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  • Francesco Cannizzaro, il potere logora chi non ce l’ha (ma lo ostenta)

    Francesco Cannizzaro, il potere logora chi non ce l’ha (ma lo ostenta)

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    Cosa resta dei milioni annunciati per il rilancio dell’aeroporto di Reggio Calabria? O degli impegni presi per i tirocinanti calabresi? O, ancora, del travestimento alla Camera dei Deputati, con l’intervento con tanto di sciarpa della Reggina al collo? Poco, forse nulla.
    Le elezioni comunali in provincia di Reggio Calabria hanno segnato una clamorosa debacle per il deputato di Forza Italia, Francesco Cannizzaro. Tanto da spingerlo a una accorata (e, per qualcuno, patetica) lettera aperta in cui ha giustificato il proprio infruttuoso impegno.

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    Francesco Cannizzaro con la sciarpa della Reggina al collo

    Cannizzaro annuncia cose

    I più avvezzi all’uso dei social conosceranno le pagine satiriche “Forze dell’ordine che indicano…”, presenti tanto su Facebook, quanto su Instagram. Ebbene, qualche giovane nerd di buona volontà, potrebbe creare la pagina “Cannizzaro annuncia cose”.
    Un continuo fluire verso le redazioni giornalistiche di comunicati stampa, note, interventi, in cui il deputato, che si è cucito addosso il ruolo di plenipotenziario di Forza Italia sul territorio reggino, comunica con toni trionfalistici di aver risolto questo o quel problema. Di aver fatto avere questo o quel finanziamento in tema di trasporti, di turismo, di welfare. Ma cosa resta?

    Non proprio nulla. A quasi 40 anni, infatti, Cannizzaro può già vantare un curriculum politico lunghissimo. Oggi parlamentare della Repubblica Italiana, ha già rivestito il ruolo di consigliere regionale ed è oggi coordinatore provinciale di Forza Italia a Reggio Calabria. Nell’aprile 2021 viene anche nominato responsabile per il dipartimento Sud.

    Chi è Francesco Cannizzaro?

    Francesco Cannizzaro da Santo Stefano d’Aspromonte, è unanimemente riconosciuto come il figlioccio politico dell’ex senatore Antonio Caridi, arrestato con l’accusa di essere stato lo strumento attraverso cui la cupola massonica della ‘ndrangheta si sarebbe infiltrata nelle istituzioni, ma assolto in primo grado nell’ambito del processo “Gotha”. E questo nonostante la Dda di Reggio Calabria ne avesse chiesto la condanna a 20 anni di reclusione, considerandolo vicino tanto alle cosche della fascia tirrenica, Raso-Gullace-Albanese, quanto ai Pelle del mandamento jonico e alla famiglia reggina dei De Stefano.

    Cannizzaro da anni è deputato di Forza Italia, avendo anche schivato qualche pericoloso dardo giudiziario. Proprio con Caridi verrà intercettato nell’ambito dell’inchiesta “Alchemia” in casa di soggetti che le inchieste (ma non le sentenze) indicavano vicini alle cosche. Indagato e poi archiviato su stessa richiesta della Dda reggina per presunti rapporti con le famiglie mafiose dell’area grecanica.

    Da ultimo, i magistrati non hanno ravvisato niente di penalmente rilevante nemmeno nelle denunce effettuate dall’allora presidente del Parco Nazionale d’Aspromonte, Giuseppe Bombino, circa presunte ingerenze politiche di Cannizzaro e altri soggetti sul Parco.

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    Antonio Caridi in Senato

    Il bacino elettorale di Francesco Cannizzaro

    Proprio dai comuni che scendono la Vallata dalla “sua” Santo Stefano e da quelli della Piana di Gioia Tauro, Cannizzaro ha avuto alcune delle delusioni politiche più cocenti nell’ultimo turno di elezioni comunali. A cominciare da Villa San Giovanni, dove la giornalista e avvocato, Giusy Caminiti, ha effettuato l’impresa, battendo il candidato Marco Santoro e diventando il primo sindaco donna della città dello Stretto. Lo ha fatto senza l’appoggio dei partiti tradizionali e, anzi, scontrandosi contro il centrodestra compatto, nel regno dell’altro parlamentare forzista Marco Siclari. Tutti uniti e schierati al massimo della potenza al fianco di Santoro, ma sconfitti.

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    Giusy Caminiti

    Stesso discorso a Palmi, dove l’uscente Giuseppe Ranuccio ha sconfitto nettamente l’ex primo cittadino Giovanni Barone, anch’egli sostenuto da Cannizzaro e da tutto il centrodestra. Caminiti e Ranuccio, entrambi di estrazione di centrosinistra, ma non sostenuti da liste del Partito Democratico, che si è materializzato solo quando era il tempo di intestarsi la vittoria. Vincente quando si nasconde. Qualche domanda bisognerebbe farsela anche da quell’altra parte.

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    Giuseppe Ranuccio

    La lettera patetica

    Chi non lascia, ma raddoppia, è proprio Cannizzaro. Travolto dalle critiche e dalle polemiche, alla fine ha dovuto rompere il silenzio e rivolgersi al suo elettorato, ma anche al suo partito, per tentare di salvare il salvabile di una tornata elettorale catastrofica: «Politica, per me, è metterci la faccia» ha esordito. Nel proprio intervento, il parlamentare forzista che pure (a Villa San Giovanni soprattutto) era convinto di riuscire a spuntarla ha cambiato ora versione: «Ci sono dei Comuni dove la sconfitta era quasi scontata. Chi fa politica da 20 anni lo percepisce. Eppure ci sono andato, ci siamo andati, consapevolmente, anche solo per un comizio, un saluto, una parola di sostegno».

    Insomma, un modo per dire, neanche io che sono un fuoriclasse posso fare miracoli. Ma l’apice del pathos arriva con le domande retoriche rivolte al lettore: «E allora vi chiedo, con quale scusa mi sarei dovuto sottrarre alle chiamate di quei giovani che ancora credono nella politica e che magari hanno presentato una proposta costruendo una lista?! C’è chi avrebbe risposto che “un parlamentare, un dirigente nazionale, si espone solo laddove ha la certezza di vincere”… ho ricevuto questa risposta un paio di volte quando ero alle prime esperienze con la politica. E da quelle esperienze ho imparato a non essere come altri».

    Francesco Cannizzaro e i sogni di sindacatura

    La verità è che Cannizzaro, ora, deve giustificare con gli altri colonnelli, non solo di Forza Italia, ma anche del centrodestra, le scelte politiche. Soprattutto per lui che, in maniera neanche tanto nascosta, da più di qualche anno sogna di correre per la poltrona di sindaco di Reggio Calabria. Dopo aver tentato (invano) di posizionare la cugina Giusi Princi a Palazzo San Giorgio, si è “accontentato” di catapultarla alla vicepresidenza della Regione.

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    Cannizzaro e Princi

    Ma questa mossa d’imperio potrebbe aver incrinato qualcosa nello scacchiere del centrodestra. E se anche i risultati (per di più con un trend generale che premia l’ala conservatrice) non arrivano, allora davvero qualcosa può essersi rotto negli equilibri fin qui tenuti dall’apparentemente uomo forte di Forza Italia in provincia di Reggio Calabria.

