata dalla morte di un uomo soltanto. Circa 2.500 anni dopo quei fatti due statue, finite lì a causa di un naufragio, affiorano dalle acque di Riace.

    I nomi più ricorrenti

    Chi raffiguravano dunque i due guerrieri in bronzo? I nomi più ricorrenti sono quelli di Eteocle e Polinice, fratelli, figli di Edipo, protagonisti della guerra contro Tebe, immortalati da una celebre tragedia di Eschilo. A seguire, nell’elenco dei probabili eroi raffigurati, vi sono Aiace e Oileo nonché Tideo e Anfiarao. Sull’identità dei Bronzi, ascrivibile a questi ultimi, il professor Paolo Moreno, docente di Archeologia e Storia greca all’Università La Sapienza si dice certo. Sostiene pure l’ipotesi che le due statue provenissero dalla città di Argo, nel Peloponneso.

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    Giovanni Silvagni, Eteocle e Polinice (1800 circa, fonte Wikipedia)

    Capolavori (e visitatori) a confronto

    I Bronzi custoditi nel museo di Reggio Calabria sono meravigliosi e questo potrebbe e dovrebbe bastare per attirare visitatori da tutto il mondo. Statue come quelle rinvenute a Riace nel 1972 se ne contano non più di cinque in tutto il pianeta, ma nessuna che possa gareggiare in bellezza con loro. Eppure la loro attuale dimora non è sicuramente tra le più visitate, neppure a livello nazionale, nonostante i Bronzi siano in ottima compagnia di reperti dal valore inestimabile. Il costo del biglietto per ammirarli è davvero irrisorio: si va dai 2 agli 8 euro al massimo.

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    I Bronzi nel Museo di Reggio Calabria

    Una volta l’accesso al museo era totalmente gratuito, omaggio alla logica dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, dove non si paga il pedaggio per incentivare i flussi turistici a venire al Sud. Detto ciò, si può fare un raffronto tra il museo calabrese e quello del Cenacolo Vinciano a Milano, celebre per la presenza di un affresco di Leonardo da Vinci raffigurante “l’Ultima Cena”. Lo spazio espositivo è ricavato in delle sale della basilica di Santa Maria delle Grazie. Per visitare l’opera occorre talvolta prenotare mesi prima, ci vogliono almeno 20 euro per un biglietto d’ingresso, mentre per un tour guidato ne occorrono quasi 45. L’accesso nella sala dove si trova l’affresco di Leonardo è fisicamente snervante: bisogna passare a piccoli gruppi attraverso camere stagne e comparti speciali dove si viene deumidificati. Ciononostante, il numero di visitatori è sempre in crescita e le attese, come detto, sono a volte lunghissime. Ma questa è un’altra storia.

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    Visitatori ammirano il Cenacolo Vinciano a Milano

    Esistono altri cinque bronzi?

    Dei Bronzi di Riace sappiamo tutto, tranne due cose: chi le ha create e chi rappresentassero. Abbastanza somiglianti tra loro la Statua A e quella B, quindi la tesi più accreditata circa la loro identità resta quella dei due fratelli Eteocle e Polinice. Ma perché solo due statue se i comandanti della spedizione contro Tebe erano sette? Da qualche parte, nelle profondità del mare, potrebbero dunque giacere altri cinque bronzi. Oppure soltanto Eteocle e Polinice hanno meritato il privilegio dell’immortalità bronzea per le loro gesta? Volendo tirare le somme, di elementi o, quantomeno di indizi, nel tentativo di dare una identità ai Bronzi di Riace, resterebbe l’episodio di Pausania raccontato dettagliatamente da Tucidide ne La Guerra del Peloponneso.

    Ma più in generale è utile soffermarsi sulla parte introduttiva di quel libro. Lì lo storico descrive il modo di vivere, di organizzarsi socialmente e persino di vestirsi dei peloponnesiaci. Ed ecco alcuni brani di quel racconto: “Furono i primi gli Spartani ad adottare un sistema di vestire misurato e semplice, moderno… Gli Spartani furono anche i primi a spogliarsi e, mostrandosi nudi in pubblico, a spalmarsi con abbondanza d’olio in occasione degli esercizi ginnici”.

