Non è in aula Mimmo Lucano quando, poco dopo le 10, prende formalmente il via il processo d’appello che lo vede coinvolto assieme ad altri 17 imputati. «Non cerco alibi ma non rinnego niente di quanto ho fatto. Credo nella giustizia, ma nella giustizia degli ultimi, in quella giustizia che una volta si chiamava giustizia proletaria»: dal palco di una manifestazione targata Cgil a Chiaravalle, l’ex sindaco di Riace continua a tirare dritto per la sua strada. Rivendica il lavoro fatto nel “laboratorio” del paese dell’accoglienza. E difende alcune scelte – come quella di non allontanare i migranti alla scadenza dei sei mesi previsti dai regolamenti dei progetti d’accoglienza – che gli sono costate, almeno in parte, la pesante condanna emessa dal Tribunale di Locri.
Entrerà comunque nel vivo solo nell’udienza del prossimo 6 luglio il processo di secondo grado relativo all’indagine Xenia. Sarà allora che i giudici relazioneranno sulle posizioni dei presunti capi dell’associazione a delinquere che avrebbe compiuto «un arrembaggio» fatto di «meccanismi illeciti e perversi, fondati sulla cupidigia e sull’avidità» sulle risorse che arrivavano in paese per i numerosi progetti di inclusione e accoglienza che avevano fatto di Riace un miracolo da studiare all’università.
La condanna
Saranno i giudici di piazza Castello a decidere se, come dicono le oltre 900 pagine di motivazioni alla sentenza del primo giudice, Mimmo Lucano sarebbe a capo di «un’organizzazione tutt’altro che rudimentale che rispettava regole ben precise a cui tutti puntualmente si assoggettavano». Un’associazione che avrebbe agito alle spalle degli stessi migranti, riducendo l’intero progetto «a forma residuale e strumentale… così alimentando gli appetiti di chi poteva fare incetta di quelle somme senza alcuna forma di pudore».
Mimmo Lucano ascolta i giudici mentre lo condannano a 13 anni e 2 mesi di pena
Motivazioni pesanti come macigni e attraverso cui, il collegio locrese ha determinato, nei confronti di Lucano, una condanna a 13 anni e rotti di carcere per i reati di associazione a delinquere, falso in atto pubblico, peculato, abuso d’ufficio e truffa: 21 reati contenuti in 10 capi d’accusa (sui 16 totali di cui era imputato). Una condanna andata ben oltre le richieste dei pm dell’accusa, che in sede di requisitoria avevano avanzato per l’ex sindaco una richiesta a 7 anni e 10 mesi di reclusione. E che di fatto ha scritto la parola fine sull’intero progetto d’accoglienza che, scrivevano i giudici di primo grado, si era ridotto ad un “baraccone” «per alimentare l’immagine di politico illuminato che egli ha cercato di dare di sé ad ogni costo».
Mimmo Lucano in appello
E se durissime erano state le motivazioni redatte dal collegio locrese, altrettanto dura era stata la richiesta d’Appello presentata dai legali dell’ex primo cittadino di Riace, Giuliano Pisapia e Andrea Daqua, che quella stesa sentenza l’avevano bollata come «macroscopicamente deforme rispetto a quanto emerso in udienza». Ben 140 pagine di argomentazioni dettagliatissime che il collegio difensivo del “curdo” aveva utilizzato per provare a smontare pezzo per pezzo la verità venuta fuori dal primo grado di giudizio. Sia dal punto di vista del riscontro politico che da quello giudiziario.
Rocco Morabito deve tornare in Italia. La prima sezione della Corte suprema federale (Stf) del Brasile ha confermato l’autorizzazione all’estradizione del narcotrafficante della ‘Ndrangheta. Morabito, detto U Tamunga, era uno dei criminali più ricercati al mondo. La notizia dell’estradizione del boss arriva dall’Agência Brasil. Rocco Morabito, dopo una rocambolesca fuga da un carcere uruguaiano, era stato arrestato nel maggio dello scorso anno dalla Polizia federale a João Pessoa. Da quel momento è rimato dietro le sbarre del penitenziario federale di Brasilia.
Rocco Morabito scortato dalla polizia federale brasiliana
Un primo ok all’estradizione era arrivato a marzo di quest’anno. Ieri il tribunale ieri ha confermato quanto già deciso. Respinto il ricorso dei legali della difesa di Rocco Morabito che avevano sostenuto l’illegittimità delle procedure. Unanime il rigetto dell’istanza da parte dei giudici, che hanno quindi disposto la fine del processo di estradizione. Ora sarà il governo federale a consegnare il boss alle autorità italiane.
Nella sentenza la Corte suprema brasiliana ha ricordato all’Italia che dovranno essere rispettati alcuni requisiti previsti dalle leggi brasiliane. In primis, la sottrazione da una eventuale condanna della detenzione già scontata in Brasile e l’applicazione di una pena massima di 30 anni di carcere. I nostri tribunali avevano già condannato in più occasioni Morabito, affibbiandogli oltre 100 anni di reclusione per traffico internazionale di droga.
Sono passate appena poche ore dalla messa in onda della puntata che Report ha dedicato ai 30 anni dalla strage di Capaci. Gli uomini della Direzione Investigativa antimafia bussano alla porta del giornalista Paolo Mondani. Inviati dalla Procura di Caltanissetta, gli uomini della DIA perquisiscono l’abitazione del giornalista e sequestrano atti riguardanti l’inchiesta nella quale si evidenziava la presenza di Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale, sul luogo dell’attentato di Capaci.
L’inchiesta di Report e Delle Chiaie
Nel corso della perquisizione, gli investigatori hanno cercato atti sul cellulare e sul pc di Mondani. Una scelta forte, quella dei magistrati, che arriva all’indomani dell’inchiesta di Report. E che riaccende le polemiche sulla tutela delle fonti che dovrebbe essere sempre garantita ai giornalisti.
La procura di Caltanissetta, attraverso il capo dell’ufficio Salvatore De Luca, ha precisato che la perquisizione «non riguarda in alcun modo l’attività di informazione svolta dal giornalista(che non sarebbe indagato, ndr), benché la stessa sia presumibilmente susseguente a una macroscopica fuga di notizie, riguardante gli atti posti in essere da altro ufficio giudiziario».
Riecco “Er Caccola”
Nel giorno del trentennale della strage di Capaci, con la puntata “La bestia nera”, Report ha provato ad aggiungere un tassello di verità. Almeno a porre domande e instillare dubbi sui mandanti esterni, su quelle connivenze tra mondi diversi e occulti che avrebbero animato la strategia stragista che, nel 1992, toccherà il culmine con le stragi di Capaci e via D’Amelio in cui perderanno la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
I giudici Falcone e Borsellino uccisi dalla mafia
E spunta fuori il nome di Stefano Delle Chiaie. Anzi, rispunta. Sì perché Delle Chiaie entra ed esce da inchieste giornalistiche e giudiziarie da decenni. Deceduto nel 2019, si tratta di uno dei soggetti più oscuri della storia d’Italia. Detto “Er Caccola”, è stato accostato a stragi di matrice terroristica, alla P2 di Licio Gelli e alla criminalità organizzata. Con la sua inchiesta, Report ipotizza e sospetta legami con Cosa Nostra e fatti siciliani. Ma da anni sono presenti agli atti elementi che collegherebbero Delle Chiaie alla ‘ndrangheta.
