Tag: reggio calabria

  • L’Antitrust frena ancora Caronte: basta monopoli sullo Stretto

    L’Antitrust frena ancora Caronte: basta monopoli sullo Stretto

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Già nella primavera scorsa l’Antitrust aveva comminato una sanzione da 3,7 milioni di euro alla compagnia Caronte & Tourist. Il motivo? La società di navigazione, in posizione di assoluta dominanza nel traghettamento passeggeri con auto al seguito sullo stretto di Messina, aveva sfruttato il suo potere di mercato per applicare prezzi ingiustificatamente alti e gravosi per i consumatori.

    Ora per la Caronte arriva un’altra tegola e sempre da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Tutto nasce da una richiesta di concessione demaniale marittima per la realizzazione di un nuovo sistema di approdo per il collegamento Reggio Calabria-Messina. L’Autorità di sistema portuale dello Stretto a luglio scorso aveva, infatti, formulato una richiesta di parere all’Antitrust, sul diniego, già opposto, alla richiesta della compagnia di navigazione. E ieri (5 dicembre) ha pubblicato le motivazioni alla base della decisione.

    Stretto di Messina, un nuovo caso Caronte per l’Antitrust

    L’Agcm, in pratica, consiglia di fare bandi di gara ad evidenza pubblica per le concessioni e la scelta dell’affidatario, invece di decidere solo sulla base delle richieste del soggetto interessato, in questo caso Caronte. L’Autorità ritiene, infatti, che solo l’utilizzo di adeguate procedure di confronto competitivo, attivate su impulso delle stesse autorità portuali, siano in grado di offrire due garanzie. La prima è la necessaria coerenza del contenuto della concessione con la pianificazione strategica effettuata a livello nazionale o di singole Autorità portuali. La seconda, l’affidamento della stessa concessione al soggetto che sia maggiormente in grado di utilizzarla nel rispetto dell’interesse pubblico.

    antitrust-caronte-stretto

    Si legge chiaramente nel parere dell’Antitrust: «Al fine di ridurre al minimo la discrezionalità delle autorità portuali, massimizzando invece il grado di trasparenza e di equità della decisione, il processo di selezione dei concessionari non dovrebbe prendere le mosse esclusivamente dall’istanza del soggetto interessato, come avvenuto invece nella presente circostanza, ma con un bando e in una procedura ad evidenza pubblica. In tale prospettiva sarebbe opportuno evitare di rilasciare la concessione a soggetti verticalmente integrati nella fase di erogazione dei servizi di trasporto passeggeri o merci, in modo da consentire una fruibilità il più possibile ampia delle infrastrutture realizzate da parte di tutti i soggetti interessati».

    Più trasparenza, meno monopoli

    L’Agcm consiglia anche di inserire clausole nei bandi di gara per garantire che nella gestione del nuovo molo di attracco di Reggio Calabria tutti i servizi per le attività di traghettamento vengano erogati dal concessionario. Sia in autoproduzione, sia in favore di altri operatori che dovessero richiederle (la cosiddetta “clausola multivettore”). Trasparenza massima, equità e pluralità per coinvolgere più ditte ed evitare monopoli, quindi. Più in generale, infatti, la compagnia Caronte, sempre secondo l’Antitrust, gode già di un’assoluta leadership sullo Stretto. Trasporta il 75-80% circa di passeggeri, il 90-95% di automobili e il 60-65% di mezzi pesanti.

    imbarcaderi-messina
    Mezzi in coda per imbarcarsi a Messina

    Infine, il parere sulla richiesta delle nuova concessione prescinde, ovviamente, dall’eventuale sussistenza di ulteriori e diversi motivi ostativi al rilascio della concessione stessa, che dovessero derivare da ordini di considerazioni di natura non concorrenziale, quali ad esempio l’incompatibilità delle istanze presentate con i vincoli ambientali e urbanistici esistenti o altro.
    «L’Autorità – conclude la delibera dell’Agcm – auspica che le osservazioni sopra svolte possano essere tenute in adeguata considerazione da parte dell’Amministrazione richiedente».
    Solo nelle prossime settimane si potrà comprendere come proseguirà la vicenda.

  • Cosa succede all’interno delle carceri reggine?

    Cosa succede all’interno delle carceri reggine?

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    «La vita carceraria fa vedere le persone e le cose come sono in realtà. Per questo ci si trasforma in pietra», scriveva Oscar Wilde. Vale per i detenuti, certamente. Ma vale anche per chi, a vario titolo, svolge un ruolo nell’amministrazione penitenziaria. E ciò che, negli ultimi mesi, è emerso e sta emergendo sugli istituti penitenziari di Reggio Calabria è a dir poco inquietante.

    La ‘ndrangheta dietro le sbarre del carcere di Reggio

    Due le strutture del capoluogo dello Stretto. La prima è lo storico edificio di San Pietro, che oggi ospita i detenuti di alta sicurezza e coloro i quali stanno scontando la propria pena definitiva. Negli anni, quel carcere che costeggia il torrente Calopinace ha ospitato i boss più importanti della ‘ndrangheta.

    Lì viene anche ucciso Pasquale Libri, figlio naturale del superboss don Mico Libri. È il 19 settembre del 1988, quando viene freddato con un colpo di fucile di precisione all’interno del carcere di Reggio Calabria.
    I sicari si appostano sul terrazzo di uno stabile in costruzione, sito tra via Carcere Nuovo e vico Furnari, in un luogo che si affaccia sul cortile della sezione “Cellulare” dell’istituto penitenziario di San Pietro. La vittima viene raggiunta in pieno viso, esattamente all’altezza della narice sinistra, da un proiettile, non appena discesi i gradini d’ingresso al cortile esterno.

    condello-carcere-reggio
    Pasquale “Il Supremo” Condello tra due carabinieri

    Le indagini riconducono immediatamente la causale dell’omicidio alla guerra di mafia all’epoca in corso tra le cosche reggine. Autore del delitto, su ordine di Pasquale Condello, il “Supremo”, sarebbe stato Giuseppe Lombardo (poi divenuto collaboratore di giustizia), detto “Cavallino” per l’attitudine sinistra di inseguire e finire le proprie vittime.

    Il caso Saladino: morire in infermeria a 29 anni

    Di più recente costruzione la casa circondariale di Arghillà, che sorge nel quartiere degradato a nord della città. Ospita una popolazione molto più ampia di detenuti, essendo destinata a quelli di media sicurezza. E lì, in quelle celle – forni in estate e freezer in inverno – che muore il giovane Antonio Saladino, ristretto in custodia cautelare. È il 18 marzo 2018.

    antonio-saladino-troppe-visite-infermeria-carcere-prima-di-morire-i-calabresi
    Antonio Saladino, morto a 29 anni nel carcere di Reggio Calabria

    Un decesso, ancora oggi, avvolto nel mistero. Saladino, stando alle testimonianze rese dai compagni di cella, accusava già da parecchi giorni malessere e disturbi fisici culminati in un tragico epilogo: la morte del detenuto, a soli 29 anni, nell’infermeria del carcere.

    A distanza di quasi quattro anni da quella vicenda, l’inchiesta non ha ancora chiarito alcunché. L’ultimo passaggio, a settembre scorso, quando il Gip ha rigettato la seconda richiesta di archiviazione da parte della Procura della Repubblica, disponendo ulteriori accertamenti.

    L’ex direttrice e i presunti favori ai detenuti

    È invece attualmente a processo l’ex direttrice delle due carceri, Maria Carmela Longo, coinvolta in un’inchiesta per presunti favori ai detenuti. L’arresto per lei è a arrivato nell’estate 2020 con l’accusa di concorso esterno con la ‘ndrangheta. Questo perché l’allora direttrice avrebbe favorito anche esponenti di spicco delle cosche reggine. In questo modo «concorreva – è scritto nel capo di imputazione – al mantenimento ed al rafforzamento delle associazioni a delinquere di tipo ‘ndranghetistico».
    Per i pm, all’interno del carcere di Reggio Calabria c’era «una sistematica violazione delle norme dell’ordinamento penitenziario e delle circolari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria».

    maria-Carmela-Longo
    Maria Carmela Longo, la direttrice dei penitenziari reggini sotto accusa

    Tra i detenuti che sarebbero stati favoriti dall’ex direttrice del carcere anche l’avvocato Paolo Romeo, ex parlamentare condannato poi nel processo “Gotha”. Ma anche affiliati alle famiglie mafiose reggine e della provincia come Cosimo Alvaro, Maurizio Cortese, Michele Crudo, Domenico Bellocco, Giovanni Battista Cacciola e altri.
    Nel blitz, furono coinvolti anche alcuni agenti penitenziari, poi scagionati successivamente. Nel processo, insieme all’ex direttrice, solo il medico del carcere di San Pietro.

    I pestaggi in carcere a Reggio

    Ma il vero bubbone, circa le condotte che si sarebbero perpetrate dietro le mura carcerarie, è scoppiato appena pochi giorni fa, con l’arresto di alcune guardie penitenziarie, tra cui il comandante del Corpo presso la casa circondariale, per il presunto pestaggio di un detenuto napoletano, avvenuto proprio nel giorno della visita in città dell’allora ministro della Giustizia, Marta Cartabia.

    cartabia
    L’ex ministro Marta Cartabia

    Gli agenti coinvolti rispondono, a vario titolo, di tortura e lesioni personali aggravate, ma anche di falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atto pubblico, falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atto pubblico per induzione, omissione d’atti d’ufficio, calunnia e tentata concussione. Arresti arrivati a quasi un anno dall’accaduto. I fatti risalgono infatti al 22 gennaio 2022, quando gli agenti avrebbero sedato con immane violenza la protesta del detenuto che non voleva far rientro nella propria cella.

    E così, senza alcuna determinazione del direttore del carcere, avrebbero condotto l’uomo in una cella di isolamento, dove sarebbe scattato il pestaggio, unito a violenze psicologiche di vario tipo. L’uomo sarebbe stato colpito con i manganelli in dotazione di reparto, ma anche con dei pugni, facendolo spogliare e lasciandolo semi nudo per oltre due ore nella cella ove era stato condotto.

