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  • Persefoni a Bova, il rito continua a dirci chi siamo

    Persefoni a Bova, il rito continua a dirci chi siamo

    Vent’anni fa, nei primi anni 2000, ho percorso i sentieri tortuosi dell’Aspromonte con una videocamera in spalla, in compagnia di Ottavio Cavalcanti e Rosario Chimirri. Eravamo lì per un documentario di osservazione, un progetto di ricerca che ci aveva portati a Bova, un paese della Calabria grecanica aggrappato alla roccia, per immergerci in un rito antico e misterioso: la processione delle “Persefoni” della Domenica delle Palme. Non cercavamo solo immagini, ma il significato profondo di una tradizione che intreccia mito, natura e cultura, in un luogo dove il tempo sembra scorrere più lento.

    Persefoni, Bova ci accolse col suo silenzio solenne

    Bova ci accolse con il suo silenzio solenne, rotto solo dal fruscio del vento e dal suono lontano delle campane. Le stradine lastricate, le case di pietra e l’odore di ulivo ci avvolsero mentre preparavamo le nostre attrezzature. La Domenica delle Palme era vicina, e il paese si animava di un’energia collettiva: uomini, donne, bambini, tutti al lavoro per costruire le “Persefoni”, figure antropomorfe fatte di canne selvatiche, foglie di ulivo, fiori di campo e frutti di stagione. Ricordo le mani abili di un’anziana che intrecciava le stiddh, raccontandoci come sua madre le avesse insegnato quel gesto quando era bambina. Ottavio Cavalcanti, con il suo sguardo da antropologo, annotava ogni dettaglio, mentre Rosario, osservava abitazioni, slarghi e stradine, mentre catturava il suono delle risate e dei canti che accompagnavano il lavoro.

    Simboli potenti e carichi di storia

    Ci si soffermava a parlare con i più giovani, curiosi di capire se sentivano ancora loro quel rito. Le “Persefoni” non erano semplici decorazioni. Erano simboli potenti, carichi di storia. Durante le riprese, abbiamo cercato di coglierne ogni sfumatura: le “madri”, più grandi e imponenti, e le “figlie”, delicate e ornate di nastri colorati, sembravano raccontare il ciclo della vita, la fertilità della terra, il passaggio delle stagioni. I bergamotti, le fave, i mandarini e le piccole forme di formaggio chiamate musulupe che le adornavano erano un’esplosione di colori e profumi. Mentre filmavamo la processione, dalla Chiesa dello Spirito Santo al sagrato di San Leo, sentivo che stavamo assistendo a qualcosa di più grande: un dialogo tra passato e presente, tra cristianesimo e culti precristiani, tra l’uomo e la natura.

    Bova, nel cuore della Calabria grecanica

    Una Calabria che già portava i segni dello spopolamento

    Le ipotesi di studiosi che collegavano le “Pupazze” al mito di Persefone e Demetra, prendevano vita davanti ai nostri occhi. Non tutto era idilliaco. La Calabria che stavamo documentando portava i segni dello spopolamento e dell’abbandono. A Bova, molti giovani erano già partiti in cerca di un futuro altrove, e gli anziani parlavano di un tempo in cui il paese era più vivo. Una donna, mentre smembrava una “Persefone” per distribuire le steddhe benedette, ci raccontò di come quelle foglie di ulivo fossero un talismano: le avrebbe messe sugli alberi del suo podere, sperando in un buon raccolto. In quel gesto c’era una fede profonda, non solo religiosa, ma legata alla terra e alla sopravvivenza. La mia macchina da presa si soffermava su questi momenti, cercando di catturare non solo la bellezza, ma anche la fragilità di una comunità che si aggrappava alle sue radici.

    Persefoni, la magia di Bova

    Girare quel documentario era un lavoro lento, quasi rituale. La luce non sempre collaborava, e le vecchie videocamere a volte ci tradivano. Eppure, c’era una magia in quel processo. La sera, riuniti in una piccola stanza del paese, rivedevamo il girato, discutendo di come montare le immagini per rispettare la complessità di ciò che stavamo vedendo. Oggi, ripensando a quei giorni, capisco quanto quel viaggio a Bova abbia segnato il mio modo di guardare il mondo. Le “Persefoni” non erano solo un soggetto da filmare, ma una porta verso un universo di significati: la Dea Madre, la rinascita primaverile, la forza di una comunità che, nonostante le difficoltà, continuava a celebrare la vita.

    Il rischio di trasformare tutto in folklore

    La Calabria grecanica di allora è cambiata – il turismo è cresciuto, i laboratori per insegnare l’arte delle “Pupazze” sono un segno di speranza – ma il rischio di trasformarle in folklore per visitatori è sempre presente. Eppure, so che a Bova, ogni Domenica delle Palme, quel rito continua a parlare di chi siamo stati e di chi potremmo essere. Il nostro documentario, forse mai completato come avremmo voluto, è un frammento di quella storia. Ma le immagini di quelle figure danzanti tra le vie del paese, sotto un cielo di primavera, restano vive nella mia memoria, come un invito a non dimenticare.

  • GENTE IN ASPROMONTE| “Il selvaggio” Demi, l’uomo che unisce comunità

    GENTE IN ASPROMONTE| “Il selvaggio” Demi, l’uomo che unisce comunità

    Quella di oggi è una storia di passione, morte e rinascita. Contemporaneamente anche un racconto di community building, incubazione di “proto-imprese”, collaborazione e azioni dal basso per la rinascita delle aree interne. Perché dietro – o, meglio, attorno – al protagonista si snodano le strade e le scelte di altri protagonisti che contribuiscono a formare una nuova narrazione corale dell’Aspromonte. Sono le vite degli altri nella storia di Demetrio D’Arrigo, per tutti Demi e meglio conosciuto sui social come AspromonteWild. Per me il cicerone con cui ho alle spalle molte giornate condivise, tanti chilometri percorsi, tracce di speleologia e geologia e un confronto serrato sui temi che riguardano le aree interne, i restati e i ritornati. Il nostro rapporto, nato durante la visita a Pietra Cappa in occasione dell’intervista ad Annamaria Sergi , si è strutturato nel tempo e Demetrio è diventato compagno di esplorazioni e amico.

    La nostra tappa stavolta è stata a Roghudi Vecchio, antico insediamento aggrappato a uno sperone di roccia nel ventre dell’Amendolea, versante Sud dell’Aspromonte. Diverse volte alluvionato, dichiarato inagibile, è in stato di abbandono fin dagli anni Settanta. Terra di vento, crepacci e leggende nel cuore della Calabria greca dove ci sono cascate che, per la loro conformazione, fungono da prima palestra per i neofiti del torrentismo.
    «Pronto a fare l’esperienza delle corde?», chiede mentre ci appropinquiamo alla meta. L’idea è di realizzare un’intervista in natura, cercando di documentare le attività e le passioni di Demetrio D’Arrigo, voce autorevole tra gli operatori del settore e leader indiscusso del comparto sport di montagna.

    La seconda vita di Demetrio D’Arrigo

    «Sono alla mia seconda vita. La prima, un passato nel mondo della post-produzione musicale, si è chiusa diversi anni fa. Di quella conservo il mio orecchio assoluto. Abbracciare la montagna, perdendomici in solitudine anche per giorni, mi ha risollevato da un momento cupo e mi ha indicato una nuova strada. Il mio percorso inizia nel 2007, anno del mio ingresso nel Soccorso alpino. Nel 2009 lancio la mia associazione impegnata nella valorizzazione del territorio e nella promozione dei percorsi escursionistici in Aspromonte. Nel 2013, grazie alla legge sulle professioni non regolamentate, avvio la mia attività di guida canyoning. Poi nel 2015, finalmente, dopo un corso di formazione promosso dall’Ente Parco, divento una sua guida ufficiale. Oggi sono socio fondatore dell’ENGC e unico calabrese a farne parte. Sto cercando di diventare una guida completa, sia sul versante sportivo che escursionistico, accompagnando su più terreni, su diversi territori e in varie attività sportive».

    Oblio e alleanze

    Formatore, istruttore di canyoning molto conosciuto e riconosciuto, Demetrio D’Arrigo è un incredibile facilitatore: oltre al proprio lavoro coi gruppi turistici, si dedica a promuovere e divulgare le risorse del territorio ai calabresi, collaborando con le comunità e svolgendo una vera e propria attività di coaching e capacity building.
    È quello che gli ho visto fare durante le uscite di gruppo e i sopralluoghi a due durante tutti questi mesi: disseppellire da un oblio collettivo patrimoni naturalistici ed escursionistici e, contemporaneamente, rafforzare il fronte delle alleanze per lo sviluppo tra i territori. È stato lui a introdurmi e presentarmi a Giuseppe Murdica, Stefano Costantino con la moglie Arianna Branca e i tanti altri restati e ritornati con cui collabora e che ha spronato a credere nella possibilità di uno sviluppo endogeno.

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    Demetrio D’Arrigo e Peppe Murdica

    «Tento di ricucire i territori con le loro comunità, spesso inconsapevoli delle loro risorse naturalistiche e di quello che può essere attivato. Una cosa che è diventata quasi naturale, perché è parte integrante della natura stessa delle attività escursionistiche e sportive che propongo. I residenti dei territori inseriti nei miei itinerari sono un elemento essenziale: sono i loro custodi. Tra loro ci sarà sempre qualcuno con una storia da raccontare e un patrimonio da divulgare». Praticamente la nuova frontiera del marketing territoriale di prossimità.
    È quello che è successo nella piccola comunità di Armo, media collina a un passo da Reggio; a Piminoro, versante occidentale del lato più tropicale dell’Aspromonte che domina la Piana di Gioia Tauro; a Pietrapennata, tre case, qualche decina di abitanti e nemmeno un forno, più in quota di Palizzi Vecchio, dove allena i suoi allievi su una delle palestre di roccia utilizzate dagli scalatori.

    Lo schema di Demetrio D’Arrigo

    Lo schema di Demetrio D’Arrigo è sempre lo stesso: effettuare sopralluoghi alla ricerca di mete per nuovi percorsi escursionistici; agganciare i loro abitanti per carpire la natura e l’essenza di quei luoghi; costruire itinerari stimolando quelle comunità a creare servizi di accoglienza, promozione delle tipicità, narrazioni autentiche; lanciare quei nuovi punti escursionistici attraverso i suoi canali digitali, aggiungendo ogni volta un nuovo nodo a questa infrastruttura immateriale di relazioni. L’indicizzazione dei motori di ricerca gli dà ragione, il suo sito è da anni in prima posizione su Google. «E nel periodo estivo gli accessi alle pagine hanno notevoli picchi di ingresso».

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    Mimmo Plutino e Stefano Costantino

    A confermarmelo è Stefano Costantino, componente della Cooperativa Sant’Arsenio. Realtà di forte ispirazione cattolica, opera ad Armo dal 2005 aggregando piccole produzioni locali, orti urbani, ospitalità, formazione per le scuole, approccio eco-sostenibile. «Demetrio D’Arrigo è spuntato qualche anno fa per contrassegnare Armo, terra del monaco eremita Sant’Arsenio, come una delle ultime tappe del Cammino Basiliano. “Abitate un luogo straordinario da cui è passata la storia del monachesimo di Calabria. Siatene fieri”».

    Da Armo a Piminoro

    Mimmo Plutino, diacono della parrocchia, è più esplicito: «Quando, qualche anno fa, tornai a visitare il canyon dei Rumbulisi, condividendone le foto, Demetrio D’Arrigo mi contattò per organizzare un itinerario che unisse il canyon e la grotta del santo, mostrando contemporaneamente le formazioni rocciose di arenaria del luogo e la visita in paese. La sua idea ha funzionato, alimentando un nuovo flusso di visitatori». Che, oltre all’accoglienza e alle piccole produzioni, trovano ad Armo, conosciuta in zona per il modello di raccolta differenziata a impatto zero fatta con gli asinelli, un dedalo di murales a cielo aperto realizzato dal gruppo Creativi Armo.

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    Murales ecosostenibile realizzato ad Armo con il recupero dei tappi di plastica

    Lo stesso copione è andato in scena a Piminoro: dall’incontro di Demi con Giuseppe Murdica, già impegnato nella rivalutazione di vecchi sentieri verso le tante vie dell’acqua di questa frazione, sono germogliate iniziative nuove. Da un primo tentativo di ristorazione familiare ed ospitalità alla riattivazione, nel 2019, della Cooperativa Monte dei Pastori. «Ho conosciuto Demetrio 13 anni fa, in occasione di uno dei suoi sopralluoghi. Dopo avergli mostrato una delle tante cascate che abbiamo in zona, l’ho invitato a pranzo. Da lì sono nati un confronto e una sinergia che non si sono mai fermati».