Il summit di Montalto
Uno dei primi a parlarne è il collaboratore di giustizia Stefano Serpa, uomo influente della ‘ndrangheta degli anni ’70 e ’80. Serpa colloca Delle Chiaie in Calabria in uno degli eventi più iconici della storia della criminalità organizzata calabrese.
Un summit di ’ndrangheta. Anzi, probabilmente il summit di ’ndrangheta per eccellenza. Cui, però, stando al racconto del collaboratore partecipano anche elementi importanti della Destra eversiva, quali Stefano Delle Chiaie, appunto. Ma anche Pierluigi Concutelli, esponente di spicco della Destra eversiva e condannato per l’omicidio del giudice Vittorio Occorsio, avvenuto il 10 luglio 1976 a Roma, col movente di impedire al magistrato di proseguire le proprie delicate indagini sul terrorismo nero.
Pierluigi Concutelli
Una riunione fondamentale nella storia della ’ndrangheta, perché si incastra proprio negli anni più caldi della storia di Reggio Calabria, quelli della rivolta del Boia chi molla. Borghese, Delle Chiaie, Concutelli e gran parte della colonna di destra eversiva del tempo a Reggio Calabria, in quegli anni, sarebbero stati di casa.
La circostanza viene raccontata anche da Carmine Dominici, ex membro di spicco di Avanguardia Nazionale, poi divenuto collaboratore di giustizia: «Vi fu, nel settembre 1969, un comizio del principe Borghese a Reggio Calabria che fu proibito dalla Polizia. In quell’occasione c’era anche Delle Chiaie e il divieto da parte della Questura provocò scontri a cui tutti partecipammo. Vi fu anche un assalto alla Questura per protesta».
Delle Chiaie e la ‘ndrangheta
Ma non si tratterebbe solo di politica. Anche perché Serpa non è l’unico collaboratore di giustizia che tira in ballo Delle Chiaie e la sua vicinanza, non solo al territorio calabrese, ma anche alla ‘ndrangheta. A parlare, infatti, è uno dei collaboratori di giustizia storici: quel Giacomo Ubaldo Lauro che, insieme a Filippo Barreca, sarà tra le principali fonti dei giudici che imbastiranno il maxiprocesso “Olimpia”.
Le dichiarazioni di Lauro, quindi, aprono squarci di luce (che, va detto, non avranno particolari sbocchi di natura giudiziaria) sul legame tra ’ndrangheta e Destra eversiva: «[…] nell’epoca dei moti di Reggio, io capitai due volte detenuto nella stessa cella, lo presi con me a Carmine Dominici. Una volta perché aveva messo una bomba, e che poi è stato assolto da questa bomba e fece un paio di mesi, un’altra volta per il sequestro Gullì assieme a Domenico Martino. Dalla bocca di Carmine Dominici […] mi disse a parte che io lo sapevo già che “Er Caccola” non mi ricordo ora come si chiama dunque Delle, Delle Chiaie era stato a Reggio nel ’70 ospite, ospite suo di lui e di Fefè Zerbi».
Zerbi, Delle Chiaie e De Stefano
Il marchese Genoese Zerbi era, a detta di tutti, il coordinatore dei gruppi di estrema destra in quel periodo assai caldo vissuto dalla città, in lotta dopo l’assegnazione del capoluogo di regione a Catanzaro. Una rivolta che, secondo taluni, avrebbe subito la strumentalizzazione della ‘ndrangheta, in un accordo tra gruppi estremisti e boss. Stando al racconto di Lauro, Delle Chiaie ebbe contatti con la ’ndrangheta e, in particolare, proprio con Paolo De Stefano, in quel periodo capo della famiglia che, più di tutte, avrebbe modernizzato la ‘ndrangheta grazie ai suoi rapporti promiscui: «Nella seconda carcerazione […] io mi ritrovai detenuto dal ’79 e c’era anche lui. […] Da Dominici seppi che […] praticamente Fefè Zerbi fece conoscere a Delle Chiaie a Paolo De Stefano e ad altri […]».
L’uomo dei misteri
Nomi che si intrecciano con la storia più oscura d’Italia, fatta di complotti, accordi e trame messi in atto tra Destra eversiva, criminalità organizzata e Servizi Segreti deviati. Delle Chiaie è uno dei personaggi più controversi della storia d’Italia. Fondatore di Avanguardia Nazionale, movimento della Destra eversiva negli anni Settanta, Delle Chiaie si segnala per la propria appartenenza a organizzazioni e movimenti di natura fascista fin dagli anni Sessanta. Particolarmente inquietanti sono i contatti con il Fronte Nazionale del principe Junio Valerio Borghese. Sì, proprio l’ex gerarca fascista promotore di un tentato colpo di Stato nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970.
Junio Valerio Borghese
Un dato molto significativo, emerge dalla sentenza della Corte d’Assise di Bologna sulla strage della Stazione, che condanna i neofascisti Giusva Fioravanti e Francesca Mambro: «Stefano Delle Chiaie si muove con grande disinvoltura nell’Argentina dominata dal regime militare. Da latitante qual è, frequenta liberamente vari ambienti e compare a cena a fianco del console italiano. Reduce dall’esperienza cilena, dopo un primo momento di difficoltà, comincia a prosperare, raggiungendo l’apice della sua fortuna nel periodo in cui le forze governative argentine – il che, tenuto conto di quella realtà, equivale a dire gli apparati militari – appoggiano, assieme a quelle cilene, il colpo di Stato militare boliviano». La sua presenza in Sud America si registra già con la vicinanza al regime di Augusto Pinochet alle riunioni della Dirección Nacional de Inteligencia (DINA) di Manuel Contreras e in seguito nell’Operazione Condor per la persecuzione dei dissidenti.
La sala d’attesa della stazione di Bologna sventrata dalla bomba
Il nome di Delle Chiaie è stato accostato alle grandi stragi degli anni Settanta, come piazza Fontana o Bologna, e a omicidi eccellenti, come quello del giudice romano Vittorio Occorsio, ma i processi lo hanno sempre visto assolto per “non aver commesso il fatto” o per “insufficienza di prove”.