  • Reggio Calabria, dove la bellezza non è gradita

    Reggio Calabria, dove la bellezza non è gradita

    È l’ennesimo atto che, negli anni, va a colpire la città di Reggio Calabria. Come una mano che tiene la testa sott’acqua e impedisce di risalire e respirare. Così, l’azione dei vandali, ciclicamente, interviene sulla città, ovunque vi sia bellezza e aggregazione. Come a voler frustrare qualsiasi tentativo di affrancamento dal brutto, dal degrado.

    Motorino in fiamme tra le colonne di “Opera”

    Non se n’è accorto nessuno. Almeno fin quando le immagini non sono diventate virali sui social. Ma come abbia fatto quel motorino ad arrivare lì e ad essere divorato dalle fiamme senza che nessuno potesse notare e impedire ciò che stava per succedere, è un mistero.

    Proprio alcuni giorni fa, il Corriere della Sera aveva dedicato uno spazio al lavoro di Edoardo Tresoldi, l’installazione Opera. Le colonne che ornano una delle parti più frequentate del lungomare di Reggio Calabria sono, probabilmente, lo scorcio più “instagrammabile” del centro cittadino. E sui social ci sono finite anche questa volta. Perché tutta la città sta commentando quelle immagini di un motorino, totalmente divorato dalle fiamme, tra le installazioni commissionate dal Comune.

    Incredibile come, in pieno centro, in un orario, quello serale, in cui la via Marina è gremita di persone tutto ciò sia potuto accadere ed essere scoperto (e pubblicato sui social) solo quando il danno era stato fatto. Danno d’immagine, soprattutto. Perché ancora una volta, a essere colpita è la bellezza cittadina.

    Lo sdegno di Falcomatà

    Quell’immagine è stata pubblicata anche dal sindaco sospeso della città, Giuseppe Falcomatà. Proprio colui che, nonostante le polemiche per la spesa effettuata, aveva voluto fregiare il lungomare intitolato al padre Italo, sindaco della Primavera Reggina, delle colonne di Opera.

    «La settimana scorsa abbiamo letto con grande orgoglio sullo speciale living arte del Corriere della Sera che Opera di Tresoldi, è fra i 25 monumenti di arte pubblica più apprezzati in Italia. Stasera dimostriamo di essere primi in assoluto nella speciale classifica della stortìa, o di qualcos’altro… (questo ce lo dirà presto la Polizia che ha già avviato le indagini)», ha scritto non molto tempo fa in un post pubblicato sui social.

    «Se si insegnasse la bellezza…»

    «Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà». È la frase più celebre tra quelle attribuite all’attivista antimafia siciliano, Peppino Impastato. Si attaglia perfettamente alla realtà reggina. Una città spesso indicata come la capitale della ‘ndrangheta, dove viene frustrato ogni tentativo di risalita dallo squallore.

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    La scuola d’infanzia del quartiere Arghillà dopo il passaggio dei vandali

    Sono tanti, tantissimi, negli anni, gli atti vandalici che hanno colpito la città, in numerosi luoghi simbolici. Dalla Croce Rossa Italiana ai parchi giochi per bambini, persino scuole e asili. Soprattutto se in quartieri periferici e degradati, luoghi di frontiera, come Arghillà, dove nel novembre 2020 viene vandalizzata una scuola d’infanzia. Lì dove un asilo o una giostrina rappresentano un avamposto di cultura per togliere i più giovani dalla strada e, quindi, dalla delinquenza. Terra bruciata, materialmente e moralmente, che le realtà cittadine hanno tentato, già nelle ore successive, di far rifiorire, ripristinando e ricostruendo il luogo devastato.

    Distruggere il futuro dei bambini

    Nel novembre 2016, ignoti danno alle fiamme l’asilo di Santa Venere, prossimo all’inaugurazione. In un luogo periferico, collinare, difficile anche da raggiungere per via di strade mai completate. Pochi giorni prima, invece gli atti vandalici dell’asilo nido di Archi, il quartiere da cui provengono le famiglie più potenti della ‘ndrangheta.

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    L’emeroteca di via Palmi dopo il rogo di marzo 2018

    Fiamme che devono estirpare ogni speranza di riappropriazione del territorio, di integrazione sociale. Come l’incendio all’ex emeroteca di via Palmi, destinata dall’amministrazione reggina alla creazione di un centro di supporto per le persone down e le loro famiglie. È il marzo 2018. Pochi mesi dopo viene devastato l’asilo comunale Federico Genoese, nella centrale via Aschenez.

    “Quando la musica si spegne”

    È stato ricostruito, con una partecipazione popolare unica,  il Museo dello Strumento Musicale, totalmente distrutto da un incendio nel novembre 2013, in uno dei momenti più bui della storia della città, che un anno prima aveva subito l’ignominia dello scioglimento del Consiglio comunale per contiguità con la ‘ndrangheta, dopo gli anni del “Modello Reggio”.

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    L’incendio nel Museo dello Strumento musicale

    When the music’s over” cantavano i Doors. Duecento metri quadri di spazio espositivo ricavato nell’edificio dismesso dell’ex Stazione Lido della città, ubicata nella Pineta Zerbi, anche in questo caso, a pochi metri dal lungomare cittadino. Bruciata l’intera collezione di strumenti e libri antichi. Un segnale chiaro. Bruciare la magia che crea la musica, proprio come si bruciavano i libri nel distopico romanzo Fahrenheit 451 di Ray Bradbury.

    Comunità disgregate

    Se una vittoria vera è stata raggiunta, da parte della ‘ndrangheta, non è solo quella di essere ormai capace di trattare da pari a pari con i narcos sudamericani o di infiltrare le istituzioni e controllare gli appalti. La vera vittoria è aver disgregato le comunità, convincendo la cittadinanza che è inutile agitarsi troppo, perché le cose non cambieranno mai.

    Atti vandalici nella scuola di Salice

    E così, negli anni non si contano gli atti nei confronti delle strutture e dei luoghi che possono rappresentare cultura e aggregazione, soprattutto per i più giovani: l’incendio alla villetta di Spirito Santo, i vandali nella scuola di Salice, il Parco Botteghelle, le giostrine del Galluppi. E, ancora, i danneggiamenti alla piscina del Parco Caserta o l’incendio al centro sportivo del viale Messina. Strutture dove i giovani vanno ad allenarsi e dove si realizzano momenti di socialità e condivisione. Che evidentemente vanno frustrati sul nascere perché, sempre tornando a Impastato, «bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore».

    Crimini impuniti

    Si colpisce tutto, in maniera indiscriminata. A poco più di un mese dall’inaugurazione avvenuta nel centro di Reggio Calabria, in piazza Sant’Agostino, a pochi passi dal Duomo e dalla stazione ferroviaria, alcuni mesi fa la piccola biblioteca internazionale “Umberto Zanotti Bianco” è stata danneggiata da ignoti.