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    L’area dell’ex caserma Naps a Piminoro

    Oggi Giuseppe con la sua famiglia ha creato un punto di riferimento per escursionisti e camminatori. Non solo: la cooperativa ha chiesto al Comune di Piminoro la concessione dell’area della vecchia caserma NAPS (Nuclei Anti Sequestri della Polizia di Stato), passata dal Comune all’Ente Parco che l’aveva lasciata in abbandono dopo un periodo transitorio in cui vi erano stati ospitati i richiedenti asilo. L’idea è di creare un villaggio polifunzionale con 300 posti letto e servizi per roulottes e camper. I lavori sono già partiti.

    La montagna che collassa

    Se questa emergente strategia complessiva sia consapevole o meno non posso dirlo, ma che inneschi un processo di auto-sostentamento è fuori di dubbio. Ed è funzionale alla battaglia contro l’abbandono e la deriva di territori in cui, emigrati gli uomini che li abitavano, la Natura si è ripresa spazi di vita e comunicazione un tempo antropizzati. «L’abbandono porta al collasso delle aree interne. Questi movimenti di persone e idee che cerco di accompagnare rappresentano un antidoto e una risorsa in un mondo dove il comparto del turismo e dei servizi collegati prende sempre più piede.

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    Torrentismo a Piminoro

    Se prima il modello di sviluppo legato a una certa industrializzazione appariva l’unica via possibile, oggi le attrazioni naturalistiche sono parte di soluzioni alternative per la rinascita dei territori. Ogni paese aspromontano ha diverse possibilità di creare un indotto a partire dalle proprie risorse: acqua, legna, pietre, antichi mestieri. Bisogna condurre quegli abitanti a crederci. Una montagna abbandonata non torna più autentica o incontaminata, ma rischia il collasso».

    È proprio così: quelli che fino agli anni Settanta e Ottanta erano territori abitati, stanno andando alla deriva. I tornanti che conducono a Roghudi Vecchio, una volta battuti e curati, sono ora invasi da una natura che se ne è riappropriata. Ma dove si attivano certi processi, la storia prende una piega diversa. Il passaggio dall’attività volontaristica o associazionistica a forme imprenditoriali rappresenta un punto di svolta: «L’associazionismo è quello da cui tutti siamo partiti. All’inizio può fare la differenza per la grande capacità di coinvolgere, mostrare e narrare. Ma per chi decide poi di fare questo lavoro, la dimensione volontaristica deve diventare impresa: partite IVA, ditte individuali, cooperative. Un passaggio obbligato che oggi è sempre più evidente: tante guide, tanta scelta per il turista di prossimità e per chi arriva da lontano».

    Tutto quello che serve

    È un punto su cui Demetrio D’Arrigo batte molto e sul quale io stesso mi sono soffermato durante una delle prime uscite a Natile, quando ho assistito al confronto serrato tra lui e Annamaria Sergi, ex presidente di quella Pro Loco. Riassunto: se vuoi crescere, devi fare il salto. Sergi si è poi messa in proprio: ha fondato una sua associazione programmando un percorso più strutturato per lo sviluppo della vallata delle Grandi Pietre.
    «Questa d’altronde è anche la mia storia. Da realtà associativa ho lentamente compiuto un passaggio verso un’imprenditorialità che mi permette di vivere seguendo la mia passione: lavorare con la natura e in natura, accogliere, divulgare, fare formazione e sport. A ben guardare abbiamo già tutto quello che serve: natura, cultura, storia, diverse tipologie di attività e ulteriori servizi da sviluppare. Credo che, se si decide di restare, le opportunità di lavoro non manchino. Però bisogna rafforzare l’acquisizione di competenze specifiche anche in relazione allo sviluppo di filiere produttive».

    La filiera delle pietre

    L’esempio che ha in mente è specifico e riguarda l’economia circolare: «Anche se i turbo-ambientalisti mi criticheranno vedo un’opportunità nella cosiddetta filiera delle pietre. La provincia di Reggio è localizzata a cavallo di un sistema complesso di fiumare in cui si deposita di tutto e che andrebbe irregimentato. Dalle pietre può derivare una grande ricchezza in ottica di edilizia eco-sostenibile. Ciò consentirebbe di monitorare i torrenti mantenendo stabili, puliti e dragati i loro greti e fornire materiale naturale, resistente e ad impatto minimo per costruire». Ma come al solito serve una visione abbracciata da una politica che dia seguito a soluzioni idonee per le procedure amministrative: ad esempio un sistema di concessioni. «Mi piacerebbe che ci fossero più persone giuste al posto giusto. Se politica e amministratori ascoltassero le richieste e i suggerimenti dai territori, si vivrebbe in modo differente». Ossia migliore.

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    La fiumara di Roghudi, ideale per la cosiddetta “filiera delle pietre”

    Demetrio D’Arrigo tra monaci e politica

    Un esempio di questa crasi incomprensibile è la vicenda legata al collegamento dell’ultima tappa del Cammino Basiliano che termina al Duomo di Reggio Calabria: 81 tappe divise tra Calabria e Lucania, con la presenza di 10 dei borghi più belli d’Italia e 3 siti UNESCO. Un progetto finanziato da Regione Calabria per valorizzare, salvaguardare e promuovere la fruizione eco-sostenibile dei patrimoni presenti lungo la dorsale di questo sentiero. Demetrio D’Arrigo, che è membro dell’omonima associazione che lo ha incaricato di elaborare le ultime tre tappe del sentiero, la racconta con diplomazia: «Non sono riuscito a collegare l’ultima tappa che va da Armo a Reggio e a piazzare i cartelli che indicassero le rotte percorse dai monaci perché non ho bussato alla porta giusta».

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    Una delle 81 tappe – la numero 35, da Villaggio Mancuso a Pentone – del Cammino basiliano, con relativo cartello

    La verità è più tragicomica, più à la Totò. Come referente dell’associazione da cui aveva avuto mandato, si era rivolto al Comune di Reggio per individuare settore e responsabile cui inoltrare la richiesta di autorizzazione per l’apposizione della segnaletica. Dopo diversi tentativi era emerso che avrebbe dovuto rivolgersi all’Ufficio Pubblicità. Cosa c’entrasse la pubblicità con la sentieristica e la valorizzazione dei beni naturalistici e culturali è ancora da capire. Fatto sta che tra passaggi, lungaggini, burocrazia e Covid non se ne è fatto nulla. La sua ultima mail al Comune risale al 15 novembre 2021. Poi il silenzio.

    Il silenzio di Reggio

    «Credo non avessero capito che si trattasse di un sentiero e che, per completare il percorso, da contratto con la Regione che ha finanziato il progetto, si sarebbe dovuta apporre tutta la segnaletica. Il Comune di Reggio è l’unico tra quelli contattati che non mi ha considerato. A Motta San Giovanni mi hanno aperto le porte, a Montebello il sindaco si era addirittura offerto di accompagnarmi per indicarmi il punto esatto in cui le indicazioni andavano apposte, seguendo la posizione di alcune chiese o punti di passaggio. I cartelli li ho ancora a casa e sono pronto a piazzarli appena ce ne sarà possibilità».

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    Il Comune di Reggio Calabria

    Arrivati alle cascate di Roghudi, siamo poi scesi con corde, picchetti, moschettoni e mute. Un’esperienza di straordinaria intensità utilizzata anche nelle sessioni di team building dal management di medie e grandi aziende.

  • Aspromonte, dall’Unesco semaforo giallo per il geoparco?

    Aspromonte, dall’Unesco semaforo giallo per il geoparco?

    Le note vicende che hanno portato al commissariamento dell’Ente Parco Aspromonte continuano a produrre effetti negativi. Sì, perché nel trentennale dell’istituzione dell’Ente e nell’anno in cui l’Aspromonte attende la verifica dei commissari UNESCO per la conferma dello status di Geoparco Globale, la macchina è completamente inceppata.
    Quella verifica, originariamente prevista per lo scorso aprile, è slittata al prossimo luglio.

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    Una volpe in Aspromonte

    Aspromonte Geoparco UNESCO: dalle origini ad oggi

    L’ingresso del Parco Aspromonte come Geoparco nella rete mondiale dell’Unesco risale al 21 aprile 2021. La procedura, avviata anni addietro, era risultata vincente in tempi record rispetto a candidature che attendono ancora un semaforo verde. Nel 2018, dopo un lungo lavoro preparatorio coordinato da una struttura amministrativa che ancora funzionava, durante l’Ottava Conferenza Internazionale dei Geoparchi Mondiali tenutasi a Madonna di Campiglio, l’UNESCO aveva presentato una relazione in cui venivano evidenziate delle criticità da sanare. Nel 2021, infine, l’acquisizione dello status di Geoparco.

    Rosolino Cirrincione, oggi direttore del Dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali dell’Università di Catania ha collaborato al dossier di candidatura. Cirrincione racconta che dal 2021 non ha avuto più alcuna notizia. L’Ente Parco lo ha però sollecitato, di recente, a supervisionare la bozza di relazione in preparazione per la visita dell’UNESCO del prossimo luglio. Una richiesta all’ultimo minuto che l’accademico non pare aver affatto gradito.

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    Il professor Rosolino Cirrincione, ordinario di Petrografia e Petrologia a Catania

    Certo, diverse attività sono state svolte per adempiere alle procedure che riguardano la vita dei Geoparchi: formazione nelle scuole, produzione di materiale di comunicazione, inaugurazione e apertura di una sede specifica del Geoparco a Bova. Molto altro, però, sembra mancare.
    L’Ente Parco non ha all’interno del suo staff un geologo, nonostante l’UNESCO ne suggerisca l’assunzione da anni. Chi si è occupato della candidatura del 2018, la geologa Serena Palermiti, ha collaborato come esterna con incarichi diretti. Terminati quelli, anche lei non ha più avuto dall’Aspromonte alcuna notizia sul Geoparco UNESCO.

    Arrivano i commissari e non c’è nessuno

    Le attività di cooperazione e trasferimento delle conoscenze con gli altri Geoparchi – precedentemente in capo a Silvia Lottero, la funzionaria che firmò la stabilizzazione illegittima degli LSU/LPU poi accusata di danno erariale – sembrano essere state molto lacunose. Così come lo è il lavoro sulla metodologia di monitoraggio delle presenze per l’implementazione delle visite turistiche.
    Quello che i commissari UNESCO troveranno in Aspromonte al momento di valutare il Geoparco sarà dunque non solo un lavoro fatto a metà, ma una ridotta capacità amministrativa dell’Ente. E la capacità amministrativa è  tra i principali capisaldi della verifica, assieme al coinvolgimento delle comunità del territorio. Le stesse, cioè, che da anni lamentano di non essere ascoltate dall’Ente.

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    Due esemplari di coturnice nel territorio del Parco

    Dallo stesso Parco arrivano ammissioni che non lasciano dubbi. L’attuale responsabile del dossier Geoparco è Giorgio Cotroneo. In carica dallo scorso febbraio dopo l’insediamento del commissario straordinario Renato Carullo, imputa inefficienze e ritardi alla drammatica situazione della pianta organica e al malgoverno degli ultimi anni.
    Lo stesso Carullo, poi, è ancora più netto: «Siamo in ritardo su tutto. La situazione è quella che è: contenziosi interni ed esterni, procedimenti disciplinari, indagini della magistratura. Dieci giorni dopo il mio insediamento (14 febbraio 2024 ndr) ho inviato una relazione al Ministero descrivendo lo stato in cui versa l’ente e la mia difficoltà a mandarlo avanti con una pianta organica praticamente inesistente. Nonostante sia per me un campo nuovissimo, ho accelerato tutti i processi in essere. Ho bisogno che l’Ente abbia un governo che funzioni. A luglio avremo in Aspromonte la delegazione UNESCO per la verifica delle condizioni che garantiscono lo status di Geoparco, ma ci hanno già anticipato in via informale che conferiranno il bollino giallo: meglio il semaforo giallo che quello rosso».

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    Pietra Cappa

    Stop al Geoparco UNESCO: cosa perderebbe l’Aspromonte

    Il segretariato dell’UNESCO, nonostante i solleciti via mail di questa redazione, non ci ha dato conferme a riguardo. Se ci troveremo di fronte a un semaforo giallo si tratterà di un alert. E non è detto che l’ammonizione si trasformi in un’espulsione. Ma il rischio è di azzerare un riconoscimento che, se a regime, rappresenterebbe un’opportunità per tutti i territori del Parco: creerebbe flussi turistici focalizzati sul geoturismo, stimolerebbe la creazione di imprese locali innovative, anche legate alla formazione di settore, e attiverebbe nuovi investimenti, generando processi di sviluppo.

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    Un ciclista in Aspromonte

    In tutto questo anche se il nuovo PIAO (Piano integrato delle Attività e Organizzazione) è stato approvato d’urgenza sulla scorta della programmazione lasciata dal direttore Putortì andato in pensione, gli investimenti sono fermi.
    Il Parco Aspromonte è l’unico tra quelli calabresi a non avere ancora firmato la convenzione con la Regione sulla ciclovia dei parchi, anche se il commissario garantisce che la questione è in via di definizione.