I “Sistemi Criminali”
Entra ed esce da inchieste giudiziarie da decenni. E fa parlare di sé anche ora che è deceduto da circa tre anni. Spiccava la sua presenza tra gli indagati dell’inchiesta sui Sistemi Criminali, condotta alcuni anni fa dal pubblico ministero Roberto Scarpinato sulla strategia della tensione dei primi anni Novanta, ma sfociata in un’archiviazione complessiva per personaggi del calibro del gran maestro della P2, Licio Gelli, i boss mafiosi Totò Riina e i fratelli Graviano, l’avvocato mafioso Rosario Pio Cattafi, altro soggetto che lega il proprio nome ad alcune delle vicende più oscure d’Italia.
L’avvocato Paolo Romeo
Ma anche l’avvocato Paolo Romeo, avvocato reggino condannato in via definitiva per mafia nel processo Olimpia e considerato un’eminenza grigia delle dinamiche ’ndranghetiste, condannato in primo grado a 25 anni nel maxiprocesso “Gotha”. Quanto all’inchiesta “Sistemi Criminali”, invece, sarà la stessa accusa a richiedere l’archiviazione.
Le accuse respinte dalla moglie di Delle Chiaie
Un altro processo da cui Delle Chiaie uscirà pulito. L’ennesimo. Come quello per la strage di Bologna, che ha visto recentemente la condanna di Paolo Bellini. L’inchiesta di Report tira in ballo anche lui. «Tutta l’inchiesta si fonda su una dichiarazione fatta in un colloquio investigativo di 30 anni fa, che quindi non può essere utilizzata. Il mio assistito è stato implicato in quella storia nel ’92, ’93 ed esaminato da Giovanni Melillo, oggi procuratore nazionale antimafia. Lo vogliono rimettere in mezzo? E lo rimettano in mezzo. Ma, ricordiamolo, è stato archiviato» afferma l’avvocato di Bellini.
I funerali di Stefano Delle Chiaie
E anche Delle Chiaie ha sempre respinto al mittente le accuse. Così come i riferimenti effettuati da diversi collaboratori di giustizia agli intrecci con la ’ndrangheta. Ora, deceduto da quasi tre anni, secondo qualcuno ha portato con sé tanti segreti. Secondo altri, invece, non può più difendersi e quindi lo infangano. Lo afferma Carola Delle Chiaie, moglie e vedova dell’ex avanguardista: «Una formazione che si può accusare di tante cose, ma non di connessioni con gentaccia come la mafia e tanto meno con la massoneria, che mio marito detestava come poche altre cose», dice. E conclude: «Si permettono di inserirlo in uno scenario incredibile. Dopo quanti anni scoprono che Delle Chiaie era a Capaci, che addirittura ha dettato la strategia delle stragi? È una follia, non c’è altra spiegazione».
Un carro trainato da tre coppie di cavalli neri. Un carro vuoto, addobbato di fiori e tirato a lutto, che avrebbe percorso il tragitto dalla casa del defunto fino al piazzale del cimitero di Marina di Gioiosa dove però non sarebbe entrato. Un carro che avrebbe dovuto trasportare il corpo di Nicola Rocco Aquino nel suo ultimo viaggio se, qualche ora prima della cerimonia funebre, non fosse arrivato l’altolà della questura di Reggio Calabria che disponeva le esequie in forma strettamente privata e da svolgersi all’alba come a tanti presunti esponenti del crimine organizzato prima di lui.
Annullato il funerale pubblico previsto per il pomeriggio – e il relativo corteo – però, qualche minuto prima delle sette del mattino, il carro, senza la bara al suo interno, avrebbe comunque percorso il tragitto originariamente previsto lungo il corso principale della cittadina jonica. Una sorta di “aggiramento” simbolico – il funerale di Aquino si è svolto comunque in forma strettamente privata – delle norme divenute ormai consuete in occasione dei funerali dei grandi vecchi della ‘ndrangheta, ed esibito in faccia a GioiosaMarina. Proprio come un enorme dito medio, con tanto di pennacchi sui cavalli e corone rosse di contorno.
Ha aggredito un coetaneo all’uscita da scuola e lo ha colpito ripetutamente alle spalle con una mazza provocandogli delle lesioni. È accaduto a Gioia Tauro dove un minore è stato denunciato dalla Polizia di Stato con l’accusa di aggressione e lesioni nei confronti di un altro giovanissimo. Il provvedimento è scattato a seguito della conclusione delle indagini svolte dagli agenti della Polizia di Stato del Commissariato di Gioia Tauro, coordinate dalla Procura del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria, che hanno consentito di ricostruire la dinamica dei fatti e di individuare l’autore dell’aggressione. L’analisi delle immagini riprese dai sistemi di videosorveglianza presenti nell’istituto scolastico hanno permesso agli investigatori di accertare le modalità con le quali, all’uscita da scuola, la vittima è stata aggredita e colpita alle spalle con una mazza di ferro che è stata trovata poi a poca distanza da dove si è consumato l’episodio.
«Il sindaco è sospeso, il presidente della Reggina è stato arrestato, il rettore si è dimesso, la nomina del Procuratore Capo della Repubblica è stata annullata. E a questo punto, anche il vescovo si guarda intorno preoccupato». Solo alla fine di questo piccolo viaggio sentimentale nelle pene di Reggio Calabria scoprirete dove ho ascoltato questa battuta.
Tempi duri per Reggio Calabria
Appartengo a quella categoria di reggini orgogliosi di esserlo, legato ai luoghi del cuore che sono di tutti: l’anfiteatro che una volta era il Cippo, il cinema Siracusa che non c’è più e ci hanno messo un fast food, le immense magnolie della via Marina. Ho quindi una certa resistenza a parlarne male, anche se i tempi sono disastrosi, e dal resto della Calabria un po’ sottovoce si guarda a Reggio con l’aria di chi dice: sempre loro.
Reggio Calabria, il cinema teatro Siracusa
Sempre quelli che hanno ancora in testa la Rivolta oltre cinquant’anni dopo – fieramente divisi fra storici della rivolta popolare e nostalgici dell’eversione nera – quelli che piangono/rimpiangono Italo Falcomatà che appena eletto disse: «Noi siamo scalzi», una indimenticabile serie A con la Reggina durata dieci anni, la gloriosa “Viola” dei canestri, il primo comune capoluogo di Provincia commissariato per infiltrazioni mafiose, alti e bassi che nemmeno le montagne russe, il deficit che non c’è più, i cumuli di rifiuti che ormai fanno parte del panorama. Ma in piazza – come è successo domenica – vanno i tifosi, vogliono salvare la serie B.
Quelle due foto guardano avanti
Meno di una settimana fa i giornali locali hanno pubblicato una foto che mi ha colpito: c’era un teatro strapieno, era stata convocata la Consulta della cultura. Fra le tante decisioni annunciate, quella di circondare il Museo archeologico se si avvieranno i lavori per la sistemazione di Piazza De Nava, voluti dalla Sovrintendenza (progetto peraltro interessante).
Una città che discute del suo futuro non è una città finita, anche se sindaco, rettore etc. Poi, un’altra foto: le file dei ragazzi in gita fuori dallo stesso Marc. Il 2022 è l’anno del Cinquantenario per i Bronzi, e non si può sbagliare. Chiedo solo, da cittadino, che le auto non passino davanti al Museo.
