Tag: reggio calabria

  • Da “Bin Laden” al bancario, le mani delle ‘ndrine su Roma

    Da “Bin Laden” al bancario, le mani delle ‘ndrine su Roma

    Ci sarebbe stata una «nave» chiamata ‘ndrangheta dietro capi e gregari della “locale” colpita dall’operazione Propaggine, condotta oggi dalla Dia tra il Lazio e la Calabria. Il gip di Roma, Gaspare Sturzo, lo annota nell’ordinanza con cui ha disposto 43 misure cautelari nell’ambito dell’indagine antimafia sulla cosca che avrebbe messo radici nella capitale per allungare le mani su svariate attività economiche (ristoranti, bar e pescherie nella zona nord di Roma e in particolare nel quartiere di Primavalle). Nel provvedimento si cristallizza la prova del «metodo mafioso» e «della paura di coloro che si sono trovati sulla strada» di quei presunti affiliati che ostentavano la loro «vicinanza alla ‘ndrangheta (“dietro di me c’è una nave“), impedendo alle vittime così di denunciare alle Forze dell’ordine avendo paura di ritorsioni».

    Soldi sporchi e omertà

    Per il giudice ci si trova «di fronte ad un complesso di vicende che a partire dal 2015/2016 si sono sviluppate, alcune ancora in corso sino al settembre 2020 e comunque con effetti di permanenza quanto a società ed aziende ad oggi gestite con capitali di illecita provenienza, o oggetto di riciclaggio, mostrando come gli indagati sono stati in grado di impedire – scrive il gip – ogni forma di collaborazione con le autorità giudiziarie, sia delle vittime, come di professionisti non collusi con costoro, nonché degli stessi dipendenti delle aziende e società».

    Da Bin Laden a “Scarpacotta”

    Il boss Vincenzo Alvaro, ritenuto dagli inquirenti uno dei due capi della ‘ndrina operante a Roma, in un’intercettazione agli atti dell’indagine diceva: «Siamo una carovana per fare la guerra». Tra gli arrestati del filone reggino dell’inchiesta ci sono tutti i presunti esponenti di vertice della cosca Alvaro di Sinopoli. In carcere sono finiti Carmelo Alvaro, detto “Bin Laden”, Carmine Alvaro, detto “u cuvertuni”, ritenuto il capo locale di Sinopoli, e i capi locale di Cosoleto Francesco Alvaro detto “ciccio testazza”, Antonio Alvaro detto “u massaru”, Nicola Alvaro detto “u beccausu” e Domenico Carzo detto “scarpacotta”.

    Nel 2015 il via libera ai due capi

    La “locale” romana, ottenuto il via libera dalla casa madre in Calabria, sarebbe stata guidata da una diarchia: ai vertici ci sarebbero stati Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro, entrambi appartenenti a storiche famiglie di ‘ndrangheta originarie di Cosoleto, centro in provincia di Reggio Calabria. Le risultanze investigative hanno evidenziato come fino al settembre del 2015 non esistesse una “locale” nella Capitale, anche se sul territorio cittadino e in altre zone del Lazio come il litorale operavano numerosi soggetti appartenenti a famiglie e dediti ad attività illecite. Nell’estate del 2015 Carzo avrebbe ricevuto, secondo quanto accertato dagli inquirenti, dall’organo collegiale posto al vertice dell’organizzazione unitaria (la Provincia e Crimine) l’autorizzazione per costituire una struttura locale che operava nel cuore di Roma secondo le tradizioni di ‘ndrangheta: riti, linguaggi, tipologia di reati tipici della terra d’origine.

    Il commercialista e il bancario

    Tra le persone raggiunte oggi da misura cautelare ci sono anche alcuni professionisti accusati di «avere messo a disposizione» della cosca il loro bagaglio di conoscenze. Si tratta di un commercialista, al quale il gip ha applicato la misura del carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, e un dipendente di una banca. Contestualmente le forze ordine (questure, i carabinieri e guardia di finanza di Roma e Reggio Calabria) hanno proceduto ad un sequestro preventivo nei confronti di una serie di società ed imprese individuali operanti a Roma e intestate a prestanome.

    Il filone reggino

    Dalle indagini condotte dalla Dda reggina è emerso che la cosca, oltre ad essere operativa nel territorio di Sinopoli, dominava anche il centro urbano di Cosoleto, paese aspromontano il cui sindaco, Antonino Gioffré, figura tra gli arrestati. Dalle indagini è emerso un forte interesse dei sodali per la competizione elettorale del Comune di Cosoleto del 2018. In particolare Antonio Carzo, ritenuto capo del locale romano, è accusato con il sindaco Gioffré di scambio politico-elettorale. Oltre a questo reato, gli indagati rispondono a vario titolo di associazione mafiosa, favoreggiamento commesso al fine di agevolare l’attività del sodalizio mafioso e detenzione e vendita di armi comuni da sparo ed armi da guerra aggravate.

    Da Roma a Sinopoli

    L’attività investigativa è stata avviata nel 2016 dal Centro operativo della Dia con il coordinamento della Procura di Roma. Successivamente, a seguito dell’emersione di numerosi e significativi punti di contatto con soggetti calabresi operanti a Sinopoli, Cosoleto e territori limitrofi, parte degli atti sono stati trasmessi per competenza e le indagini, per tale parte, sono proseguite con il coordinamento della Dda di Reggio Calabria. Oltre a confermare l’esistenza del locale di ‘ndrangheta nel territorio di Sinopoli, dove è radicata la famiglia mafiosa degli Alvaro e a cui è legata la famiglia Penna, le indagini hanno consentito di appurare come la cosca abbia dato vita, nella capitale, ad un’articolazione (denominata locale di Roma), che rappresenta un “distaccamento” autonomo, del sodalizio radicato in Calabria.

  • Aspromonte, il paradiso può attendere

    Aspromonte, il paradiso può attendere

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    A distanza di quasi un anno dagli incendi che hanno saccheggiato l’Aspromonte al ritmo di un paio di focolai al giorno, si va avanti a vista, confidando anche nelle statistiche che segnano sempre un intervallo di una manciata di anni tra un disastro e l’altro. Quattro morti, settemila ettari di area protetta andati in fumo, decine di sentieri cancellati dalle fiamme e intrappolati dalle frane che ne sono figlie, e un paio di paesi che hanno seriamente rischiato di essere devastati dai roghi: l’estate del 2021 verrà ricordata come l’estate della devastazione. Devastazione che ha avuto il suo epicentro nella provincia di Reggio e che ha visto il Parco nazionale d’Aspromonte pagare un prezzo altissimo al tavolo dei piromani che per quasi un mese hanno messo a ferro e fuoco uno dei polmoni verdi della Calabria.

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    Quel che resta degli alberi bruciati in Aspromonte (foto 2021)

    Cronologia di un disastro

    Una ventina di giorni, quelli compresi tra il 29 luglio e il 17 agosto: sono queste le date che segnano il passo degli incendi e che registrano almeno un nuovo fronte di fuoco. Fronti che, a leggere i primi dati raccolti attraverso il sistema Copernicusil programma satellitare di osservazione della Terra coordinato e gestito dall’Unione Europea – sono scoppiati praticamente in contemporanea a distanza di decine di chilometri l’uno dall’altro. I primi episodi, sporadici, si registrano nei primi giorni di luglio a monte di Mammola e San Luca. Ma è con la fine del mese che le cose precipitano.

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    In rosso le zone interessante dagli incendi nel 2021 in Aspromonte

    Il 29 il fuoco attacca l’entroterra di Gerace mangiandosi quasi 10 ettari di foreste. Poi, in un’escalation tremenda dove è difficile non individuare la mano dell’uomo, le fiamme aggrediscono i territori di Condofuri, di nuovo San Luca, Mammola e Oppido. Quindi si allungano fino ai confini estremi di Reggio. Ancora poche ore, e nella notte tra il 4 e il 5 agosto le fiamme prendono piede nell’area di San Lorenzo. Dalle campagne del piccolo paesino dell’Aspromonte grecanico i roghi scendono e risalgono i costoni della montagna portando devastazione e morte in tutta l’area. Minacciano da vicino anche l’abitato di Roccaforte del Greco e quello di Bagaladi.