    Il sistema di omertà

    Luogo chiuso ermeticamente, il carcere. Come ovvio, verrebbe da dire. Ma la chiusura, in taluni casi, rischia di sfiorare e superare il livello dell’omertà. Impalpabile, fin qui, il contributo fornito dalla politica, anche quella maggiormente attenta alle dinamiche carcerarie, come l’ala radicale. Inconsistente l’apporto dei vari garanti, regionale e locale. Difficile, quasi impossibile, ottenere informazioni il più possibile vicine alla realtà su quello che accade in quei luoghi, che si reggono su sottili equilibri.

    Equilibri tra detenuti, evidentemente. Ma anche tra personale sanitario e, ovviamente, polizia penitenziaria. Un turbine incontrollato e incontrollabile di notizie e di rumors, in cui la fuoriuscita o meno di qualche notizia somiglia assai spesso a un tentativo di colpire la “banda” rivale. Per coprire il presunto pestaggio, ed evitare conseguenze per una eventuale denuncia da parte del detenuto, il Comandante del Reparto, avrebbe poi redatto una serie di atti (relazione di servizio, comunicazione di notizie di reato ed informative al Direttore del carcere).

    carcere

    Nessuno ha invece scalfito minimamente il muro del silenzio. Solo le denunce dei familiari del detenuto, infatti, unite all’osservazione delle telecamere, hanno potuto aprire uno squarcio di luce (ancora tutto da dipanare totalmente) su quanto accade in quei luoghi. Gli stessi che, stando a quanto ci insegna la Costituzione, dovrebbero essere deputati alla rieducazione dei detenuti. Dove, invece tutto si mostra come è in realtà. E come scriveva Oscar Wilde, si diventa pietra.

  • Nassim Mendil: hybris, dribbling e il gran rifiuto

    Nassim Mendil: hybris, dribbling e il gran rifiuto

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    I fantasmi del 1428 sono i figli di quelli del 2022: ora la peste, ora la guerra, ora le religioni usate per togliere libertà agli altri. Magica Corsica, mina del Mediterraneo, durezza ispida e fierezza gravida. I pescatori di Bastia guardano all’Italia, quelli di Ajaccio alla Francia. Mari pescosi. E in quel 1428 due marinai dappoco trovarono un prodigio grande: un crocifisso nero, poco oltre la costa. Segno che gli isolani del mare nostrum si conoscono tutti: i mori e i biondi, i musulmani che leggono Gesù nel Corano, gli ebrei convertiti al Dio Trinitario, gli slavi esperti di corde e chiodi, i bestemmiatori che fedeli alla legge del mare salvano ancora anime di tutti i credi, compreso il più arduo di tutti che è quello per l’uomo.

    Nassim Mendil dalla Corsica all’Irpinia

    nassim-mendil-avellino
    Nassim Mendil ai tempi di Avellino

    A fine anni Novanta, esordisce lì a Bastia uno smilzo e tonico franco-algerino di provincia, provenzale di nascita e maghrebino di cultura. Si muove, sbotta, dribbla; nei periodi di forma è appuntito, in quelli di stanca, tra giovanili e tanta panchina e tribuna, appare gracile. Diagnosi da osteopata: deve farsi le ossa. E Nassim Mendil approda ad Avellino a inizio millennio, una big della C che all’epoca tutti pensano possa svezzare il ragazzo molto più di ogni cadetteria francese.

    Fa anche il suo, seppure ancora pochino: più continuità fisico-atletica, i primi goal, l’abbozzo della ricerca in un ruolo più preciso sul campo. Fine stagione, rotta Lecco: la provincia disabituata al calcio dopo una piazza tipicamente meridionale, quanto a pressioni, attaccamento, agonismo, sembrerebbe la pietra tombale. Non uno slancio, ma una definitiva dispersione. In otto gare, Mendil dimostra che tutto sommato c’è, che non ha senso languire ancora nel calcio di terza serie, che un biglietto di sola andata per un salto di categoria sa e può meritarlo.

    Cosenza sulle montagne russe

    E allora eccolo lì: 2001/2002, Cosenza Calcio. Squadra bella e strana il Cosenza di fine Novanta, inizio anni Zero, squadra di quando s’era più giovani. Squadra per sempre. Dal ritorno in serie B, a un anno appena dalle lacrime di Padova e con Marulla che sembrava una volta di più il Dioscuro degli spareggi salvezza, fino al fallimento, al Crati si faranno cinque stagioni sulle montagne russe. Una farsa l’ultima, un travaglio la prima (ingresso sprint, che dalla trasferta al Delle Alpi in poi si avvita in una salvezza stentata), tre onorevolissimi campionati in mezzo. Per larghe fatte di campionato tra le prime, poi pareggi, pareggi, pareggi e piazzamenti e prestazioni che però si rimpiangono soprattutto oggi, quando la salvezza low cost anno per anno è il piatto in tavola. Si mangia, sì, senza troppo piacere né appetito.

    Nassim Mendil idolo all’improvviso

    A Cosenza, in ogni caso, c’è il miglior Mendil di una carriera di circa quindici anni: dieci reti, falcate, pallonetti, diagonali, tocchi sotto misura da due passi, persino qualche veronica e stacchi di testa. Normale che il ragazzo, dopo una lunga incubazione, si senta pronto per il gran salto, se si concede di dribblare un portiere prima di insaccare o se indifferentemente muove novanta minuti dalla fascia al centro e viceversa.

    Gli arriva persino la chiamata dalla nazionale maggiore algerina, all’epoca allenata dal vecchio fantasista di casa, Madjer, tra i migliori giocatori africani di sempre. In grado col Porto, dalla metà degli anni Ottanta ai primi Novanta, di vincere tutto: Coppa dei Campioni, Intercontinentale, campionati. Altro bello spirito libero, col carniere pieno di goal di tacco, calci di punizione, e coppa d’Africa levata al cielo, proprio ad Algeri, nel 1990. Baggio, Vialli, Berti, Mancini, Giannini e gli altri piedi buoni azzurri degli anni Novanta mancarono omologa impresa a Roma, ai Mondiali, pochi mesi dopo; beffati da un serafico Goicoechea e da un invecchiato quanto ribaldo Maradona, nel catino del San Paolo.

    Il gran rifiuto

    Mendil rifiuta: il ragazzo vorrebbe le giovanili francesi e poi giocarsi un posto tra i Blues, freschi campioni del mondo e d’Europa, prima di essere accappottati nel mondiale nippocoreano del 2002. È l’inizio della fine? Forse che si, forse che no: D’Annunzio docet. E il nostro riparte con una girandola bella a metà: Reggina, Catania, Spezia, Ascoli, Salernitana. Altro che Coupe du Monde!

    franca-campione-1998
    1998, Zinedine Zidane alza la coppa Rimet, la Francia ha appena vinto il Mondiale in casa

    Intanto, però, prima dei titoli di coda rivediamo ancora il bel Mendil di Cosenza in qualche spiraglio anconetano, nella patria del Collettivo e della Curva Nord. Una promozione dalla C2, una sofferta quanto meritata salvezza l’anno dopo. Infine, dilettantismo ancora, ormai più (ri)partenze che false partenze. Peccato. Ci piace pensarlo intorno allo stagno di Rognac, dove ci fu una colonia ligure e il mare alto sferza calette e rilevato ferroviario. Che si rimangia quel rifiuto o coccola di nuovo l’esplosione del tifo cosentino nella gabbia dello Scida dopo un due a zero nel recupero, o il profetico tiraggir in riva allo Stretto di Messina. Che tempi!

     

    Domenico Bilotti

  • Lo sviluppo che non c’è: l’area di Saline Joniche, tra ‘ndrangheta e truffe dello Stato

    Lo sviluppo che non c’è: l’area di Saline Joniche, tra ‘ndrangheta e truffe dello Stato

    Soffiano ancora i venti della rivolta di Reggio Calabria, quando si parla per la prima volta del porto di Gioia Tauro, che avrebbe dovuto rappresentare l’affaccio sul mare del Quinto centro siderurgico, un sogno svanito al pari delle altre promesse contenute all’interno del cosiddetto “Pacchetto Colombo”: le Officine Grandi Riparazioni e la Liquichimica di Saline Joniche.

    La-zona-del-5°-centro-siderurgico-durante-i-lavori-nel-1976-Michele-Marino2-1068x714
    La zona del Quinto centro siderurgico durante i lavori del 1976 (foto Michele Marino)

    Oggi di quell’opera non resta che uno scheletro che costeggia la SS106, la “strada della morte”. Uno scenario in cui si sarebbe potuta girare la serie Chernobyl: quel pilone altissimo e, attorno, ruderi, capannoni e paludi.
    Saline Joniche è lo specchio dello sviluppo che non c’è in Calabria. Con la devastazione del territorio ancora lì, come monito, a distanza di decenni. E a nessuno con i tanti, tantissimi, fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è venuta in mente un’idea per provare a rilanciare quell’area in provincia di Reggio Calabria.

    La stagione dei grandi appalti

    I Moti di Reggio
    I Moti di Reggio

    Agli inizi degli anni Settanta, conclusi i giorni della rivolta, venne la stagione dei grandi appalti. Un fiume di finanziamenti pubblici inondò Reggio e provincia per la realizzazione di alcune grandi opere. Tra queste, la Liquichimica, il V Centro Siderurgico ed il raddoppio della tratta ferrata Villa S. Giovanni-Reggio Calabria. La prospettiva degli insediamenti industriali e l’esecuzione di alcuni lavori costituiranno quindi il casus belli tra il gruppo emergente della ’ndrangheta, che annoverava nuove leve che sarebbero entrate nella storia della criminalità, e la vecchia generazione che aveva la necessità di riaffermare palesemente il proprio prestigio.

    Da un lato ci sono uomini come i fratelli De Stefano, ma anche Pasquale Condello e Mico Libri; dall’altro ’Ntoni Macrì e don Mico Tripodo. Sono tutti interessati ad opere che non verranno, di fatto, mai realizzate. O che, comunque, non porteranno alcun effettivo beneficio al territorio. Ma alle cosche sì. Grazie a quelle “truffe” governative, la ’ndrangheta si arricchisce e fa il salto di qualità.

    Antonio Macrì

    La crescita della cosca Iamonte

    L’area di Saline Joniche sarà solo un enorme affare per i clan. Come spesso è accaduto in passato. Come spesso accade ancora oggi. Tra gli anni ’60 e gli anni ’70 le cosche calabresi non sono ancora egemoni nel traffico internazionale di droga. Ma proprio attraverso quei denari riusciranno a costruire il proprio futuro. La ‘ndrangheta come la conosciamo oggi è così anche grazie a quei grandi affari. Emblematica, in tal senso, l’ascesa del gruppo Iamonte, una famiglia di macellai assurta oggi al Gotha della criminalità organizzata calabrese. Anche grazie all’affare della Liquichimica e delle Officine Grandi Riparazioni delle Ferrovie dello Stato.