Il Museo archeologico di Reggio Calabria
Falcomatà e il suo Pd
Che succede a Reggio? Beh, tutta la città ne parla, come nel migliore dei programmi di Radio 3. Del sindaco Giuseppe Falcomatà, che si è chiuso nella Fondazione intitolata al padre, cerca di mettere su una biblioteca di testi sul Meridione, sperando che la legge Severino venga superata, o aspettando solo che il periodo di stop si concluda, dopo la condanna per la concessione del Miramare.
Intanto è andato alla Villa, insieme al suo Pd, a ricordare il 25 aprile. L’ex vicesindaco, Tonino Perna, sta per pubblicare un diario sulla sua esperienza in Comune, e sicuramente non sarà lieve sul funzionamento della macchina comunale. Il centrosinistra, tranquillo come una palestra di kick-boxing, cerca un rimbalzo di popolarità e di passione. Ma le sezioni sono chiuse.
Giuseppe Falcomatà, sospeso dopo la condanna per il caso “Miramare” – I Calabresi
Castronovo e Princi: due personaggi che non stanno a guardare
La cronaca cittadina gira spesso intorno a due personaggi che potrebbero avere un ruolo forte in futuro. Uno è Eduardo Lamberti Castronovo, già candidato con la sinistra strapazzato da Scopelliti. Imprenditore della sanità in una Regione che dà alla Sanità il 70 per cento del suo bilancio, editore in video e ora anche direttore di Rtv, membro del Cda del Conservatorio musicale, proprio lui ha organizzato la Consulta della Cultura ed è fortemente critico con il Comune.
Cannizzaro e Princi
L’altra è Giusy Princi, vicepresidente del consiglio regionale ma per la città soprattutto ex preside di un Liceo Scientifico con sezioni sperimentali, una eccellenza assoluta del territorio. La sua discesa in politica ha ricevuto critiche solo per una parentela: la dottoressa Princi è prima cugina del deputato di Forza Italia Francesco Cannizzaro, celebre per le sue promesse sull’aeroporto (a proposito, aggiungiamo lo scalo alla lista con sindaco, rettore etc) e per la sua idea di costruire un autodromo in zona. Anche la sinistra avrebbe candidato volentieri Princi.
Che giustizia è mai questa (dalla Procura al povero Palazzo)
L’ingresso Sud della città costeggia il torrente Calopinace: il visitatore si trova sulla destra il palazzo del Cedir, dove hanno sede uffici comunali e, all’ultimo piano, la procura della Repubblica. In questi giorni si consuma in quelle stanze una vicenda grottesca: dopo quattro anni, il Consiglio di Stato ha annullato la nomina a Procuratore Capo di Giovanni Bombardieri, che nel frattempo si è distinto per le inchieste sulla ‘ndrangheta e per una costante presenza nelle iniziative sociali e di solidarietà, senza mai eccedere nel protagonismo. Si spera adesso nella saggezza del Csm. Ma è di fronte al Palazzo del Cedir che prende ruggine il monumento alla burocrazia del subappalto, alle mafie dei lavori pubblici, ai ritardi dello Stato.
Il Palazzo di Giustizia incompiuto di Reggio Calabria – I Calabresi
La ministra Cartabia si è impegnata recentemente con il presidente della Corte d’Appello Luciano Gerardis, le cronache locali registrano ogni mese un “primo passo” (simile a tante “prime pietre”), un avviamento dell’iter, lo sblocco del contratto. Intanto è un immenso cantiere chiuso. La chiesa vicina si ritrova chiusa per le infiltrazioni dell’acqua che arriva da un parcheggio mai aperto, la “Mazzini” aspetta di tornare una scuola, ma nel frattempo va in rovina. Servirebbe anche qui un girotondo di protesta, solo che ci vorrebbero migliaia di persone.
Il Mausoleo ritrovato a Reggio Calabria
E quanto sia estenuante il capitolo dei lavori pubblici (magari Perna ne parlerà nel suo libro) lo dimostra la storia degli scavi davanti alla stazione Centrale. Nel 2016 scoprirono la base di un Mausoleo, databile alla prima metà del primo secolo, una costruzione di altissima qualità, senza eguali nella Reggio romana. Il professor Lorenzo Braccesi ritiene che possa essere il luogo della sepoltura di Giulia, figlia in esilio dell’imperatore Augusto, la segnalazione è dell’archeologo Daniele Castrizio. E sei anni dopo, evviva, il cantiere riapre.
Reggio Calabria, i guai dell’Università e il relitto della Casa
L’Università “Mediterranea” sta cercando di ripartire dopo un’inchiesta fotocopia di quelle che hanno colpito altri atenei. Con particolari grotteschi e un certo profumo di impunità, come se tutti sapessero già quello che stava per succedere. Noi a Rc non possiamo essere da meno, se il grande capo di Forza Italia in Sicilia chiama il rettore invocando protezione per il genero «bravo ragazzo, ma già bocciato sei volte allo stesso esame», come ha scritto il Domani nei giorni scorsi.
La facoltà di Architettura nell’Università Mediterranea di Reggio Calabria
Lo scandalo di Reggio provoca qualche guaio supplementare, visto che era in discussione la creazione del campus a Saline, nei pressi di due cattedrali nel deserto come laLiquichimica e le officine meccaniche. En passant, ricordo che ci sarebbe da demolire anche l’orrendo scheletro della Casa dello Studente, costruita nel greto di un torrente.
Detto questo, la “Mediterranea”, come Unical e Magna Graecia, si stacca – come ha testimoniato anche Svimez – dall’ultimità che la Calabria conserva (non orgogliosamente) in molti altri settori. Ha un buon Job placement e ricerche di livello internazionale. Difendiamola.
La ragnatela dei luoghi utili
Reggio può contare per fortuna su una grande rete di associazioni, che spesso suppliscono al welfare che non c’è. I centri di medicina solidale di Pellaro e Arghillà, il lavoro di ActionAid nelle scuole. Di Ecolandia non posso parlare perché sono miei amici, ma il riuso di un immenso fortino ottocentesco in una zona così difficile è un atto di eroismo.
Invece conosco solo una o due persone del gruppo che ha trasformato la scalinata di via Giudecca da luogo sporco e malfamato allo spazio aperto dell’incontro, senza un euro ricevuto dal Comune. Poi scendi verso il mare e trovi le porte aperte di Open, dove vendono e pubblicano libri e la sera fanno anche sedute di “yoga della risata”. Altri luoghi, il teatro rimesso a nuovo del Dopolavoro Ferroviario, e l’associazione che gestisce invece la stazione di Santa Caterina.
Si parla poco delle realtà e associazioni legati ad Agape, le case-famiglia, i centri anti-violenza, dove operano persone che hanno avuto una vita romanzesca che non possono raccontare. La palazzina confiscata e ora ristrutturata in via Possidonea dove a pianterreno c’è un laboratorio di sartoria, la bottega del commercio equo e solidale di via Torrione. Il Consorzio Makramé e associazioni come Reggio non tace, la Fondazione Civitas.