    L’uomo che visse due volte

    Allevato per essere un generale, imparentato con Leonida, il leggendario condottiero delle Termopili; Pausania fu colui che un anno dopo quella disfatta ricacciò dall’Egeo i persiani, indeboliti nella battaglia navale di Salamina condotta da Temistocle. Lo scontro finale fra le truppe del giovanissimo generale spartano e quelle del re Serse avvenne a Platea nel 479 a.C. Neppure dieci anni dopo i trionfi, il generale Pausania, come abbiamo letto, moriva di fame nel recinto sacro del tempio dedicato a Atena Calcieca. Era spirato là dove non avrebbe dovuto, dove simile sacrilegio non sarebbe stato tollerato dalle divinità.

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    Gerald Butler interpreta Leonida nel film “300” di Zack Snyder

    Il morto aveva vissuto due volte: da eroe acclamato e da cospiratore, quindi da nemico. Non si potevano comunque trascurare i servigi che Pausania aveva reso alla patria infliggendogli dopo una fine terribile e miserevole riservata ai traditori. Due corpi da restituire alla dea anziché uno solo aveva dunque sentenziato l’oracolo per porre rimedio al sacrilegio commesso dagli spartani. Fusero il bronzo necessario e lo scultore modellò due corpi raffiguranti due guerrieri, nella medesima posa, ma con un atteggiamento diverso; più giovane uno, più in avanti con gli anni l’altro; olimpico l’uno; più terreno l’altro.

    Come il tesoro di Tutankhamon

    Potrebbe essere che le statue bronzee di cui Tucidide dà conto, raffigurassero una il giovane e brillante generale che gli spartani avevano conosciuto e l’altra l’uomo che questi era diventato. Chi fossero quelle due statue affiorate nel 1972 a Riace, da dove venissero, chi mai fosse stato l’abile scultore ad averle realizzate, così perfette ed emblematiche, son tutte cose racchiuse nel mistero di uno dei più grandi rinvenimenti della storia, quasi al pari della tomba di Tutankhamon in Egitto.

    Il loro valore, soprattutto per la Calabria, è ingente quanto i tesori rinvenuti nel sepolcro del re egizio nell’ormai lontano 1922. Trascorso un altro mezzo secolo potrebbe scoccare l’ora di una nuova grande scoperta, ma c’è poco da sperarci. Forse sarà molto meglio riscoprire quanto di più prezioso si possiede e metterlo a frutto. La Calabria ha le due statue di bronzo più belle del mondo, ma siamo sicuri che davvero tutto il mondo ne sia a conoscenza?

    Antonella Policastrese

  • Cinquant’anni e non sentirli: tutto quello che non è stato fatto per celebrare i Bronzi di Riace

    Cinquant’anni e non sentirli: tutto quello che non è stato fatto per celebrare i Bronzi di Riace

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    Il 16 agosto 1972 Stefano Mariottini, un giovane sub dilettante romano, si immerse nel mar Ionio a 230 metri dalle coste di Riace Marina e rinvenne a 8 metri di profondità le statue dei due guerrieri che sarebbero diventate famose come i Bronzi di Riace. Pochi mesi, quindi, e sarà il giorno del cinquantennale dello storico, incredibile, ritrovamento.

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    Uno dei Bronzi circondato dalla folla dopo il ritrovamento di 50 anni fa

    I Bronzi di Riace, capolavori unici

    Storico, incredibile. Due aggettivi utilizzati non per sensazionalismo. Né per essere didascalici. Ma l’impressione data dalle Istituzioni – da sempre – è quella della colpevole sottovalutazione del valore dei due guerrieri, esposti da anni all’interno del Museo Archeologico di Reggio Calabria. Dei Bronzi di Riace ci si ricorda raramente. Per spiattellarli qua e là in qualche cartellone aeroportuale. Oppure per il flyer o il trailer di (spesso poco riusciti) spot divulgativi delle bellezze del territorio.

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    I Bronzi protagonisti di uno spot della Regione di qualche anno fa

    Anche sul sito ufficiale del Museo, un’immagine di una delle due statue. Ma nemmeno un accenno alla ricorrenza che cade nel 2022. In qualunque parte del mondo fossero stati ritrovati e fossero esposti, sarebbero diventati un brand riconoscibile. Come il Colosseo per i romani. Come le Piramidi per l’Egitto. O, magari, come l’Acropoli di Atene.