    Non c’è pace fino a settembre

    All’alba di ferragosto, quando il fronte ha ormai distrutto quasi ogni cosa gli si parasse davanti spostandosi più a sud verso la diga del Menta, si conteranno più di 6mila ettari di boschi, in area sottoposta a tutela, completamente distrutti. E mentre le fiamme corrodono i boschi secolari di “pino calabro”, i nuovi fuochi continuano ad aggredire le ricchezze del parco.

    Il 5 è la volta di Oppido. Poi il sette di nuovo a San Luca in quello che, probabilmente, è il fronte (850 ettari andati in fumo) che ha minacciato da vicino le foreste vetuste di Faggi, a quota 1200 metri di altezza: l’Unesco le aveva dichiarate patrimonio dell’Umanità appena una manciata di mesi prima. E ancora Martone, Cittanova e Grotteria il dieci agosto e di nuovo San Luca – il paese che presenta la maggiore estensione territoriale in tutta la provincia – Canolo e Mammola in un inferno di fuoco che s’interromperà solo nei primi giorni di settembre.

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    I sentieri distrutti dalle fiamme nel 2021 in Aspromonte

    Paradiso perduto

    Sono le guide ufficiali del Parco a certificare lo stato di devastazione causato dagli incendi. Loro lo studio che compara i dati Copernicus con le carte che mappano la biodiversità vegetale presente sul territorio. E sono sempre loro a battere la montagna annotando nuove frane sui percorsi noti e a toccare con mano l’entità del disastro.

    Sono stati i boschi più pregiati a pagare il prezzo più alto dell’estate degli incendi, soprattutto nella zona compresa tra i centri di Bagaladi, San Lorenzo e Roccaforte del Greco. Qui, il report stilato dalle guide del Parco, certifica come siano oltre 1700 gli ettari di “pino calabro” – uno degli alberi che maggiormente caratterizza la vegetazione autoctona e le cui foreste erano vecchie di secoli – andati completamente perduti. Un patrimonio inestimabile a cui si devono aggiungere le foreste di faggi, castagni e lecci (circa 550 ettari) e quelle venute fuori dal rimboschimento di conifere e ormai evaporate (quasi mille ettari).

    Animali e sentieri 

    E ancora boschi di ginestre, pascoli e decine di fondi coltivati a uliveto. Per non dire degli animali. Tassi, faine, scoiattoli e martore che non hanno trovato scampo come cinghiali, volpi e lepri. Confusi dal fumo e circondati dalle fiamme, sulle loro carcasse hanno banchettato per giorni corvi e cornacchie.

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    Mucche in quel che resta dei pascoli dopo l’incendio di agosto 2021

    Nel lungo elenco dei danni ancora in corso di realizzazione sono finite anche le aziende e le associazioni che il parco d’Aspromonte lo vivono e lo fanno vivere ai turisti. Sono decine i chilometri di sentieri e stradine interessate dagli incendi su tutti i versanti della montagna, che fanno parte dei consueti percorsi turistici. Dal sentiero “Italia” nel tratto che collega Reggio a Gambarie e poi più a nord in quello che collega Montalto – la cima più importante d’Aspromonte – con San Luca. E, ancora, i percorsi che scavalcano le vette e collegano Bova nell’area grecanica con Delianuova sul versante tirrenico e tra Samo e il cuore della montagna.

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    La moria delle Api a causa degli incendi in Aspromonte (foto 2021)

    Aspettando Godot

    Se la reale portata degli incendi non è ancora del tutto chiara, buona parte del problema viene dai comuni (37 in tutto) che ne compongono il cuore. Spetta a loro il compito di censire dettagliatamente i confini dei roghi che hanno interessato i rispettivi territori. È un lavoro che andrebbe eseguito nelle immediatezze degli eventi. Serve, infatti, per avere una visione chiara delle aeree in cui intervenire e la priorità degli interventi da mettere in campo oltre che a progettare un adeguato piano di difesa. Nessuno (o quasi) dei centri del Parco ha ancora consegnato le planimetrie dei censimenti. Così nei giorni scorsi gli uffici amministrativi dell’Ente sono stati costretti a inviare una comunicazione ufficiale a ogni comune nel tentativo di capire quanto fatto finora.

    E sono sempre i comuni a dovere garantire la pulizia dei fondi – soprattutto quelli nelle immediate vicinanze dei centri abitati – in modo da creare delle zone taglia fuoco in grado di proteggerli. Anche in questo caso la situazione attuale registra un preoccupante ritardo, nonostante la scorsa estate le fiamme siano arrivate a toccare le prime case di Grotteria e di San Giovanni di Gerace.

    I cittadini si improvvisano pompieri d’Aspromonte

    In quell’occasione furono anche gli abitanti dei due piccoli centri a dare una mano alle squadre antincendio: incuranti delle ordinanze sindacali che disponevano l’evacuazione decine di semplici cittadini si diedero da fare con pale, rastrelli e sifoni da giardino per domare le fiamme che avevano attaccato la rupe su cui si affacciano il comune di Grotteria e la chiesa di San Domenico, da cui un drappello di fedeli aveva “evacuato” per precauzione la statua del Santo protettore. L’incendio che lambiva l’abitato ebbe anche la conseguenza di “dirottare” l’unico canadair presente in quei giorni sulla montagna che, come ordine di servizio, deve dare priorità ai centri abitati.

    Soldi e bandi pubblici dove sono finiti?

    Da una parte i comuni, a loro difesa, mettono sul piatto una pianta organica ridotta all’osso, che dilata i tempi e complica le cose. Dall’altra provano a battere cassa, indicando i costi pesanti dell’affidamento a società esterne per il censimento degli incendi passati.

    Eppure di soldi legati ai bandi pubblici ne sono girati. E ne continuano a girare. Soldi, come quelli del bando “Clima 2021” che hanno preso varie strade, previste dai bandi ma solo “adiacenti” a quelle che ci si immaginerebbe dopo il disastro dell’anno scorso. Quello che i fuochi del 2021 hanno mostrato è infatti la drammatica carenza di strutture, mezzi adeguati e uomini preparati ad affrontare eventi così imponenti.

    Sono circa una quindicina, ad esempio, i punti di rifornimento di acqua a cui possono accedere i mezzi antincendio impegnati sul territorio. Punti disseminati a macchia di leopardo dentro i confini del parco – tra reti idriche, piccoli laghetti e, sparute, vasche antincendio – ma che sono risultati decisamente insufficienti alla prova dei fatti.

    Solo un milione su 4 per le vasche antincendio

    Degli oltre 4 milioni di euro garantiti dal ministero della Transizione ecologica e veicolati attraverso il Parco nazionale, però, solo uno dei nove progetti finanziati prevede la costruzione di una vasca antincendio. Succede nel comune di Cosoleto, che ha chiesto e ottenuto 200mila euro per allestirne una a cui possano “abbeverarsi” i mezzi spegni fuoco.

    Il resto dei soldi è andato invece, legittimamente, per la ristrutturazione e l’efficientamento energetico dei municipi di Bova, Gallicianò e Cinquefrondi. Mentre a Cittanova serviranno per la ristrutturazione dell’ostello della gioventù e per la costruzione di un vivaio forestale. Questione di priorità, anche alla luce del fatto che quello degli accessi all’acqua durante gli incendi è stato uno dei problemi maggiori riscontrati la scorsa estate per gli interventi da terra.

    In ballo ci sono poi i finanziamenti per altre vasche. Attendono il via libera per il progetto definitivo i comuni di San Luca, Oppido, San Giorgio Morgeto e Mammola. Ma i tempi sono quelli della burocrazia calabrese. Toccherà incrociare le dita.