    Il problema è politico

    «Vedo tutte le potenzialità inespresse che ci sono, ma la struttura deve essere messa nelle condizioni di operare. Senza dipendenti è come se avessi le mani legate» continua, che sottolinea come si trovi a governare «per la prima volta un ente senza Direttore».
    Carullo aveva anche proposto una delibera per avviare le procedure con cui individuare la terna per la nomina del nuovo direttore da parte del ministro. Il Ministero dell’Ambiente l’ha annullata, però, perché la nomina del Direttore dovrebbe arrivare su impulso del Consiglio direttivo e del presidente. Che, dopo il commissariamento, non esistono più. Occorrerebbe, quindi, fare pressione sul Ministro affinché ricostituisca quel Consiglio direttivo.
    Come sempre, il problema è politico.

    Leo Autelitano

    Secondo Carullo, l’ex presidente Autelitano, convocato con due pec, non si sarebbe presentato per le consegne dei dossier aperti. Autelitano a sua volta, in una conferenza stampa con accanto il senatore Giuseppe Auddino (M5S), ha denunciato il carattere «trasgressivo, punitivo ed elusivo del decreto di commissariamento», imputandolo a oscure manovre di una certa parte politica. Come a dire: politica per politica, ognuno schiera le armi che ha. Ha poi negato di aver ricevuto la convocazione. Sarebbe potuta essere l’occasione per chiarire la situazione del Geoparco.

    Le decisioni dei tribunali

    In tutta questa matassa, le uniche certezze al momento sono due decisioni dei giudici. La prima è quella del Tar che rigetta la richiesta di sospensiva in via cautelare del provvedimento di commissariamento dell’ente.
    La seconda è la bocciatura del ricorso presentato da Maria Concetta Clelia Iannolo contro l’Ente per il reintegro completo in ruolo.
    E con la polemica che non accenna a smorzarsi, a perdere sono sempre cittadini, comunità e territori.

  • L’insostenibile mobilità di Reggio Calabria

    L’insostenibile mobilità di Reggio Calabria

    Con la delibera che, in via sperimentale, raddoppia il costo della sosta sul lungomare Matteotti dal prossimo 1 maggio al 31 ottobre, il vaso di Pandora della mobilità a Reggio Calabria è stato definitivamente scoperchiato. Un provvedimento che punterebbe a disincentivare l’uso del mezzo privato, riducendo i costi ambientali, sociali e infrastrutturali del traffico veicolare e della sosta, agevolando la fruizione di aree a prevalente uso pedonale e ciclabile e migliorando la fluidità della circolazione.

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    Un estratto della delibera di fine marzo con cui la Giunta ha disposto l’aumento delle tariffe per la sosta

    La misura non avrebbe scatenato le polemiche che sono piovute se il raddoppio delle tariffe fosse uno degli aspetti di una strategia più ampia per la mobilità sostenibile che ad oggi non esiste. O meglio, esiste solo sulla carta. Perché alla maggiorazione di certi costi non corrispondono alternative che consentano ai cittadini di spostarsi in un’ottica davvero sostenibile. Non esiste un Piano della Mobilità Sostenibile (PUMS). Non un sistema attivo di monitoraggio di traffico e circolazione. A pagare lo scotto è la visione di sistema evocata nella bozza di Masterplan 2050.

    Un piano fermo al 2017

    Nel capitolo “Mobilità Pubblica e Attiva” si sottolineano le molte criticità relative alla mobilità a Reggio e si individuano in governance e visione di sistema i pilastri di una strategia complessiva per promuovere l’uso del mezzo pubblico, l’abbattimento del livello di CO2 e la cosiddetta “mobilità dolce” a tutela della salute dei cittadini e dell’ambiente. In questo momento però mancano l’una e l’altra.
    Perché manca il PUMS, che è lo strumento di pianificazione e programmazione di questa visione di sistema. Il Comune ha approvato un suo preliminare realizzato dalla società IT s.r.l. nel 2017 e necessario per la valutazione di impatto ambientale propedeutica alla realizzazione del piano definitivo di cui non c’è traccia. Il sito web specificamente dedicato al PUMS non è raggiungibile. E quel preliminare, ormai datato, si basa su dati ISTAT del 2011 e non tiene conto di elementi nuovi come il potenziamento dell’aerostazione. In più ci sarebbe il contenzioso tra Comune e IT per il mancato pagamento di quel preliminare.

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    Il verbale di approvazione del preliminare risale a ottobre del 2017

    Il Piano Regionale dei Trasporti ha stabilito che i quattro nodi della rete strategica di trasporto regionale di Reggio Calabria siano rispettivamente per il centro città i punti “Porto-Stazione Lido” e “Stazione centrale-Aeroporto” e per la periferia Pellaro a Sud e Gallico a Nord. Nonostante i Comuni potessero porre osservazioni e suggerimenti per implementare il documento, Reggio non si è pronunciata. Sono così rimasti fuori punti fondamentali come quelli relativi all’accesso lato monte della città: le bretelle del Calopinace e la zona Ospedale.

    Mobilità a Reggio: la Centrale di Controllo senza dati

    In quanto poi a mobilità, mancano i dati. Reggio ha a disposizione la Centrale per il Controllo della mobilità, cioè la struttura informatica per la raccolta in real time, la catalogazione e l’elaborazione dei dati sulla sosta e su traffico in entrata e in uscita dalla città. Ma non ha né elaborato una mappa completa dei punti di rilevamento, né si è mai dotata dei sensori per l’acquisizione dei dati di infomobilità. Apparecchiature che sarebbero dovute essere acquistate dal Comune con i fondi PON Metro in scadenza lo scorso 31 dicembre. L’operazione non è andata in porto per paura di sforare la data di chiusura del programma e non vedersi consegnati i sensori.

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    L’Università della Calabria sta collaborando con il Comune di Cosenza per la redazione del PUMS

    Senza dati, i modelli di trasporto, domanda e offerta, alla base di una strategia “visione di sistema”, non possono essere generati. D’altronde il Comune non ha tecnici cui assegnare questo compito. Manca un mobility manager. E manca un altro pezzo fondamentale: il coinvolgimento degli stakeholders. Nonostante la presenza del Laboratorio Analisi Sistemi di Trasporto, tra i più importanti centri di ricerca del settore a livello europeo, il Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione, delle Infrastrutture e dell’Energia Sostenibile dell’ateneo dello Stretto non sarebbe stato consultato. Diversamente da Cosenza dove UNICAL sta collaborando alla redazione del PUMS con il professor Guido, associato ICAR/05 del Dipartimento di Ingegneria Civile e mobility manager.

    Intermodalità e finanziamenti

    C’è poi la questione dell’intermodalità. Dopo le polemiche sul paventato definanziamento dei relativi progetti, lo scorso ottobre Battaglia, già assessore ai comunale ai Trasporti, aveva garantito che i fondi non sarebbero andati persi. Era stata la stessa Staine, con la stessa delega alla Regione ad annunciare un piano da 20 milioni di euro a valere sul PAC 2014/2020 per parcheggi, stazioni di interscambio e corsie riservate con sistema di semafori intelligenti per i bus. Come certifica la bozza di Masterplan, il Comune starebbe lavorando per aumentare le fermate della linea ferroviaria in città e posizionarne una ogni 500 metri. Ipotesi lunare in termini operatività, costi e sostenibilità del servizio.

    Bisognerebbe poi risolvere il nodo del collegamento tra l’aeroporto della città, la fermata ferroviaria dedicata e il pontile di attracco degli aliscafi che presenta una serie di criticità dovute all’attuale conformazione dell’aerostazione lontana da entrambi i punti di “approdo”.
    Reggio, inoltre, non ha mai approvato il Piano Urbano per la Sicurezza Stradale.
    L’impressione è che si lavori in (dis)ordine sparso, a compartimenti stagni, senza che una mano sappia ciò che fa l’altra. Senza quella visione di insieme fatta di coordinamento, coinvolgimento di esperti e stakeholder, elaborazione di modelli. Come invece dovrebbe essere.

  • GENTE IN ASPROMONTE| Quel che resta di Polsi

    GENTE IN ASPROMONTE| Quel che resta di Polsi

    Raccontare Polsi non è stato facile: un luogo, uno spazio, talmente complesso da richiedere una lunga gestazione. Da settembre ad oggi. Ho utilizzato un format diverso dal solito. Nessuna videotestimonianza o elemento giornalistico, se non una cronaca di viaggio fatta di sensazioni e incontri. Questo mi ha permesso di parlare di Polsi fuori da luoghi comuni, semplificazioni, narrazioni iper o ipotrofiche. Avevo con me due compagni di viaggio: il generale Battaglia, protagonista della scorsa puntata e il collega Eugenio Grosso, fotogiornalista e autore di diverse foto del pezzo. Il loro sguardo e l’esperienza condivisa sono parte sostanziale di questo racconto.

    «Polsi è il centro del mondo»

    Il centro del mondo. Scivolando lentamente in fondo al crinale irto della vallata del Santuario della Madonna della Montagna, la tripletta verbale era arrivata precisa come una revolverata. «Polsi è il centro del mondo», aveva dichiarato il generale Battaglia mentre si annunciava al presidio dei carabinieri di guardia al cancello di ingresso. Ci accompagnavano, insieme alle prime carovane di pellegrini, due elicotteri della polizia che ci avrebbero sorvolato incessantemente per i successivi due giorni.
    Era il mezzogiorno di venerdì 1 settembre e si aprivano le celebrazioni della Madonna della Montagna, sacra per mezza Calabria e anche per quel pezzo di Sicilia che si affaccia sullo Stretto. Una festa che accoglie ogni anno tra i 6 e i 7 mila visitatori.

    Avevo maturato in fretta la decisione di partecipare: posto nel cuore dell’Aspromonte, Polsi era una tappa irrinunciabile del mio viaggio. Un grumo di sacro e profano, sangue, simboli, fede, terra e radici che, una volta l’anno, faceva convergere tutta la popolazione verso il centro di quel mondo con un misto di devozione, sacrificio e attesa.
    Avevo cercato di aggregarmi senza esito a un paio di carovane, fin quando Demi d’Arrigo, guida parco e leader dell’offerta sportiva di montagna, mi aveva suggerito di sentire Battaglia. L’idea di accompagnarmi a un generale dei carabinieri già alla guida del Comando Provinciale di Reggio Calabria per una tappa così controversa mi convinceva. Un paio di chiamate e la nostra ospitalità al Rettorato del Santuario era stata accordata.

    L’arrivo

    Il tragitto si era rivelato un meta-viaggo: salendo da Scilla in quota, ci eravamo confrontati sullo stato dei territori, le attività svolte dall’Arma, i reati ambientali, i processi di legalità e le dinamiche di spopolamento. Da Gambarie avevamo deviato verso Montalto e l’auto si era tuffata nel ventre della Montagna, superando affacci mozzafiato sulla costa jonica.
    Dopo il gomito dell’ultima curva era apparsa la vallata scoscesa. Dritto di fronte a noi si scorgeva l’unica altra via di accesso al Santuario per chi arrivava da San Luca. Il peso della montagna, con i suoi secoli di marce e contaminazioni che si abbattevano su di me a ondate potenti, mi aveva sovrastato. Da quell’utero montano era come rivenuta alla luce una memoria sociale e antropologica. Mi si era piantata sul petto: vedevo schiere di devoti e generazioni di monaci, eremiti, pellegrini, viaggiatori, contadini, signori, pastori in marcia. «Pazzesco!», mi era sfuggito.

    Ai bordi della strada e nei rari spiazzi sotto di noi, iniziavano a comparire i primi accampamenti: auto accatastaste, ripari ricavati tra accorpamenti di macchine, furgoni intasati da gente dormiente o intenta in qualche preparativo. Avevamo da poco superato bancarelle che traboccavano di effigi sacre, souvenir a sfondo religioso e svariate cianfrusaglie di vaga cifra etnica. Risuonavano già a ritmo incalzante tarantelle e tamburelli, preludio di quanto sarebbe accaduto durante la veglia.

    La festa di inizio settembre rappresentava una delle quattro tappe delle celebrazioni sacre dedicate alla Madonna della Montagna. Ogni 22 agosto dell’anno cominciava la novena. Partiva allora la carovana che da San Luca attraversava le vallate verso il Santuario, per arrivarvi all’inizio di settembre in occasione della processione, cui seguiva, dopo due settimane, la festa della Santa Croce. Ogni 25 anni, poi, in occasione dell’incoronazione, ai portatori di Bagnara, si sostituivano quelli di San Luca. Una geografia che racconta bene la netta divisione di ruoli e aree, riflessi nei dettagli del racconto della fondazione del Santuario: il bue, la croce e la pesca. Sotto il simbolo mariano, l’Aspromonte è sempre stata una Regione unica, estesa dalla costa a Montalto.