    Ne parla, in particolare, il collaboratore di giustizia Filippo Barreca, uno dei primi e più importanti pentiti della storia della ‘ndrangheta: «[…] La cosca Iamonte è cresciuta attraverso gli appalti della Liquichimica e del porto di Saline Joniche… Ulteriore fonte di arricchimento è poi derivata dalla costruzione dell’Officina riparazione treni sita in Saline Joniche. In sostanza la famiglia Iamonte riceveva tangenti dall’impresa Costanzo di Catania, che è risultata aggiudicataria dell’appalto per la costruzione dell’officina di cui sopra. La tangente veniva pagata grazie all’intervento di Nitto Santapaola e Paolo De Stefano…»

    La droga a Saline Joniche

    Ma il canale ben presto si allarga. Proprio al traffico di droga. La merce che giungeva a Saline Joniche, suddivisa in partite, non era diretta a Iamonte, bensì all’organizzazione De Stefano-Tegano e a quelle di Nitto Santapaola, di Domenico e Rocco Papalia di Platì e dei Calabrò di San Luca. Perché far sbarcare la droga, e in alcune circostanze anche delle armi, proprio a Saline? Natale Iamonte riusciva a ottenere una copertura da parte delle forze istituzionalmente preposte al controllo del porto. Poi, a fronte della “base logistica” fornita, percepiva da tutti i destinatari della merce una percentuale. O in sostanza stupefacente, come nel caso di Nitto Santapaola, o in denaro contante.

    Nitto Santapaola

    Ancora dal racconto di Barreca: «Successivamente il clan Iamonte instaurò un binario proprio e autonomo con Nitto Santapaola in funzione del traffico di stupefacenti […]». Santapaola, quando aveva necessità di individuare coste “sicure” per i suoi traffici non esitava a utilizzare quel territorio sotto il controllo completo della cosca Iamonte. Come infatti ha dichiarato, il 27 novembre 1992, Barreca: «[…] Per quanto concerne il traffico di stupefacenti Natale Iamonte e i figli rifornivano buona parte della provincia di Reggio Calabria e di Milano. La droga arrivava via mare, con navi provenienti dal Medio Oriente che attraccavano nel porto di Saline Joniche».

    Il rapimento Di Prisco

    In questo contesto si incastra il rapimento del giovane napoletano Giuseppe Di Prisco. È il 1976, quelli sono gli anni d’oro della ’ndrangheta con i sequestri di persona. Ma quello di Di Prisco è diverso. Viene effettuato non tanto per il riscatto – che alla fine venne pagato: 180 milioni – quanto per costringere la madre del ragazzo, la baronessa Maria Piromallo Di Prisco a piegarsi. A cedere, cioè, per una cifra identica alla parte di terreno di sua proprietà su cui doveva sorgere la Officina Grandi Riparazioni delle Ferrovie dello Stato. A mettere in atto il rapimento, la cosca Iamonte di Melito Porto Salvo.

    È la stessa baronessa a raccontarlo nel processo che vede imputato e condannato Natale Iamonte. La donna conferma di essere proprietaria dei terreni in Saline Joniche, oggetto di esproprio per dar vita ai due impianti. La Di Prisco si era opposta all’esproprio connesso alla realizzazione della Liquichimica in quanto le venivano formulate offerte imprecise e generiche. Non si era mai giunti alla determinazione della cifra e aveva dato incarico di fare opposizione. La donna avrebbe ricevuto visite di personaggi che si qualificavano rappresentanti dell’Ente ferrovie. Che talvolta le offrivano somme elevate e altre le avanzavano non molto velate minacce («peggio per lei se…» o «meglio per lei se accetta»).

     

    Offerte (più o meno adeguate) e minacce (più o meno esplicite), prima di passare alle vie di fatto. Mandante del rapimento sarebbe proprio Natale Iamonte, il vecchio patriarca della famiglia. Il sequestro di Giuseppe Di Prisco, uno studente ventiduenne, avviene il 22 settembre 1976, poco dopo mezzanotte. In quel momento il ragazzo si trovava nei pressi dell’ingresso della sua proprietà insieme a un amico ad ascoltare musica in macchina.

    L’auto venne ritrovata il giorno successivo in zona pre-aspromontana. Seguirono settimane di trattative e di incontri con intermediari. La richiesta iniziale di riscatto era di due miliardi. All’improvviso i sequestratori abbassarono la richiesta e si accordarono per il pagamento di una cifra di 180 milioni. Il padre del ragazzo, l’avvocato Massimo Di Prisco, pagò l’11 dicembre 1976 lungo una strada che gli era stata indicata, quella che da Melito Porto Salvo sale a Gambarie. Successivamente, vi fu un periodo di silenzio e il ragazzo non venne rilasciato. Fino alla data del 3 gennaio del 1977, quando avvenne la liberazione.

    I motivi del sequestro

    Il collaboratore di giustizia Filippo Barreca parla di un sequestro “anomalo”. Era stato «architettato da Natale Iamonte ed è stato portato a termine dai fratelli Tripodi, i quali sono uomini di Natale Iamonte». Tutto finalizzato ad addomesticare i Di Prisco per far sì che cedessero la loro proprietà. La Liquichimica doveva sorgere ad Augusta, ma era stata spostata per volere di politici importanti in Calabria. Lo Stato aveva stanziato migliaia di miliardi e l’azienda non era destinata a funzionare.

    Natale Iamonte
    Natale Iamonte

    Stando al racconto di Barreca, l’obiettivo del sequestro era quello di conseguire «l’esproprio del terreno. In poche parole, subito dopo il sequestro, il tutto fu sbloccato, mi riferisco agli anni 1976, perché il sequestro avvenne nel 1976 e subito dopo la liberazione dell’ostaggio il tutto fu appianato e quindi iniziarono i lavori per la prosecuzione dello stabilimento della Liquichimica di Saline Joniche». L’altro importante collaboratore degli anni Novanta, Giacomo Lauro, racconta del ruolo degli Iamonte sul sequestro: «Proprio fatto apposta per usufruire di quei terreni dove poi le Ferrovie dello Stato, mi ricordo sempre la frase, “si cambia…”».

    La morte dell’ingegnere Romano

    A rendere la storia della Liquichimica ancora più oscura e inquietante è la morte dell’ingegnere Romano, allora direttore del Genio Civile di Reggio Calabria, che stilò una perizia in cui sconsigliava l’uso di quel terreno perché altamente instabile. La perizia, infatti, sparì e i lavori proseguirono. Il direttore si oppose ma poi morì in uno strano incidente stradale. La sentenza racconta di una «zona grigia fatta di politica, ’ndrangheta e massoneria».

    Dell’accaduto parla anche il collaboratore di giustizia Barreca: «Nelle more di questo fatto si era verificato un episodio: l’uccisione fu fatta passare come un banale incidente, l’uccisione del capo del genio civile Romano. In buona sostanza, il Romano aveva ostacolato con una relazione, perché si era verificato uno smottamento, la prosecuzione dei lavori per via del terreno su cui era sorta la Liquichimica. Si trattava di un tecnico di alta professionalità, che poi fu sostituito». Al posto di Romano arriva un altro tecnico che Barreca definisce «molto malleabile». L’intreccio tra poteri, evidentemente, ottiene il proprio obiettivo.

    La politica

    Quelle Officine le volevano tutti. La ‘ndrangheta e Cosa nostra – con Iamonte e Santapaola, per il tramite dell’impresa Costanzo – così come i politici della zona, socialisti soprattutto. Ma servivano anche alle Ferrovie. Anche stavolta emergono i presunti legami tra mondi che, tra di loro, non avrebbero dovuto dialogare.
    Ci vorranno anni per accendere i riflettori sulla potenza della ‘ndrangheta in Calabria. E sui legami tra la criminalità organizzata e il mondo istituzionale. Nel 1993, i parlamentari Girolamo Tripodi e Alfredo Galasso presentano in Commissione Antimafia una relazione di minoranza sulla ’ndrangheta e sul caso Calabria. Lo spunto è l’eclatante omicidio dell’ex presidente delle Ferrovie dello Stato, il reggino democristiano, Lodovico Ligato, assassinato nell’estate del 1989.

    https://www.youtube.com/watch?v=AEMy9oT9_kQ

    Per i due esponenti politici il movente del delitto Ligato non sarebbe riconducibile a un semplice scontro tra cosche per la conquista del potere., ma a uno scontro politico per la conquista dei fondi pubblici. Un delitto oscuro che vedrà il quasi totale silenzio della Democrazia Cristiana, sebbene Ligato fosse «uno di loro», come dirà Oscar Luigi Scalfaro. Trame oscure quelle della Democrazia Cristiana in quegli anni.

    L’uomo forte in Calabria è il deputato cosentino Riccardo Misasi, anch’egli indagato per associazione mafiosa dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Misasi, peraltro, non è l’unico politico di rango a essere indicato (venendo comunque prosciolto) per rapporti con la ’ndrangheta. Il “leone socialista” Giacomo Mancini  viene menzionato dal collaboratore Giacomo Lauro, con riferimento alla vicenda della Liquichimica di Saline Joniche e ai presunti collegamenti con la cosca di Melito Porto Salvo. Un altro collaboratore, Giuseppe Scopelliti, accosta invece il nome di Mancini al casato dei Piromalli di Gioia Tauro. Cosca, se possibile, ancor più potente della famiglia Iamonte. Tutte accuse che non troveranno alcuno sbocco giudiziario.

    Saline Joniche, l’ultima idea prima del buio

    Oggi l’area di Saline Joniche è quell’ecomostro che chiunque, da un cinquantennio a questa parte, è abituato a vedere quando percorre la SS 106 jonica. Non uno straccio di sviluppo. Né imprenditoriale, né turistico. Chilometri e chilometri di paesini a volte poco abitati, di nulla e di scempi ambientali. L’ultimo tentativo di usarla per qualcosa è di alcuni anni fa. Un colosso svizzero – la SEI Repower – si era messa in testa di costruirci una centrale a carbone. Proprio quando, già da tempo, un po’ ovunque quella fonte di energia scompare, dismessa, sostituita con qualcosa di più sostenibile, l’unica idea per la Calabria riportava indietro di decenni.