    I fantasmi dell’Afor sull’Aspromonte

    Sul campo però, oltre ai vigili del fuoco e alle associazioni, a cui come da piano Aib è andata la gestione di 15 delle 16 zone in cui è stato diviso il territorio protetto (una resta invece di competenza dello Stato e viene gestita direttamente dal reparto dei carabinieri per la biodiversità), vanno le squadre di Calabria Verde.

    Una settantina quelle disponibili in tutta la provincia. Sono formate per lo più da gruppi di 3-5 persone, ma alcune sono più numerose. Oltre a tenere a bada le fiamme dovrebbero anche garantire la manutenzione delle strade e la ripulitura del sottobosco in Aspromonte.

    Passati i tempi dell’elefantiaca pianta organica dell’Afor, però, i numeri degli addetti sul campo sono crollati drasticamente. Tenere a bada i 67mila ettari dell’Aspromonte è semplicemente impossibile. Un problema, quello della scarsità d’organico, che si riflette anche sui tempi di intervento. Capita che i mezzi antincendio, privi degli operai che conoscono la montagna, si perdano tra le mille stradine sterrate del territorio.

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    Anche un piccolo parco giochi per bambini divorato dalle fiamme in Aspromonte nel 2021

    Gara deserta

    E se gli uomini mancano, lo stesso discorso si può fare per quanto riguarda i mezzi. Sei le autobotti di Calabria Verde in provincia, due delle quali stanziate fuori dai confini del Parco. Dal 2018 avrebbero dovuto aggiungersene altre fra le 10 messe in cantiere dalla società regionale. Peccato che le gare – subissate da richieste di chiarimenti sul bando da parte dei concorrenti – continuino ad andare deserte da quattro anni.

    L’ultima è stata dichiarata «infruttuosa» lo scorso 14 aprile e ha costretto Calabria Verde a virare verso un “procedura negoziata”. Con un tetto massimo di poco più di 200mila euro, dovrà rimpolpare il parco automezzi con cinque nuove autobotti da prendere con il principio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Tempi previsti: 120 giorni dalla stipula del contratto. Speriamo che i piromani aspettino.

  • L’odissea dei migranti a Siderno: due morti annegati (VIDEO)

    L’odissea dei migranti a Siderno: due morti annegati (VIDEO)

    Sono state le onde di scirocco a fare sbattere il bialbero carico di migranti sulla spiaggetta di Pantanizzi a Siderno, ennesimo approdo sulla “rotta turca” che collega lo Jonio calabrese ai flussi migratori in movimento dal medio oriente. In un video che circola su internet si vede l’attimo in cui, prima pochi alla volta poi tutti insieme, uomini donne e bambini si lanciano sulla spiaggia sotto il vecchio pontile per cercare rifugio.

     

    Almeno due di loro non ce l’hanno fatta, sopraffatti dal mare molto agitato. Un altro invece è stato salvato dagli uomini del commissariato di Siderno, giunti per primi sul posto, mentre cercava di raggiungere faticosamente la riva. Ma le operazioni di ricerca in mare e dall’alto sono andati avanti per ore alla ricerca di qualche sopravvissuto rimasto in acqua. O di qualche corpo.

    L’odissea dei migranti in mare

    Sono 109 tra loro anche donne e diversi bambini, hanno dichiarato di venire dal Pakistan e dall’Afghanistan e di avere viaggiato per mare per 5 giorni dopo essersi imbarcati in una spiaggia isolata in Turchia. Vanno ad aggiungersi ai gruppi arrivati nei giorni scorsi, con Roccella capolinea di quattro sbarchi in meno di 40 ore per oltre 400 migranti accolti e rifocillati prima sotto il tendone allestito dalla Croce Rossa sulle banchine e poi nelle strutture del territorio che di volta in volta vengono utilizzate.

    Forse a morire sono stati i due scafisti

    Dalle prime testimonianze raccolte, i due uomini rinvenuti cadavere potrebbero essere gli stessi che hanno pilotato la piccola barca a vela lungo il Mediterraneo. «Sono russi, si sono buttati prima di arrivare sulla spiaggia» racconta uno dei migranti nel suo stentatissimo inglese. Sull’identificazione dei due corpi stanno lavorando gli uomini della polizia coordinati dalla Procura di Locri.

    Ma non sarebbe la prima volta che gli scafisti pagano con la vita l’avere tentato di raggiungere a nuoto la riva e sfuggire quindi ai controlli. Un paio di anni fa, durante un analogo “sbarco autonomo” – uno di quelli non intercettati dalle motovedette della capitaneria o della finanza e che quindi si spiaggia sull’arenile ormai privo di guida – tra i comuni di Riace e Stignano, i due scafisti, entrambi provenienti dal Kigikistan, provarono a scappare lanciandosi in acqua a una decine di metri dalla spiaggia. Solo uno era riuscito a raggiungere la riva. Il corpo del secondo uomo, poco più che ventenne, fu restituito dal mare quattro giorni dopo. Lo trovò sulla battigia un bagnante mattiniero.

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    I migranti sulla spiaggia di Siderno

    Emergenza continua

    L’allarme dalla Prefettura è già arrivato ai sindaci della riviera: tutto fa prevedere che gli sbarchi continueranno almeno fino ad ottobre. Come ormai succede da più di venti anni. E nonostante il flusso di disperati in arrivo sia continuato ad aumentare nelle ultime stagioni, ogni volta che un barchino sfugge ai controlli e non viene veicolato verso Roccella – unico centro “attrezzato” tra Crotone e Reggio – i sindaci si trovano di fronte agli stessi problemi. Chiuso e in attesa dell’avvio dei lavori di ristrutturazione l’ex “ospedaletto” di Roccella, capace di ospitare per la prima accoglienza circa 250 persone, i migranti vengono di volta in volta ospitati, per l’identificazione e la prima accoglienza, nelle strutture comunali dei paesi dove avvengono gli approdi.

    Palazzetti, scuole, tendoni dove ogni volta, gli amministratori devono inventarsi qualcosa visto che generalmente, in queste struttura raccattate all’ultimo minuto, non ci sono nemmeno le cucine. Tanto che in più di un’occasione, a Locri e Ardore e anche a Caulonia e Brancaleone, sono stati i ristoratori del posto a offrire i pasti ai migranti. Il gruppo sbarcato venerdì a Siderno è stato trasferito nel pomeriggio nella frazione collinare della cittadina jonica, in una struttura di competenza comunale

     

  • Sei anni senza verità: ‘ndrine e altre piste dietro la scomparsa di Maria Chindamo

    Sei anni senza verità: ‘ndrine e altre piste dietro la scomparsa di Maria Chindamo

    Sei anni senza verità, senza giustizia. Per molti anche senza memoria. Ma non si arrende la famiglia di Maria Chindamo, l’imprenditrice scomparsa nel nulla il 6 maggio 2016 tra le province di Reggio Calabria e Vibo Valentia. Proprio oggi, a Limbadi, il sit-in per richiamare la memoria, promosso da Libera, Agape, comitato Controlliamo Noi Le Terre di Maria, Penelope Italia Odv.

    La storia di Maria Chindamo

    Non un luogo casuale. Una roccaforte della ‘ndrangheta, Limbadi, dove la cosca Mancuso uccide ancora tramite autobomba, come nel caso di Matteo Vinci. Anche la storia di Maria Chindamo è intrisa di mafiosità. Di certo sotto il profilo della mentalità ‘ndranghetista. Sotto il profilo penale, si vedrà.

    Nel 2015, il marito della donna, Ferdinando, si suicida, non accettando la fine della relazione. Circa un anno dopo, Maria scompare nel nulla, in quella che sembra una normale giornata, trascorsa tra la famiglia, a Laureana di Borrello, in provincia di Reggio Calabria, e l’azienda di proprietà, a Limbadi, nel Vibonese.

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    Vincenzo Chindamo, fratello della imprenditrice scomparsa nel 2016

    Le modalità mafiose

    Da anni, la famiglia di Maria Chindamo chiede che venga infranto il muro di omertà che soffoca il territorio. Lo fa anche attraverso la formazione dei più giovani: «Una volta – dice a I Calabresi Vincenzo Chindamo, fratello di Maria – un ragazzo in una scuola mi ha chiesto se abbia mai pensato di farmi giustizia da solo. Ma parlare ai giovani, creare un indotto di pensiero contro la subcultura mafiosa è farsi giustizia da solo».