    Poco importa che sia “piccola”. A essere grande è il messaggio, che è un messaggio di mentalità mafiosa. Non vi sono elementi per ipotizzare la presenza della criminalità organizzata dietro tali eventi. In realtà, non vi sono elementi per ipotizzare alcunché. Perché la quasi totalità degli atti vandalici, degli incendi e delle devastazioni che hanno colpito alcuni luoghi simboli della città, è rimasta fin qui senza colpevoli. Ma il messaggio culturale è chiarissimo.

  • Delirio e paura: il calcio a Reggio ancora appeso ai suoi 13 giugno

    Delirio e paura: il calcio a Reggio ancora appeso ai suoi 13 giugno

    Da un 13 giugno ad un altro. Dal traguardo della massima serie, allo spettro della scomparsa dal mondo del pallone. Ha del fascino (crudele) la casualità che fa coincidere la data del massimo risultato sportivo raggiunto dalla compagine amaranto, con il giorno che, in un modo o in un altro, potrebbe segnare la prossima ventura del calcio professionistico a Reggio Calabria.

    Ma da quel 13 giugno del ’99, quando un destro sbilenco di Tonino Martino mandò in orbita una città intera, al 13 giugno del ’22, con il presidente Gallo ai domiciliari e la società amaranto sul filo della sopravvivenza, di cose ne sono cambiate molte. E, tutte, in peggio.

    Il fallimento della storica Reggina Calcio nel 2015, la ripartenza dalla serie D con la famiglia Praticò al comando e il ripescaggio tra i prof, lo spettro del nuovo fallimento e l’arrivo tutto lustrini di Gallo con il sontuoso ritorno in serie B, fino alla guardia di finanza tra i campetti del Sant’Agata, con la Reggina trasformata in una banale “scatola cinese” attraverso cui il “presidente col catamarano” giocava con soldi, proprietà e sentimenti di una tifoseria intera.

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    Luca Gallo, presidente della Reggina

    Sull’ottovolante

    Da Foti a (forse) Saladini, passando per Praticò e Gallo: la storia recente della Reggina è come un gigantesco ottovolante a cui sono rimasti aggrappati tifosi, calciatori e semplici lavoratori. Un ottovolante che potrebbe smettere di correre se dovesse saltare la travagliatissima trattativa tra l’imprenditore lametino Felice Saladini e Fabio De Lillo, un passato in Campidoglio e alla Pisana e braccio operativo di Luca Gallo per nomina diretta dell’amministratore giudiziario Katiuscia Perna, terzo inevitabile invitato ad una tavola dove negli ultimi giorni (oltre al Gip del tribunale di Roma a cui spetterà comunque l’ultima parola), si sono aggiunti i molti che lamentano i «poi ndi virimu» con cui la società amaranto avrebbe saldato buona parte dei propri fornitori negli ultimi tre anni.

    Una giostra che non si è fatta mancare proprio niente, neanche il presunto interessamento di una serie di imprenditori cinesi a cui, in tempi non sospetti, Antonio Morabito – reggino di nascita, per anni pezzo da novanta della Farnesina ed ex ambasciatore d’Italia nel principato di Monaco – avrebbe suggerito proprio la società amaranto per la loro personale “lista della spesa” sul mercato italiano delle offerte. Una storia di cui si è persa traccia e che è costata all’ex feluca una delle accuse che lo vedono sotto processo a Roma in questi giorni.

     

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    Walter Mazzarri e Lillo Foti, protagonisti delle pagine più belle della storia amaranto in A

     

    E poi «il soggetto giuridico straniero» di cui ha parlato l’avvocato Giosuè Naso, legale di Gallo, che avrebbe dovuto rilevare la Reggina in seguito al sequestro preventivo che le società del patron amaranto avevano subito nel gennaio dello scorso anno, ed evaporato dietro i «non vendo» sogghignati dall’imprenditore romano in una conferenza stampa dai toni surreali, che a vederla adesso ricorda la «performance» della testata ne La grande bellezza.

    Ultima chance

    Il “toto mercato” indica in oggi, massimo domani, il termine ultimo per capire che sorte attende la Reggina. I tempi sono strettissimi, le procedure burocratiche che coinvolgono anche il Tribunale di Roma sono intricate, e il termine ultimo per l’iscrizione nel campionato cadetto incombe. Senza dimenticare che anche l’accordo per i debiti da spalmare con il fisco – poco più di una decina milioni – è ancora da mettere nero su bianco. Ma seppure risicati, i tempi ci sarebbero.

    Archiviati i tardivi appelli dei sindaci facenti funzione, e riposte le bandiere della disperata e bellissima manifestazione dei tifosi per le vie del centro al grido «Salviamo la Reggina», la città ora è come sospesa tra scariche di ottimismo dirompente e baratri di «non c’è nenti». Anche le invettive a Luca Gallo si sono attenuate con il passare dei giorni: tutto in secondo piano, in attesa di passare la nottata. E se, almeno ufficialmente, nulla trapela della trattativa in corso, i segnali di un possibile esito positivo continuano a rimbalzare sui mezzi d’informazione cittadina. Reggina Tv esclusa, visto che per ordine del direttore, sono stati sospesi tutti i servizi curati dalla corposa redazione giornalistica che per anni ha gestito la comunicazione ufficiale del club, con metodi vicini a quelli della Pravda.

    Alla ricerca del salvatore per la Reggina calcio

    Nonostante le astruse ricerche di riservatezza avanzate da parte della società dello Stretto, il nome di Felice Saladini è spuntato presto come possibile nuovo acquirente della Reggina. Giovane, preparato, calabrese “di ritorno”, ambizioso: il trentottenne lametino è alla guida del gruppo “Meglio Questo” di cui è fondatore e Ceo. Un piccolo impero nella gestione dei clienti con una buona crescita di fatturato negli anni che ha consentito all’imprenditore “emigrato” da Milano, di scalare i vertici del mondo economico calabrese. E se il mondo degli affari sembra sorridere all’imprenditore che potrebbe salvare la Reggina, la vera fissazione di Saladini sembra essere proprio lo sport. All’inizio fu il basket, con l’impegno preso alla guida della Planet Catanzaro traghettata fino alla B2.

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    L’imprenditore lametino, Felice Saladino

    Poi venne il calcio. Le cronache raccontano dell’interesse – siamo nell’agosto del 2020 – che Saladini avrebbe avanzato nei confronti dell’Arezzo, nobile decaduta di un calcio ormai sparito. Di quella trattativa restano però solo i rumors dei giornali. Discorso diverso invece il caso del Fc Lamezia, compagine creata proprio su input di Saladini che ha fuso le varie società cittadine e che nell’ultimo campionato di serie D si è piazzata al quarto posto. Ma il percorso è stato tutt’altro che semplice visto che gli ultras delle squadre interessate si sono messi di traverso all’intera operazione ingrassando i social di insulti e invettive e arrivando ad aggredire fisicamente il presidente della nuova società: proprio la sera della presentazione della squadra infatti, un gruppuscolo di esagitati raggiunse Saladini in un ristorante del centro e oltre alle parole quella volta, volò anche qualche schiaffone.