    Protesta contro il carbone a Saline Joniche
    Protesta contro il carbone a Saline Joniche

    Una campagna marketing per propugnare l’ecologia di quel progetto. Come se esistesse il “carbone pulito”. Contro quella centrale, infatti, si espresse per mesi il grosso della popolazione calabrese. In particolare quella reggina. Fu, soprattutto, uno sparuto gruppo di cittadini di quelle zone, costituitisi in un comitato spontaneo, a sfidare, anche legalmente davanti alla giustizia amministrativa, quel colosso. Una battaglia che appassionò tutti e che costrinse, alla fine, anche la Regione (che aveva parere vincolante) a schierarsi contro il progetto. Il caso più scolastico della vittoria di Davide contro Golia.

    Neanche stavolta però, con i soldi del Pnrr sul tavolo, qualcuno ha pensato di ridare decoro a quella zona e alla sua popolazione. Che immagina qualcosa di diverso per un’area che è l’emblema dei fallimenti e degli imbrogli della politica. Ma, soprattutto, del degrado calabrese e del disinteresse di cui “gode” la regione a livello nazionale.

  • Sant’Agata: la montagna dove la musica è cambiata

    Sant’Agata: la montagna dove la musica è cambiata

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Sarà capitato anche a voi: si va, si torna da un posto dove si è stati in pace e improvvisamente torna a fuoco, magari in dormiveglia, una collina che andava esplorata, l’acqua di una fontana che andava bevuta, due parole buttate lì che valevano un discorso, e invece non c’è stato tempo. Come una nostalgia recente. E quindi verrebbe voglia di risalire subito verso Sant’Agata del Bianco, lasciandosi alle spalle le vertigini del mare aperto, le nuove coltivazioni di bergamotto, le vigne del Mantonico, alzando gli occhi verso la montagna da dove arriva la musica. Verso uno dei cento e cento paesi della Calabria interna, senza sapere quanto lo troverai deserto: ma Sant’Agata no, non è deserta come Ferruzzano che sta a portata di sguardo. Quantomeno, non lo è di pensieri, azione e idee.

    sant-agata-la-montagna-dove-la-musica-e-cambiata
    Rocce e murales nel centro storico di Sant’Agata del Bianco

    Sant’Agata del Bianco: il paese di Saverio Strati

    E quindi, in attesa di tornarci, questa è la sua storia e la sua acqua: il paese dello scrittore Saverio Strati e dei diciotto murales, del centro rimesso a nuovo, di un contadino-scultore di nome Vincenzo Baldissarro, di un monolite scolpito tra agli ulivi, perché si sa che l’Aspromonte è anche il posto delle grandi pietre. Di Totò Scarfone che raccoglie gli oggetti del Museo delle Cose Perdute e vuole allargarsi, di musicanti e film. Il degno seguito di una visita alla Villa Romana di Casignana, che sta a 13 chilometri, sulla Jonica reggina.

    sant-agata-la-montagna-dove-la-musica-e-cambiata
    L’interno della casa dello scrittore Saverio Strati

    «Questi artisti c’erano già tutti, ma prima erano soli», dice il sindaco Domenico Stranieri, insegnante di filosofia al Nord in aspettativa non retribuita (e per scelta, senza indennità di missione).
    «Abbiamo cominciato a dare un nome ai luoghi, si era persa l’identità del paese», aggiunge. «In certi punti, dobbiamo riconquistare il panorama: il cemento senza nessuna regola lo ha cancellato».

    La casa di Strati era chiusa, ristrutturata così così, dentro trovarono un materasso. Oggi è un murale a due piani. «Il Comune era messo male, i regolamenti risalivano agli anni ’90. Siamo partiti dalle rovine, abbiamo cercato di coprire i debiti prima di tutto. Poi ho pensato che il paese avesse bisogno di socialità, è nata una piccola scuola calcio. Un paese dove si potesse vivere anche a piedi, senza andare a cercare tutti i servizi nei posti vicini».

    Il campione di cricket venuto dalla Spagna

    Domenico Stranieri ha conosciuto Jaime Gonzalez Molina, uno spagnolo arrivato qui per amore. Ex campione di cricket, Jaime è entrato nella lista per le elezioni, poi è diventato assessore: la carta in più per Sant’Agata e altri paesi ai bandi Ue (dove la Calabria brilla spesso per non partecipazione), magari per dare una migliore illuminazione ai centri abitati. «E qualche volta la maggioranza fa festa con la paella invece che con la capra».

    Ma potete trovarlo a piantare i cartelli stradali insieme al sindaco (Sant’Agata sembrava irraggiungibile), a pulire il percorso dei palmenti scavati nella roccia: capita che i due si diano il cambio per andare a fare una doccia. Perché chi governa il paese (in Giunta c’è anche Gina Mesiano, vicesindaca, sempre in prima fila) non ha tempo da perdere: troverete loro a spostar le sedie, a montare i palchi, a recuperare la storia dei palazzi: come quello di “Don Michelino”, che nel romanzo di Strati Tibi e Tascia dà al ragazzo l’opportunità di studiare.

    E qui tocca rivedere la vita dello scrittore, che fa tutti i mestieri fino a 21 anni, poi grazie a un parente che si è fatto ricco in America riesce a diplomarsi, trasferirsi nel Fiorentino e scrivere come se fosse una malattia, fino a vincere il Premio Campiello: ora Rubbettino ha acquisito i diritti di tutti i suoi romanzi e li sta pubblicando.

    Sant’Agata del Bianco, il paese dei poeti contadini

    Ma ogni casa ha una storia nel paese, lo scrittore santagatese Giuseppe Melina ha sempre sostenuto che qui c’è un gene che emerge «dal fondo greco della nostra cultura». Stranieri mostra la copertina di Vie Nuove, rivista-rotocalco del Pci: nel 1953 dedicò una copertina ai poeti contadini di Sant’Agata (ecco il gene) che recitavano a memoria la Divina Commedia.

    sant-agata-la-montagna-dove-la-musica-e-cambiata
    Murales che rievoca i poeti contadini (foto pagina fb Insieme per Sant’Agata)

    La sua squadra, che ha molti giovani, è riuscita così a fermare il tempo prima che tutto questo andasse perduto: «E ora non ci si vergogna di recitare poesie». Prima che Sant’Agata si trasformasse in un non-paese, con le case sbarrate e indivise, che non interessano più ai figli dei figli che sono partiti, il silenzio. Invece qui si torna, anche con il cuore: mesi fa il sindaco ha ricevuto una grande busta piena di cd e di ritagli stampa. Gliel’ha spedita Salvatore Barbagallo, in arte Mauro Giordani, che è stato autore per Celentano e cantante. Partì a tredici anni con la famiglia per Milano, è stato contento di rivedere Sant’Agata (600 abitanti) sui giornali, e vuole far parte dell’orchestra.

    Da Voltarelli allo Stato Sociale

    Come se questo paese avesse una sua colonna sonora. Da qui passano e tornano i migliori interpreti del folk e della canzone d’autore, Mimmo Cavallaro, Ettore Castagna, Peppe Voltarelli. Qui hanno amici e legami star come Calcutta, qui ogni estate torna Lo Stato Sociale per il Festival Stratificazioni (direttore artistico Fabio Nirta).

    L’edizione 2020 del festival Stratificazioni

    Ma qui bisogna fermarsi e tornare purtroppo a parlare di politica. Perché la Regione – per la precisione il Dipartimento al Turismo – ha scritto che sosterrà i paesi al di sotto dei 5.000 abitanti che possono offrire almeno 500 posti letto. Neppure consorziandosi con altri, Sant’Agata ce la farebbe. Stranieri ha scritto una lettera molto dura al presidente della Regione Roberto Occhiuto, e aspetta una risposta.

    Stratificazioni si farà lo stesso, gli artisti verranno anche gratis, anche per ammirare la strepitosa location: le rocce di Campolico, con vista sull’immenso letto della fiumara La Verde e sul mare, ospitano ogni estate concerti, presentazioni, happening teatrali e film. C’è solo una musica non gradita qui, quella dei neomelodici: «Ma io – dice il sindaco – sono come un buon padre di famiglia, e mai spenderò soldi pubblici per cantanti che inneggiano alla mafia». Il paesaggio è quello ritratto da Edward Lear, l’intenzione è quella di recuperare il Belvedere di Contrada Cola, dove Strati si rifugiava a scrivere.

    Aspettando le foto di Steve McCurry

    Questa è dunque la storia di Sant’Agata, che rinasce dalle case diroccate per diventare un paese moderno, dove si parlano le lingue e la tradizione non è una catena, c’è il wi-fi comunale e un punto di incontro che si chiama Il giardino del pensiero, dove arrivano scuole da Calabria e Sicilia, con il passaparola. Dove le finestre sono narranti, e le sculture nella roccia vanno viste al tramonto.

    Un paese che rischiava di essere cancellato dalla nostra memoria e invece sta su YouTube e in tante kermesse, e prossimamente nelle foto scattate da Steve McCurry. Dove passano artisti e poeti, superando chilometri, stereotipi e mancanza di cachet. E qualche volta c’è una visita più speciale di altre: a Sant’Agata è arrivata anche quella che è stata la prof d’italiano di Domenico Stranieri al liceo di Locri. Rita Incorpora, figlia di uno storico dell’Arte, ha voluto fare i complimenti al sindaco. Li merita anche lei, chi siamo noi se non il frutto dei nostri maestri?