    Da sei anni, Maria non si trova più. Nessuno ha mai chiesto un riscatto. E, nel probabile caso in cui la donna sia stata uccisa già nell’immediatezza del rapimento, la famiglia non ha mai avuto una salma da piangere. Un femminicidio perpetrato con le modalità ndranghetistiche, in cui la ‘ndrangheta potrebbe avere un ruolo importante. O ha verosimilmente consentito una rete di protezione di tipo criminale.

    Fin dall’inizio si affaccia l’ipotesi inquietante che Maria sia stata punita proprio per aver lasciato il marito. Perché ha “osato” interrompere la relazione con il marito. E perché ha tentato di rifarsi una vita, sentimentale e lavorativa.  Per questo andava punita, non solo con l’uccisione, ma anche con la sparizione, per cancellarla per sempre. Eccola la cultura ‘ndranghetista. La damnatio memoriae che deve accompagnare, nel linguaggio cifrato, chi si è macchiato di determinate “colpe”. Maria Chindamo va dimenticata. La “lupara bianca” serve proprio a questo.

    Le indagini sulla scomparsa di Maria Chindamo

    Maria Chindamo sarebbe stata aggredita davanti al cancello della propria azienda da due o più persone. Il motore della sua auto resterà acceso. A bordo gli inquirenti troveranno tracce di sangue e poco altro di utile.  La Procura della Repubblica di Vibo Valentia per anni ha indagato per omicidio, sequestro di persona e occultamento di cadavere.

    Ma quello della “vendetta familiare” non è l’unico movente che, in questi anni, si è affacciato sulla scena. Ne è convinta Angela Corica, giornalista che ha seguito moltissimo la vicenda: «Maria era una donna libera, non solo in termini sentimentali, ma anche sotto il profilo professionale. Forse le indagini hanno avuto qualche lacuna perché si sono concentrate troppo su una sola causa. Mentre io credo che vi sia un mix di motivazioni», dice a I Calabresi.

    Fin dall’inizio, ci si concentra su diversi particolari che nessuno crede possano essere coincidenze. Dall’assenza di alcuni operai che Maria avrebbe dovuto incontrare quella mattina, al fatto che l’auto verrà ritrovata senza alcuna impronta estranea. Ma, soprattutto, la manomissione di una telecamera che avrebbe potuto immortalare i tragici attimi di quel 6 maggio 2016. Nel luglio del 2019 viene anche arrestato un uomo, Salvatore Ascone, in passato coinvolto in diverse inchieste riguardanti la cosca Mancuso. 

    Ma il Tribunale del Riesame prima e la Cassazione poi ritengono che non vi siano prove sufficienti e rimettono in libertà Ascone. «Il capitolo sulle telecamere potrebbe essere investigato ulteriormente», afferma a I Calabresi l’avvocato della famiglia Chindamo, Nicodemo Gentile. «Di sicuro qualcuno la seguiva e ha fatto da vedetta», aggiunge.

    Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia

    Non un delitto di ‘ndrangheta, forse. Ma in cui la ‘ndrangheta sembra c’entrare eccome. In quelle zone, non si commette un crimine del genere senza il placet delle cosche. E infatti, negli anni, arrivano le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia.

    Il primo a parlare è Giuseppe Dimasi, un tempo affiliato alle cosche di Laureana di Borrello: «Con riferimento alla scomparsa di Mariella Chindamo, Marco diceva “secondo me gliel’hanno fatta pagare”, alludeva al fatto che la donna aveva avuto una relazione extraconiugale e il marito non accettando la separazione, si era suicidato». Il riferimento del pentito è a Marco Ferrentino, considerato il boss dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta di Laureana di Borrello.

    Più recenti le dichiarazioni di Antonio Cossidente, ex componente del clan lucano dei Basilischi, che riapre uno scenario che si è sempre affiancato alla pista dell’“onore”: quello delle attività economiche che Maria stava portando avanti su terreni che deteneva insieme all’ex marito e che potevano essere reclamati da qualcuno.

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    Maria Chindamo

    Maria Chindamo data in pasto ai maiali?

    Secondo quanto ha riferito Cossidente alla Dda di Catanzaro, Maria sarebbe stata uccisa per essersi opposta alla cessione di un terreno a Salvatore Ascone, proprio l’uomo indagato per l’omicidio dell’imprenditrice. Il corpo della donna sarebbe poi stato dato in pasto ai maiali o macinato con un trattore.

    A raccontare a Cossidente i fatti legati alla scomparsa di Maria Chindamo sarebbe stato Emanuele Mancuso, oggi collaboratore di giustizia, figlio del boss Pantaleone. Proprio il clan di Limbadi. Cossidente, infatti, trascorre una parte di detenzione con Mancuso e apprende alcuni particolari sulla scomparsa dell’imprenditrice di Laureana di Borrello: «Mi disse che lui era amico di un grosso trafficante di cocaina, detto Pinnolaro, legato alla famiglia Mancuso da vincoli storici e mi disse che per la scomparsa della donna, avvenuta qualche anno fa, c’era di mezzo questo Pinnolaro che voleva acquistare i terreni della donna in quanto erano confinanti con le terre di sua proprietà. Pinnolaro aveva pure degli animali, credo che facesse il pastore e questa donna si era rifiutata di cedere le proprietà a questa persona».

    E “Pinnolaro” è proprio il soprannome di Ascone: «Pinnolaro l’ha fatta scomparire, ben sapendo che, se le fosse successo qualcosa, la responsabilità sarebbe ricaduta sulla famiglia del marito della donna, poiché il marito o l’ex marito dopo che si erano lasciati si era suicidato. Emanuele mi disse che la donna venne fatta macinare con un trattore o data in pasto ai maiali».

    Il caso alla Dda

    E proprio per questo, quindi, il fascicolo d’indagine dopo la scarcerazione di Ascone è passato alla Dda. «Non abbiamo notizia di provvedimenti di archiviazione, quindi questo ci lascia pensare che le indagini siano ancora aperte. E abbiamo fiducia completa nell’operato della magistratura», dice l’avvocato Gentile.

    Il legale sembra essere convinto di una matrice chiara: «Quello che ha decretato la morte di Maria Chindamo è un tribunale clandestino di matrice vendicativa». A distanza di sei anni, però, la magistratura non è ancora riuscita a venirne a capo: «Sembra che tutto sia in una fase di stallo perché non vi sono molte tracce e poche testimonianze», commenta amaramente Angela Corica.

    La famiglia di Maria Chindamo

    E, allora, non è affatto casuale il luogo scelto per il sit-in odierno. Un’ulteriore occasione per non dimenticare Maria e per non dimenticare di chiedere, di pretendere giustizia. Il fratello di Maria Chindamo, Vincenzo, e i figli della donna, Federica, Vincenzino e Letizia, in tutti questi anni non hanno mai smesso di ricercare la verità.

    «È una ferita che non si rimargina per la famiglia Chindamo, ma è una ferita nel tessuto sociale di questo territorio, un’infamia che dev’essere capita, attraversata e punita», dice l’avvocato Gentile. Dal canto suo, il fratello di Maria, Vincenzo, non molla: «Fin quando sarò presente il 6 maggio, significa che avrò fiducia e speranza».  

     

  • Luca Gallo: tutte le accuse degli inquirenti al presidente della Reggina 1914

    Luca Gallo: tutte le accuse degli inquirenti al presidente della Reggina 1914

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    Sarebbero stati i soldi frutto dei mancati versamenti Iva di almeno tre società della galassia che fa capo a Luca Gallo, a tenere viva la Reggina nelle ultime stagioni calcistiche. Il Gip Annalisa Marzano lo scrive nero su bianco elencando i capi d’imputazione che hanno portato il patron amaranto agli arresti domiciliari nella sua casa di Roma. Soldi che passano di società in società per poi confluire nelle casse disperate di una Reggina che stava nuovamente per scomparire dal panorama sportivo dopo il fallimento del 2015 e che Gallo “salvò” all’ultimo minuto: un’operazione, sostengono i giudici, che serviva a nascondere al fisco parte degli obblighi Iva che le società dell’imprenditore romano aveva nel frattempo volatilizzato.