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    I tifosi della Reggina
  • Operazione della Gdf reggina: sequestrati 300 kg di cocaina a Salonicco

    Operazione della Gdf reggina: sequestrati 300 kg di cocaina a Salonicco

    I finanzieri del Comando provinciale di Reggio Calabria, sotto il coordinamento della Dda diretta da Giovanni Bombardieri, in collaborazione con le autorità greche, hanno sequestrato a Salonicco circa 300 kg di cocaina, suddivisa in 260 panetti. Sono stati, inoltre, arrestati 4 componenti un’organizzazione criminale dedita al traffico di sostanze stupefacenti internazionale, di nazionalità inglese, di 38, 48, 45 e 52 anni.

    Operazione internazionale antidroga 

    Lo smantellamento del circuito è il risultato della cooperazione internazionale svolta, anche tramite il II Reparto del Comando generale della Guardia di Finanza e della Direzione centrale per i servizi antidroga, con gli agenti della Drug Enforcement Administration di Roma e Atene, della Polizia del Dipartimento degli Affari Generali della Sottodirezione delle Operazioni Speciali-Divisione Narcotici di Salonicco, dell’Ufficio Divisione Narcotici di Atene, del Servizio di Cooperazione Internazionale di Polizia all’Ambasciata d’Italia ad Atene, dell’Ufficio Doganale di Salonicco e la Sottodirezione per le operazioni speciali di Salonicco/T.M.K.E.

    La coca avrebbe fruttato 10 milioni di euro

    Il sequestro è giunto a conclusione di indagini e analisi e riscontri effettuati su oltre 2mila contenitori provenienti dal continente sudamericano svolte dai militari del Gruppo della Guardia di Finanza di Gioia Tauro e alle investigazioni svolte parallelamente dalla polizia ellenica. La droga è stata trovata e sequestrata in una lussuosa villa nel Comune di Thermi (Salonicco). Oltre allo stupefacente sono state sequestrate una pistola con 9 cartucce, una scatola contenente 41 cartucce, 2 radio portatili, 2 interferometri di segnale, 2 dispositivi di posizionamento elettronici, 1mila euro derivanti dal traffico di droga, guanti da lavoro, nastri isolanti, tagliacarte in metallo e 11 telefoni cellulari utilizzati per le attività illecite. La cocaina sequestrata, secondo una stima, avrebbe potuto fruttare alla criminalità un introito di circa 10 milioni di euro.

  • Processo Gotha: «Giorgio De Stefano non è un “invisibile” della ‘ndrangheta»

    Processo Gotha: «Giorgio De Stefano non è un “invisibile” della ‘ndrangheta»

    Sono perentorie le motivazioni scritte e depositate dalla Corte di Cassazione sul maxiprocesso “Gotha”. Un procedimento scaturito da un’inchiesta con cui la Dda di Reggio Calabria ha indagato e portato a processo la presunta componente occulta della ‘ndrangheta. Si tratta del troncone del procedimento celebrato con rito abbreviato e già approdato all’ultimo grado di giudizio. Il principale imputato era l’avvocato Giorgio De Stefano, considerato un’eminenza grigia della ‘ndrangheta, anello di congiunzione tra la componente militare e i livelli occulti della massoneria deviata.

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    La sede della Corte di Cassazione a Roma

    La posizione di Giorgio De Stefano

    E riguarda proprio la posizione dell’avvocato De Stefano il giudizio maggiormente critico degli Ermellini. Mentre si è ancora in attesa delle motivazioni di primo grado del troncone principale, celebrato con rito ordinario, l’avvocato De Stefano ha scelto di essere giudicato con l’abbreviato. La Cassazione fa sostanzialmente in coriandoli la sua condanna rimediata in appello a 15 anni e 4 mesi di carcere. 

    La Suprema Corte, con la sentenza del 10 marzo scorso, ha annullato senza rinvio in relazione a tutti i fatti avvenuti fino al 2005, ritenuti già “coperti” da precedenti pronunce giudiziarie. De Stefano, infatti, con un passato politico in riva allo Stretto, è stato già condannato definitivamente negli anni ’90 per concorso esterno in associazione mafiosa. E poi coinvolto nel cosiddetto “Caso Reggio” che, però, a Catanzaro non ebbe alcun esito.

    Per quanto concerne invece i fatti successivi al 2005, la Cassazione ha annullato la condanna nei confronti di De Stefano con il rinvio del caso alla Corte d’Appello per un nuovo processo.

    «Illogico»

    La Cassazione si sofferma sulla posizione sovraordinata di De Stefano in seno alla ‘ndrangheta, ipotizzata dagli inquirenti. Ed è qui che usa le parole più dure. Nel prospetto accusatorio, infatti, De Stefano sarebbe uno degli “invisibili”, quei soggetti, cioè, superiori all’ala militare della ‘ndrangheta. E quindi capaci di relazionarsi con la massoneria deviata, ma anche con i servizi segreti. Un alter ego di un altro avvocato ed ex politico, l’ex parlamentare Paolo Romeo, condannato in primo grado nel procedimento celebrato con rito ordinario.  

    Ma i giudici non ritengono provata tale circostanza, tutt’altro. «Se la struttura invisibile – si legge nella sentenza – deve essere composta da soggetti la cui appartenenza alla ‘ndrangheta è sconosciuta a coloro che compongono la struttura visibile ed operativa del sodalizio criminale, onde evitare che i componenti della struttura invisibile possano essere indicati quali appartenenti al sodalizio criminale da eventuali collaboratori di giustizia, appare illogico sostenere che Giorgio De Stefano potesse contemporaneamente far parte sia della struttura invisibile, sia della struttura visibile ed operativa in qualità peraltro, di capo della cosca De Stefano».

    Visibili e invisibili

    L’ipotesi accusatoria della Dda reggina considera la ‘ndrangheta in due distinte componenti.  Una “visibile”, operante cioè attraverso metodi “classici” della criminalità organizzata mafiosa e uomini perfettamente “riconoscibili”.  Ed una “invisibile” o “riservata”, collocata al vertice dell’associazione con compiti di direzione e di individuazione delle scelte strategiche dell’associazione unitariamente intesa. Deputata a mantenere i rapporti con apparati istituzionali, imprenditoria e professionisti. Anche attraverso la partecipazione ad organizzazioni caratterizzate da segretezza del vincolo, come la massoneria. Tutto per conseguire l’infiltrazione in apparati istituzionali, con il fine ultimo di mantenere in vita l’associazione.

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    L’avvocato Paolo Romeo

    E i capi della componente “invisibile” sarebbero stati proprio Giorgio De Stefano e Paolo Romeo. Proprio con riferimento a una conversazione intercorsa tra De Stefano e Romeo, in cui i due parlavano delle elezioni regionali del 2010, la Cassazione mette nero su bianco: «Non si fa alcun accenno all’utilizzo di metodi mafiosi per influire sul voto o ad un intervento della ‘ndrangheta nella competizione elettorale» e «il voler ravvisare in tale conversazione una elaborazione della strategia della ‘ndrangheta unitaria per influire sulla competizione elettorale regionale appare un’evidente forzatura logica». In diversi passaggi, i giudici della Cassazione definiscono «congetture» alcune delle conclusioni cui sarebbero giunti gli inquirenti prima e i giudici della Corte d’Appello poi.