  • Amministrative a Bagnara, sospetti brogli. E il voto finisce al Tar

    Amministrative a Bagnara, sospetti brogli. E il voto finisce al Tar

    Mario Romeo, il candidato a sindaco sconfitto elle ultime Amministrative di Bagnara Calabra, ha presentato ricorso al Tar contro l’esito delle elezioni. Questo, in sé, non farebbe notizia. Più eclatanti risulterebbero, se confermati, i motivi dell’impugnazione del leader della lista civica La Bagnara che vogliamo, espressione del centrodestra.
    «Subito dopo il voto – spiega Romeo in una nota – ci sono state insistenti voci di corridoio su una gestione piuttosto “allegra” delle operazioni elettorali in molte sezioni. Perciò ci siamo affidati alla procedura di accesso agli atti per fugare ogni incertezza.
    Con grande rammarico, i dubbi sembrerebbero confermati. Infatti, dopo un’attenta lettura degli atti ed un riscontro dettagliato, abbiamo rilevato numerosissime anomalie che riteniamo gravi, al punto di inficiare il voto».

    elezioni-bagnara-voti-sospetti-schede-elettori
    Mario Romeo

    Elezioni a Bagnara, Romeo accusa: avrebbero votato anche gli assenti

    Al riguardo, prosegue Romeo, «è bastata una veloce lettura per capire che molti iscritti nei registri sarebbero identificati con numeri non corrispondenti ai documenti di riconoscimento. Inoltre, nei registri delle operazioni elettorali di diverse sezioni non sarebbero indicate delle schede vidimate e non votate. Ancora, in diverse sezioni risulterebbe mancante il numero delle schede restituite. Ciò dimostrerebbe l’esistenza delle “schede ballerine” e una serie di vizi nei verbali delle sezioni elettorali redatti dai rispettivi presidenti durante il voto. Sembrerebbe, addirittura, che le schede votate siano maggiori rispetto agli elettori che si sono realmente presentati al seggio con la tessera elettorale.
    Questo proverebbe ancora che abbiano votato centinaia di persone in assenza di una loro annotazione sul registro degli aventi diritto. Quindi risulterebbe il voto di persone che vivono all’estero e non mettono piede a Bagnara da molti anni. Inoltre, nel registro dei votanti ci sarebbe qualcuno che avrebbe dichiarato di non essersi mai recato alle urne in quei giorni per problemi di salute».

  • Scilla: il paradiso perduto a colpi di decibel, spada e nero di seppia

    Scilla: il paradiso perduto a colpi di decibel, spada e nero di seppia

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Dalla terrazza di piazza San Rocco si gode un panorama meraviglioso, la Sicilia, lo Stretto, il castello dei Ruffo, la Marina Grande e Chianalea, le due zone di Scilla più affollate di vacanzieri. Ho scoperto che dall’anno scorso è in funzione un ascensore che dalla piazza porta giù sul lungomare, in pochi secondi. Al costo di un euro. Provvidenziale specie se dal lungomare si vuole andare su, perché con l’afa di questi giorni affrontare le gradinate non sarebbe piacevole. L’ascensore decolla in uno slargo, accanto alla chiesa dello Spirito Santo. Proprio il nome giusto per questa ascensione al centro storico, e a qualche momento di tranquillità, rispetto al trambusto di sotto.

    scilla-ascensore
    L’inaugurazione dell’ascensore di Scilla con l’allora presidente f.f. della Regione, Nino Spirlì

    Intorno a piazza San Rocco le strade in salita sono tranquille, solitarie. Pochissimi locali, poco traffico, tranne sul  viale che porta giù, dove si incanala una fila ininterrotta di auto e moto. Che ci vai a fare a Scilla se non ti godi il traffico sulla statale 18 e sul lungomare? L’ascensore va bene per i pavidi come me. Quelli che una volta posteggiata la macchina non si azzardano a sfidare la sorte, incrociando in curva il gigantesco camion della raccolta rifiuti, con un autista mitico come gli antichi marinai di questo bellissimo borgo.

    scilla-belvedere
    Il belvedere di piazza San Rocco a Scilla

    Dall’Odissea a Horcynus Orca

    Un luogo immerso nel mito, anzi nei miti, li riassume e li evoca quasi tutti. Anche ora che la navigazione non rappresenta più un’avventura come ai tempi di Ulisse e le navi gigantesche che passano in lontananza non temono certo i gorghi e le insidie di Scilla e Cariddi. Questo mare, cantato dai versi di Omero, in epoca più recente ha ispirato Horcynus Orca, il romanzo di Stefano D’Arrigo, del 1975.

    Un parco letterario lo ricorda, anche se ha sede in Sicilia. A Palmi un museo è dedicato a Leonida Repaci, i turbamenti del Previtocciolo di don Luca Asprea hanno avuto come sfondo Oppido Mamertina e altri luoghi di questo territorio così ricco di scrittori.

    Aumenta il volume e pure la temperatura

    La mattinata trascorsa in uno dei lidi di Marina Grande mi ha confermato che Scilla ormai ha consolidato il suo successo, si incrociano tutti i dialetti italiani e molte lingue straniere, sovrastate sempre più dalla musica che aumenta di intensità, con l’aumentare della temperatura.

    scilla-estate-colpi-decibel
    In bicicletta a picco sul mare di Scilla (foto Gianfranco Donadio)

    Gli animatori dei lidi guidano la battaglia a colpi di decibel, riuniscono le truppe e le conducono allo scontro finale. I bambini più piccoli in questo marasma appaiono smarriti, percepiscono di non essere al centro dell’attenzione. Si sentono trascurati e piangono, i più fortunati riescono ad addormentarsi. Mi tornano alla memoria le vacanze degli anni Sessanta del secolo scorso, quando le marine erano silenziose, ma i neonati venivano portati in spiaggia all’alba e al tramonto, per proteggerli dal sole, e poi condotti a casa. Adesso pure le nonne stanno in bikini a tracannare birra, sotto la canicola.

    Pesce spada e nero di seppia

    Si pranza al lido, dato che nessuno torna a casa a cucinare, a proposito delle abitudini di un tempo. Vanno per la maggiore i panini al nero di seppia e gli arancini dello stesso colore, ripieni di parmigiana di melanzane e pesce spada. Hanno l’aspetto di palle di cannone, sono buoni, ma dove troveranno tutte queste seppie e pesci spada? Nei documentari in bianco e nero di Vittorio De Seta, girati da queste parti, le spadare spinte a forza di remi solcavano lo Stretto in cerca della preda. Ore di fatica per individuare un pesce spada, magari due se si riusciva a catturare prima la femmina, il maschio in questo caso si suicidava consegnandosi spontaneamente. Costumi cavallereschi di altre epoche. Ora le grandi navi per la pesca in mare aperto risucchiano tutte le creature marine. Neanche le sirene avrebbero scampo, se ci fossero. Non c’è nulla di romantico da raccontare.

    Il pranzo segna il momento parossistico nella vita del lido, lo scatenamento degli istinti e della volontà di sopraffazione. Le donne competono a colpi di bikini, gli uomini ostentano virilmente la pancia.
    Tutti insieme gli occupanti degli ombrelloni si sfidano a colpi di ordinazioni. Quattro ragazzi di Luzzi ordinano una bottiglia di spumante, poi un’altra, che gli vengono portate sotto l’ombrellone col secchiello regolamentare. Un trionfo, foto e video in tutte le pose. Come posso competere con la mia bottiglia di minerale naturale? Ci sarà una Coppa del nonno in edizione special, numerata?

    Scilla e il cardinale Ruffo

    Intanto gli animatori continuano ad incitare il loro pubblico, ad alzare ancora il volume della musica. Non reggo, me ne torno in albergo, pochi passi e sono in salvo.  Da queste parti nel 1799 il cardinale Fabrizio Ruffo organizzò il suo esercito di contadini, per muovere contro i giacobini della Repubblica Partenopea. Scilla e Bagnara erano feudi della sua famiglia, i contadini accorsero a migliaia convinti di combattere in difesa della fede. In pochi mesi marciarono su Napoli e massacrarono i rivoluzionari meridionali.
    Nel dormiveglia pomeridiano mi appare il cardinale Ruffo, sulle mura del castello di famiglia. Guarda corrucciato le folle urlanti sulla spiaggia. Ma non li aveva eliminati tutti quei dissoluti nemici della fede? Fa puntare i cannoni con strani proiettili, sembrano i panini al nero di seppia. Ordina lo sterminio dei bagnanti. Alla prima cannonata mi sveglio, illeso.

    Turisti a mollo sulla spiaggia ai piedi del Castello Ruffo di Scilla

    Come cercare un altro modo di vivere le vacanze? Senza pensare necessariamente a rievocazioni storiche, forse questo patrimonio così ricco di miti e storie potrebbe essere valorizzato in qualche modo. Un percorso, una serata di lettura di testi, un museo virtuale. In un paese una libreria, a quanto pare, non può reggersi, ma tutti i libri ispirati da questi luoghi non meriterebbero visibilità? Non credo che esista un solo modello di sviluppo turistico, quello della riviera adriatica, di Rimini e dintorni. Ricordo Scilla affollata già tanti anni fa, le persone a passeggio tra le case dei pescatori.

    Un pescatore a Chianalea

    Scilla, un borgo per turisti

    La trasformazione dei borghi come Scilla, ma anche delle città d’arte, in una serie ininterrotta di locali e case per turisti sta mostrando i suoi limiti. Se si esagera vengono meno le ragioni per cui vale la pena andare in un certo luogo, perché finiscono per essere tutti uguali. A Chianalea ora si cammina a fatica tra un ristorante e un pub, tra un negozio di souvenir e un’agenzia, quante saranno le famiglie residenti ancora presenti? Intanto al centro storico non ci sono segni di attività, nonostante l’ascensore e la posizione panoramica. Forse questi fenomeni positivi di sviluppo andrebbero governati e indirizzati.

    Barche ormeggiate a Scilla

    Dopo due giorni a Marina Grande percorro la statale 18 verso Bagnara Calabra, costeggiando antichi mulini. I paesi distrutti dal terremoto del 1908 si riconoscono per la pianta urbana regolare della ricostruzione, strade parallele, edifici bassi e modesti. A Bagnara la spiaggia è molto lunga, ci sono i lidi e ampi tratti di spiaggia libera, la situazione mi pare tranquilla. I prezzi sembrano contenuti. Sul mare passa una spadara, come nel documentario di De Seta. Ci sistemiamo in un lido, con gesti furtivi da cospiratore scorro le proposte gastronomiche del giorno. Ritrovo i panini al nero di seppia, e tanti nomi esotici che evocano la Florida e i Caraibi. Non importa, meglio che Omero e Ulisse non diventino nomi di piadine e pizzette. Al momento l’animazione tace. Speriamo che non si accorgano della nostra presenza.