    La galassia di Luca Gallo e la Reggina

    “M&G Multiservizi”, “M&G Service” e “M&G Company”: sono queste le tre società che secondo il nucleo di polizia economica e finanziaria della Guardia di Finanza di Roma avrebbero fatto da collettore di denaro verso la “Club Amaranto” a cui fa capo la squadra dello Stretto. È una storia complessa quella che hanno ricostruito gli inquirenti. E ha per protagoniste società che confluiscono, tutte, su Luca Gallo che ne è legale rappresentante, con in mezzo anche la malcapitata Reggina. In questo gioco di matrioske allestito sulla pelle di una città che trema all’idea di vedere naufragare la propria squadra di calcio, entrano tutte o quasi le operazioni su cui Gallo ha costruito il suo personaggio da “presidente Paperone”.

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    Luca Gallo nella sede di una delle sue società nel mirino della Procura

    Il sistema ipotizzato dagli inquirenti

    Il primo tassello della scalata risale al gennaio del 2019. In quell’occasione la “M&G Multiservizi” paga, con assegni circolari, 356 mila euro per l’acquisizione del 100% del capitale sociale della “Club Amaranto” dai vecchi proprietari Mimmo, Demetrio e Giuseppe Praticò. Quei soldi, ipotizzano gli inquirenti, vengono dal mancato versamento dell’Iva per l’anno 2017. E finiscono per scomparire davanti agli occhi del fisco perché la Multiservizi, semplicemente, non presenta i bilanci.

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    Lo stadio Oreste Granillo di Reggio Calabria

    Da quello stesso bilancio “truccato” arrivano anche i soldi che la Multiservizi utilizza per acquistare, in parte attraverso la “Club Amaranto” e in parte con bonifici diretti, il 13% delle quote della “Reggina 1914” – la vecchia Urbs Reggina – dai vecchi proprietari. In questo ginepraio di aziende e denaro, arriva anche l’acquisto, dalla curatela fallimentare, del «ramo d’azienda sportiva per l’attività del calcio» della gloriosa Reggina Calcio ormai fallita. Poco più di 380 mila euro che Multiservizi paga attraverso assegni circolari e bancari: i soldi, dicono gli investigatori, vengono sempre dall’Iva non versata della Multiservizi ma controparte dell’affare, miracoli della finanza, risulta essere la Reggina 1914.

    Dalle società satellite di Luca Gallo alla Reggina

    E se l’ancora di salvezza dal baratro del fallimento era arrivata dalla Multiservizi, a rimpolpare le casse societarie della squadra di calcio, arrivano i soldi della “M&G Service”, altro satellite della galassia Gallo, che mette sul piatto un versamento da 1,4 milioni di euro in favore della Reggina. Anche in questo caso, scrive il giudice, il sospetto è che l’operazione, resa possibile dalla mancata presentazione del bilancio della “Service” sia stata portata avanti solo per schermare al fisco il flusso di denaro derivante dai mancati pagamenti Iva per gli anni 2017 e 2018.

    Nel 2020 è di nuovo la Multiservizi a scendere in campo per rifornire di denaro contante le casse del team dello Stretto. Anche in questo caso i soldi verrebbero dall’omissione delle spettanze Iva da parte dell’azienda di Gallo che fa trasferire nelle casse della Reggina quasi 7 milioni di euro con bonifici bancari in favore della Reggina 1914. E ancora altro denaro che rimbalza tra una società e l’altra. L’ultimo bonifico su cui puntano l’attenzione gli uomini delle fiamme gialle riguarda fondi per 460 mila euro che alla Reggina arrivano dopo essere partiti dalla M&G Company ed essere transitati attraverso la Multiservizi e la Club Amaranto, in un vortice impazzito di movimentazione bancarie create ad arte per nasconderne la provenienza.

  • Reggina, arresti domiciliari e maxi sequestro della Finanza per il presidente Luca Gallo

    Reggina, arresti domiciliari e maxi sequestro della Finanza per il presidente Luca Gallo

    Si trova agli arresti domiciliari il patron della Reggina Calcio, Luca Gallo. I militari della Guardia di finanza di Roma hanno arrestato l’imprenditore romano questa mattina: l’accusa è di autoriciclaggio e omesso versamento di imposte. I finanzieri, ancora impegnati nelle operazioni di perquisizione, hanno poi sequestrato beni e quote sociali di 17 società riconducibili al patron amaranto per un valore di 11,5 milioni di euro.

    I sospetti su Gallo e la scalata alla Reggina

    La Reggina non rientra tra le società sotto sequestro. Secondo la Procura della Capitale, titolare delle indagini, Gallo avrebbe usato le società del gruppo “M&G” per creare un articolato sistema di appalti fittizi e autofinanziando la propria attività d’impresa non versando le imposte relativa a Iva, ritenute e contributi ai lavoratori dipendenti (sono 1700 quelli che risulterebbero nella galassia del gruppo di Gallo). Gli inquirenti sospettano inoltre che Gallo possa aver utilizzato parte del denaro al centro dell’indagine nella scalata che lo portò alla guida della società amaranto.

    Il futuro degli amaranto: parla l’amministratore giudiziario

    Il club dello Stretto – fresco di penalizzazione di due punti in classifica a causa dei mancati pagamenti con l’Erario – non è direttamente sotto sequestro, ma in sostanza cambia poco. Il Tribunale di Roma ha infatti disposto i sigilli per la società “Multiservizi” che possiede per intero il capitale sociale della società “Amaranto” che a sua volta risulta proprietaria della Reggina Calcio. «Mi sento di poter dire ai tifosi della Reggina che possono stare tranquilli – dice al telefono l’amministratore giudiziario appena nominato dal Tribunale, Katiuscia Perna – e che verranno poste in essere tutte le attività opportune per salvaguardare il futuro del parco calciatori, della società Reggina Calcio e del “capitale umano” che la Reggina rappresenta per Reggio e per i suoi tifosi».

     

  • Onda su onda: cacciatori di energia in riva allo Stretto

    Onda su onda: cacciatori di energia in riva allo Stretto

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    Gli spagnoli partirono da Bilbao in minibus, erano in zona rossa ma non volevano rinunciare alla ricerca. Fu un viaggio mediterraneo pieno di soste nell’Italia deserta, con destinazione Reggio Calabria. Erano i giorni in cui i delfini riprendevano possesso dello Stretto, mai così vicini alla costa, con tanta voglia di giocare. Due giovani studiose arrivarono da Lisbona (una era polacca) e fecero l’abbonamento al bus. Ricercatori indiani rimasero in città per più di un anno. Furono coinvolti in lunghi pranzi con professori e dottorandi, si parlava di onde e venti, in quello straordinario laboratorio naturale che è il mare fra Reggio e Messina.

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    Il campionato vele d’altura sullo Stretto (foto Maria Pia Tucci)

    Questa storia mi è tornata in mente leggendo la notizia del campionato vele d’altura tornato dopo tanti anni sullo Stretto “in un teatro unico al mondo”. La scienza, lo sport ci dicono quello che non sappiamo, che abbiamo rimosso: sulle coste calabresi anche il vento è un valore, crea buona economia e indotto, come dimostra il celebrato modello del Club Velico di Crotone, le realtà di valore mondiale di Gizzeria e Punta Pellaro per il kitesurfing.

    L’eccellenza internazionale del Noel e l’indifferenza delle istituzioni

    A Reggio poi il vento si studia, da anni, grazie al laboratorio NOEL dell’Università Mediterranea, che ha stretto accordi di collaborazione con l’irraggiungibile Imperial College di Londra, con ricercatori della Columbia University. Viene in mente quello studio Svimez, che sottolinea il valore degli atenei calabresi, soprattutto in rapporto con la povertà del territorio, con la carenza dei collegamenti e dei trasporti. Ecco un settore dove la regione ultima fa bella figura, almeno nei casi in cui l’università dialoga con il territorio.