    La vicenda dell’ex bar Malavenda

    Lo fa anche con riferimento alla vicenda riguardante l’ex bar Malavenda, ubicato alle porte del quartiere Santa Caterina, territorio storicamente controllato dalle cosche De Stefano e Tegano. Su quel bar si sarebbero concentrati appetiti di schieramenti ‘ndranghetistici avversi, che si sarebbero contrastati a suon di bombe e attentati. E, per dirimere la questione, uno dei litiganti, l’imprenditore Nucera si sarebbe rivolto proprio all’avvocato De Stefano, definito “il massimo”.

    Ma anche in questo caso, la Cassazione parla di illogicità: «Se la struttura invisibile deve essere composta da soggetti la cui appartenenza alla ‘ndrangheta è sconosciuta a coloro che compongono la struttura visibile ed operativa del sodalizio criminale, onde evitare che i componenti della struttura invisibile possano essere indicati quali appartenenti al sodalizio criminale da eventuali collaboratori di giustizia, appare illogico sostenere che Giorgio De Stefano potesse contemporaneamente far parte sia della struttura invisibile, sia della struttura visibile ed operativa in qualità, peraltro, di capo della cosca De Stefano».

    Ma non solo. Se De Stefano è un “invisibile”, perché dovrebbe palesarsi? «Peraltro non si vede perché, stante la assoluta segretezza che avrebbe dovuto ammantare la partecipazione alla ‘ndrangheta di Giorgio De Stefano quale componente della struttura occulta, venendo questa celata anche agli appartenenti al sodalizio criminale, Giorgio De Stefano avrebbe dovuto rivelare tale sua qualità al Nucera, che non è un associato al sodalizio». scrivono i giudici.

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    La sede della Corte d’appello di Reggio Calabria

    Le date

    Per i giudici di Piazza Cavour, non è chiaro «in cosa si sarebbe concretamente sostanziato il contributo arrecato dal De Stefano quale componente della struttura invisibile della ‘Ndrangheta unitaria. Per affermare la sussistenza della componente occulta della ‘Ndrangheta i giudici di appello si sono basati anche su collaboratori di giustizia, le cui dichiarazioni risalgono ad un periodo anteriore al 2006».

    Essendo quindi De Stefano già condannato nel cosiddetto processo “Olimpia” per concorso esterno in associazione mafiosa, non può essere considerato colpevole fino al 1991. Scrive la Cassazione: «L’odierno ricorrente non può essere nuovamente processato per il reato di partecipazione alla medesima associazione commesso sino al 1991, essendo irrilevante che in questa sede si contesti al De Stefano la partecipazione alla ‘ndrangheta quale associazione unitaria e non quale partecipazione alla singola cosca, atteso che, stante la unitarietà della ‘ndrangheta, affermata anche nel presente processo, la partecipazione alla cosca vale anche quale partecipazione alla ‘ndrangheta unitariamente intesa, laddove si affermi che tale associazione è unitaria».

    Giudicato nel “Caso Reggio”

    E, inoltre, De Stefano è stato già giudicato, fino al 2005, nel cosiddetto “Caso Reggio”: un’inchiesta in cui si ipotizzava una sorta di complotto ai danni di alcuni magistrati del distretto reggino, con l’accusa di essere capace di “aggiustare” i processi. Un’inchiesta finita nel nulla. Ma la medesima “qualità” (quella di “aggiustare” i processi) è tra le accuse nel processo “Gotha” che porterebbero a considerare De Stefano uno degli elementi massimi della ‘ndrangheta. Per questo, quindi, l’annullamento senza rinvio della condanna: «Le condotte ed il contributo che sarebbe stato arrecato dal De Stefano alla associazione criminale non cambiano — e già si è detto che è irrilevante che tale contributo venga inteso in un processo come in favore della singola cosca o della associazione unitariamente intesa —, mentre muta la mera qualificazione giuridica di tali condotte» –  scrive la Cassazione.

    Le dichiarazioni dei pentiti

    Per la Cassazione, i giudici della Corte d’Appello hanno sbagliato a considerare De Stefano colpevole anche per il periodo successivo al 2005. Per farlo hanno utilizzato come riscontro le dichiarazioni dei pentiti che avevano iniziato il percorso di collaborazione prima del 2006: «La Corte di appello, ritenendo non operante la preclusione derivante dal giudicato per il periodo fino al 2005 compreso, ha utilizzato le dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia che hanno riferito su fatti collocati in detto periodo e, sulla base di tali dichiarazioni, ha concluso che già in tale periodo il De Stefano rivestiva un ruolo apicale in seno alla componente riservata della ‘ndrangheta».

    Ma questo, per gli Ermellini, è stato un abbaglio colossale: «Alla luce di tale conclusione, che si pone in netto contrasto con i precedenti giudicati, ha ritenuto provata la prosecuzione della medesima condotta anche per il periodo successivo; in particolare, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che hanno riferito di condotte successive al 2005 sono state ritenute riscontrate da quelle di coloro che avevano iniziato a collaborare con la giustizia prima del 2006».

  • Taser in azione, esordio a Reggio Calabria

    Taser in azione, esordio a Reggio Calabria

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    Esordio del taser a Reggio Calabria. Lo ha sperimentato un 24enne reggino, con alcuni precedenti alle spalle, finito in manette con l’accusa di resistenza, violenza e minaccia a pubblico ufficiale.

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    Un primo piano del Taser X2

    Il giovane aveva chiamato gli operatori del 113, ai quali aveva dichiarato di aver ucciso la propria sorella.

    Taser a Reggio Calabria: incolume il giovane arrestato

    Una volta arrivati gli agenti nella sua abitazione, il ragazzo ha dato in escandescenze e ha provato ad aggredirli con un oggetto di vetro.
    I poliziotti lo hanno immobilizzato con la pistola a impulsi elettrici Taser X2 e lo hanno affidato alle cure di personale sanitario già presente in zona.
    Secondo gli agenti, l’uso del taser ha evitato conseguenze gravi per l’incolumità dell’uomo e loro stessi.

  • “Alla Salute”: on line il video di Jovanotti girato a Scilla e Gerace

    “Alla Salute”: on line il video di Jovanotti girato a Scilla e Gerace

    Da oggi è on line il video della canzone di Jovanotti “Alla Salute” girato in Calabria. Lorenzo Cherubini, 55 anni e non sentirli, diventa guida una banda per le strade di Gerace e poi canta su una barca nel mare davanti a Chianalea di Scilla. Il regista del video è un talento calabrese come Giacomo Triglia, che ha realizzato lavori per altri musicisti importanti come Dario Brunori.  Il videoclip è stato realizzato in collaborazione con la Calabria Film commission guidata dal neo presidente Anton Giulio Grande.

    Jovanotti tornerà in Calabria per il doppio appuntamento (12-13 agosto a Roccella Jonica) del Jova Beach party 2022.