    Una nuova reputazione per Polsi

    Nel 2023 la festa si svolgeva in un anno carico di polemiche: l’area mercatale del Santuario era stata inibita. Non tanto – e non solo – per ragioni di ordine pubblico, ma come nuovo segno di legalità. Gli ambulanti che vi sostavano spesso non avevano licenze. Era uno dei molti segnali che il Rettorato e le istituzioni lanciavano per costruire una nuova reputazione per Polsi.

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    La caserma dei Carabinieri a Polsi (foto Silvio Nocera)

    Appena entrati al Santuario, un nutrito gruppo di militari, Rettore compreso, era arrivato a salutarci. La loro presenza era ben visibile. C’erano almeno una settantina di agenti a presidiare un complesso non più grande di un isolato. La sede del Rettorato del Santuario che dominava il complesso sacro – la Chiesa, gli alloggi, il Museo degli ex voto – affiancava la caserma dei Carabinieri, un vecchio edificio fatto ristrutturare da Battaglia che, durante la sua reggenza, aveva inteso dare un segno tangibile della presenza dello Stato in un luogo emblema di criminalità. E siccome le guerre si combattono anche con i simboli, la fiamma dell’Arma campeggiava senza timore.

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    La Madonna tra fedeli e carabinieri a Posi

    In realtà, dopo le polemiche sul summit di ndrangheta promosso da Oppedisano nel 2009 e la condanna in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa di Don Pino Strangio, storico Rettore del Santuario fino al 2016, molte cose erano cambiate. L’allora Ministro dell’Interno, Marco Minniti si era recato a Polsi quello stesso anno e il Vaticano a modo suo si era mosso. Nel maggio 2023 poi lo stesso Papa aveva benedetto la corona della Madonna. Azione che faceva seguito alla scomunica per i mafiosi.

    Un millennio dopo

    Appena oltre il Santuario e sulla piazza del sagrato della Chiesa, sui ballatoi degli alloggi che tradizionalmente ospitavano i pellegrini di Bagnara, erano stipati capannelli di persone intente a pregare, a prepararsi alle celebrazioni o imbastire colazioni.
    Avevamo pranzato al refettorio col Rettore, i parroci, il sindaco di San Luca, vigili urbani, carabinieri, poliziotti e volontari. Era seduto accanto a me un uomo dall’aria apparentemente stralunata. Eugenio Grosso l’avevo conosciuto così, scoprendo che era un fotogiornalista catanese, trapiantato a Milano. Aveva scelto Polsi come tappa del suo fotoreportage sui culti mariani in Italia. Da Milano, era approdato a San Luca e da lì si era unito a una carovana in direzione Polsi.

    Avevamo percorso il Santuario in lungo e largo: ci confrontavamo in mezzo a una storia iniziata nell’XI secolo con i monaci basiliani di rito greco, passata tra luci e ombre al nuovo splendore promosso da Idelfonso del Tufo, vescovo di Gerace, e giunta fino a noi, fermi a parlare sotto il suo campanile bizantino.
    A ridosso della soglia della Chiesa, dove da ore si pregava in dialetto, si cominciava a suonare e si formavano le prime ruote di danzatori. Da alcune variazioni nel movimento dei piedi si poteva intuire la loro provenienza: i rosarnesi saltellavano, i sanluchesi strisciavano i piedi.

    Dentro e fuori, sacro e profano

    Quella soglia separava il dentro e il fuori, sacro e profano. Varcandola, ci si immergeva in acque mistiche e primordiali. Ero entrato in chiesa e mi ero tuffato in quel dentro al suono di giaculatorie dialettali quasi incomprensibili, fino ad un passo dalla trance. In quel contesto vincoli e differenze si frantumavano, per dare vita a un corpo unitario. Un respiro collettivo che si gonfiava in nome di quel culto mariano millenario ispirato al mito della Sibilla Cumana. Una devozione che aveva sorpassato indenne l’avvicendarsi dei diversi riti cristiani: monachesimo mistico, ortodossia bizantina e rito latino.

    Quel pomeriggio, sotto l’occhio degli elicotteri della polizia, la liturgia era proseguita con la prima uscita della Vergine, che era scivolata lungo la navata centrale, navigando su un mare umano. Sotto un baldacchino di damasco, era stata condotta fino all’anfiteatro dietro la chiesa per i primi riti davanti a tutte le autorità. Aveva circumnavigato tutto il santuario ed era rientrata per essere vestita. La sua corona era stata condotta su un cuscino di velluto rosso. Il picchetto che la trasportava si era fatto largo nella navata centrale tra la folla che si apriva in due ali. L’avevano raccolta sull’altare il Rettore e un sacerdote. Armeggiando sopra e sotto la scala che arrivava all’edicola, tra preghiere e applausi, l’avevano posta in capo all’effige al grido di “Viva Maria!”.
    Si era allora innalzato un bosco di smartphone che riprendevano, scattavano, illuminavano un rito di passaggio ciclico, rinnovato da secoli. Una selva di ceri votivi che occhieggiavano verso l’altare, in una testimonianza di fede da smaterializzare, condividere e moltiplicare in Rete.

    Non sono credente, ma…

    All’imbrunire il Santuario era colmo. I due ristoranti andavamo a pieno ritmo, tra alcool e carne alla brace. Il generale aspettava un gruppetto di alpinisti che vi avrebbero trascorso la notte. A breve mi attendeva la dimensione del fuori. Durante la cena al refettorio, alla presenza del vescovo Morrone, mi ero intrattenuto coi ragazzi del reparto Cacciatori delle Alpi in servizio. Carabinieri e poliziotti si alternavano: c’era chi smontava e chi si preparava per il turno di notte.
    Qualcuno aveva ricordato che, intanto, in quella notte di veglia, per i sentieri di Aspromonte c’erano pellegrini in viaggio, devozione nelle gambe e sacrificio sulle spalle. Di quei momenti Eugenio mi aveva mostrato le foto fatte durante il viaggio da San Luca: donne e uomini che si laceravano i piedi scalzi su pietre acuminate, portandosi le loro croci e le promesse alla Madonna per una grazia. Si dirigevano al Santuario con viveri e bambini, sequestrati dalla stanchezza e dalla fede.

    Con Battaglia ci eravamo intrufolati nel cortile di uno dei due ristoranti per raggiungere Peppe Trovato, catanese naturalizzato reggino e affermatosi come primo esploratore di forre e cascate aspromontane. Con lui un gruppetto di alpinisti alla testa di Pino Antonini, speleologo, già direttore della Scuola forre e canyon del Corpo nazionale del Soccorso alpino e tra i sopravvissuti al terremoto in Nepal del 2015.
    Dopo qualche chiacchiera, ci eravamo spostati fuori ad osservare l’andamento dei festeggiamenti. Il gestore faceva avanti e indietro con le mani piene di birre e bicchieri. In un dialetto ostico, aveva spiegato Polsi a modo suo. Una vita dura, la morte sfiorata. Non era un gran credente, ma era certo che la Madonna della Montagna lo avesse protetto col suo manto.

    Maschi e femmine, buoni e cattivi

    Come quello era rientrato, avevo chiesto a Battaglia in che percentuale avremmo potuto dividere i “buoni” e i “cattivi” della serata. «Non lo so, ma ti dico che lo Stato si è battuto per sottrarre ai “cattivi” dei territori ritenuti perduti da molti».
    «Hai notato che siamo tutti maschi?», avevo ribattuto. Gruppetti di uomini di ogni età bevevano e cianciavano lungo tutta la via, sciamando da un lato all’altro fino in piazza dove impazzavano le ruote di ballo. Le pochissime ragazze presenti erano circondate da uomini intenti nel loro rituale di corteggiamento. Le altre donne erano tutte in chiesa.
    Al mondo di dentro e di fuori si aggiungeva il codice di genere, con la suddivisione di ruoli tra maschi e femmine. Ognuno al posto proprio, assegnato per sesso e per nascita.

    Donne sui ballatoi
    Donne sui ballatoi (foto Silvio Nocera)

    Polsi, dove tutti si ritrovano

    Eugenio si muoveva veloce con la sua macchina fotografica. Io continuavo a incrociare conoscenti. Gente che, in alcuni casi, non vedevo da anni: Polsi era davvero il luogo dove tutti si ritrovavano.
    «Non è un caso che Polsi sia diventato emblema di ‘ndrangheta. Qui ci si incontrava tutti insieme quando muoversi era complicato. La festa diventava allora collante e occasione per riunirsi e discutere di affari di comunità, più o meno leciti; attribuire ruoli e influenze; lottizzare territori. L’intervento dello Stato ha invertito il trend, ma l’eco di certi fatti e la potenza della ritualità religiosa hanno lasciato incrostazioni dure a morire. Oggi però siamo nelle condizioni affinché questa percezione cambi», aveva argomentato il generale.

    Medaglie-votive
    Medaglie votive (foto Eugenio Grosso)

    Ero andato a letto con tutto questo nelle orecchie, mentre fuori infuriava un baccanale pompato da un tasso alcolico sempre più elevato. Ero rimasto sospeso in un onirico liquido: le immagini dei boschi e delle valli si era mescolata a echi di preghiere, impressioni di volti, sguardi carpiti, tra divise, sacralità e paganesimo.
    Al mattino, dopo svariati caffè, mi ero gettato in strada con la macchina fotografica assieme a Eugenio per la processione, cui sarebbe seguita la messa solenne tenuta dal vescovo di Reggio. La folla era per lo meno triplicata e al Santuario erano arrivate altre carovane da tutta la provincia e dal Messinese. Molti portavano al collo un fazzoletto votivo straripante di medagliette, con l’immagine della Vergine. Dal giorno precedente i tamburelli non avevano mai smesso di macinare terzine. Sui popolatissimi ballatoi degli alloggi, erano stati stesi drappi in omaggio al passaggio della Madonna.

    Madonna vs Sibilla

    Avevo guadagnato un posto strategico in cima alla piazza accanto a uno dei passaggi obbligati della processione. L’effige allora era uscita e aveva iniziato a compiere il giro della piazza fino a piantarsi col volto fisso verso il versante opposto della Montagna.
    La leggenda raccontava che in quegli anfratti fosse imprigionata la Sibilla, punita da Dio per aver tentato di sostituirsi alla Vergine come madre di Cristo. Suo fratello, che aveva osato schiaffeggiare Gesù per difenderla, era stato gettato anch’egli in quell’antro e relegato alla pena eterna del buio dietro sbarre di ferro che avrebbe colpito con la mano per l’eternità. L’eco di quella pena riempiva la valle nelle giornate dal clima più duro. Se la geografia veniva prima della storia, la morfologia del territorio addirittura la precedeva.

    L’Effige Sacra, autentico femminino sacro della Montagna, veniva ostesa a tutela dell’Aspromonte e del suo popolo dalle insidie dei luoghi e degli elementi naturali che ne avevano regolato vita e morte per secoli. La vara aveva poi circumnavigato il santuario e mi era sbucata davanti. Dall’alto, tra urli di giubilo, venivano lanciati coriandoli di omaggio. Una volta tornata in piazza, la Madonna era stata girata entrando in chiesa di spalle, con lo sguardo sempre rivolto all’antro della Sibilla.

    L’omelia femminista

    Cominciava la messa solenne. Dagli alloggi il nostro sguardo dominava lo spazio dell’anfiteatro che ospitava l’altare. Le gradinate erano affollate di fedeli e sacchi a pelo. All’ascolto dell’omelia mi ero ringalluzzito: il vescovo Morrone aveva puntato dritto sulla centralità della figura mariana, nel suo agire di donna e madre al servizio del Bene. Aveva parlato di «donna che ha saputo rompere gli schemi, in un’epoca in cui dominava il maschio». Da lì, il salto per antonomasia al ruolo rivoluzionario delle donne nella Bibbia era stato veloce. Parlava alla platea, ma si rivolgeva alla coscienza delle donne di Polsi e quella dei loro figli, lanciando un messaggio di giustizia e pacificazione. Li aveva spronati a «prendere in mano il proprio futuro, e non delegare ad altri quello che compete ad ognuno di noi, perché soltanto così possiamo sperare di risollevare la nostra terra, e sconfiggere la cattiva politica».

    La Madonna di spalle all’anfiteatro (foto Silvio Nocera)

    Un’omelia, rivoluzionaria anch’essa, capace di incrociare i grandi temi che la Chiesa stava affrontando: le pari opportunità, una nuova dignità per il ruolo delle donne, il contrasto al crimine organizzato. Parole che avevano fatto eco al messaggio inviato dal cardinale Zuppi, presidente della CEI: «Il Santuario della Madonna di Polsi è stato profanato nel recente passato (…) per interessi privati che dobbiamo chiamare con il loro nome: mafiosi. (…) Da Polsi nasca, invece, una consapevolezza nuova di cui ha bisogno tutto il nostro paese perché le mafie hanno tanta penetrazione al Nord e tante ramificazioni internazionali». Un movimento, quello della Chiesa, partito anni addietro, dopo l’apertura delle indagini su Don Pino Strangio: il vertice del Rettorato del Santuario era stato rinnovato ed erano state avviate una serie di azioni con cui il Vaticano intersecava quelle dell’Arma dei Carabinieri.