La scalinata della Giudecca
E quando in questi giorni è stata annunciata la creazione di un nuovo comitato antiracket, il mio pensiero è andato a quella signora che aveva aperto intorno al 2017 in via Torrione un laboratorio-forno di grani antichi, di prodotti senza glutine. Glielo bruciarono, il Comune offrì un altro negozio. Andò avanti qualche mese, ora ci passo sempre e lo vedo chiuso. Però mi piace prendere l’aperitivo in quel locale in via San Francesco da Paola, poco oltre il Duomo, il cui proprietario ha denunciato un tentativo di estorsione.
Reggio è così, è fatta a macchie. Ci sono tanti circoli culturali di valore nazionale, il Touring club che adotta i paesi. C’è un Planetario a due passi dalla Regione, dove una prof di nome Angela Misiano forma studenti che poi vanno a vincere le Olimpiadi di Astronomia. Visitare, prego. C’è il Castello, solo che spesso è chiuso: l’edicolante/libraio fa da ufficio informazioni e ogni tanto ne parla su Fb, ma al Comune nessuno lo ascolta.
Ci sono piccoli e accoglienti locali dove si cerca di fare cultura come Cartoline Club, proprio lì ho sentito quella battuta sul vescovo e mi è sembrata molto indovinata, perché questa Reggio deve imparare a ridere dei suoi lamenti. E ritrovare la sana rabbia dell’impegno, buoni esempi non mancano.
Lo scorso 10 maggio, il presidente della Regione Roberto Occhiuto e i rappresentanti della città metropolitana di Reggio Calabria si sono riuniti alla Cittadella per parlare del raddoppio e l’ammodernamento dell’unico termovalorizzatore di Gioia Tauro. Due ore d’incontro, per accordarsi sull’essere in disaccordo.
Un intervento che la Regione ha voluto inserire nel nuovo piano rifiuti, per liberarsi dalla dipendenza dalle discariche ed evitare accumuli di rifiuti prima della stagione estiva, oltre che per migliorare l’impatto ambientale della struttura.
Gli amministratori e le comunità della Piana non ne vogliono sapere. «Serve una politica seria, nero su bianco, che ponga come ultima fase la chiusura degli impianti di termovalorizzazione. Se ti dai questo obiettivo, diventi credibile» ci dice, polemico, Aldo Alessio, sindaco di Gioia Tauro, che era presente all’incontro. Qualche giorno prima, il 7 maggio, nella città c’è stata una prima manifestazione di protesta.
L’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria
Il territorio di Gioia è particolarmente sensibile al tema della salute. Nel 2018, uno studio dell’Asp di Reggio insieme ad Arpacal e all’Irccs di Bari ha attestato un tasso più alto di incidenza e di mortalità per le neoplasie polmonari nella città e, in generale, nell’area tirrenica. Se non è possibile collegarlo direttamente all’impianto, è vero che la zona della Piana presenta più siti ambientali a rischio.
Gli impianti di nuova generazione danno più garanzie, da questo punto di vista. Ma rimangono tanti dubbi sulle emissioni e sul ruolo che possono avere nel compromettere lo sviluppo della raccolta differenziata sul territorio.
Gioia Tauro, un termovalorizzatore a mezzo servizio
La gestione dell’impianto è la croce più grande che la città si è dovuta caricare sulle spalle, secondo il sindaco Alessio: «Non sono state fatte a dovere né le manutenzioni ordinarie né le straordinarie. E ora ci raccontano la barzelletta che con le nuove misure dovrebbe andare tutto bene. Perché dovrei credergli?». Le due linee che lo costituiscono sono ormai obsolete, sorpassate dagli impianti di nuova generazione, che permettono un controllo più stretto su cosa si brucia, e di inquinare meno.
A confermare il quadro tragico del termovalorizzatore in contrada Cicerna è un documento tecnico del dipartimento regionale Ambiente che è stato allegato alla manifestazione d’interesse per il project financing. Il documento parla di «continui fermi d’impianto» e di una produzione bassa. Le linee inceneriscono «quantitativi molto inferiori rispetto alla potenzialità autorizzata», che si attesta sulle 120mila tonnellate ogni anno.
Alessio non si fida più delle promesse: «Ci stanno raccontando delle favole. E le favole sono tutte belle. Anche 22 anni fa, quando sono state costruite la prima e la seconda linea, la favola era che non avremmo respirato sostanze nocive. E che avremmo avuto il teleriscaldamento. Ormai nessuno ne parla più».
La gestione dell’impianto attuale non è mai stata chiara. «Non c’è mai stata una gara pubblica con un assegnamento definitivo. La Regione l’ha consegnata ai privati. Rimaniamo nella transitorietà: le cose funzionano così in Calabria. E non fa scandalo, qui è tutto normale».
I nuovi impianti abbattono i rischi per la salute
Secondo molti studi sul tema, le nuove tecnologie permettono di ridurre significativamente sia le emissioni che i rischi per la salute, legati soprattutto agli impianti obsoleti ancora in funzione.
La pericolosità degli inquinanti per i cittadini è forse il tema che sta più a cuore alla comunità di Gioia Tauro. Come accennato all’inizio, da tempo si denuncia un aumento dell’incidenza e della mortalità di alcuni tipi di tumore. È complicato, però, trovarne le cause profonde.
Gli impianti di nuova generazione, da questo punto di vista, potrebbero essere un grande passo in avanti. Come si legge nel libro bianco italiano sull’incenerimento dei rifiuti, pubblicato nel 2021, «è scientificamente riconosciuto che le preoccupazioni sui potenziali effetti sulla salute degli inceneritori riconducibili a inquinanti potenzialmente presenti nelle emissioni, quali metalli pesanti, diossine e furani, sono da ricondurre a impianti di vecchia generazione e a tecniche di gestione utilizzate prima della seconda metà degli anni Novanta».
L’ingresso del campus dell’Imperial College di Londra
Una conclusione simile a quella di Anna Hansell, scienziata dell’Imperial College di Londra. In una ricerca, la professoressa non aveva escluso del tutto che i nuovi impianti possano avere delle conseguenze sulla salute (un’affermazione che sarebbe comunque difficile da verificare, a livello scientifico), ma «gli inceneritori moderni e ben regolamentati possono avere un piccolo, se non addirittura impercettibile, impatto sulle persone che vivono nelle loro vicinanze».
I dubbi sulle emissioni del termovalorizzatore di Gioia Tauro
Nella visione della Regione, le nuove linee abbatterebbero anche le emissioni di anidride carbonica. Occhiuto insiste soprattutto su un dato: il raddoppio del termovalorizzatore di Gioia Tauro, secondo i calcoli effettuati dagli uffici della Regione, potrebbe abbattere le emissioni inquinanti dell’88% rispetto a quelli attuali. Questi ultimi rimarrebbero comunque in funzione, quindi è un dato da prendere con le pinze.