  • Cinque Stelle, due morali: niente termovalorizzatore a Roma,  ma va bene in Calabria

    Cinque Stelle, due morali: niente termovalorizzatore a Roma, ma va bene in Calabria

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Tutte le testate nazionali lo confermano: il casus belli che ha portato il Movimento 5 Stelle a non votare la fiducia (uscendo dall’aula del Senato) al Governo Draghi è una norma del Decreto Legge “Aiuti”. Quella, cioè, che concede poteri straordinari al sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, per la gestione in autonomia del ciclo dei rifiuti capitolini. E, a seguire, per la realizzazione del termovalorizzatore annunciato lo scorso aprile. Quei poteri aggiuntivi, difatti, consentiranno al primo cittadino romano di derogare al piano rifiuti regionale. Che il termovalorizzatore, invece, non lo prevede.

    Termovalorizzatore, il braccio di ferro nazionale

    Giusto due mesi fa il presidente del M5S, Giuseppe Conte, stigmatizzò tale ipotesi con un secco “no”. «Termovalorizzatore vuole dire fumi inquinanti, vuol dire scorie leggere e pesanti» disse in diretta su Twitter. Il fondatore e garante Beppe Grillo, a sua volta, parlò di «scelta insensata». Il motivo? «Bruciare i rifiuti è la negazione dell’economia circolare, a maggior ragione se si pensa che quest’impianto avrà bisogno comunque di una discarica al suo servizio per smaltire le ceneri prodotte dalla combustione, equivalenti a un terzo dei rifiuti che entrano nel forno».

    Conte e Grillo

    Certo, quando si è arrivati a dover trovare una mediazione in extremis, lo stesso Grillo dichiarò: «Non esco dal governo per un c… di inceneritore». Ora, però, è arrivata la decisione di non votare la fiducia al Dl “Aiuti” in Senato, con la capogruppo pentastellata Mariolina Castellone che ha bollato l’inserimento della controversa norma come «una follia»). La contromossa di Mario Draghi? Convocare il Consiglio dei ministri e poi salire al Quirinale per rassegnare le dimissioni (poi respinte). Il nodo è ancor più venuto al pettine.

    Mattarella e Draghi

    «È veramente una follia interrompere il Governo. Mandiamo in crisi un governo per un termovalorizzatore a Roma? Ma chi ci rimette? La povera gente», ha dichiarato il sindaco di Milano, Beppe Sala. «Non si fa una crisi per un termovalorizzatore. Il premier non può essere sottoposto a ricatti», gli ha fatto eco il parlamentare e dirigente nazionale del Pd, Enrico Borghi.
    Si attende la cosiddetta “parlamentarizzazione della crisi” di mercoledì prossimo, con Mario Draghi che si presenterà alle Camere. Intanto il dibattito sul termovalorizzatore romano come miccia scatenante della crisi stessa tiene banco e a pieno.

    L’imbarazzo tra i grillini calabresi per il loro capogruppo

    I pentastellati a livello nazionale hanno “inventato” il ministero della Transizione ecologica con a capo il fisico Roberto Cingolani. In altre Regioni, si pensi al Lazio, esprimono l’assessora alla Transizione ecologica, Roberta Lombardi. M5S, insomma, fa dell’ecologia, dell’economia green e della lotta agli inceneritori una assoluta priorità. Al punto d’arrivare a far saltare sia il Governo di Unità nazionale guidato da Mario Draghi sia il tentennante (e arrancante) “campo largo” con il Partito Democratico.

    Tavernise stringe la mano a Occhiuto

    In Calabria, invece, i due grillini in Consiglio regionale sono sotto il tiro sia del Pd che dal gruppo facente capo a Luigi De Magistris. Li accusano di portare avanti una opposizione “supina” o, financo, “inclinata” al Governo guidato da Roberto Occhiuto. Il capogruppo del M5S a Palazzo Campanella, Davide Tavernise, ha esternato posizioni in netto contrasto con quelle dei colleghi di partito romani. E ha suscitato non pochi imbarazzi, in primis tra i parlamentari calabresi che a Roma poi devono render conto, soprattutto in previsione delle elezioni politiche.

    Termovalorizzatore a Gioia Tauro? Va bene anche a Cosenza

    Tre mesi fa, seduta di Palazzo Campanella del 19 aprile. Proprio due giorni prima che il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, annunciasse il termovalorizzatore che avrebbe poi portato alla crisi di Governo, a Reggio Calabria si discuteva della “Multiutility”.
    In quella occasione Tavernise ha preso la parola aderendo espressamente al “Partito dell’inceneritore”.

    Catanzaro abbaia e Reggio morde: il consiglio regionale resta sullo Stretto
    L’aula del Consiglio regionale della Calabria

    «Voglio, invece, prendere posizione – le sue parole – su una questione che è associata a questa Multiutility, presidente Occhiuto. Ho letto proprio stamattina in un articolo, su un quotidiano, le dichiarazioni del Sindaco di Gioia Tauro, che io reputo, veramente, vergognose…».«Sentire e leggere – continuava il capogruppo M5S – che se si raddoppia il termovalorizzatore di Gioia Tauro è giusto raddoppiare i posti letto in ospedale, penso sia un atteggiamento un po’ superficiale da parte di chi fa il sindaco. Le faccio una provocazione: io non sono favorevole a priori al raddoppio, sono sicuramente a favore per l’adeguamento dell’inceneritore di Gioia Tauro, perché oggi quell’inceneritore sta ammazzando la gente, non lo dico io, ma lo dicono i fatti. Se non si è d’accordo, presidente Occhiuto, le faccio un invito: al posto del raddoppio di quell’inceneritore e dell’adeguamento, io direi di chiuderlo proprio. Iniziamo a pensare di farlo da un’altra parte».

    termovalorizzatore-copenhagen
    Amager Bakke, il termovalorizzatore di Copenhagen celebre per ospitare una pista da sci

    «…Siccome, a differenza di quello che qualcuno ha detto, io ho coraggio, non è vero che me ne lavo le mani come Don Abbondio, la invito ad iniziare ad individuare anche un altro sito per un termovalorizzatore, magari nella provincia di Cosenza, visto che il sindaco di Gioia Tauro dice che dobbiamo farlo da un’altra parte… È facile dire che siamo contro i termovalorizzatori e contro gli inceneritori, però voi sapete che la migliore Regione, il Veneto, ha raggiunto il 75% di raccolta differenziata. Mia padre che ha la terza elementare mi ha detto che il restante 25 percento o si conferisce in discarica o si brucia. Cerchiamo di bruciarlo seguendo esempi come il termovalorizzatore di Copenaghen o anche quello di Brescia, che sono dei termovalorizzatori moderni» concluse Tavernise annunciando voto di astensione sulla Multiutility voluta da Occhiuto, tra lo stupore e i mugugni dei colleghi di minoranza.

    Sindaci in rivolta

    «La giunta regionale sta lavorando per il privato. L’azione che ci rimane da fare è la protesta, dobbiamo diventare una spina al fianco della giunta regionale» ha dichiarato il sindaco di Gioia Tauro, Aldo Alessio, oggetto degli strali di Tavernise.
    Contattato direttamente da I Calabresi, Alessio ha dichiarato: «Inutile che si parli di adeguamento, è un raddoppio del termovalorizzatore. La salute dei cittadini viene scambiata con l’interesse economico del privato. All’interno del M5S ci sono delle contraddizioni, non hanno una posizione univoca. Nel nostro territorio c’è il senatore Giuseppe Auddino che è al nostro fianco da sempre. Tavernise è penoso, dovrebbe venire a spiegare ai cittadini gioiesi perché secondo lui deve essere raddoppiato il termovalorizzatore».

    Aldo Alessio, sindaco di Gioia Tauro

    Alessio ha richiesto l’accesso agli atti per valutare l’impugnativa della delibera di Giunta regionale dello scorso 21 marzo che approvava il documento tecnico di indirizzo per l’aggiornamento del Piano regionale di gestione rifiuti del 2016. Il sindaco della città Metropolitana di Reggio Calabria, Carmelo Versace, aveva annunciato la possibilità di impugnare proprio la legge regionale 10, quella sulla Multiutility.

    Carmelo Versace, sindaco della Città metropolitana di Reggio Calabria

    «Sin dal primo momento siamo stati contrari all’ipotesi di raddoppio di questo impianto che, ribadiamo, non è un termovalorizzatore, ma un inceneritore» ha dichiarato pubblicamente, invece, il sindaco di Reggio Calabria, Paolo Brunetti. È chiaro, quindi, che i sindaci sono sul piede di guerra.

    Termovalorizzatore, l’ultima proroga

    Intanto l’avviso pubblico esplorativo per “la ricerca di operatori economici interessati alla presentazione di proposte di project financing finalizzate all’individuazione del promotore ex art. 183, Dlgs 50/2016, per l’affidamento della concessione relativa alla progettazione e realizzazione dell’adeguamento e completamento del termovalorizzatore di Gioia Tauro comprensiva della gestione” che scadeva a maggio, è stato prorogato al prossimo 29 luglio.

    Sulla manifestazione di interesse si legge che “in Calabria la gestione dei rifiuti urbani è fortemente condizionata e dipendente dallo smaltimento in discarica; in discarica vengono conferiti i rifiuti prodotti dal trattamento dei rifiuti urbani per cui la chiusura del ciclo di gestione dipende dalla disponibilità di volumi di abbanco, registrando una grave criticità dovuta alla carenza strutturale di discariche pubbliche e private sul territorio regionale nonché determinando un aggravio dei costi per i cittadini calabresi per il necessario ricorso a discariche o a impianti di incenerimento extra-regionali”.

    termovalorizzatore-gioia-tauro-quello-che-la-regione-calabria-non-dice
    Il termovalorizzatore di Gioia Tauro

    Il documento riporta anche che “la Regione Calabria, ricorrendo alla normativa vigente e alle nuove disposizioni di ARERA, intende dotarsi di un mix impiantistico in grado di assicurare il recupero e il riciclaggio di materia dalle frazioni merceologiche che compongono i rifiuti urbani e, a valle, chiudere il ciclo attraverso il recupero energetico dai rifiuti secondari (derivanti dal trattamento delle frazioni merceologiche del rifiuto urbano) nell’impianto di termovalorizzazione di Gioia Tauro”.

    Insomma, in Calabria il termovalorizzatore s’ha da fare. Anche grazie al supporto politico del Movimento 5 Stelle. Ma tra il Pollino e lo Stretto, evidentemente, manca un Draghi da mandare a casa.