    Una strada per Polsi

    Al termine della cerimonia mi ero fermato a parlarne con don Tonino Saraco, Rettore dal 2017. «Oggi di Polsi si parla in modo diverso e noi stiamo facendo di tutto per riabilitare la sua reputazione. Che un passato fosco ci sia stato non è in dubbio. Ma abbiamo il compito di lavorare per cambiare, forti dell’azione delle forze dell’ordine e della magistratura. Il mio compito è non permettere che determinate cose riavvengano. Non solo qui c’è sempre una persona di mia fiducia, ma abbiamo cominciato con l’installare un sistema di videosorveglianza e trasmettere gli elenchi dei nostri ospiti alla Questura. Questo riguardo alla deterrenza. Stiamo poi lavorando su due progetti, uno in essere e un altro venturo: occupiamo nell’azienda agricola del Santuario ex detenuti cui presto affiancheremo un birrificio artigianale».

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    Don Tonino Saraco (foto Eugenio Grosso)

    «I grandi temi da affrontare –  aveva aggiunto don Saraco – non sono mai cambiati: il lavoro e le infrastrutture. Creare lavoro vuol dire togliere terreno alla malavita. Costruire strade permette a questo luogo di essere accessibile, vissuto, meglio controllato e governato. Ho dovuto rifiutare parecchie visite dalla Sicilia perché arrivare qui in pullman è impossibile. Un anno e mezzo fa Occhiuto ha annunciato 65 milioni di euro per la realizzazione di una nuova strada che colleghi quello che è il santuario mariano più frequentato del Meridione, con visite che toccano picchi di 50 mila presenze l’anno tra giugno e ottobre. Non mi ritrovo nelle argomentazioni che di chi vede in questa strada una minaccia all’autenticità e allo spirito del luogo. Questo progresso può trasformare Polsi in un importantissimo attrattore per il turismo religioso».

    Il ritorno

    La folla cominciava a defluire: i trekker ripartivano per la colazione lungo qualche sentiero, molti tornavano a tende e roulotte per il pranzo. Il generale ed io, dopo un giro al Museo degli ex voto, ci eravamo attovagliati coi carabinieri per un menu a base di capra. I rotori degli elicotteri di sorveglianza si erano smorzati e l’aria si era scaricata di quella tensione in cui eravamo rimasti immersi.
    Dopo i saluti e un ultimo caffè col Rettore, avevamo recuperato Eugenio ed eravamo ripartiti tra cronache dei due giorni, ricordi di vecchie indagini e considerazioni sulla riconquista degli spazi sottratti alla ‘ndrangheta. Riemersi verso la costa, lo scenario del tramonto sullo Stretto placido di settembre ci aveva ammutoliti. Davanti al cielo rosso che degradava verso l’indaco, Stromboli sbuffava all’orizzonte.

    Quando ormai tutto sembrava compiuto, sopra Melia, avevamo incrociato un principio di incendio. Battaglia aveva inchiodato: scesi dall’auto, avevamo iniziato a gettare terra sulle fiamme, E siccome non sarebbe bastata, eravamo partiti verso la prima fontana. Avevamo fatto bene perché, passata circa un’ora dalla prima chiamata dei soccorsi, i pompieri non si erano ancora presentati.

  • Che fine ha fatto Reggio Calabria?

    Che fine ha fatto Reggio Calabria?

    Che fine ha fatto Reggio Calabria? Potrebbe essere il titolo di una pellicola, a metà tra il poliziesco ed il noir. Perché nonostante l’avvento RyanAir, Reggio è sparita: appalti al palo, progetti arrivati all’ultimo miglio e mai completati, cantieri finiti nell’abbandono. E l’assenza di un dibattito pubblico serrato e pragmatico su dove sia e dove voglia andare.
    Dopo l’annuncio dello sbarco della compagnia aerea irlandese, in riva allo Stretto poco si è saputo. Nessuno ha visto il piano industriale successivo ai tre anni in cui la Regione coprirà il costo delle nuove tratte attivate. E il silenzio di imprenditori, associazioni di categoria, amministratori, e operatori vari, non lascia tranquilli. Una rondine sola non fa primavera.

    Reggio Calabria e i dati ISTAT

    Più che la ricettività, il vero tema da porre è l’attrattività. Su questo i dati sono impietosi: nella rilevazione ISTAT del 2023 sui profili delle Città Metropolitane in Italia, Reggio Calabria occupa gli ultimi posti di tutte le voci indicizzate. La sua popolazione è diminuita di 7,3 punti percentuali. Assieme a Palermo e Napoli, risulta l’area con la minore partecipazione attiva al mercato del lavoro. A livello nazionale, presenta la più bassa densità di unità locali relative ad offerta turistica, attività finanziarie e professionali. Senza contare che entro il 2033 è prevista un’ulteriore emorragia demografica.
    Un’Area metropolitana in piena crisi di lavoro e di risorse umane. Incapace di fare sistema. Un non senso rispetto a quello che a Reggio già c’è e che, se coordinato, potrebbe fare la sua fortuna: un aeroporto, diversi punti approdo marino, due università, un museo di rilevanza internazionale e uno del mare in fase di realizzazione, un parco nazionale, decine di km di costa, un patrimonio storico e archeologico non comune, produzioni floristiche ed agricole uniche per caratteristiche e qualità.

    Il rapporto con il mare

    Negli ultimi decenni, Reggio Calabria ha cominciato un cammino verso il modello di Città del Mediterraneo, rivalutando il suo rapporto col mare. Prima con la progettazione del lungomare dall’allora presidente di FS, Vico Ligato. Successivamente con la sua realizzazione sotto la guida di Italo Falcomatà. In ultimo, con la pianificazione del Waterfront da Giuseppe Scopelliti. Proprio il Waterfront – prima cassato da Giuseppe Falcomatà, poi ripreso, rimodulato e spezzettato rispetto all’idea originaria – deve ancora vedere la sua fine, tra cantieri sospesi o semi-abbandonati e misurazioni errate.
    Ne fa parte anche il Museo del Mediterraneo, già inserito nel PNRR,  pensato per «ampliare e potenziare l’offerta turistico-culturale» e dare «impulso al rilancio economico e sociale della città».

    Giuseppe Falcomatà

    Il progetto scomparso

    Resta invece al palo il progetto del porto turistico, Mediterranean Life. da realizzare a Porto Bolaro, zona sud della città, che il Comune ha approvato pressoché all’unanimità con delibera di Consiglio lo scorso 13 novembre 2021. Una grande infrastruttura da diporto con servizi integrati capace di generare attrattività per il territorio e creare 2.500 posti di lavoro. Un’opera a ridosso di una delle fermate della nuova metropolitana di superficie (finanziata con 25 milioni di euro dall’allora ministro dei Trasporti Bianchi) che RFI, una volta terminato l’aggiornamento del listino dei prezzi, è pronta a cantierare. E a due passi da un aeroporto che, per mantenere questa rinnovata vitalità, dovrà dimostrarsi attrattivo, caratterizzando l’offerta Reggio Calabria.

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    Come dovrebbe diventare Porto Bolaro con la realizzazione del progetto Mediterranean Life

    La delibera che approvava il progetto, a seguito del preliminare parere favorevole del dirigente di settore, gli assegnava un interesse strategico fino a ipotizzare di inserirlo nel PNRR. Dava quindi mandato al sindaco (poi sospeso) di convocare una conferenza inter-istituzionale per preparare il relativo accordo di programma ed eventuali deroghe al Piano regolatore, come da verbale della conferenza dei servizi tenutasi il 2 aprile 2019. Dell’inserimento nel PNRR non si è più parlato e dell’accordo di programma non si ha notizia. Dell’idea non si parla nemmeno nella bozza di Masterplan della città: al Punto B.4 del documento che illustra il Parco del Mare, Porto Bolaro, inserito ne “Le spiagge del vento”, è menzionato solo come zona con pontile di attracco. Un po’ poco per un documento programmatico che dovrebbe dettare le linee di indirizzo della futura città.

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    L’area costiera interessata dal progetto, così come appare oggi

    Botta e risposta

    Il progetto non è nemmeno previsto nel nuovo Piano Strutturale Comunale, che non prevederebbe ulteriori cubature in città e su cui pure la Regione pare abbia sollevato diverse osservazioni.
    Inoltre il recente Piano spiaggia prevede per Porto Bolaro solo l’autorizzazione per punti di approdo e bagni chimici, eludendo la possibilità di erogare servizi per le imbarcazioni in sosta. Non di certo un incoraggiamento.
    Nel botta e risposta tra il raggruppamento di imprese e l’amministrazione Comunale, Paolo Brunetti, facente funzione durante l’interregno di Falcomatà, ha dichiarato che il progetto esecutivo richiesto dal Comune non sia mai arrivato. Peccato che non si trattasse di una gara pubblica, ma della presentazione di un progetto “di particolare complessità e di insediamenti produttivi di beni e servizi” presentato con “motivata richiesta dell’interessato” con relativo studio di fattibilità, come previsto dal comma 3 dell’articolo 14 delle legge 241/1990.

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    Pino Falduto, l’imprenditore reggino promotore del progetto

    Lo scorso 8 febbraio, a oltre due anni dalla delibera, tramite Pec, il raggruppamento di imprese coinvolte, con a capo una reggina, ha scritto al Comune. Ribadendo di poter fornire gratuitamente «assistenza tecnica per il completamento dell’iter amministrativo», ha chiesto «un incontro di chiarificazione tecnico amministrativa» per «dare finalmente impulso» al progetto. Che, dice il sindaco, oltre ad incassare il parere favorevole di Sovrintendenza, Enac, Città Metropolitana, deve essere coerente con PSC, piano spiaggia, Ferrovie. Gli stessi attori presenti nella conferenza dei servizi preliminare e gli stessi documenti programmatici in cui un’ipotesi del genere non si menziona.

    Reggio Calabria in silenzio

    Per aumentare il proprio appeal turistico Reggio Calabria non può fermarsi all’offerta di città green che guarda alla cultura come idea di sviluppo. Deve promuovere una grande infrastruttura che punti sull’intermodalità (Forza Italia ha appena presentato un emendamento all’ultimo decreto del PNRR proprio sul rafforzamento dell’intermodalità e sull’annullamento dell’addizionale comunale sui diritti di imbarco sugli aerei). Un’opera che incoraggi il partenariato pubblico-privato inserito nel Masterplan e che sfrutti la geografia dell’area: al centro del Mediterraneo e della grande autostrada del mare che collega Oceano Atlantico e Oceano Indiano.

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    Uno yacht di fronte a Porto Bolaro

    Serve un’infrastruttura che attragga investimenti e capitali, generi economie di scala e spalanchi una nuova porta di accesso al suo territorio e ai suoi patrimoni: Museo del Mediterraneo, Museo della Magna Grecia, Parco Nazionale dell’Aspromonte, bergamotto, archeologia e storia millenaria. Potrebbe essere Mediterranean Life?
    Per questo, però, servono volontà, visione, continuità, strategia, vitalità, partnership e convergenza. Invece divisa, isolata, inaccessibile, lasciata all’oblio di un dibattito che non c’è, Reggio Calabria sembra non aver imparato la lezione. Mentre continua a perdere residenti, forza lavoro, capitale umano e opportunità.

  • Repubblica Rossa di Caulonia: falce, martello e sangue contro i latifondisti

    Repubblica Rossa di Caulonia: falce, martello e sangue contro i latifondisti

    Degli sfruttati l’immensa schiera/

    La pura innalzi, rossa bandiera/

    O proletari, alla riscossa/

    Bandiera rossa trionferà.

    Una bandiera rossa garriva a Caulonia, seppur per un attimo. Quella che raccontiamo è una pagina poco nitida e menzionata della storia della Calabria, una vicenda maturata al termine della Guerra di Liberazione italiana, che, nella sua brevissima parabola, non rimase relegata ai circoscritti confini territoriali in cui ebbe luogo, ma si riverberò sul panorama nazionale.

    La Rivoluzione d’ottobre fa il bis

    6 marzo 1945. Mentre l’Armata Rossa prepara l’ingresso decisivo nella Germania nazista ed Evgenij Chaldej non sa ancora che fra poche settimane sul tetto del palazzo del Reichstag scatterà una delle fotografie più iconiche del secolo, in tutta Italia sono alle ultime battute le operazioni militari degli Alleati. L’intenzione è di formare un nuovo ordine nella Penisola precipitata nel marasma dopo la caduta del Fascismo, l’Armistizio di Cassibile, l’occupazione tedesca, la nascita dello stato fantoccio di Salò e la sanguinosa guerra civile.