    Il libro dei sogni delle Istituzioni

    E, invece, i Bronzi sono lì. Forse non valorizzati come si dovrebbe.  L’entrata al Museo è a pagamento: 8 Euro il biglietto intero, 3 Euro il biglietto ridotto per i visitatori dai 18 ai 25 anni. I visitatori di età inferiore ai 18 anni entrano gratuitamente. Mercoledì: 6 Euro il biglietto intero e 4 Euro quello ridotto.

    La Regione, ma anche il Comune di Reggio Calabria e il Museo Archeologico avevano promesso iniziative e celebrazioni speciali che andassero oltre la commemorazione del ritrovamento nelle acque del Mar Ionio. La stessa Regione Calabria ha annunciato, appena pochi giorni fa, lo stanziamento di 3 milioni di euro. Senza, tuttavia, specificare per quali attività.

    La presentazione (a Paestum) del logo, già oggetto di critiche, per l’anniversario del ritrovamento

    Anche i lavori del Comitato di coordinamento interistituzionale e il gruppo di lavoro per il cinquantesimo anniversario del ritrovamento dei Bronzi di Riace istituito dalla Cittadella non sembrano aver sortito granché.

    Il grande assente

    La vicepresidente della Regione Calabria, Giusi Princi, che ha anche la delega alla Cultura, ha l’obiettivo di «far arrivare a tutto il mondo un messaggio positivo della Calabria». Ma l’impressione è che, fin qui, si stia preparando un evento che dovrebbe essere di portata mondiale, come se si stesse organizzando una sagra.

    Anche nel leggere la composizione del Comitato – in Calabria i comitati e i tavoli tecnici non mancano mai – spicca l’assenza del Ministero della Cultura. O, meglio, una presenza molto marginale. Peraltro comparsa solo all’ultimo momento, quindi non già nelle fasi prodromiche all’insediamento. Nel corso della prima riunione, non solo non ha partecipato il Ministro competente, Dario Franceschini. Ma nemmeno un viceministro o un sottosegretario.

    Il comunicato ufficiale menziona solo un delegato. Forse troppo poco per un patrimonio come quello rappresentato dai Bronzi di Riace: «Ne nascerà a breve un programma collettivo, unitario, un unico brand con logo condiviso e comunicazione congiunta», è scritto nel comunicato ufficiale.

    Bronzi di Riace, 50 anni in sordina

    A meno di cinque mesi dall’anniversario, quindi, non esiste nemmeno una bozza di programma delle attività. Che, peraltro, avrebbero potuto coinvolgere anche altre città. Proprio per incentivare quel turismo che, nel politichese più stantio, è da sempre considerato un “volano di sviluppo”.

    E, invece, a Reggio Calabria non si vede alcun simbolo che possa far presagire un anno così particolare. Né la città percepisce l’aria che precede una grande festa, come un evento culturale del genere dovrebbe innescare. Addirittura, probabilmente, in pochi, esclusi gli addetti ai lavori, se interrogati potrebbero dimostrarsi informati circa la storicità di questo 2022.

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    Il monumento a Giuseppe De Nava nell’omonima piazza di Reggio Calabria (foto Aldo Fiorenza, fonte Wikipedia)

    Sembra appassionare di più la disputa, arrivata anche in consiglio comunale, sui lavori di Piazza De Nava, immediatamente antistante al Museo. Eternamente discussi, ma mai iniziati. E, infine, proprio nell’ultimo consiglio comunale aperto, la mozione approvata all’unanimità per «richiedere che l’inizio dei lavori per la riqualificazione dell’area di Piazza De Nava sia posticipato all’anno 2023 al fine di rendere fruibile la stessa area a tutto il 2022 per le celebrazioni del cinquantesimo anno del ritrovamento dei Bronzi di Riace».

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    Cannizzaro e Princi

    Proprio nel giorno dell’insediamento del Comitato voluto dalla vicepresidente Princi, il deputato di Forza Italia, l’onnipresente Francesco Cannizzaro (che della Princi è cugino e, secondo le malelingue, dante causa) ha annunciato, in pompa magna, di aver incontrato il ministro Franceschini. Non per parlare dei Bronzi. Né delle tante tematiche delicate che riguardano il Museo e il patrimonio archeologico. Ma di Piazza De Nava. Per perorare, la causa degli «oppositori più fermi al progetto così come è stato pensato e approvato dalla Soprintendenza», riporta il comunicato di Cannizzaro.