Ma è vero che gli impianti di nuova generazione inquinano molto meno? La risposta breve è… nì.
Ci sono tanti fattori da considerare. In primis, abbiamo un problema di metodo. Di solito, i dati contano solo le emissioni di CO₂ fossile, come quello emesso quando viene incenerita la plastica, ad esempio. Ma esiste un altro tipo, la CO₂ biogenica, che deriva da fonti naturali, come il legno. Anche questa inquina, eppure non viene conteggiata nelle statistiche: una falla che non permette di capire realmente gli impatti di questi impianti. Inoltre, è difficile quantificarne l’impatto ambientale, se non si sa cosa verrà bruciato. Anche accettando il fatto che le emissioni di anidride carbonica e altri inquinanti calino con i nuovi impianti, è vero che non esiste l’impatto zero. Queste strutture continueranno ad inquinare.
Gioia Tauro ha un altro problema, molto più concreto: ci vorranno anni per finire l’allargamento del termovalorizzatore. Nel frattempo, le prime due linee continueranno ad inquinare, con una produzione aumentata.
Durante l’ultimo incontro, i sindaci della Città Metropolitana hanno portato una controproposta: dismettere le prime due linee del termovalorizzatore, quando le nuove saranno pronte. È stata bocciata.
C’è chi ha già cambiato idea: il dietrofront della Danimarca
Allargando lo sguardo, vediamo che la discussione sui termovalorizzatori tende a riproporsi nei contesti più vari. Negli ultimi giorni se ne sta parlando anche a Roma, dove la proposta ha un consenso decisamente più largo rispetto alla Calabria. Anche a livello internazionale, la pressione per la costruzione di nuovi impianti è forte. Molti stati vogliono fare in fretta, per liberarsi delle proprie discariche e aumentare la produzione di energia elettrica. Ma non mancano i ripensamenti.
Amager Bakke, il termovalorizzatore di Copenhagen celebre per ospitare una pista da sci
Uno degli stati più “entusiasti” ha fatto una brusca marcia indietro. La Danimarca, infatti, è uno dei paesi europei che ha investito di più nei termovalorizzatori. 23 impianti generano il 5% dell’energia elettrica prodotta nel paese, ed un quinto del teleriscaldamento.
I danesi, però, non producono abbastanza rifiuti da tenere in funzione le centrali. Ed è qui che si genera il paradosso: la Danimarca è costretta ad importare i rifiuti dall’estero, spingendo la produzione più in alto possibile e compromettendo i propri obiettivi climatici.
Se il termovalorizzatore inquina di più: il caso del Regno Unito
Come ha raccontato nel 2020 a Politico il ministro danese per il Clima Dan Jørgensen: «Importiamo rifiuti ad alto contenuto di plastica per utilizzare l’energia in eccesso generata dagli impianti. Il risultato è un aumento delle emissioni di CO₂».
Per questi motivi, il governo danese ha invertito la rotta. Nel prossimo decennio, verranno chiusi 7 inceneritori (su un totale di 23). Inoltre, la capacità di incenerimento dovrà scendere almeno del 30%. L’alternativa di lungo periodo è di puntare sul rafforzamento della raccolta differenziata.
Può anche succedere di scoprire dopo anni che gli impianti che utilizzi siano più inquinanti di quello che pensi. È quello che è successo in Regno Unito.
Secondo un report della società di consulenza Eunomia per ClientEarth, la produzione di energia dai termovalorizzatori inglesi è più inquinante di quella creata utilizzando il gas. Insomma, servirà un monitoraggio molto preciso, se vogliamo misurarne gli effetti sull’ambiente.
Il colpo di grazia alla raccolta differenziata?
Il problema più grosso è che i termovalorizzatori diventano un grosso ostacolo per la raccolta differenziata e, in generale, per l’idea dell’economia circolare.
Una volta creato un impianto, bisogna tenerlo in funzione. È difficile che venga dismesso dopo pochi anni.
Di solito, sono progettati per rimanere in attività per almeno 20 anni, e ci sono dei contratti da rispettare. Le scelte degli amministratori rischierebbero di essere vincolate al mantenimento degli impianti, e non agli obiettivi ambientali. Esattamente com’è successo in Danimarca.
L’ultima emergenza rifiuti nel centro storico di Cosenza (foto Alfonso Bombini)
Sappiamo, inoltre, che le alternative sono poche: dobbiamo ridurre la produzione di rifiuti. Per rispettare gli impegni degli accordi di Parigi, in Italia bisognerà riciclare almeno il 55% dei rifiuti urbani entro il 2025, e il 65% dei rifiuti da imballaggio. Percentuali che hanno soglie più alte per i 10 anni a venire.
In questo ambito, la Calabria è molto indietro. Tra le Regioni d’Italia, è la penultima per raccolta differenziata. Una percentuale intorno al 50%. E pensare che l’obiettivo regionale per il 2012 era quello di raggiungere il 65%.
Sarà fondamentale investire bene i fondi europei, per creare degli impianti che ci permettano di rispettare i nostri obiettivi. Sul termovalorizzatore si può anche discutere, ma non c’è alternativa al riciclo.
«Gallo non ha nessuna intenzione di mettersi di traverso alla cessione della Reggina, già l’anno scorso c’erano state avanzate trattative per vendere la società». La notizia che tutta la Reggio sportiva aspettava arriva direttamente da Giosuè Bruno Naso, storico avvocato romano e legale del patron amaranto, finito giovedì scorso agli arresti domiciliari nella sua casa romana con l’accusa di autoriciclaggio ed evasione dell’Iva.
L’interrogatorio
Davanti al Gip Annalisa Marzano, l’imprenditore alla guida della società amaranto dal gennaio 2019, ha rilasciato una serie di dichiarazioni spontanee in cui ha provato a giustificare il suo operato rispetto alle pesanti accuse formalizzate dalla Procura di piazzale Clodio. Dichiarazioni in cui Gallo avrebbe ricordato i passaggi dell’acquisizione della società, sottolineando di aver compiuto tutti i passi alla luce del sole e rimarcando come quel rapporto insolito tra lui e il calcio fosse cambiato con il tempo e di quanto Reggio e la Reggina lo avessero coinvolto con il passare dei mesi.
«Luca Gallo non vuole risolvere solo i suoi problemi – dice ancora a I Calabresi Giosuè Naso, difensore, tra gli altri, anche del “Cecato”, quel Massimo Carminati protagonista di tante pagine oscure dell’eversione “nera” dagli anni di piombo ai giorni nostri – ma anche quelli della Reggina. Non ha nessuna intenzione di affossare la squadra».