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    La bandiera sovietica issata sul Reichstag nella più famosa foto di Evgenij Chaldej

    In questo scenario a dir poco caotico, a Caulonia, centro della Calabria sudorientale, scoppia una rivolta destinata ad aggiungere un capitolo nella cronistoria del centro che prende il nome dalla antica città magnogreca (fondazione achea dell’VIII secolo a.C.) di Kaulon (o Kaulonìa) che un tempo si credeva sorgesse entro i confini comunali dell’attuale Caulonia, prima delle scoperte archeologiche del primo Novecento che hanno attestato la corretta collocazione a Punta Stilo, nel territorio di Monasterace, circa quindici chilometri più a Nord.

    Falce e martello in un angolo di Calabria

    Il più esteso dei paesi della comunità montana Stilaro-Allaro-Limina, conosciuto come Castelvetere fino al 1863, all’epoca dei fatti contava una popolazione relativamente significativa, circa dodicimila abitanti, il doppio rispetto a quelli del XXI secolo, determinato dal progressivo abbandono del vasto centro storico partito negli anni ’50 del secolo scorso.
    In quei giorni di marzo del 1945 quello sconosciuto angolo della misterica Calabria – ulteriormente impoverita dalla guerra – balza agli “onori” della cronaca nazionale grazie al compimento di una sommossa sullo schema delle azioni criminali della Rivoluzione d’ottobre e successiva guerra civile nella Russia di circa un quarto di secolo prima.
    I moti, maturati negli ultimi giorni della stagione di sangue che culminò con la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, profittando quindi di una situazione sociopolitica oltremodo instabile, portano alla nascita della Repubblica Rossa di Caulonia.

    La Repubblica Rossa di Caulonia e gli scontri fra contadini e latifondisti

    Vessati dai latifondisti intenzionati a mantenere i propri privilegi anche in vista della nuova epoca oramai alle porte, i contadini di Caulonia decidono di unirsi e di insorgere contro i potenti padroni.
    La scintilla che fa scattare la rivolta è l’arresto del figlio del sindaco del paese, reo di avere rubato presso una proprietà di un notabile della zona. È vero, però, che l’arresto del giovane è soltanto il più classico casus belli, ché il clima nel paesino dell’odierna provincia di Reggio Calabria ribolliva da tempo. Già nel 1750 i braccianti di Castelvetere erano stati protagonisti di una insurrezione contro i Carafa, famiglia dominante dell’area. Negli anni susseguenti alla Grande Guerra, poi, si era registrato qualche nuovo acceso scontro.

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    Contadini al lavoro nei campi (Archivio Istituto Luce)

    Soprattutto, però, è dopo l’8 settembre che gli attriti fra contadini e possidenti, ovverosia fra braccianti rossi e agrari neri, si inaspriscono: ribelli comunisti si macchiano di aggressioni, convinti di potere usare violenza in quanto aderenti alla “giusta” lotta contro i fascisti. Emblematico è l’agguato che vede vittima il curato don Giuseppe Rotella, assalito e bastonato a sangue perché si permette di biasimare la brutalità dei rivoltosi.

    Pasquale Cavallaro issa la bandiera sul campanile

    Capopopolo della sollevazione di Caulonia è Pasquale Cavallaro, classe 1891, sindaco comunista del centro del Reggino, uomo di discreta cultura e grandi capacità oratorie, già oppositore del regime di Mussolini e pertanto confinato per circa quattro anni sulle isole carcere di Ustica e Favignana.
    Descritto come uomo ardito e inquieto, dai personali principi saldissimi, incentrati sulla “defascistizzazione pacifica” del suo paese, quel 6 marzo 1945 Cavallaro occupa l’ufficio delle poste e le caserme dei Carabinieri reali e delle guardie forestali, per poi proclamare la nascita della repubblica filocomunista issando sul campanile della chiesa la bandiera rossa con falce e martello.

    Eugenio Musolino
    Eugenio Musolino

    Già le primissime fasi della “conquista del potere” sono oggetto di discussioni. Uno dei protagonisti politici di quella stagione, Eugenio Musolino (segretario comunista e poi parlamentare del Pci dal ’48 al ’58, nonché membro dell’Assemblea Costituente), inviato sul posto perché chiarisse cosa stesse accadendo nel centro jonico e mediasse una rapida risoluzione della faccenda, riporta nel libro La Repubblica Rossa di Caulonia. Una rivoluzione tradita? che il sindaco rivoluzionario si era in parte ritrovato nel turbine dei tumulti a causa dell’incontenibile desiderio insurrezionale dei due figli.

    La Repubblica Rossa di Caulonia: caccia ai fascisti

    Quel giorno un gruppo di migliaia di contadini e operai sfruttati dell’are si unisce. I numeri non sono precisi: alcuni parlano di tremila, altri, fra i quali lo stesso Pasquale Cavallaro, addirittura di diecimila unità fra caulonesi e altri braccianti (fra cui anche centinaia di donne) provenienti dai vicini comuni di Camini, Stignano, Placanica, Monasterace, Riace e Nardodipace.
    Accade, però, che la necessità di ribellarsi alle soperchierie storiche dei proprietari terrieri, sul modello di un sistema feudale difficile da intaccare e rimasto praticamente immutato a Caulonia, come in altri angoli isolati del Mezzogiorno, si trasforma immediatamente in una sommossa segnata dalle violenze e dalle vendette personali, regolamenti di conti non soltanto contro i “nemici” fascisti.
    Contando sulla protezione delle montagne sovrastanti, nella Repubblica di Caulonia si alzano barricate, i compagni armati di fucili e mitraglie presidiano le porte del paese e le colline intorno, minano alcuni ponti verso la marina.

    L’umiliazione dei “nemici del popolo”

    I tumulti vengono soffocati già il 9 marzo, ma durante le quattro giornate di Caulonia si assiste a scene mostruose in cui numerosi notabili del paese vengono oltraggiati e torturati dagli insorti e alcune donne sono stuprate con la inammissibile scusante della libertà dei popoli oppressi. I nemici del popolo vengono processati sommariamente da un tribunale del popolo e le umiliazioni pubbliche ai danni di sostenitori dei fascisti, reali o presunti, si succedono. A pagare il prezzo più alto è soprattutto il parroco Gennaro Amato, amico d’infanzia del Cavallaro e simbolo di un mondo che i cosiddetti “mangiapreti” intendono distruggere. Ucciso dall’esercito popolare all’alba della sommossa, il prelato è la sola vittima sulla coscienza della Repubblica Rossa di Caulonia.

    Per quattro giorni l’euforia e il terrore corrono per le stradine del centro agricolo. Infine è l’arrivo della polizia di Reggio Calabria a sedare la ribellione, già affievolitasi con il manifestarsi delle violenze più belluine, chiaramente disapprovate da gran parte della comunità. Il dissociarsi della brava gente di Caulonia non è la sola ragione che porta alla conclusione della parentesi anarchica. Ce ne sono almeno altre due che portano al fallimento, pratico e ideologico, la rivolta della Repubblica caulonese: i ribelli non trovano né il sostegno dei dirigenti provinciali del Pci, né tantomeno l’approvazione della malavita locale, entità che, nel bene o nel male, avrebbero potuto dare consistenza al golpe abortito di Cavallaro e compagni.

    La Repubblica rossa di Caulonia a processo

    Il sindaco/presidente della Repubblica si dimette il mese successivo, le bandiere rosse vengono strappate dai tetti delle abitazioni e circa trecentocinquanta fra i più feroci rivoluzionari di Caulonia sono arrestati con l’accusa di costituzione di bande armate, estorsione, usurpazione di pubblico impiego, violenza a privati e, in ultimo, di omicidio, per l’assassinio del parroco Amato.
    Al processo partito nel marzo 1947 alla Corte di Assise di Locri, per la quasi totalità degli imputati non si procede perché i reati sono dichiarati estinti a causa della controversa amnistia (decreto presidenziale numero 4 del 22 giugno 1946) proposta dal Ministro di grazia e giustizia Palmiro Togliatti, storico segretario generale del Pci.
    Solamente Pasquale Cavallaro e i due assassini materiali dell’omicidio Amato sono condannati a otto anni di reclusione.

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    Il tribunale di Locri oggi

    Un esempio di liberazione dal servilismo

    «Io volevo, questo in modo assoluto, farla finita con le disparità, con le angherie, il servilismo verso questo o quel signorotto, verso questo o quel prevalente messere; io volevo che tutti si avesse una dignità umana degna di essere ammirata e degna di rispetto da parte di tutti. Questi erano i miei intendimenti precisi, chiari, inequivocabili. […] Fatto sta che a Caulonia si è dato un grande esempio, l’esempio della liberazione del servilismo».
    È un estratto dell’intervista di Pasquale Cavallaro con Sharo Gambino, scrittore, giornalista e intellettuale meridionalista, contenuta nel volume succitato La Repubblica Rossa di Caulonia. Una rivoluzione tradita?, che raccoglie scritti di Pasquino Crupi, Sharo Gambino, Vincenzo Misefari e Eugenio Musolino relativi alla Repubblica Rossa di Caulonia.

    Episodio campale della sequenza di ribellioni delle classi oppresse del Sud Italia che negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso lottarono contro le vessazioni dei latifondisti e per la distribuzione delle terre incolte e una legittima riforma agraria, il caso della Repubblica Rossa di Caulonia del ’45 è di fatto scivolato nell’oblio, trovando appena qualche eco nei racconti popolari tramandati per via orale.

    Una piazza per ricordare la Repubblica Rossa di Caulonia

    Recentemente è stata avanzata la proposta di dedicare una piazza a quella rivolta popolare, pare, al tempo, encomiata anche dallo stesso Iosif Stalin, leader del più potente partito comunista del globo, e, negli anni, da taluni riconsiderata, in maniera a dir poco acrobatica, come antipasto della Repubblica italiana. Comunque sia, i propositi celebrativi si sono scontrati con chi invece considera quella breve parentesi, forse troppo mitizzata, certamente contraddistinta da punti tutt’oggi oscuri e di una ricostruzione lacunosa, una pagina da dimenticare considerate le azioni violente esercitate nel corso delle quattro giornate e pure il numero dei contadini puniti successivamente al ripristino dell’ordine.

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    Stalin, segretario del PCUS negli anni dell’insurrezione calabrese

    Per approfondire meglio la complicata storia del governo rosso di Caulonia esiste una ampia e sfaccettata letteratura. Segnaliamo alcuni altri testi: In fitte schiere. La repubblica di Caulonia di Sharo Gambino (Frama Sud), La Repubblica di Caulonia di Simone Misiani (Rubbettino), Cavallaro e la Repubblica di Caulonia di Giuseppe Mercuri (Vincenzo Ursini Editore), Operazione “Armi ai partigiani”. I segreti del Pci e la Repubblica di Caulonia di Alessandro Cavallaro (Rubbettino) e La Repubblica di Caulonia tra omissioni, menzogne e contraddizioni di Armando Scuteri (Rubbettino).

  • Eranova, cronaca (e romanzo) di un assassinio di Stato

    Eranova, cronaca (e romanzo) di un assassinio di Stato

    Si può avere il coraggio di cancellare un intero paese, sradicare centinaia di migliaia di alberi per costruire un’acciaieria consci della crisi dell’industria siderurgica e, per giunta, che il progetto non sarà mai realizzato?
    Si può, purtroppo si può. Ed è il sunto della storia amara di Eranova, della truffa ordita negli anni Settanta del secolo scorso ai danni della Calabria, una terra fra le più povere del Continente, da sempre subordinata a forze superiori e spolpata dai massicci flussi emigratori; una storia che, se non fosse realmente accaduta, potrebbe apparire un romanzo a metà fra l’umorismo – tendente alla satira – e la distopia.
    Una storiaccia che, in effetti, proprio un romanzo ha riportato recentemente a galla, in un momento storico in cui tanto ci si interroga sull’opportunità di certi nuovi mirabolanti progetti pensati per la Calabria, per strappare i calabresi dalle secche dell’“insostenibile” sottosviluppo economico e infrastrutturale e schiudere loro inaspettati orizzonti di benessere.
    La vicenda di Eranova, il fu centro agricolo della Piana di Gioia Tauro, rivive nelle pagine di Un paese felice, l’ultima fatica letteraria dello scrittore Carmine Abate.