    I problemi del Museo di Reggio Calabria

    A proposito del Museo Archeologico di Reggio Calabria. Anche nella “casa” dei Bronzi, si respira tutto tranne che un’aria di festa. Qualche tempo fa, il professor Daniele Castrizio, uno dei maggiori esperti sui Bronzi di Riace, autore di alcune ipotesi identificative delle due statue tenute in grande considerazione, ha anche rivelato, nel corso di un webinar, il clima che si respira all’interno del Museo: «Il direttore non mi saluta da novembre». Salvo poi chiarire, nelle ore successive allo scoppio della bufera: «Grazie alla amicizia e alla stima reciproca che ci lega, stiamo cercando, insieme, di trovare soluzioni comuni a problemi e di contribuire in armonia a portare avanti le iniziative relative ai Bronzi».

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    Daniele Castrizio

    Proprio nelle ultime ore, lo stesso direttore Carmelo Malacrino, che aveva esultato per il finanziamento di 3 milioni annunciato dalla Regione, ha affermato: «Il Museo soffre di una drammatica carenza di personale, al punto da rendere difficile, se non impossibile, la normale gestione e programmazione delle varie attività. Complice il mancato turn over e alcuni distacchi presso altre sedi, da anni stiamo lavorando in regime estremamente ridotto e con affanno. Ormai siamo arrivati a soltanto un terzo del personale previsto in pianta organica, poco più di 30 unità su 95». E poi, il monito: «Con tale carenza di personale, però, in alcune giornate potrebbe diventare necessario chiudere al pubblico alcune sale». Lo stesso problema avuto a Sibari con un altro tesoro archeologico calabrese, insomma.

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    Carmelo Malacrino

    Il profetico Giorgio Bassani

    Insomma, la “casa” dei Bronzi di Riace non sembra neanche lontanamente pronta ad ospitare gli eventi per il cinquantennale del ritrovamento delle due statue. Anche se, c’è da dire, con i preparativi fin qui non di certo in pompa magna, sarà difficile prevedere folle oceaniche.  Perché il senso dei calabresi per i Bronzi è proprio questo. Lasciarli lì, al sicuro. E indignarsi solo quando, ciclicamente, qualcuno vorrebbe spostarli, renderli itineranti.

    Sul punto risuonano, a distanza di oltre 40 anni, le parole pronunciate nel 1981 da Giorgio Bassani, per anni presidente di Italia Nostra, uno degli intellettuali che maggiormente si è battuto per la tutela del patrimonio artistico nazionale: «I Bronzi di Riace non sono il prodotto di un’opera d’artigianato sia pure sommo, bensì autentici fatti d’arte, di poesia e, come tali, unici e irripetibili». E si schierò contro una delle tante ipotesi di trasferimento dei Bronzi (in quel caso, in America), rivendicando che tali opere debbano rimanere lì, ferme, ad attendere i visitatori come in un pellegrinaggio: «La poesia dev’essere considerata un fatto religioso, perché lo è».

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    Pnrr, Calabria, Alta velocità: Cristo si è fermato a Romagnano

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    Il Ministero per le Infrastrutture e la Mobilità Sostenibile ha elaborato un documento che illustra, regione per regione, gli interventi che si prevedono col PNRR e le altre risorse nazionali e comunitarie in materia di infrastrutture e trasporti, un settore nevralgico per la Calabria. Complessivamente sono in ballo per l’intero Paese finanziamenti per 61,4 miliardi di euro. Due terzi (40,4) derivano dal PNRR e 21 da fondi integrativi.
    La gran parte di queste risorse, il 92,9%, servirà alla realizzazione di opere pubbliche, mentre il 6,9% ad acquisti di beni e servizi e l’1,6% a contributi verso le imprese. La parte del leone va gli investimenti previsti per l’ammodernamento della rete ferroviaria nazionale, con 36,6 miliardi di euro. Valgono il 59,6% del totale complessivo previsto per le infrastrutture ed i servizi di trasporto.