  • Quasi cent’anni di solitudine

    Quasi cent’anni di solitudine

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    Del capolavoro di Garcia Marquez sembra condividere un’intuizione: le porte esistono perché qualcuno le chiuda. Per raccontare i suoi novantanove anni di vita non basterebbe un libro, figuriamoci un articolo: è la prima cosa che dice mentre ripone sul comodino il ritaglio di un giornale ingiallito e fa segno di accomodarsi. Da decenni insieme alla moglie abita in una casa di una sola stanza persa in un labirinto di strade strettissime. Il grande letto, il cucinino e la televisione che a volume alto spara le notizie del giorno.

    Cordì stringe la foto di Alvaro (Foto Salvatore Intrieri)

    Nato a Bovalino, ha passato metà della propria vita a rimediare a quella che l’ha preceduta. Degli anni di infanzia e giovinezza ricorda con orgoglio solo un’amicizia speciale, quella con Corrado Alvaro. Infatti, in una stanza disseminata di santini e immagini sacre, il posto d’onore spetta a una grande foto in bianco e nero dello scrittore di San Luca. Le sue mani la indicano stringendo convinte un accendino azzurro come i suoi occhi. La fine della sigaretta nel posacenere è il segno che possiamo iniziare.

    L’incontro di Cordì con Alvaro e Pirandello

    Alvaro e Pirandello ebbero in effetti un rapporto confidenziale, fatto di molti incontri. Lo scrittore calabrese ne riferisce in diversi episodi della sua intensa produzione letteraria. Fra queste, memorabili quelle nel libro Quasi una vita, il diario edito da Bompiani che gli valse il Premio Strega nel 1951. In quelle pagine Alvaro di Pirandello riporta anche queste parole: “Per noi italiani, vita e morte significano ancora qualche cosa. Sono due termini entro cui dobbiamo adempiere un dovere. Noi sappiamo ancora che il mondo non finisce con noi”.

    Errori di gioventù

    Il bambino che ha conosciuto questi due giganti ora è il vecchio che è disposto a fare i conti con le colpe della sua vita: «Da giovane non capivo tante cose, perciò ho fatto degli errori». Si scurisce nello sguardo e la voce diventa più roca quando parla di “uomini d’onore”. «Ho iniziato a fare la guardiania ai terreni, con i turni di notte, armati. Deve capire, era gente che pagava bene… e noi avevamo visto tanta miseria». Dice che la chiamavano in modi diversi a Locri e a Reggio, a Cosenza e a Crotone, al tempo in pochi sapevano, ma oggi è chiaro a tutti cosa sia la ’ndrangheta.

    In pochi secondi si compie nello stanzino un efficace trattato sul salto di qualità di questa organizzazione criminale ormai globalizzata. L’uomo di quasi cent’anni di vita snocciola fatti con la precisione degli accademici, ma con il patema di chi quelle cose le ha vissute davvero: la morte banale del capobastone più temuto, la strage in piazza del mercato, le famiglie di pastori che formano imprese edili capaci di diventare in pochi anni vasti imperi. Tutto grazie ai sequestri di persona e agli appalti pubblici, presi con la forza, a volte con vere e proprie irruzioni negli uffici comunali.

    Luigi Pirandello, premio Nobel per la Letteratura nel 1934

    Fuga d’amore

    La stella di questo uomo segue il corso di questi eventi e sembra ormai segnata, ma cambia all’improvviso insieme a quello di una ragazza di 17 anni, nel cielo di una sera di maggio. «Deve immaginarla, era una figliola assai bella, di povera gente. Un farabutto se l’era presa con l’inganno, raccontando al padre che l’avrebbe portata al paese e fatta lavorare da un dottore». Invece viveva segregata in un piccolo appartamento, abbastanza vicino a casa sua. Racconta di come un giorno ha trovato lo slancio dell’onore vero: così al tramonto ne organizza la fuga e prima che faccia di nuovo giorno, risalendo le fiumare, riesce a riportarla dai suoi genitori.

    Un duello ad armi impari

    Pare che i fatti gli stiano passando davanti ancora una volta, come nella scura sala del vecchio cinema del paese. Dice che non sapeva bene cosa stesse accadendo in quei frangenti, ma cosa l’attendeva il giorno dopo ancora, lo ha sempre saputo. Così quando, di nuovo a sera, quel poco di buono bussa alla sua porta, i rintocchi sul legno hanno il suono della morte.

    «Io non rispondevo e lui insisteva: “Ti debbo parlare”. Così mi sono messo la pistola sotto la giacca e sono andato con lui. Sotto lo stesso ponte che avevamo usato per scappare la notte prima, stavolta c’erano quattro uomini ad aspettarci. Codardi: cinque contro uno, ma ero pronto, sa? Se dovevo andare all’inferno me ne sarei portato almeno tre di loro con me…».

    La guerra in Africa

    A salvarlo invece fu un caso. O, meglio, un uomo. Tornando dalla pesca passò di lì al momento giusto e con un grido risolse lo stallo. La resa dei conti era solo rinviata.
    Ma prima di lei arrivò la guerra, l’arruolamento a Cosenza, l’addestramento in Piemonte, i lunghi viaggi e la campagna d’Africa. Il racconto si fa sempre più dettagliato, fino alle bombe degli inglesi che lo mandano sotto un metro di detriti.

    La battaglia di El Alamein

    «Il capitano che mi ha aggiustato il braccio nell’ospedale di Tunisi, dove sono stato per tre mesi dopo El Alamein, bestemmiava e gridava: “Loro fanno la guerra e poi mandano questi figli di mamma a morire”. Era contrario alla guerra, e lo eravamo anche noi».
    Dopo la guerra quegli occhi decidono che di morte ne hanno visto abbastanza. Tornato in Calabria, ritrova l’amore della donna che aveva conosciuto prima di partire e non la lascia più. Insieme se ne vanno lontano, sperando di lasciarsi tutto alle spalle. Dopo molti anni, però, nella piazza del paese, arriva un’auto scura.

    Una nuova vita

    Erano tempi in cui i telegiornali litaniano ogni giorno cognomi uguali al suo: è stata la madre delle guerre di ’ndrangheta, che in 40 anni solo a Locri e dintorni ha lasciato a terra quaranta corpi dilaniati dall’odio più cieco. «Io leggevo, ma non volevo saperne più. I miei parenti hanno capito e mi hanno lasciato in pace, altrimenti avrebbero eliminato anche me. Corrado Alvaro lo diceva che non si sconfigge questa dannata malattia, ma forse non pensava che saremmo arrivati a questo. Che devo dirvi, si vede che doveva andare così».