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    Quei ricercatori australiani, indiani, americani, norvegesi, danesi, inglesi, francesi, spagnoli, polacchi, portoghesi stimolarono la curiosità dei cittadini, meno delle istituzioni. E cos’era quella strana piattaforma a 60 metri da riva, dalle parti delle Terme romane in via Marina? Nessun consigliere comunale ci salì, al contrario lo fecero studiosi di tutto il mondo.

    Le tempeste oceaniche in senso Stretto

    Ora che stanno per smantellarla, forse è il caso di raccontare a cosa è servita, insieme al professor Felice Arena, direttore scientifico del laboratorio NOEL (Natural Ocean Engineering Laboratory). Con una premessa: l’eccezione meteo-climatica di quest’area sta su tutte le carte nautiche, ed è legata alla conformazione dello Stretto.

    Il vento di canale soffia perpendicolarmente da Messina a Reggio per dieci chilometri, duecento giorni l’anno. Produce modelli in scala delle tempeste oceaniche, le correnti marine arrivano a due metri al secondo e possono generare energia, oltre che quei vortici che furono il terrore dei navigatori più verso Villa, nel mare aperto dove si incontrano Jonio e Tirreno e approdano i minuscoli pesci abissali (se volete divertirvi, per le correnti dello Stretto c’è anche un’app).

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    Il professor Arena impegnato in un seminario alla Columbia University

    La città potrebbe avere energia per un anno

    Il professore Arena dice: «Abbiamo studiato a Reggio quello che è stato costruito altrove». Decine le ricerche, che danno luogo a progetti internazionali, seminari, convegni. I sistemi studiati a Reggio sono riprodotti a Civitavecchia (Porto di Roma) e Salerno. Dove stanno per essere installate le turbine per produrre energia elettrica dalle onde marine.

    Si è creata a Reggio una piccola scuola. Arena è stato un allievo del professor Paolo Boccotti, un genovese che, a differenza di molti altri docenti che sono passati per l’Università reggina, ha scelto di fare tutta la carriera a Reggio alla Mediterranea. Evidentemente Boccotti ha colto le potenzialità del “teatro unico al mondo”, una galleria del vento naturale, più grande di qualunque laboratorio. Secondo una ricerca Enea, lo Stretto potrebbe arrivare a produrre 125 gigawatt/ora l’anno, il fabbisogno di una città come Reggio o Messina.

    Reggio può diventare luogo di scienza e ricerca

    Ecco quindi la piattaforma, o meglio la diga. Realizzata in cemento armato, con la parte attiva in acciaio. Uno dei progetti, in collaborazione con la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, prevede la conversione dell’energia delle onde in elettrica. Un altro, The Blue Growth Farm, studia la costruzione di una piattaforma multifunzionale in mare aperto, con vasche per l’itticoltura, con gestione automatizzata.

    Dove viene prodotta anche energia dal vento, con una turbina eolica da 10 MW (nata al Politecnico di Milano), e dalle onde, attraverso sistemi a colonna d’acqua oscillante con risonanza interna. «La scommessa vinta – sostiene Felice Arena, che ha esposto le sue ricerche negli Stati Uniti, in Cina, in India e in giro per l’Europa – è stata quella di portare ricercatori a Reggio e di internazionalizzare il NOEL. Inutile dire quanto sia importante per noi ascoltare prospettive diverse, farne esercizio linguistico. La città può diventare un luogo di scienza e di ricerca». Un bellissimo lavoro di squadra, passate parola.

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    A caccia di vento nel mare di Ulisse

    Ps: per chi avesse pronta l’obiezione “non hai parlato dell’inchiesta sull’Università Mediterranea”, la mia risposta è semplice: ICalabresi ne ha già scritto, e l’effetto non secondario di questi scandali è quello di oscurare le belle storie e le belle ricerche come questa, il buon piazzamento della Mediterranea nel recente report dell’Agenzia Nazionale di valutazione.

  • Il limbo dei treni: il turismo lento salverà la Calabro-Lucana?

    Il limbo dei treni: il turismo lento salverà la Calabro-Lucana?

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    Fermi da più di dieci anni, i treni della vecchia Calabro-Lucana nella Piana di Gioia Tauro, sono rimasti a consumarsi in un angolo dismesso della linea a scartamento ridotto nella città del porto. Per quasi un secolo hanno garantito la mobilità tra il mare e l’entroterra. Sono stati a lungo unico, o quasi, mezzo di trasporto della zona. Ora stanno lì, vicino al terminal bus, abbandonati dal 2011 quando, con un fonogramma di dieci righe, la linea venne sospesa a tempo indeterminato. Vandalizzate dai soliti tag dozzinali e depredate di tutto, le carcasse rosse dall’inconfondibile stile retrò dei trenini che per decenni hanno portato su e giù per le campagne del reggino migliaia di cittadini, sono solo uno dei segni del declino senza ritorno del trasporto interno su rotaia.

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    Il rosso della ruggine ricopre treni e rilevato ferroviario nella vecchia Ferrovia Calabro-Lucana

    Il tracciato dimenticato delle ferrovie

    Due linee distinte, due tracciati diversi ma uniti nello stesso finale amaro. Una, la linea più antica, collegava la costa Viola con il versante tirrenico d’Aspromonte arrampicandosi sulla montagna fino al capolinea di Sinopoli. L’altra, la più importante, garantiva i collegamenti tra la città del porto e il ricco entroterra della Piana, fino a San Giorgio Morgeto e a Cinquefrondi: entrambe le linee, anche se chiuse in anni diversi, sono ormai solo un ricordo; con il materiale ferroviario – almeno quello che non è stato portato via dai tecnici di “Ferrovie della Calabria” – lasciato al suo destino in attesa di una riapertura che, visti i costi, non avverrà mai o di una riconversione del tracciato che per ora resta solo nelle idee innovative di qualche tesi d’architettura.

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    Vecchio casello ferroviario a Cinquefrondi

    Un patrimonio storico del trasporto pubblico

    Trentadue chilometri di tracciato, 13 fermate, una manciata di automotrici e un patrimonio di storia del trasporto pubblico che ha attraversato (quasi) tutto il secolo breve prima di naufragare sotto i colpi di una gestione diventata sempre meno redditizia. È entrata in funzione nel 1924 nel tratto tra Gioia e Cittanova, l’hanno ampliata fino a Cinquefrondi tre anni più tardi. La linea avrebbe dovuto originariamente “scavalcare” il passo della Limina e ricongiungersi a Mammola con il tratto di rotaie che arrivava fino allo Jonio. Ma il progetto presentava costi troppo elevati. Così fu accantonato definitivamente.

    Interi paesi uscirono dall’isolamento

    Nella Calabria del primo XX secolo però, quella trentina di chilometri di binari a scartamento ridotto, rappresentano un salto in avanti importante. Un intero territorio fatto di paesi densamente popolati, veniva finalmente interconnesso in maniera stabile, economica e comoda, con le stazioni a due passi dalle piazze principali dei centri. Un servizio ininterrotto (curato dalla società Calabro Lucane fino ai primi anni ’90 e poi da Ferrovie della Calabria) andato avanti fino al 2011. Poi è stato sospeso, dopo anni di agonia, con la giustificazione dei problemi di sicurezza. I limitati interventi di manutenzione sul tracciato e l’avanzata età del materiale rotabile, infatti, avevano costretto la linea a viaggiare a velocità estremamente ridotta. Elementi che hanno reso poco pratico il trenino, che ormai utilizzavano praticamente solo gli studenti.