    PNRR, poco meno di 7 miliardi alla Calabria

    Alla Calabria spetteranno 6,8 miliardi di euro, pari all’11,1% del valore complessivo del programma: una cifra che non indica certo uno sforzo straordinario nel volume complessivo dello sforzo finanziario. Con il PNRR si dovrebbe, come è noto, invertire la tendenza alla marginalizzazione dei territori meno competitivi per generare un volano capace di attrarre investimenti privati produttivi.
    Ma già nella dimensione quantitativa del programma, si evidenzia che la Calabria non sta nel quadro strategico prioritario. Se poi si entra maggiormente nel merito delle linee di azione previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, questa sensazione cresce ancor di più.

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    I progetti chiave e i treni pigliatutto

    Il documento ministeriale elenca i progetti chiave che sono previsti per la Calabria: potenziamento della zona economica speciale; accessibilità ai porti di Gioia Tauro e Reggio Calabria; potenziamento ed ammodernamento delle ferrovie regionali; rinnovo delle navi sullo Stretto; edilizia residenziale pubblica; rigenerazione urbana; alta velocità Salerno-Reggio Calabria.
    Però, dopo aver snocciolato il rosario delle singole voci sugli interventi previsti in Calabria, ci si accorge che l’investimento ferroviario per alta velocità e rete regionale pesa per l’80,2% sul totale. Il resto si disperde in interventi che non modificano la sostanza dell’assetto infrastrutturale regionale.

    Il PNRR e la tratta-Salerno-Reggio Calabria

    Quando si passa ulteriormente al merito del principale investimento, vale a dire la realizzazione della Salerno-Reggio Calabria, il quadro diventa ancor più fosco. Quello che effettivamente si realizzerà entro il 2026, come ha detto in Parlamento l’amministratore delegato di Rete Ferroviaria Italiana, Vera Fiorani, sarà la tratta tra Battipaglia e Romagnano. Ossia un lotto lungo 40 chilometri che punta verso est, piuttosto che verso la Calabria.
    Questo itinerario, previsto nella progettazione ferroviaria già da lungo tempo, non era stato affatto concepito per servire la Calabria; percorre difatti un itinerario ferroviario che conduce a Potenza, per poi proseguire verso la costa ionica, raggiungendo Metaponto e, a seguire, Taranto.

     

    Solo quando sarà stata realizzata questa prima tratta, è prevista la prosecuzione verso Praia a Mare, dopo aver solcato il Vallo di Diano, puntando verso il mare e raggiungendolo con una lunga serie di gallerie, nei pressi di Buonabitacolo fino alla costa tirrenica cosentina. Lavori lunghi e complessi che non potranno terminare prima di un decennio a partire da oggi.

    Cristo si è fermato a Romagnano

    Quindi, dal punto di vista della esecuzione, nell’arco del PNRR si realizzeranno solo i 40 km della linea Salerno Reggio Calabria, da Battipaglia sino a Romagnano, completamente inutile per migliorare i tempi di percorrenza di chi deve recarsi in Calabria. Il resto della tratta, quella che dovrà collegare Salerno con Reggio, vedrà il finanziamento della sola progettazione. L’esecuzione arriverà ben dopo la scadenza del 2026.

    In queste settimane si svolgerà il dibattito pubblico sull’alta velocità Salerno Reggio Calabria. Ci si auspica che non prevalga ancora una volta la retorica delle cifre vuote di significato. Che ci si concentri, invece, sul miglioramento effettivo della accessibilità e dei servizi per i calabresi. Un tempo si diceva che Cristo si era fermato ad Eboli. Ora scenderà un po’ più giù, per fermarsi a Romagnano.

    Porto di Gioia Tauro strategico? Tutta retorica

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    Analoga perplessità desta tutta la retorica, nel documento ministeriale, sul ruolo strategico del porto di Gioia Tauro. Nel disegno complessivo del PNRR, infatti, si dice con estrema chiarezza che la centralità marittima nazionale si gioca nelle due ascelle settentrionali adriatica e tirrenica, Trieste e Genova.
    Sarebbe il caso che la Calabria, così come l’intero Mezzogiorno, manifestasse la capacità di smarcarsi dalla retorica nella quale si esaurisce la discussione pubblica, per concentrarsi invece sulle scelte fondamentali. Ne guadagnerebbero non solo le regioni meridionali, ma l’intero Paese stesso. Che è cresciuto a ritmi intensi solo quando lo sviluppo del Sud avveniva a ritmi più accelerati rispetto al resto dell’Italia.