    Corrado Alvaro

    L’appuntamento

    Indica la tv, chiede di avere una copia della foto con in mano il ritratto di Corrado Alvaro e saluta. Il prossimo appuntamento è per il suo centesimo compleanno, vuole un pacchetto di Ms dure da venti per regalo, ma al tabacchino c’è una piccola foto in bianco e nero di un giovane adornato di baffi, giacca e dolcevita: è proprio lui. Dietro c’è scritto: “Quale ricordo a tutti coloro che in vita gli vollero bene e che in morte lo ricordano”. Fatto salvo della moglie e di pochissimi, Enzo è morto in solitudine in quello stesso letto, poche settimane dopo l’intervista. Così, mentre i funerali dei boss vengono celebrati da folle e fanno il giro del mondo, dell’uomo che ha avuto il coraggio di ribellarsi restano una foto sbiadita e venti sigarette dure.

    (ha collaborato Salvatore Intrieri)

  • Matti da slegare: i prigionieri del silenzio a Reggio e Girifalco

    Matti da slegare: i prigionieri del silenzio a Reggio e Girifalco

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    Segregati in casa o rinchiusi in manicomio, in Calabria come altrove. Nel ‘900 le famiglie dei “matti” avevano poche alternative. Dovevano tenerli nascosti, rassicurare i condomini, sfuggire agli sguardi e alle occhiate compassionevoli. Oppure internarli. Non si era ancora imposta la necessità di un linguaggio meno incline alla barbarie. Non si discuteva se fosse più giusto chiamarli disabili, diversamente abili o persone con disabilità. Li definivano “spastici”, “handicappati”, “anormali psichici”. Questi termini coprivano un arco ampio di casi, dalla sindrome di Down al ritardo mentale, passando per le menomazioni fisiche e i disturbi della personalità. Addirittura qualcuno scambiava ancora le sofferenze cerebrali per possessioni demoniache.

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    Reggio Calabria: l’Istituto di rieducazione per anormali psichici, manicomio cittadino (foto Rosario Cassala)

    «Ti chiudo a Girifalco»

    Il paesino di Girifalco, a partire dalla seconda metà dell’800, divenne così un’antonomasia. Se Gorgonzola è sinonimo di formaggio e Verona evoca l’amore di Giulietta e Romeo, «ti chiudo a Girifalco» in Calabria voleva dire che non stavi bene con la testa e rischiavi di finire in manicomio. Oggi lo stigma del disagio psichico rimane. Chi ne soffre, tende a dissimulare. E i suoi parenti lo circondano con una silenziosa cappa protettiva.

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    Girifalco, un internato e un cane sdraiati nel cortile della struttura (foto Rosario Cassala)

    Eppure il clima intorno alle patologie psichiatriche sembra in parte mutato. Il merito è dei tanto vituperati anni Settanta: il decennio del “Vogliamo tutto” e dell’insurrezione contro i poteri dello Stato impose anche conquiste civili e diritti inediti: lo statuto dei lavoratori, il divorzio, l’interruzione di gravidanza. E la legge 180 del 1978, che poi ha portato alla chiusura dei manicomi.

    La Calabria da manicomio di Lombroso

    «La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere», scrisse Franco Basaglia, padre della rivoluzione nell’ordinamento negli istituti psichiatrici.

    In Calabria il manicomio di Girifalco fu istituito nel 1881, quando le teorie di Cesare Lombroso si stavano radicando nel resto del Paese: la forma del cranio dei calabresi, le arcate sopraccigliari, l’irregolarità del volto e degli zigomi sarebbero segni evidenzianti la nostra natura di “razza criminale”. Lombrosiani furono i direttori del manicomio. A esso lo storico Oscar Greco ha dedicato un’opera monumentale, I demoni del Mezzogiorno (Rubbettino Editore).

    «Quando avviai la ricerca nell’archivio di Girifalco – spiega Greco, docente universitario di Storia contemporanea – provai sensazioni forti. Mi ritrovai tra le mani le cartelle cliniche, quindi la vita delle persone, le ingiuste detenzioni, gli assurdi principi lombrosiani in base ai quali furono internati tanti uomini e in particolare moltissime donne che di folle non avevano niente. Furono recluse solo perché non accettavano la condizione di madre, angelo del focolare e tutto ciò che nella cultura maschilista dell’epoca le relegava in una condizione di subalternità. In più, da calabrese prima ancora che da studioso, rimasi sbigottito dinanzi alle descrizioni aberranti delle caratteristiche somatiche dei malati».

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    In manicomio a Reggio Calabria si finiva pure per la propria identità non conforme alla morale comune (foto Rosario Cassala)

    La legge Basaglia e il lager calabrese

    Potrà sembrare strano, ma all’epoca erano proprio le convinzioni protosocialiste a ritenere valida questa catalogazione sociale di impronta razzista. La ricerca di Greco sta adesso riguardando la fase finale dell’esperienza di Girifalco, quella della sua chiusura. «Ci sono dei chiaroscuri. La legge Basaglia – prosegue Greco – affidava alle Regioni il compito di provvedere ai loro cosiddetti pazzi. Possiamo immaginare la Regione Calabria, con ancora l’eco della rivolta di Reggio, quali provvedimenti adottò negli anni successivi al 1978. Praticamente nessuno! Nel 1992 un deputato dei Verdi, Edo Ronchi, effettuò delle ispezioni. A Girifalco non lo lasciarono entrare, lui chiamò i carabinieri ed entrò con i militari nel manicomio. Scoprì un lager».

    Una vita da pazzi

    Da quel momento iniziò un «doloroso percorso di chiusura. Si rimossero le sbarre dalle finestre, però – continua Greco – mancava il personale che si occupasse di questi pazienti. Il manicomio non era più una struttura provinciale, bensì terra di nessuno. Si assistette a fughe e suicidi. Oggi sono rimasti circa 20 pazienti, perlopiù anziani. Alcuni di loro, quattro per la precisione, erano presenti già ai tempi dell’approvazione della legge Basaglia. Sono ormai istituzionalizzati in quel luogo. Per loro il tempo è stato scandito dai cicli dei diversi direttori. Quando con la memoria ripercorrono il passato, identificano ogni periodo con la qualità dei pasti nel refettorio, se si mangiasse meglio o peggio.

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    Nel cortile del manicomio di Reggio Calabria (foto Rosario Cassala)

    Fuori da lì non hanno più parenti. Se uscissero, chi se ne prenderebbe cura? Non concepiscono una vita diversa da quella della clinica psichiatrica, perché le loro esistenze si sono svolte al suo interno. Hanno perso una dimensione della libertà, anche se mi chiedono come si stia fuori. Un paziente, in particolare, mi dice spesso che i veri pazzi siamo noi, quelli che viviamo all’esterno, nel cosiddetto mondo dei normali».

    Il paese della follia

    Un ulteriore radicale cambiamento di scenario potrebbe avvenire dal prossimo 1° luglio, quando a Girifalco aprirà la Residenza Esecuzione Misure Sicurezza, attigua all’ex manicomio. In Calabria ce n’è già una.
    «C’è grande attesa. Su questo tema – chiarisce Greco – la comunità è spaccata. Girifalco tiene molto a essere riconosciuto come paese della follia. E ne va orgoglioso. Anche in anni precedenti alla Basaglia, promosse un inedito modello di integrazione. La Rems è diversa. Non ci sono i pazzi “buoni”, bensì quelli potenzialmente “cattivi”, provenienti dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, che si sono macchiati di crimini. È un carcere a tutti gli effetti, un’istituzione totale. Grandi sbarre, recinzioni altissime, videosorveglianza. Gli abitanti di Girifalco hanno dovuto accettare questo tipo di struttura e sperano che, come è già avvenuto un secolo fa col manicomio, la Rems possa diventare anche un’occasione di lavoro».