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    La Piana di Gioia Tauro

    Eranova, il paese profumato di zagara

    Prima che scoccasse l’ora fatale, Eranova era una frazione costiera del comune di Gioia Tauro, distinta dall’inebriante profumo di zagara e dalle distese di vigneti, uliveti e agrumeti che ne tingevano di colori il territorio parallelo alla spiaggia, dirimpetto alle Eolie.
    Un luogo paesaggisticamente meraviglioso che era stato fondato nel 1896 da un gruppo di braccianti stanchi di sottostare alla tirannia dei padroni della vicina San Ferdinando. Uomini e donne anelanti libertà, ché “la libertà è tutto nella vita di un uomo, come l’aria che respiriamo”.
    Un’aria fresca e pulita che d’un tratto, susseguentemente al famigerato Pacchetto Colombo (dal Presidente del Consiglio dei Ministri Emilio Colombo che lo annunciò) volto ad acquietare gli animi di parte dei calabresi dopo le rivolte di Reggio Calabria del 1970 – causate dalla decisione del governo di conferire a Catanzaro il titolo di capoluogo di regione –, venne inquinata dal limaccio e dai miasmi del denaro, della sopraffazione, del compromesso e degli intrighi politici in nome della parola-bestemmia degli ultimi cinquanta, sessant’anni della storia d’Italia: il progresso.

    I Moti di Reggio
    I Moti di Reggio

    Eranova: l’origine del disastro

    Moti di Reggio e successivo Pacchetto Colombo, dunque. Originano un po’ tutti da lì i mali della Calabria degli ultimi decenni.
    Il progetto del quinto centro siderurgico con annesso porto commerciale, di fatti, fu assegnato a Gioia Tauro nel 1972 come compensazione della rivolta reggina. Una assegnazione avvenuta senza una chiara programmazione ma indirizzata principalmente a placare gli spiriti inferociti e diretta a un settore, quello dell’acciaio, già in aperta crisi per via della stagnazione sia dell’edilizia sia della cantieristica – l’acciaieria di Bagnoli registrava perdite paurose e per quella di Piombino si pensava alla chiusura –; una crisi ampliata dopo l’apertura, nel 1965, dell’impianto di Taranto, che deturpò la città sullo Jonio e la sua piana punteggiata da ulivi secolari, da un giorno all’altro bollati come testimoni di un mondo arcaico, inutile cordone con una civiltà contadina da lasciarsi alle spalle senza troppi dispiaceri.

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    Quel che resta delle acciaierie di Bagnoli

    La bella Taranto, abbracciata dal mare e cantata nei secoli da poeti e viaggiatori – Pasolini nel suo viaggio in Italia del 1959 la definì “una città perfetta” –, sparì, lasciando spazio a un’area industriale che spianò per Taranto la strada verso il titolo di città fra le più insalubri del pianeta. Quel precedente, però, non fece squillare alcun allarme alle orecchie turate di una buona porzione dei calabresi e dei governi nazionali e regionali.

    Mille miliardi gettati al vento

    Appalesatesi presto i primi segni del prevedibile inganno, gli abitanti della città offesa dalla mancata assegnazione del capoluogo, nella cui provincia sarebbe ricaduta l’opera con tutti i suoi utopistici benefici, furono i primi a non mollare di un centimetro affinché il disegno del centro siderurgico della Piana non fosse rimodulato o accantonato. Già in quegli anni settanta, di fatti, era stata stabilita la antieconomicità del progetto dell’acciaieria e delle infrastrutture collegate, con quell’investimento statale monstre di mille miliardi di lire che sarebbe stato impossibile da recuperare, tanto che anche Finsider e Iri avevano consigliato di spostare l’impresa in zone più propense alla sua realizzazione, vale a dire Lamezia Terme e Crotone.

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    I lavori per la realizzazione del polo siderurgico, 1976 (foto Michele Marino)

    Titolò La Stampa, il 24 agosto 1973: “Reggio vuole a tutti i costi il 5° ‘Centro’ di Gioia Tauro”. Un fermo sostegno da parte della città più popolosa della regione per scongiurare un ripensamento, un cambio di rotta – il quale, chiaramente, sarebbe stato visto come di matrice politica – che, qualora fosse sopraggiunto, avrebbe condotto i reggini di nuovo in piazza per riaprire la tutt’altro che sopita polemica circa il capoluogo.
    Una posizione ferrea che assumeva la forma di un ricatto morale a cui lo Stato italiano si piegò ma che di vittime non ne mietette presso i palazzi del potere, bensì soltanto nella disgraziata Calabria.
    Soprattutto in quel piccolo centro di Eranova, il paese felice del romanzo di Abate, un libro testimonianza che si fa portavoce di tutte le ingiustizie subite dalla Calabria e dai calabresi, un’opera che, grazie all’incoraggiamento “di un coro di voci veritiere” – come afferma lo stesso autore originario di Carfizzi –, permette di fare emergere una storia drammatica seppellita dalla mala coscienza nazionale e locale.

    Il disastroso impatto ambientale

    Dietro la promessa da marinaio della creazione di circa 7.500 posti di lavori offerti ai calabresi – molti dei quali, emigrati in Alta Italia, in Germania, nelle Americhe, già pregustavano il sognato ritorno a casa: «Ci sarà il progresso finalmente! Non possiamo vivere solo di zappa e partenze» –, a Eranova si procedette allo sbancamento della spiaggia e all’esproprio di 500 ettari di terreno. Fu un sacrificio che il deputato socialista Giacomo Mancini, fra i maggiori sostenitori dell’impresa fallimentare, definì “minuscolo” considerati i cinquantamila ettari coltivati nell’area.
    Si assistette così all’abbattimento impietoso di circa 700.000 alberi – cifra abnorme che pure se non fosse corrispondente al vero dà comunque la misura dello spaventoso abuso perpetrato contro la natura – e della folta pineta marina che riparava dal vento e dalla salsedine i prosperosissimi uliveti, vigneti e agrumeti, quest’ultima coltivazione, ritornata col tempo un fiore all’occhiello della Piana, oggi nuovamente strozzata dalle politiche europee.

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    Andreotti, Mancini e l’allora sindaco Gentile posano la prima pietra del Quinto polo

    Una serie di azioni scellerate che estirparono per sempre il profumo di zagara che contraddistingueva quel tratto della Piana e stravolsero le vite di centinaia di famiglie.
    Il polo siderurgico di Gioia Tauro non è stato mai realizzato e il porto commerciale della città – costruito per dare supporto all’acciaieria fantasma inondando l’area interessata con due milioni e mezzo di metri cubi d’acqua – si staglia oggi come unica testimonianza tangibile di quella promessa che cinquant’anni fa illuse per l’ennesima volta i calabresi; un impegno puntualmente non mantenuto dalla Repubblica e che si trasformò in un imponente sperpero di fondi pubblici, nonché in un colossale affare per politici e mafiosi.

    Un memento per i calabresi

    L’avanzare delle voraci gru, delle ruspe e delle draghe, la lenta e inesorabile cancellazione del paesino di Eranova, le proteste dei pochi eranovesi non lasciatisi incantare dagli unicorni delle favole e corrompere dal dio denaro, il blocco dei cantieri per i ritardi circa l’arrivo degli indennizzi per gli espropri e i trasferimenti verso i nuovi alloggi allestiti presso anonimi quartieri di Gioia Tauro e San Ferdinando.

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    Lo scrittore Carmine Abate

    Sono tutti aspetti e riflessioni che, attraverso la storia romanzata di Un paese felice, Carmine Abate ci racconta, risvegliando il ricordo di una cicatrice mai rimarginata e stimolando il popolo calabrese – cui sovente, nella storia, si è ritorta contro la sua acquiescenza e la sua proverbiale accoglienza – a tenere sempre alta la guardia dinanzi ai canti ammaliatori dei signori del “progresso” e ai nuovi piani di ripresa e “pacchetti” di varia forma e natura che oggi o domani potrebbero essere offerti come manna dal cielo.

  • Aspromonte: Ente Parco nella bufera? Politici tutti zitti

    Aspromonte: Ente Parco nella bufera? Politici tutti zitti

    Come è ormai noto, le vicende legate alla complicata e controversa gestione dell’Ente Parco Aspromonte diffuse da questo giornale sono volte al peggio. Questo peggio non riguarda solo l’operato dell’ormai ex presidente Leo Autelitano, rimosso per le gravi criticità gestionali richiamate dal relativo decreto del ministro Pichetto-Fratin.
    Il commissariamento di un ente pubblico è una sconfitta su tutta la linea. Lo è per gli amministratori coinvolti, per la politica che vi ruota intorno, per le funzionalità dell’ente stesso ridotte al solo disbrigo degli affari correnti. Lo è anche e soprattutto per i portatori di interesse la cui azione è informata da (e cammina con) gli indirizzi politici e gestionali – l’ipotetico “buon governo” – di una pubblica amministrazione. Mi riferisco, ad esempio, agli operatori turistici e a tutti coloro che lavorano con e per la montagna.

    Ente Parco Aspromonte: tutti decaduti tranne uno

    A maggior ragione anche questo commissariamento, come i molteplici che si sono susseguiti in Calabria e non solo, paralizza l’azione del Parco. Annulla tutte le sue attività di pianificazione. Congela la progettazione e la programmazione di cui aveva parlato Pino Putortì, direttore amministrativo dell’ente, unico a restare in sella dopo il triste epilogo. Assieme ad Autelitano è, infatti, decaduto anche il Consiglio Direttivo.
    Questo significa che il famoso e recentemente approvato Piano Integrato di Attività e Organizzazione 2023-2025 con il nucleo della nuova programmazione diventa carta straccia. E con esso tutte le nuove linee programmatiche sulle maggiori difficoltà da sbrogliare. In primis il riordino della zonizzazione, fondamentale per superare le criticità legate alla governance dei territori, ossia dei 37 (!) Comuni ricadenti nell’area del Parco.
    Tutti dettagli che, considerata la forma di diarchia pura tra presidenza e direzione amministrativa, giocano a favore di una necessaria revisione della legge 394 in una direzione che garantisca il buon andamento dell’ente e ne scongiuri la paralisi.

    Leo Autelitano, il presidente dell’Ente Parco dell’Aspromonte

    Ente Parco Aspromonte: silenzi e milioni di euro

    Più in generale, fa impressione non aver letto una riga di dichiarazioni da quei Comuni che, insieme alla Città metropolitana di Reggio e alla Regione Calabria, formano la Comunità del Parco: quella che designa, tra personalità di chiara esperienza nel settore, quattro tra i componenti del Consiglio Direttivo oggi sciolto.
    Ora, sorvolando sul “dettaglio” che quelli che la norma indica come esperti, siano sempre stati pure e mere espressioni politiche, si arriva comunque a un bivio. O questo tacere è una forma di silenzio-assenso verso i provvedimenti ministeriali (e allora si è portati a pensare che il muto assenso di oggi sia la complicità muta, cieca e sorda di ieri) o è un tacere interessato. Un’occasione utile per riassettare equilibri, ribilanciare pendenze e stringere nuovi accordi.
    Sul piatto balla un avanzo di bilancio di 5 milioni e 200mila euro, assieme ad altri 6 (cifra arrotondata per difetto): il valore delle quattro schede programmatiche presentate mesi fa alla dirigenza del Settore parchi ed aree naturali della Regione. Decadranno anche quelle? O verrà trovato il cavillo per attingere a quelle risorse?

    Oneri e onori

    Di certo, per un Ente Parco Aspromonte depauperato in modo quasi irreversibile delle risorse umane per mandarlo avanti, la strada è tutta in ripida salita. I moltissimi che vedono nel Parco la casa di tutti gli amanti della natura, gli operatori e le associazioni che si occupano di turismo montano, escursionismo, ricerca, tutela di flora, fauna, territorio e ambiente hanno ora l’onore e l’onere di vigilare più di prima, e di battersi come troppo timidamente fatto prima. Perché il Parco non sono quei loro che ne hanno fatto cosa loro. Il parco siamo noi ed è un pezzo cruciale del futuro dei nostri territori e della loro strategia di crescita e sviluppo.

    Il mare a due passi dalla montagna: meraviglie del trekking d’Aspromonte

    Verso le elezioni

    Lo scorso maggio 2022, secondo l’ultima classifica redatta da Openpolis sulle aree metropolitane più verdi d’Italia, Reggio Calabria si piazzava al terzo posto su 14. Un dato che trova riscontro nella presenza del Parco Aspromonte e, di riflesso, dell’Ente. Il prossimo candidato sindaco di Reggio, assieme agli altri dell’area metropolitana – più tutta la cosiddetta società civile, imprenditoria compresa – dovrebbero ben tenere a mente questi punti: non solo perché sono il cardine delle future politiche nazionali ed europee, ma perché rappresentano la vera e peculiare prospettiva di sviluppo di una città e un’area metropolitana “di montagna” affacciate sul mare. È arrivato il momento delle convergenze, abbandonando i conflitti.