Luca Gallo e la trattativa per la Reggina
Il futuro della Reggina avrebbe potuto essere diverso rispetto a quello burrascoso (e dai tempi contingentatissimi) che si è andato disegnando in seguito all’arresto del presidente amaranto, accusato di avere trasformato la Reggina in una scatola cinese attraverso cui veicolare consistenti somme di denaro frutto del mancato pagamento delle spettanze Iva di tre società (la M&G Multiservizi, la M&G Service e la M&G Company) del suo impero commerciale. In seguito al sequestro preventivo che il tribunale di Roma dispose nei confronti di parte del patrimonio di Gallo (circa sette milioni di euro messi sotto sequestro nel gennaio del 2021) l’imprenditore avrebbe infatti messo in campo una serie di trattative per cedere le quote della società.
Luca Gallo nella sede di una delle sue società nel mirino della Procura
Alla base della decisione di passare la mano – ipotesi sempre smentita, almeno ufficialmente, dalla società amaranto – ci sarebbe stata la possibilità, per Gallo, di “sbloccare” i soldi messi sotto sequestro dai magistrati romani. «Gallo si era appassionato a Reggio e alla Reggina, gli piaceva fare il presidente di una squadra di calcio – dice ancora l’avvocato – ma dopo il sequestro preventivo si erano create le basi per cedere la società ad un soggetto giuridico straniero. Ma poi non se ne fece nulla».
Non un privato quindi, ma un fondo straniero che avrebbe formalizzato il proprio interesse per rilevare il 100% della società amaranto che, situazione debitoria a parte, rappresentava e continua a rappresentare un discreto investimento. La serie B è un capitale importante da cui partire. La storia, il blasone e l’amore incondizionato della tifoseria sono la ciliegina sulla torta, ma serve agire in fretta.
I tifosi della Reggina al San Vito-Marulla di Cosenza
Può capitare che una quindicina di uomini seduti attorno a un tavolo si salutino augurandosi «buon vespro, società» e sincerandosi che tutti siano «conformi». Che qualcuno di loro evochi i mitologici «cavalieri di Spagna Osso, Mastrosso e Carcagnosso», oppure delle «prescrizioni» risalenti «al 1830» e le «regole sociali» che vengono «dal Crimine». Che quello che sembra il più esperto di certe cose dica di essere – beninteso, «senza offesa» – se non tra i primi dieci, sicuramente «tra i primi quindici della Calabria».
Il modo in cui si salutavano i partecipanti alle riunioni nella bocciofila svizzera
Onore, estorsioni ed eroina. Ma non è mafia
Può capitare che si parli di una «società» che esiste dal 1970 e che «è onore, saggezza, rispetto». Che i convitati vengano rassicurati sul fatto che «c’è lavoro su tutto: estorsioni, coca, eroina; 10 chili, 20 chili al giorno, ve li porto io personalmente e poi non voglio sapere più niente…». E che tutto questo sia nient’altro che una spacconata, folclore, parole. Soprattutto, che non sia mafia.
Un altro frame del video captato dagli inquirenti nell’ambito dell’inchiesta “Helvetia”
Dalle Serre a Frauenfeld
Le riunioni sono state immortalate da una telecamera (qui il video diffuso da Rsi News) che i carabinieri di Reggio Calabria avevano piazzato, ormai un decennio fa, nel ristorante di una bocciofila nei pressi di Frauenfeld (Canton Turgovia). Ne è venuta fuori un’inchiesta che ha fatto epoca, “Helvetia”, sulla riproduzione delle dinamiche della ‘ndrangheta che da Fabrizia, paese sulle montagne delle Serre al confine tra Vibonese e Reggino, erano state trapiantate in Svizzera. Scattata nel 2014, l’indagine si era poi divisa in due tronconi e in primo grado il Tribunale di Locri aveva emesso una serie di condanne per associazione mafiosa.
La cittadina svizzera di Frauenfeld
Sentenze ribaltate: dal carcere duro alla libertà
La tesi della cellula svizzera della ‘ndrangheta di Fabrizia – non mancano certo altre prove delle ramificazioni internazionali della mafia calabrese – è stata però in parte smontata già nel 2019 dalla Cassazione che, dopo qualche anno di 41 bis e una condanna a 14 anni nel primo troncone, ha scagionato definitivamente quelli che gli inquirenti avevano invece ritenuto il «capo società» e il «mastro disponente». Altrettanto storica è stata la sentenza con cui la Corte d’Appello di Reggio nel novembre scorso, dopo le prime 3 assoluzioni sentenziate già nel maggio del 2020, ha ribaltato il primo grado dell’altro troncone assolvendo anche gli altri 9 imputati «perché il fatto non sussiste».
La sede della Corte d’appello di Reggio Calabria
Affiliati ma innocui
Di recente sono state depositate le motivazioni delle sentenza che, ancorché appellabili, cristallizzano un punto destinato a rimanere uno spartiacque della giurisprudenza sulla materia. Nel caso di specie i giudici non hanno ravvisato gli elementi previsti dall’art. 416 bis (associazione mafiosa) «non essendo emersa una qualsiasi forma di manifestazione esterna degli elementi essenziali della fattispecie legale tipica e, dunque, venendo a mancare, in definitiva, lo stesso fatto tipico enunciato dalla disposizione incriminatrice, attesa l’assenza di condotte esteriori, sul territorio estero in questione, e concretamente offensive ricollegabili al paradigma normativo del delitto associativo oggetto di contestazione».
Non bastano le intercettazioni
Fuori dal gergo giudiziario, è chiaro che i giudici reggini intendono mettere nero su bianco come per configurare il reato di mafia non basti assumere pose da malandrini, in un contesto ristretto come un tavolo di una bocciofila, e manifestare intenti criminali, senza che all’esterno di quel circolo ci sia prova di comportamenti realmente conseguenti. Tanto più che «la piattaforma probatoria dell’intero procedimento è costituita in massima parte, se non esclusivamente, da intercettazioni».
«Impossibile dire che esiste quella ‘ndrina»
Perché sia mafia, insomma, ci si deve avvalere concretamente del metodo mafioso e non solo enunciarlo. E di ciò occorre un riscontro nell’azione della cosca, la cui forza di intimidazione deve essere percepita come tale all’esterno. Altrimenti i giudici, almeno quelli che si sono occupati di questo caso, prendono atto «dell’impossibilità», sulla base di tutto quello che è confluito nell’indagine, di «affermare l’esistenza, nella cittadina svizzera di Frauenfeld, di un’articolazione di ‘ndrangheta».
La sede della Corte di Cassazione a Roma
Nessuna pena per le intenzioni
Non basta nemmeno che vengano focalizzate delle gerarchie determinate con il conferimento di cariche e doti. Richiamando il contenuto di un altro recente pronunciamento della Cassazione (27 maggio 2021), i giudici della Corte d’appello di Reggio concludono infatti che «persino l’accertato possesso di una dote di ‘ndrangheta, come nel caso in esame, esige che il vincolo criminoso si sia esteriorizzato e l’ulteriore coevo accertamento – in capo all’agente – di una condotta materiale nell’alveo del consorzio illecito per poter così ritenere integrata una sua condotta penalmente rilevante (un fatto dunque) ex art. 416 c.p., piuttosto che un qualcosa di confinato nel perimetro delle intenzioni, come tali irrilevanti per il noto principio per cui cogitationis poenam nemo patitur». Tradotto: per quanto si atteggi a guappo, nessuno può essere punito per i propri – certamente esecrabili – propositi se alle parole non seguono i fatti.