  • Calabria “ammore” mio: Cutolo e la ‘ndrangheta

    Calabria “ammore” mio: Cutolo e la ‘ndrangheta

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Iniziamo con una data: 28 giugno 1982. L’avvocato Silvio Sesti, penalista cosentino di grande livello e specchiata onestà, cade sotto il fuoco di due sicari, che lo freddano nel suo studio.
    Di questo cold case della storia criminale calabrese rimane un dettaglio vistoso. Gli assassini non sono calabresi, ma due napoletani: Alfonso Pinelli e Sergio Bianchi, detto ’o Pazzo.
    «Sparava come un dio e non gliene fotteva niente di nessuno», ha detto di lui Pasquale Barra, detto ’o Animale che, prima di pentirsi, faceva il killer delle carceri per conto della Nuova camorra organizzata. Suo l’assassinio truce di Francis Turatello, nel carcere di Badu ’e Carros.
    Ma in quanto a sangue versato, Bianchi lo fregava: portava sulla coscienza (posto che ne avesse una) trecento morti ammazzati. A questo punto, la domanda vera è una: cosa ci facevano due killer campani a Cosenza? Un altro dettaglio può aiutare: anche ’o Pazzo faceva parte della Nco. E la Nco significa solo un nome: Raffaele Cutolo.

    cutolo-ndrangheta-quando-camorra-colonizzo-cosenza
    Il funerale di Silvio Sesti

    Cosentini in trasferta

    Facciamo un passo indietro e cambiamo zona: il 3 settembre 1981 i carabinieri arrestano a Napoli Franco Pino, boss rampante della malavita cosentina, l’ultima che si era costituita in ’ndrangheta.
    Assieme al giovane boss (29 anni all’epoca), finiscono in manette i cosentini Giuseppe Irillo, detto ’a Vecchiarella, e Antonio De Rose, che qualche anno dopo sarebbe diventato il primo pentito di Cosenza. Più il paolano Osvaldo Bonanata, detto ’u Macellaiu. Più vistosi i nomi dei napoletani arrestati assieme ai compari calabresi: Francesco Paolo Alfieri e suo padre Salvatore, entrambi uomini di spicco della Nco. Di nuovo Cutolo. La domanda, stavolta, è invertita: che ci facevano i quattro cosentini a Napoli?

    cutolo-ndrangheta-quando-camorra-colonizzo-cosenza
    Il boss, poi pentito, Franco Pino

    L’alleanza d’acciaio

    Per Franco Pino è facile rispondere: il boss dagli occhi di ghiaccio aveva l’obbligo di dimora fuori regione e risiedeva all’Hotel Vittoria di Sapri.
    Ma anche a Napoli Pino si era fatto notare, almeno dalle forze dell’ordine che lo sospettavano di alcune rapine.
    In realtà, il rapporto tra il clan Pino-Sena e la Nco faceva parte di una strategia più complessa e sofisticata, messa a punto da don Raffaele, all’epoca latitante nel suo castello di Ottaviano.

    Lo strano battesimo

    Tutto comincia in carcere, quando (erano gli anni ’70) Egidio Muraca, storico boss di Lamezia, inizia Raffaele Cutolo alla ’ndrangheta.
    Altra domanda: perché Cutolo aveva bisogno di farsi iniziare in un’altra struttura criminale, tra l’altro più giovane della Camorra? E ancora: perché la ’ndrangheta, struttura notoriamente “chiusa” e familistica, accettava tra le sue file un napoletano?
    La risposta è articolata. Iniziamo dal punto di vista napoletano: la Camorra, a differenza delle sorelle calabrese e siciliana, non ha mai avuto una struttura compatta e verticistica e, tranne qualche ritualità, non ha mai fatto davvero il salto di qualità verso la mafiosità “vera”. Detto altrimenti, Cutolo aveva bisogno di farsi riconoscere per ritagliarsi un ruolo.
    Viceversa, per i calabresi trovare contatti di rilievo era vitale per mettere un piede a Napoli, fino ad allora “colonizzata” dai siciliani. Insomma, un matrimonio d’interesse in piena regola, che diede i suoi frutti.

    …E se n’è gghiuto puro ’o calabrese

    Qualcuno ricorderà la scena del delitto in carcere de Il Camorrista di Giuseppe Tornatore, un classicone dei mafia movie.
    Bene: la sequenza richiama l’omicidio di don Mico Tripodo, lo storico boss di Sambatello, nemico giurato del reggino Paolo De Stefano, con cui Cutolo aveva stretto un’alleanza di ferro.
    Tripodo fu ammazzato da due giovani cutoliani: Luigi Esposito e Agrippino Effige, neppure cinquant’anni in due.

     

    L’alleanza tra Cutolo e gli emergenti della ’ndrangheta prevedeva lo scambio di killer: i calabresi in Campania e, viceversa, i campani in Calabria.
    Questa gestione non era una novità per i reggini. A Cosenza, invece, era quasi inedita.
    Franco Pino, infatti, non era solo un boss che sgomitava per emergere: tentava di trasformare la mala cosentina in ’ndrangheta vera e propria. E questo spiega perché la Calabria Citra, a un certo punto, si riempì di camorristi.

    Sul Tirreno

    Un uomo chiave di questa trasformazione è il sanlucidano Nelso Basile. Anche Basile aveva un legame d’acciaio coi cutoliani: il suo compare d’anello era Antonio Russo di Afragola. Russo, a sua volta, agiva in Calabria assieme a Bianchi e a Nicola Flagiello di Sant’Antimo.

    cutolo-ndrangheta-quando-camorra-colonizzo-cosenza
    Un ritaglio d’epoca sull’arresto di Pino a Napoli

    Quest’ultimo aveva un ruolo fortissimo nella Nco, perché cognato di Antonio Puca, detto ’o Giappone, luogotenente di Cutolo. I cutoliani venivano in Calabria non solo ad ammazzare, ma anche a svernare, cioè a sottrarsi ai killer della Nuova Famiglia, contro la quale ’o Professore aveva ingaggiato una guerra senza quartiere.
    Secondo varie testimonianze i napoletani si rifugiavano nelle montagne di Falconara Albanese, dove non davano nell’occhio.
    Ma al riguardo è meglio non andare oltre. Soprattutto, è importante evitare paralleli strani con la tragedia tuttora irrisolta di Roberta Lanzino, che morì proprio in quei luoghi.

    Sulla Sibaritide

    Il primo grande boss della Sibaritide, Giuseppe Cirillo, non era calabrese. Neppure napoletano: era di Salerno.
    Anche lui aveva un legame forte con Cutolo, che passava attraverso suo cognato Mario Mirabile, capoparanza della Nco a Salerno. Come se non bastasse, Cirillo era vicino anche a Vincenzo Casillo, detto ’o Nirone, altro uomo di fiducia di don Raffaele.

    La parabola criminale

    Questo intrico termina col declino di Cutolo, che a partire dalla seconda metà degli anni ’80, viene emarginato dalla scena criminale e non solo.
    Forse il suo progetto di una Supercamorra organizzata in maniera militare era un po’ troppo, sebbene avesse sedotto tantissimi soggetti borderline: si contano, al riguardo, cinquemila tra affiliati e fiancheggiatori negli anni d’oro della Nco.

    Raffaele Cutolo alla sbarra

    Ma i calabresi e i cosentini, cosa facevano per Cutolo? Franco Pino, in uno dei suoi verbali fiume, fa un nome: Francesco Pagano, che a suo dire agiva coi campani e, quando era necessario, andava a sparare in trasferta.
    Un’altra “cantata” di Pino getta luce sul delitto Sesti: secondo il superpentito, lo avrebbe commissionato Basile. Ma quest’ultimo non può confermare né smentire: è stato ucciso nell’83.
    Stesso discorso per Bianchi ’o Pazzo, morto com’è vissuto: ammazzato per strada a Napoli nella seconda metà degli anni’80.

  • Centrodestra alla resa di conti: faide, inciuci e batoste mentre Occhiuto tace

    Centrodestra alla resa di conti: faide, inciuci e batoste mentre Occhiuto tace

    Il centrodestra calabrese ha scelto i cavalli sbagliati su cui puntare alle Amministrative di questi ultimi tre anni. Nonostante abbia “sbancato” per due volte di seguito alle Regionali, nei capoluoghi di Provincia “roccaforti” della destra, come Cosenza e Catanzaro, ha ceduto lo scettro a coalizioni di sinistra. Certo, alla gauche non sono mancati “aiutini” dal campo avverso. Ora “sottobanco”, ora con litigi, divisioni e ripicche. Protagonista, in entrambi i casi, un notabilato che inizia ad arrancare in vista delle Politiche. Saranno queste ultime a rappresentare la vera resa dei conti interna al centrodestra in corso da mesi.

    La carta del “Papa straniero” a Reggio

    Quasi due anni fa il tavolo nazionale del centrodestra vedeva Matteo Salvini, forte del vento in poppa e del voto d’opinione raccolto alle Regionali calabresi del 2020, puntare i piedi per realizzare un sogno: avere un sindaco leghista a Reggio Calabria. Fumo negli occhi per il deputato azzurro Francesco Cannizzaro. Quest’ultimo bramava di piazzare un suo uomo, invece ha dovuto subire il “Papa straniero” Nino Minicuci, originario di Melito Porto Salvo e già direttore generale del Comune di Genova. Ed è proprio in Liguria che Minicuci ha trovato i suoi maggiori sponsor politici, dal segretario regionale della Lega, Edoardo Rixi, al presidente di Regione, Giovanni Toti.

    Antonino Minicuci
    Antonino Minicuci

    Vantava una notevole esperienza tecnica Minicuci. Però non gli ha garantito una volata per sfilare Reggio Calabria a quel Giuseppe Falcomatà che ben pochi (anche tra i suoi) volevano veder rieletto. In primis per il “caso Miramare”, che lo ha portato alla sospensione dalla carica dopo la condanna in primo grado nel relativo processo.