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    Gli immancabili murales sulle pareti esterne dei caselli abbandonati

    Da quel giorno di 11 anni fa, poco o niente e cambiato. Nessuno, in Regione, si è mai preso la responsabilità di dismettere definitivamente la linea. Uno status di “sospensione” che, di fatto, ne impedisce ogni altro utilizzo. Ai limiti dettati dalle normative di sicurezza sui percorsi ferrati poi, dal 2019, si è aggiunto anche il vincolo della soprintendenza di Reggio che ha emesso un decreto di interesse culturale sulle linee Taurensi, in quanto memoria storica.

    Anche se di memoria, ormai, rischia di rimanerne poca. Smontato lo smontabile – le aste dei passaggi a livelli, i semafori – il resto del tracciato è rimasto abbandonato. I tecnici delle ferrovie si limitano a tagliare l’erba lungo i binari e nelle stazioni prima della stagione estiva. Nessuna manutenzione sui binari, sugli scambi o sui numerosi viadotti presenti sul tracciato. Nessun intervento nelle stazioni che cadono a pezzi (fatto salvo un piccolo recupero della piattaforma che “girava” i treni, nel capolinea di Cinquefrondi). Nessuna idea di riconversione all’orizzonte. E con il rischio sempre più concreto che episodi come quello di Sinopoli – quando gli Alvaro fecero costruire un edificio in muratura sui binari ancora caldi dal passaggio dell’ultima littorina – possano moltiplicarsi.

    Quattro ragazzini e un pallone lungo il vecchio tracciato delle Ferrovie calabro-lucane

    Il turismo green corre sui binari

    Per l’ex assessore regionale Catafalmo, storia di un anno fa, «la rimessa in esercizio della Gioia-Cinquefrondi non risulta sostenibile da un punto di vista economico e finanziario». A tenere “vivo” il vecchio tracciato ci pensano le associazioni di appassionati e escursionisti. Organizzano giornate di trekking lungo i binari, attraverso un percorso prezioso sotto gli ulivi giganteschi di questo pezzo di sud. E poi ci sono le idee e i progetti di tanti laureandi. Su quel tesoro fatto di stazioni e binari d’acciaio, hanno immaginato il futuro del territorio.

    Un futuro fatto di piste ciclabili e servizi integrati con i vecchi tracciati delle ferrovie dismesse in grado di catalizzare l’interesse di un turismo lento, che cerca attrazioni lontane dalle mete più frequentate. Le vecchie stazioni che diventano sale espositive e vetrine per i prodotti del territorio, le traversine in rovere che trovano nuova vita come pavimento esterno, persino le rotaie, smontate e riadattate per scale e recinzioni: le idee ci sono, il rischio è che restino chiuse nel cassetto.

  • Depurazione: nel Reggino scatta la caccia agli abusi

    Depurazione: nel Reggino scatta la caccia agli abusi

    «La situazione ambientale è fortemente degradata. Ora tocca aspettare gli esami di laboratorio sui campioni di acqua e terreno prelevati, ma visto quanto abbiamo riscontrato non è difficile immaginare cosa ci diranno». Non usa mezze parole il comandante della legione Calabria dei carabinieri Pietro Salsano nella conferenza stampa che segue il maxi blitz “Deep 1” – più di 300 i carabinieri coinvolti – su tutto il territorio della provincia di Reggio.

    Depuratori fantasma, scarichi abusivi e condotte nascoste. E poi discariche di eternit e cimiteri di auto sotto gli ulivi. Persino un autolavaggio che andava avanti – miracoli della burocrazia calabrese – con il via libera di una licenza di trasformazione alimentare: la realtà venuta fuori dal “rastrellamento” certosino eseguito dai militari del comando provinciale e da quelli della forestale non lascia spazio a illusioni.

    L’appello ai cittadini

    «I primi esami – dice ancora Salsano – suggeriscono anche la presenza di metalli pesanti. La situazione è preoccupante e generalizzata in quasi tutto il territorio, anche quello dei piccoli centri. Questo dimostra che c’è stata poca attenzione sul rispetto delle regole ambientali. L’operazione di oggi dimostra ancora una volta l’attenzione dei carabinieri sul fronte della tutela dell’ambiente, ma spesso è difficile riscontrare gli abusi in un territorio così vasto e, in alcuni casi, così impervio quindi il mio appello va ai cittadini: denunciate, fateci sapere, venitecelo a dire quando riscontrate un abuso».

    Il blitz

    Più di 50 indagati (tra amministratori pubblici, funzionari di società che gestivano gli impianti e imprenditori privati), tre depuratori sotto sequestro (gli impianti di Bivongi, Ardore e Stignano), un impianto di sollevamento bloccato (a Campo Calabro, prima periferia di Reggio) e sigilli anche a un canale di collegamento delle acque reflue che serve il comune di Sant’Agata del Bianco. In totale sono 14 gli impianti di depurazione irregolari scovati dagli investigatori sui 48 passati al setaccio in tutta la provincia.depurazione

    Il fantasma dell’opera

    Problemi amministrativi e gestionali, ma anche veri e propri disastri ambientali ancora da codificare: in un caso i carabinieri si sono trovati davanti ad un vero e proprio depuratore fantasma, che pur essendo dismesso da anni, continuava a ricevere parte delle acque reflue dell’impianto fognario. «In un caso addirittura – ha ammesso in conferenza stampa il colonnello Migliozzii nostri uomini non sono ancora riusciti a trovare il bocchettone di scolo di uno degli impianti».

    I fanghi? Troppo pochi rispetto alla popolazione

    E poi la questione dei fanghi di scarto dalla (presunta) depurazione delle acque reflue. Fanghi frutto del procedimento di “ripulitura” degli scarichi e che dovrebbero seguire le stesse regole della matematica in tutta Italia, ma che in Calabria invece seguono strade differenti. A fronte dei poco meno di due milioni di cittadini che abitano la regione infatti, la produzione di fanghi si ferma a 34mila tonnellate. Praticamente un terzo rispetto a quanto prodotto – e quindi certificato – dalla Sardegna (che di abitanti ne ha poco più di 1,5 milioni) e un decimo rispetto alla Puglia, che di abitanti però ne conta quasi 4 milioni.

    I cacciatori nelle fiumare

    Il blitz si è trascinato per tutta la giornata di giovedì: un’operazione imponente dalla costa verso l’entroterra e che ha visto anche l’intervento del gruppo cacciatori – quello in genere deputato alla ricerca dei latitanti e della piantagioni di marijuana sui versanti nascosti d’Aspromonte – a cui è toccato risalire tutte (o quasi) le fiumare della provincia alla ricerca di scarichi nascosti e discariche abusive.

    Depurazione, scarichi abusivi e rifiuti

    L’operazione è andata avanti su tre livelli distinti: quello della depurazione, quello degli scarichi abusivi nelle fiumare e quello dello smaltimento dei rifiuti delle attività produttive. E la realtà che è venuta fuori fa venire i brividi. In un caso i militari hanno riscontrato una condotta abusiva sotterranea lunga 300 metri, che collegava illecitamente un opificio direttamente con la fiumara dove finivano gli scarichi. E ancora montagne di eternit e decine e decine di impianti privati (oleifici, autolavaggi, cementifici) irregolari, alcuni dei quali trovati in totale assenza dei requisiti previsti dalla legge.

  • Canolo Nuovo: l’altra vita del covo contro i sequestri di persona

    Canolo Nuovo: l’altra vita del covo contro i sequestri di persona

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    Da covo di segugi a rifugio per anziani; da centro nevralgico per la ricerca dei sequestrati, a punto d’aggregazione per la piccola comunità di Canolo Nuovo. Si chiude così, a distanza di una decina d’anni dalla dismissione e con un progetto di inclusione sociale da due milioni di euro per la riconversione dell’ex campo Naps (il nucleo antisequestro della Polizia), una delle pagine più nere della storia calabrese recente.