Una decisione che sarebbe stata inficiata «dalla sottovalutazione delle proprie esperienze di funzioni direttive inquirenti e i relativi risultati nella repressione del fenomeno di criminalità organizzata, in particolare la cosiddetta mafia garganica».
È solo uno stralcio delle motivazioni con cui il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso del magistrato Domenico Angelo Raffaele Seccia e annullato la nomina di Giovanni Bombardieri a capo della Procura di Reggio Calabria.
Il ricorso di Seccia
Ex procuratore capo di Lucera e oggi procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Seccia era uno dei magistrati che, ormai oltre quattro anni fa, concorrevano per il posto lasciato vacante da Federico Cafiero de Raho, nel frattempo diventato Procuratore nazionale antimafia. In quell’occasione, siamo all’11 aprile 2018, a spuntarla fu proprio Bombardieri, che in quel periodo era procuratore aggiunto di Catanzaro.
Domenico Seccia
Ma Seccia ha imbastito una lunga battaglia davanti alla giustizia amministrativa che, oggi, ha avuto l’esito finale.
La decisione dei giudici ha ribaltato quanto deciso, in prima istanza, dal Tar del Lazio, che aveva respinto il ricorso di Seccia, che non si è arreso e ha avuto ragione davanti al Consiglio di Stato.
La mafia garganica sottovalutata
Secondo Seccia, il Consiglio Superiore della Magistratura non avrebbe valutato correttamente il suo apporto alle inchieste sulla mafia garganica, prediligendo l’esperienza del calabrese Bombardieri nel contrasto alla ‘ndrangheta, presente nel territorio di competenza dell’ufficio di Procura oggetto dell’incarico.
Nel proprio ricorso, infatti, Seccia sottolineava che «ulteriori censure hanno riguardato il giudizio di prevalenza espresso nei confronti del dottor Bombardieri per i profili delle capacità organizzativa, capacità relazionale ed informatica, oltre che la carenza di istruttoria con riguardo all’acquisizione del parere attitudinale e alla valutazione del progetto organizzativo per l’ufficio da conferire formulato da Seccia».
Le motivazioni della sentenza
Alla fine, quindi, viene premiata la pervicacia di Seccia. Il Consiglio di Stato, infatti, ha indicato la delibera del Csm come «carente per non aver minimamente considerato l’esperienza del dottor Seccia nella trattazione dei procedimenti sui reati associativi, in cui il ricorrente ha svolto funzioni di coordinamento investigativo, in virtù dell’incarico di coordinatore della Direzione distrettuale antimafia di Bari».
Inoltre, stando alla sentenza del Consiglio di Stato, la delibera del Csm «trascura le esperienze direttive di Seccia, di cui Bombardieri è privo, per avere svolto solo funzioni semidirettive, e conseguentemente i risultati ottenuti dal primo, benché questi emergano dal suo fascicolo personale agli atti della procedura concorsuale in contestazione».
“Illogica prevalenza attribuita a Bombardieri”
Adesso, quindi, si rimette tutto in discussione. La nomina di Bombardieri è nulla e «il Consiglio superiore della magistratura dovrà pertanto riformulare il giudizio comparativo in conformità a quanto accertato nel giudizio».
Questo perché, come emerge sempre dalla sentenza, ci sarebbe stata una «ingiustificata ed illogica prevalenza attribuita al dottor Bombardieri per la maggiore conoscenza del fenomeno criminale ‘ndranghetista. La sua collocazione geografica nel distretto di Reggio Calabria non vale infatti a giustificare sul piano normativo e del testo unico sulla dirigenza giudiziaria una preferenza sul piano attitudinale di un aspirante magistrato rispetto agli altri».
Giovanni Bombardieri e il rapporto con Luca Palamara
Un nuovo capitolo, dunque, nella nomina per il capo della Procura di Reggio Calabria. Di tale incarico, infatti, si parlava già nelle chat di Luca Palamara, agli atti del processo che lo vede imputato e corpus del suo fascicolo che ha provocato la radiazione dalla magistratura, dopo lo scandalo delle nomine nel Consiglio Superiore della Magistratura.
Luca Palamara, originario di Santa Cristina d’Aspromonte, ma ben presto volato a Roma per fare carriera anche in seno al Consiglio Superiore della Magistratura. Per anni, a Palazzo dei Marescialli, Palamara sarebbe stato potentissimo.
L’ex magistrato Luca Palamara
Ed è notorio il legame tra Bombardieri e Palamara. Entrambi membri di Unicost, la corrente maggioritaria della magistratura. Palamara sarà anche presente all’insediamento dell’amico Bombardieri al sesto piano del Cedir di Reggio Calabria.
La nomina di Bombardieri nelle chat di Luca Palamara
Sono molto lunghe le conversazioni via chat tra Bombardieri e Palamara: temi personali e scherzosi, come avviene tra due amici. Ma non solo. Nelle settimane antecedenti alla nomina a procuratore di Reggio Calabria, Bombardieri chiede «novità?» all’amico Palamara. «Tutto procede bene», è una delle risposte. E, all’uscita dal voto in Commissione, la Quinta, quella che decide sugli incarichi e che in quel periodo è presieduta proprio da Palamara, il primo a saperlo, via chat, è proprio l’interessato. Che ringrazia: «Grande Presidente!», scrive su Whatsapp l’attuale procuratore di Reggio Calabria. «Se riesco ti porto al Plenum l’11 aprile», dice Palamara. Il Plenum, infatti, è l’organo del Csm che ratifica le nomine, talvolta solo una formalità quando il voto fuoriuscito dalla Commissione è solido.
La sede della Procura di Reggio Calabria
Palamara tiene molto alla nomina di Bombardieri a Reggio Calabria. In una chat con terze persone scrive così: «Per me Giovanni Bombardieri è come se fossi io, ti prego di non dimenticarlo». In un gruppo Whatsapp di magistrati l’ex membro del Csm comunica in anticipo l’avanzamento di Bombardieri verso la Procura di Reggio Calabria: «Saluti da Bombardieri» dice in una chat. La risposta di uno dei partecipanti: «Ci stai facendo capire tra le righe che Bombardieri è stato mandato dalla commissione a fare il procuratore di Reggio Calabria all’unanimità? Cazzo». E Palamara replica: «Ora penso di poter chiudere la mia esperienza qui». Resta da capire se, con la sentenza del Consiglio di Stato, terminerà anche l’esperienza di Bombardieri a capo della Procura reggina.
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