    Lo stereotipo capovolto

    Questo Comune ha saputo ribaltare i pregiudizi regnanti intorno al disagio psichico. Sin dall’inizio, infatti, la direzione del manicomio favorì la coesistenza dei pazienti col resto della popolazione e un percorso terapeutico fondato sulle porte aperte e sull’ergoterapia, cioè il trattamento basato sul lavoro collettivo. «È un paese che vive – conclude lo storico – e si è costruita una sua identità nel rapporto con la follia. Ha pure istituito un premio letterario che ha scelto la pazzia come tema. È stato ideato dallo scrittore Domenico Dara.
    I suoi primi romanzi, per esempio Appunti di meccanica celeste (Nutrimenti Edizioni), sono ambientati a Girifalco. È la sua Macondo».

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    Un uomo rinchiuso a Girifalco mostra i suoi appunti (foto Rosario Cassala)

    Prigionieri del silenzio

    Un eccezionale lavoro di ricerca sulle immagini e i corpi è stato realizzato da un altro calabrese, il fotografo Rosario Cassala. Negli anni Ottanta produsse un reportage negli istituti calabresi che all’epoca si chiamavano ancora di “igiene mentale”. In quello di Reggio, tanto per citare uno dei nomi delle pazienti, fu ricoverata da giovane persino la mistica Natuzza. Cassala ha voluto guardare negli occhi gli internati.

    «In un manicomio – racconta il fotografo – sono entrato per la prima volta da bambino. C’era un mio zio ricoverato. Contro il volere di tutti, lo andai a trovare. Ci ritornai perché avevo avuto l’impressione che a queste persone mancasse l’anima, che fossero state private della dignità. In tutti questi anni ho mantenuto riservate le foto, perché alcune riviste le pubblicarono in modo strumentale, ripetendo la solita lamentazione retorica sulla Calabria degradata. Fingevano di non sapere quanto in realtà sia più complessa e vasta la problematica del disagio psichico. Così mi decisi a far sparire queste fotografie. Dopo 37 anni ho iniziato a tirarle fuori. Ormai rientrano nel patrimonio storico. Parlano da sole».

    Uno spettacolo che non si dimentica

    All’epoca in cui entrò nelle strutture psichiatriche, assistette a scene traumatizzanti. «Soffrii tantissimo. C’erano persone – spiega Cassala – che mangiavano le proprie feci, altre legate mani e piedi ai letti di contenzione. Sebbene avessero questi comportamenti anomali, mi soffermai molto sulla loro serietà. Diversi pazienti si trovavano in manicomio non perché soffrissero davvero di un disagio psichico. Erano senza famiglia oppure avevano litigato con qualcuno, erano andati in escandescenze e così li avevano buttati lì.

    Mia nonna fu molto forte, riuscì a riportare fuori mio zio, suo figlio. Ma fu uno dei pochi. Quando continuai ad andare dentro, lui era stato ormai dimesso. Avrei potuto darmi pace: ormai il problema che avevamo in famiglia, era risolto. Invece continuai a recarmi in quei luoghi. La mia vita è rimasta segnata da quell’esperienza. Ma non me ne sono pentito. Sono orgoglioso di essere riuscito a rendere evidenti quelle persone nella loro corporeità, rispettandole».

    I Basaglia di Cosenza

    In giro per la Calabria non sono poche dunque le sensibilità come quelle dello storico Oscar Greco e del fotografo Rosario Cassala, maturate in anni di approccio diretto. Pochi sanno, per esempio, che nel secolo scorso, tra i primi a inquadrare questa problematica con lo sguardo dell’amore, del rispetto e della dignità umana, furono Piero Romeo e Padre Fedele Bisceglia. Molto conosciuti, a Cosenza e oltre, per il loro ruolo di leader del tifo organizzato, per i viaggi solidali in Africa e il sostegno fattivo agli indigenti, sinora non è mai stato approfondito l’approccio al disagio mentale che ebbero all’interno della mensa dei Poveri, sorta negli anni Ottanta su corso Mazzini a Cosenza e poi trasferita nei pressi del santuario del Crocifisso. Oltre a un piatto caldo e a un letto per non trascorrere la notte all’aperto, nell’Oasi Francescana tantissime persone fragili trovarono amicizia, ascolto, accompagnamento.

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    Un uomo ricoverato a Girifalco (foto Rosario Cassala)

    Piero aveva un album delle loro fotografie. Lo custodiva con scrupolosa riservatezza. E tra uno scatto e l’altro, inseriva la propria immagine e quella di tanti altri suoi amici, concittadini che presumevano di essere “normali”. Ai volontari e agli ultrà cresciuti intorno a lui, ai pochi che le mostrava, amava ripetere che dietro ognuna di quelle foto c’erano delle storie umane profonde. E che di ogni persona bisognava imparare a interpretare il linguaggio e le richieste. Guai a farsi beffe di loro: «Il confine è sottile. Lo oltrepassiamo ogni giorno. E nemmeno ce ne accorgiamo».

     

    Tutte le immagini dell’articolo sono tratte dal reportage “Prigionieri del silenzio – Viaggio nei manicomi calabresi” di Rosario Cassala. Si ringrazia l’autore per averne concesso l’utilizzo.

  • Terrorismo, Isis nel dark web: perquisizioni anche a Reggio Calabria

    Terrorismo, Isis nel dark web: perquisizioni anche a Reggio Calabria

    Polizia di Stato e Carabinieri hanno eseguito perquisizioni in molte città italiane, compresa Reggio Calabria, disposte dalla Procura Distrettuale di Roma per associazione con finalità di terrorismo internazionale, nell’ambito di un’operazione congiunta che ha coinvolto complessivamente 29 persone.

    L’operazione costituisce l’epilogo di una più vasta e articolata indagine diretta a prevenire la minaccia terroristica di matrice religiosa derivante dall’utilizzo del dark web. L’attività investigativa ha avuto inizio oltre un anno fa in seguito alla segnalazione – acquisita dall’Antiterrorismo della Polizia di Stato e dal ROS attraverso il Federal Bureau Investigation statunitense – dell’esistenza di un sito di propaganda dell’organizzazione terroristica Isis presente nel dark web cui potevano aver fatto accesso internauti presenti in Italia.

    Nel corso delle perquisizioni – che hanno interessato le città di Roma, Milano, Torino, Ancona, Bergamo, Padova, Verona, Rovigo, Vercelli, Bologna, Cesena, Rimini, Latina, Arezzo, Foggia, Reggio Calabria, Ragusa, Trapani e Caltanissetta – sono stati sequestrati numerosi device oltre a materiale informatico, su cui proseguono gli approfondimenti delle Digos e delle articolazioni della catena anticrimine del Ros, supportati dai rispettivi Uffici centrali.