    Una storia fatta di vite rubate e mamme coraggio, di banditi feroci e fondi neri che li hanno ingrassati. E sullo sfondo l’Aspromonte, bollato con infamia come “la montagna dei sequestri” e per anni a sua volta vittima di bande di malviventi che tra le sue gole e i suoi boschi fitti, nascondevano uomini e donne trattenuti in catene. Una storia terminata solo quando le grandi famiglie di ‘ndrangheta virarono i propri interessi verso i più redditizi (e più sommersi) mercati del narcotraffico. E a cui lo Stato rispose, con imbarazzante ritardo, catapultando sull’Aspromonte migliaia di uomini e donne con l’ordine di setacciarne ogni anfratto alla ricerche di carcerati e carcerieri.

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    Quel che resta del campo della polizia di Canalo Nuovo nel Parco d’Aspromonte

    Prova di forza

    I Naps a Canolo Nuovo, Campo Steccato e Mongiana, nel cuore d’Aspromonte. E poi il nuovo commissariato a Bovalino e le sedi della Mobile a Locri e Gioia Tauro: nel giro di pochi mesi, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, gli effettivi della polizia stanziati nel reggino passano da 867 a 2173: una cinquantina di agenti in più rispetto all’intero contingente presente in regione fino ad allora. Una risposta massiccia (e tardiva) al clamore mediatico e all’allarme sociale che avevano generato i sequestri di persona negli anni precedenti.

    Una parte di quegli agenti fu destinata al campo di Canolo Nuovo, costruito a quota mille metri sulla soglia della porta settentrionale del Parco d’Aspromonte, proprio di fronte alla piazza principale della piccola comunità che, unica nel reggino, quando il dissesto idrogeologico rese necessario lo sviluppo di un nuovo insediamento urbano, rifiutò di scendere a valle, per rifugiarsi ancora di più verso il cuore della montagna.

    Caldo, gelo e blitz

    Trasferiti in fretta e furia in Calabria dalle sedi più diverse, gli agenti del Naps furono alloggiati tra le baracche appena allestite dal Viminale. Una grande sala comune dove mangiare e socializzare, una serie di stanzette anguste dove preparare i blitz e i pattugliamenti, file e file di dormitori più che spartani in lamiera, gelidi sotto la neve e roventi sotto la canicola d’estate.

    Da queste baracche partivano i blitz coordinati anche con carabinieri e fiamme gialle. Blitz che cinturarono paesi – l’epicentro dell’anonima sequestri da sempre gravitava attorno ai centri di San Luca, Platì, Natile di Careri e Ciminà – e rastrellarono la montagna alla ricerca dei covi – poco più che buchi nel terreno dove era impossibile anche solo stare in posizione eretta – in cui erano tenuti i prigionieri.

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    Le vittime dei sequestri erano nascoste in luoghi introvabili dell’Aspromonte

    Il progetto

    Ora, questo campo fatto di baracche malmesse, preda dell’incuria e dei soliti vandali, e ufficialmente dismesso dal ministero degli Interni ad inizio secolo, potrebbe tornare a vivere anche se profondamente trasformato. Sul piatto ci sono due milioni di euro che il Comune di Canolo, proprietario del terreno su cui sorge il campo, conta di raccattare grazie allo scorrimento di una vecchia graduatoria per una richiesta di finanziamento datata 2015.

    «Sarà il nuovo centro nevralgico del paese – dice il sindaco Larosa – se tutto va come pensiamo, il finanziamento dovrebbe essere garantito dal Ministero e a breve potrebbero partire i lavori». E pazienza se, come sempre più spesso succede, non si sia registrato nessun contatto preventivo con i vertici del Parco d’Aspromonte, che del progetto di riconversione non ne sanno nulla. «Chiederemo i nulla osta al Parco quando sarà il momento, quando cioè saremo sicuri del finanziamento» chiosa ancora il sindaco.

    In attesa del finanziamento – e del propedeutico progetto di bonifica del sito di cui ancora non si trova traccia – le baracche abbandonate di Canolo Nuovo restano lì, nella radura a due passi dall’altopiano dello Zomaro, a segnare il tempo di una stagione amara.

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    John Paul Getty III rapito dalla ‘ndrine nel 1973

    La stagione dei sequestri

    Quando gli agenti del Naps arrivano a Canolo, siamo nel 1990, quello dei sequestri è un “mercato” in forte ridimensionamento. Passati i tempi dei riscatti miliardari come quello di Paul Getty III – sequestrato a Roma nel ’73 da un commando dell’anonima e rinchiuso in Aspromonte fino al pagamento di 1,7 miliardi da parte del nonno petroliere del ragazzo – le cosche hanno capito da tempo che quello dei sequestri è un gioco a perdere: troppo alti i rischi, troppo costosa la gestione degli ostaggi, troppo violenta la reazione dello Stato, troppo alto l’allarme sociale provocato.

    Nel maggio del 1990, le immagini di Carlo Celadon, il ragazzo di Arzignano rilasciato a Piano dello Zillastro, tra i comuni di Platì e Oppido Mamertina, dopo 831 giorni di prigionia, fanno il giro del mondo. Rapito all’alba dei suoi 18 anni, Celadon viene rinchiuso per più di due anni – il sequestro più lungo in Italia – in un buco tra i boschi della montagna.

    Incatenato al terreno, picchiato e continuamente vessato dai sequestratori, quando il ragazzo torna libero è molto più vecchio dei suoi 20 anni. Magro all’inverosimile, barba lunghissima e volto emaciato, fa fatica a rimanere in piedi mentre si fa largo tra l’esercito di giornalisti che assediano il tribunale di Locri: «Ecce Homo» lo chiameranno i media.

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    Angela, madre di Cesare Casella: con la sua battaglia per la liberazione del figlio rapito ha scosso le coscienze di tutta l’Italia (foto Gigi Romano)

    Madre coraggio

    Ma il vero punto di non ritorno di questa storia di «sudiciume sociale» è sicuramente rappresentato dal sequestro di Cesare Casella e dalla forza strepitosa di sua madre Angela. Questa donna minuta riuscì, praticamente da sola, a risvegliare le coscienze di un popolo stordito e immobile davanti a tanta violenza. Quando “mamma coraggio” pianta la sua tenda nel centro della piazza principale di Locri, il reggino è una polveriera. I rinculi della seconda guerra di ‘ndrangheta riempiono le cronache di morti ammazzati e svuotano le strade.

    Cesare Casella sarà liberato il 30 gennaio del 1990 dopo una terribile prigionia

    Sarà questa signora dall’aria risoluta, mossa solo dalla forza della disperazione, a smuovere le cose. Gira per le stradine di Platì e di San Luca, da sola, in una Regione dove non era mai stata prima. Incontra le donne del luogo che rompono la diffidenza iniziale e fanno loro la sua invocazione di aiuto, in una ricerca di riscatto sociale che esplode e si diffonde tra i paesi della Locride. Cesare Casella sarà liberato il 30 gennaio del 1990, dopo avere passato 743 giorni incatenato ad un albero. Pochi giorni prima era stato uno dei sequestratori, Giuseppe Strangio, rimasto ferito in uno scontro a fuoco con i carabinieri del Gis, a chiedere in diretta tv la liberazione dell’ostaggio.

    I fondi neri

    Dinieghi sdegnati, mezze ammissioni, clamorosi omicidi: sulla parabola terminale della stagione dei sequestri di persona – che coincide temporalmente con l’invio degli uomini a presidiare l’Aspromonte – molte furono le voci (e le inchieste della magistratura) su pagamenti sotto banco che i servizi segreti dispensarono per ottenere la liberazione di (almeno) una parte degli ostaggi in mano all’anonima.

    Fondi parzialmente ammessi dall’allora titolare del Viminale Vincenzo Scotti e dall’allora capo della polizia Vincenzo Parisi che in un’audizione della commissione parlamentare antimafia del 1993, esclusero il pagamento di alcun riscatto ammettendo però il pagamento di alcuni confidenti, utili al ritrovamento degli ostaggi. Pagamenti nell’ordine di qualche centinaio di milioni dell’epoca e onorati, dissero i due rappresentanti delle istituzioni, solo in seguito all’arresto dei componenti delle bande interessate, e che lasciarono a mezz’aria la sensazione amara di una sorta di divisione gerarchica tra gli stessi sequestrati.