    Al primo turno Minicuci prese il 7,1% in meno rispetto alle sue 10 liste, mentre al ballottaggio straperse a favore del candidato del Pd. «Non ha vinto Falcomatà, ma abbiamo perso noi e la responsabilità è di tutti» dichiarò Cannizzaro in conferenza stampa, Una non troppo velata stoccata contro il senatore Marco Siclari. «Io non ho fatto neanche un giorno di mare mentre qualcuno è andato alle Eolie», aggiunse riferendosi al suo avversario interno. Ossia quello che, con la deputata Maria Tripodi, si era schierato subito a favore del “Papa straniero”.

    cannizzaro-princi
    Cannizzaro e la vice presidente della Giunta regionale, sua cugina Giusy Princi

    Profumo di sgambetto nel centrodestra reggino

    Nonostante la sospensione del sindaco per la Severino, l’inchiesta per i brogli elettorali e vari scossoni politico-partitici il centrosinistra governa ancora la città in riva allo Stretto con relativa tranquillità. Ma accade perché in Forza Italia i notabili (i citati Siclari e Tripodi, ma anche l’ex consigliere regionale da 10mila preferenze Domenico Giannetta) sono troppo impegnati a de-Cannizzarizzare il partito in vista delle Politiche. Insomma, sgambetti in vista per “Ciccio Profumo”, nonostante il pennacchio da responsabile di Forza Italia per il Meridione. E nonostante  abbia intascato già la nomina come vice di Roberto Occhiuto per sua cugina Giusy Princi.

    A Crotone briciole e pagnotte

    Coeva alla disfatta leghista a Reggio Calabria è stata quella del centrodestra crotonese. A guidarlo era il deputato azzurro (subentrato proprio nel 2020) Sergio Torromino, coadiuvato dal coordinatore cittadino di FI e oggi portaborse di Valeria Fedele, Mario Megna.
    Fi, Lega e Fdi puntarono sull’avvocato Antonio Manica. Noto professionista, ma politico non trainante, tant’è che al primo turno prese l’8,2% in meno delle sue dieci liste che arrivarono al 49,8%.
    Risultato: Manica al ballottaggio prese oltre 4.500 voti in meno rispetto al primo turno. E a imporsi fu il primo (e unico) sindaco arancione della Regione, Vincenzo Voce, espressione del Movimento “Tesoro Calabria” di Carlo Tansi.

    crotone-voce-cerca-soccorso-azzurri-dopo-crollo-civismo
    Vincenzo Voce, sindaco di Crotone

    In Consiglio comunale Fdi non entrò nemmeno, anche se oggi ha dei simpatizzanti nell’assise. La Lega invece perse la sua unica eletta, Marisa Cavallo, planata nel gruppo misto. La causa principale? I dissidi col commissario provinciale dl Carroccio, Cataldo Calabretta.
    E Forza Italia? Elemosina briciole. Anzi, pagnotte. Tutto nel tentativo (recentemente mancato) di entrare nell’esecutivo civico facendo da stampella ad un sindaco con numeri ballerini. Eppure, con la vittoria schiacciante alle ultime Provinciali che ha visto protagonista politico l’ex assessore Leo Pedace, il centrodestra pitagorico aveva di fronte a sé un governo cittadino alla canna del gas. Invece, la canna è diventata un boccaglio, fornito dal citato forzista Megna e i suoi sodali.

    L’anomalia cosentina

    Le comunali di Cosenza, invece, si sono tenute lo stesso giorno delle regionali che hanno portato Roberto Occhiuto alla Presidenza della Regione.
    Il candidato di Forza Italia, Lega, Fdi, Udc e Coraggio Italia è stato Francesco Caruso, già vicesindaco di Mario Occhiuto. Le sue liste al primo turno ottennero il 43,2%, in linea con il risultato del centrodestra alle regionali, pari al 43,7%. Il candidato, però, ebbe il 5,8% in meno delle otto liste a suo supporto. E si ritrovò come sfidante Francesco De Cicco, assessore in carica della sua stessa Giunta comunale. Lo stesso assessore che al secondo turno “abbracciò” Franz Caruso ed il Pd, sempre rimanendo in carica fino alla successiva nomina nel nuovo governo cittadino e risultando decisivo nella vittoria del centrosinistra.

    centrodestra-alla-resa-di-conti-faide-inciuci-e-batoste-ma-occhiuto-tace
    Francesco Caruso e Mario Occhiuto durante la campagna elettorale

    Che Mario Occhiuto ed il centrodestra ormai guidato dal fratello Roberto abbiano puntato su un “pupillo” senza revocare dalla Giunta una spina nel fianco da quasi 5.000 voti odora di inciucio tra schieramenti formalmente avversi. Chissà se ricambiato con la successiva vittoria della sindaca di San Giovanni in Fiore e anche lei già assessora della Giunta di Mario Occhiuto, Rosaria Succurro, alle Provinciali bruzie.

    La debacle del centrodestra a Catanzaro

    Non serve dilungarsi, ne abbiamo recentemente parlato a più riprese. Nel capoluogo di Regione andato al voto poche settimane fa, è emersa plasticamente la scarsa capacità del notabilato regionale di puntare su un cavallo vincente. E con essa tutte le frizioni in vista delle politiche.
    Nell’arco della campagna elettorale a favore del docente di sinistra Valerio Donato, il centrodestra è passato da più fasi. La prima, quella in cui era certo di una vittoria marcata al primo turno. La seconda, in cui ha coltivato la speranza (poi realizzatasi) dell’anatra zoppa. Infine, quella della desolazione post ballottaggio.

    elezioni-catanzaro-fiorita-sindaco-sconfitto-donato
    Nicola Fiorita, professore universitario e nuovo sindaco di Catanzaro

    Oggi il sindaco è Nicola Fiorita. E in queste ore dai partiti di sinistra sta ricevendo più telefonate per posti in Giunta che voti alle elezioni, espressione del civismo di sinistra. Un successo, il suo, frutto non solo dell’attrattività della sua figura, ma anche delle faide interne al centrodestra. Che, pur sconfitto, rimane maggioranza nel tessuto sociale della città. Il neo-sindaco rischia di essere prigioniero del “campo largo” rimasto sulla carta. E c’è la possibilità che si veda imporre dal Nazareno la nomina della “sardina” Jasmine Cristallo come sua portavoce. La cosa causerebbe malumori alle decine di aspiranti assessori che ritengono di poter rientrare in quel concetto di “nomine di alto profilo” che Fiorita vorrebbe sia per la Giunta che per le altre caselle. Insomma, i nodi verranno presto al pettine.

    centrodestra-alla-resa-di-conti-faide-inciuci-e-batoste-ma-occhiuto-tace
    Filippo Mancuso (Lega) è il presidente del Consiglio regionale della Calabria

    Detto questo, la carta bianca data dalla Lega a Filippo Mancuso in questa campagna elettorale appena conclusa, non ha premiato. Così come il tentativo del coordinatore regionale di Fi, Giuseppe Mangialavori, di replicare l’esperienza delle comunali di Vibo Valentia del 2015 con Elio Costa, in cui i partiti del centrodestra si erano “mimetizzati” con sigle differenti dalle originali.

    Il Vibocentrismo regge

    L’avvocata Maria Limardo, dopo una candidatura alle elezioni regionali del 2010 con il Pdl e l’elezione sfiorata con ben 4.736 preferenze nell’allora collegio di Vibo Valentia, è divenuta sindaca di Vibo Valentia nel 2019 al primo turno (con quasi il 60% dei voti) con una coalizione trainata dal suo partito, Forza Italia e dal già citato Giuseppe Mangialavori.

    vibo-valentia-tanti-problemi-ma-anche-passi-avanti-la-difesa-di-limardo
    Maria Limardo, sindaco di Vibo Valentia

    La Limardo è una mosca bianca di questo centrodestra incapace di esprimere amministratori locali di chiara matrice partitica. Netta nelle decisioni, riesce a gestire le fibrillazioni politico-partitiche senza esserne succube.  è sopravvissuta politicamente dopo lo scossone di Rinascita-Scott che portò la commissaria regionale di Fdi Wanda Ferro a chiedere pubblicamente la fine della consiliatura (ricevendo, di fatto una pernacchia). E alle ultime regionali ha superato il brutto sgambetto al leader di una importante formazione politica che governa con lei Vibo Valentia. Parliamo di Città Futura e di Vito Pitaro, estromesso dalle candidature a pochi giorni dal voto.

    Insomma, in una politica fatta di equilibrismi ed equilibristi (ma anche di trapezisti e clown, a dirla tutta), il decisionismo della Limardo è un tratto inedito. Che difficilmente, però, un notabilato alla perenne, famelica ricerca di un altro giro di giostra in Parlamento intende valorizzare.

    Roberto Occhiuto si smarca dal resto del centrodestra

    «Dal primo giorno del mio mandato da presidente della Regione ho detto che avrei fatto l’uomo di governo e che mi sarei occupato soltanto dei problemi della Calabria, lasciando ai partiti le scelte in ordine ai candidati sindaco delle città». «Rimango un dirigente politico nazionale del centrodestra, ed è chiaro che mi impegnerò per le prossime elezioni politiche. Ma per scegliere gli aspiranti primi cittadini non sono intervenuto e non interverrò in futuro». Queste le dichiarazioni di Roberto Occhiuto all’Ansa dopo l’ultima tornata amministrativa.

    centrodestra-alla-resa-di-conti-faide-inciuci-e-batoste-ma-occhiuto-tace
    Vincenzo De Luca

    Una posizione molto diversa dai suoi colleghi presidenti di Regione. In Campania Vincenzo De Luca in alcuni comuni ha presentato la lista Campania Libera di sua diretta espressione. E si è preso il merito delle vittorie, tra cui quella di Enzo Cuomo a Portici (con l’80%).

    In Puglia Michele Emiliano rivendica la vittoria locale della «formazione che governa la Puglia» e che ha visto il democrat vicino a molti candidati in questa tornata amministrativa. Tra questi, il sindaco rieletto di Taranto Rinaldo Melucci. «Sicuramente è uno dei risultati più importanti in Italia perché qui la coalizione si è presentata nella stessa formazione che governa la Regione e nella stessa formazione che ci auguriamo possa governare l’Italia nelle prossime elezioni politiche», il suo commento sul voto.

    centrodestra-alla-resa-di-conti-faide-inciuci-e-batoste-ma-occhiuto-tace
    Michele Emiliano

    Non differente la situazione a destra. Il presidente della regione Abruzzo, Marco Marsilio, in quota Fratelli D’Italia, ha messo il cappello sul risultato delle Comunali. «Il centrodestra ha sciolto il guinzaglio della sinistra sugli elettori» ha dichiarato festeggiando la vittoria del “suo” candidato Pierluigi Biondi a sindaco de L’Aquila.
    Insomma, ragionamenti e azioni diametralmente opposti a quelli di Roberto Occhiuto.
    Tra paura di ammettere sconfitte e rese dei conti, la partita per le politiche è ancora tutta da giocare.