  • GENTE IN ASPROMONTE | A spasso nel tempo: quando il trekking insegna il passato, ma senza cliché

    GENTE IN ASPROMONTE | A spasso nel tempo: quando il trekking insegna il passato, ma senza cliché

    In questo mio vagare per la Montagna, mi sono chiesto più volte se ci fosse un modo corretto di raccontarla e, se sì, quale fosse. Dopo un anno di peregrinare, portato a volte dalla casualità, altre dal passaparola, altre ancora da contatti che avevo o che sono arrivati, mi sono accorto che il modo più giusto era quello dettato assieme da intuito, curiosità e flusso. E con flusso intendo la capacità di farsi trasportare verso un apparentemente noto in grado di farsi ignoto. Ripulendosi, in un certo senso, gli occhi e la bocca, per tutto quanto, pur guardandolo, non era stato visto. Pur udendolo, non era stato ascoltato. Pur contemplandolo, non era stato colto. Perché, crogiolandosi nella familiarità di schemi cognitivi confortevoli, che consentono di inferire sommariamente risparmiando energie, spesso ci si accomoda. Ma tale comodità ha un prezzo alto: lo stereotipo.
    Chi invece si è battuto contro questa tendenza che spesso porta ad oscillare tra sciovinismo e manicheismo non è né un ritornato, né un restato. Ma un arrivato. Che poi, a modo suo, è diventato un ritornante e con il quale ho condiviso diversi momenti, più o meno lunghi, di confronto e riflessione: il generale Giuseppe Battaglia.

    Storia e geografia

    Oggi consulente presso la Commissione Europea, emiliano di origine, è un uomo di legge e di passioni. «Sono stato assegnato al Comando provinciale dei Carabinieri di Reggio Calabria per un caso fortuito. La mia destinazione doveva essere Milano. Ho obbedito ai comandi e mi sono ritrovato in una terra inaspettata e sorprendente, dove ho avuto la fortuna di incontrare l’Aspromonte e i suoi sentieri. L’ho battuto palmo a palmo, vivendolo e respirandolo, ora per lavoro ora per diporto. Il primo alimentava il secondo e viceversa. Appena posso, vi torno sempre. Per quanto abbia girato, non ho mai scovato altrove ciò che ho trovato in Aspromonte: una terra primordiale, selvaggia, ancorata a un’antropologia, a tradizioni e a culture complesse che troppo facilmente sono state etichettate».
    Grande appassionato di alpinismo, esploratore e viaggiatore, per il generale tutto ruota attorno un concetto semplice: «La geografia viene prima della storia, la plasma e l’ha sempre indirizzata. È così che l’Aspromonte deve essere osservato e analizzato». Col generale ho camminato, ho viaggiato e ho anche affrontato l’esperienza di Polsi che tratterò nella prossima puntata.

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    Antonio Barca con la moglie Marie Therese Italiano

    Siamo al rifugio Il Biancospino, gestito da altri due pezzi da novanta, Antonio Barca e la moglie Marie Therese Italiano: uno dei luoghi incantati della Montagna, nascosto tra i Piani di Carmelia nel territorio di Delianuova. Lo ha costruito a mano lo stesso Antonio, pezzo dopo pezzo. In occasione della presentazione del libro Guida all’Aspromonte misterioso – Sentieri e storie della montagna arcaica si è radunata una piccola folla di appassionati. Battaglia ne è l’autore insieme ad Alfonso Picone Chiodo, scrittore, fotografo, ricercatore, trekker, alpinista, agronomo. Restato di questa puntata, primo tra i primi camminatori degli anni Ottanta e tra i primi a intravedere le opportunità di questo territorio.

    Guida-Aspromonte-Misterioso
    La copertina del libro scritto da Battaglia e Picone Chiodo

    La Calabria brutta e cattiva

    «Tornare qui a fare questa presentazione è una fortissima emozione. Si tratta del luogo in cui sono stato accolto come un pellegrino. Perché – inizia Battaglia – pellegrino lo sono stato davvero. La mia storia è cambiata nel 2017, l’anno della riunificazione del Corpo Forestale dello Stato coi Carabinieri. Durante la ricerca di alcune piantagioni alcuni operai forestali si persero in località Ferraina, piena zona A del Parco. Un caso molto imbarazzante per il Comando Generale a un mese dall’accorpamento. Anche perché si trattava del comune di Africo, stereotipo della Calabria brutta e cattiva. Durante un viaggio col Comandante Generale che stava assegnando le destinazioni dei provinciali (comandanti, ndr.), quegli si ricordò che sono un alpinista: da Milano mi dirottò a Reggio Calabria, dove c’era tutto un territorio da esplorare e serviva gente esperta. A distanza di anni mi colpisce ancora che, dalle prime ricerche che effettuai per documentarmi su un territorio a me ignoto, emerse una narrazione nera. Negativa. Nemmeno il sito dell’Ente Parco conteneva informazioni aggiornate».

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    Il generale Giuseppe Battaglia

    Drammatica bellezza

    «Il mio primo giorno di incarico, il 5 ottobre, lo trascorsi a Polsi – prosegue Battaglia – dove c’era la chiusura dell’anno liturgico. Chi conosce i luoghi sa quanto lunghe e impervie siano le uniche due strade che arrivano al santuario. Fu un’epifania. Non facevo altro che fermarmi per potere scattare delle foto. Il mio primo contatto diretto con l’Aspromonte si consumò all’insegna di una drammatica bellezza. Iniziai poi un’attività di esplorazione sistematica di tutte le stazioni, dalle alture al mare, constatando che ogni vallata aveva una storia peculiare, diversa dall’altra. Avevo bisogno di battere quelle vaste aree palmo a palmo per potere operare. Mi resi conto di due cose: constatai quanto complesso e articolato fosse il territorio di Reggio ed ebbi la conferma che ogni cosa – nel bene e nel male – aveva una sua radice geografica. Se una certa famiglia aveva tenuto cinque sequestrati nel suo territorio, non era un caso: quel nucleo gestiva una determinata porzione di territorio ben noto che gli consentiva di latitare e di tenere sotto diretto controllo i rapiti».

    La Guida ai sentieri dell’Aspromonte

    È una giornata di metà autunno. Il tempo non si decide a volgere al meglio o al peggio e resta sospeso. Frescheggia nonostante sia l’ora di pranzo. Nell’ampio giardino del rifugio Teresa e Antonio hanno allestito un salottino con sedute rustiche e comode. Alla chetichella, alla presentazione arrivano invitati e avventori. Si presenta, in omaggio al generale, anche un manipolo di carabinieri.

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    Carabinieri al rifugio Il Biancospino per la presentazione del libro

    «L’idea e la nascita di Guida all’Aspromonte Misterioso – Sentieri e Storie di una montagna arcaica – derivano dall’incontro mio e di Alfonso. Come Arma dei Carabinieri avevamo già avviato delle pubblicazioni storiche che racchiudevano quanto acquisito nei nostri archivi a livello provinciale e centrale sulle vicende che avevano coinvolto questi luoghi negli ultimi 60 anni. Con Alfonso abbiamo poi ragionato sulla possibilità di prendere questo materiale, isolare determinati episodi contenuti in quegli archivi e nei verbali e associarli a itinerari escursionistici. L’obiettivo era quello di liberare questa montagna da uno stereotipo negativo collegato a fatti storici criminali, senza tuttavia negarli. Ossia associare la parte escursionistica positiva, rappresentata da un pioniere come Alfonso, a una memoria, in modo che l’Aspromonte di oggi possa essere percorso, sia con la consapevolezza di ciò che è avvenuto, sia con la sicurezza e la libertà di un nuovo corso. Senza negare quanto accaduto né il sacrificio dei tanti carabinieri e civili vittime della criminalità, ma celebrando questa nuova vita nella bellezza», mi spiega Battaglia.

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    Il tavolo dei relatori alla presentazione del volume. Da sinistra: Alfonso Picone Chiodo, Francesco Bevilacqua, Michele Albanese, Giuseppe Battaglia e don Pino De Masi

    Un modo di chiudere i conti con la storia e di operare una rifondazione che – continuano in coro gli autori – «fa soprattutto parte di una più ampia operazione di liberazione: agevolare e promuovere la frequentazione di questi luoghi, restituendoli alle persone per bene e sottraendoli ai simboli e al malaffare delle organizzazioni criminali».

    Comprendere l’Aspromonte attraverso i sentieri

    In effetti il volume è una guida per i camminatori e al tempo stesso deposito di memorie che segnano la storia della montagna dall’Ottocento fino ai nostri giorni: 17 itinerari e 124 fotografie suddivisi in cinque parti in cui gli autori compongono affascinanti percorsi escursionistici lungo i sentieri dell’Aspromonte, più o meno lunghi e complessi, sulla falsariga delle storie e degli uomini che li hanno attraversati o contraddistinti. Dal brigantaggio, sulle orme di Giuseppe Musolino, ai primi fenomeni di ‘ndrangheta ambientati tra Pentedattilo, Montalto e Casalnuovo, fino alla lotta dello Stato contro la criminalità e ai luoghi della stagione dei sequestri. Tra boschi, asperità, pendici di origine alpina e vie di fuga. Un percorso per fare un viaggio tra storia, legalità e nuove opportunità relative al circuito di trekking, sport di quota, torrentismo, canoying e ospitalità.

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    Il brigante Musolino

    «Era per noi essenziale legare l’ambiente ai fatti che vi sono avvenuti. Storie di successi e sconfitte per lo Stato, come nel caso di Musolino. Difficoltà. Quelle che oggi l’escursionista incontra sono le stesse che hanno affrontato i carabinieri nel cercare il fuggitivo e ancora le medesime che utilizzava il fuggitivo per nascondersi. E solo in questo gioco di specchi e immedesimazioni, solo recandosi, camminandoci sopra, si può comprendere cosa sia avvenuto in questo teatro remoto e brulicante, in termini di sentimenti, modo di operare, errori, fortune, successi di chi ci ha vissuto. Dove il Luogo ha determinato la dinamica di certi episodi. Questa è la chiave per comprendere l’Aspromonte nella sua integrità», spiegano Battaglia e Picone.   

    La Montagna liberata

    «Abbiamo voluto coinvolgere anche Libera, cui andranno devoluti gli introiti dei diritti di autore e a cui abbiamo affidato la prefazione del volume, nella persona di Don Luigi Ciotti. Da antesignano escursionista sono testimone di come quell’atto del camminare in luoghi ritenuti pericolosi e malfamati a ridosso della stagione dei sequestri abbia contribuito a liberare questa montagna e a trasformarla in vera risorsa, anche a partire dall’istituzione del Parco Nazionale. Un progetto allora impensabile in cui in pochi credevamo ma che ci ha dato ragione, se oggi i sentieri dell’Aspromonte sono battuti da migliaia di escursionisti», continua Alfonso che è anche autore del noto blog L’Altro Aspromonte, una miniera di informazioni e ricerche sulla Montagna e fondatore della Coop Nuove frontiere, prima realtà eco-turistica nel meridione.

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    Alfonso Picone Chiodo, tra i principali esperti dei sentieri in Aspromonte

    Anche lui ha trascorso un pezzo della sua vita a battersi contro gli stereotipi. È stato tra coloro che hanno creduto di poter riscattare un territorio coniugando legalità ed escursionismo. Insieme a Sisinio Zito – socialista con importanti ruoli di governo che creò le premesse legislative per la nascita dell’area protetta – e Guido Laganà, ex assessore regionale al Turismo, ha promosso la creazione del Parco Nazionale a partire dalla realizzazione di un pezzo del Sentiero Italia in Aspromonte, avviando, tra le altre cose, contatti con tour operator stranieri.

    La trappola della legalità

    La liberazione dei luoghi, la loro restituzione a quella parte di comunità sana, l’impegno a rigenerarli attraverso l’avvio di processi di rinascita, riscoperta o sviluppo è lo strumento per evitare quella che il generale Battaglia definisce «trappola della legalità»: un certo oltranzismo nell’applicazione pedissequa di regole e norme in assenza delle necessarie e commisurate risorse a garanzia della sostenibilità di una tale operazione. Solo per scaricarsi da certe responsabilità. Cadere preda di questa trappola castra il principio stesso di legalità, ponendo divieti senza potersi occupare di – o avere le condizioni per – effettuare i dovuti controlli. Inducendo così nelle popolazioni coinvolte la chiara consapevolezza che si tratti solo di divieti formali che possono essere violati allegramente, quando così non è. Comunità e luoghi da tutelare allora rischiano di diventare vittime vulnerabili, perché privati di opportunità di sviluppo e tutela realmente ed oggettivamente sostenibili.

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    L’antropologo Vito Teti

    Sono quegli stessi luoghi – per dirla con le parole di Vito Teti – che non sono solo «articolazione spaziale, ma anche dimensione della mente, organizzazione simbolica di tempo, memoria e oblio, luogo antropologico in senso lato in quanto abitato, umanizzato e riconosciuto, periodicamente rifondato dalle persone che se ne sentono parte e che, nell’essere parte di una storia che ha a che fare con noi stessi, ci interroga ancora tutti: restanti ritornanti e partiti».
    Luoghi che, in quanto tali, sono il nucleo di vita, memoria, riconoscimento, speranza, visione, sperimentazione. Nonostante la propaganda che li ha umiliati, la dignità che è stata sottratta e lo stereotipo che li ha fagocitati.