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  • Vitalizi in Calabria: quanto ci costano le pensioni dei politici?

    Vitalizi in Calabria: quanto ci costano le pensioni dei politici?

    Capita a volte di pensare che i politici locali non abbiano dato un grande contributo per il futuro dei nostri territori. Certo è che grazie ai contribuenti calabresi il loro, di futuro, sarà più sereno di quello della maggior parte dei rispettivi elettori. Perché il periodo trascorso in Regione Calabria, oltre a uno stipendio tra i più alti del Paese durante il proprio mandato, garantirà ai vecchi eletti i sospirati vitalizi e le agognate indennità differite. Quelle finite nell’occhio del ciclone dopo il tentativo di farle elargire con «la legge che si illustra da sé» (poi ritirata) qualche anno fa. Stando alle stime più recenti, costano poco più di 7 milioni di euro ogni anno alla Calabria, oltre mezzo milione al mese.

    Vitalizi in Calabria: quelli che guadagnano meglio

    In Calabria c’è stato un tempo in cui Pino Gentile era il Maradona delle preferenze, oggi invece è il Cristiano Ronaldo dei vitalizi. Avrà anche dovuto cedere la poltrona in aula Fortugno alla figlia Katya, ma, forte delle numerose legislature trascorse tra Consiglio e Giunta, è ancora quello che incassa di più tra i nostri ex governanti per i servizi resi alla collettività. I suoi anni alla Regione valgono un assegno da circa 8.500 euro al mese. Come lui non c’è nessuno, gli altri meglio retribuiti non arrivano nemmeno a quota 8.000.
    Si ferma a circa 7.600, per esempio, Mario Pirillo, che troverà comunque modo di mettere insieme il pranzo e la cena con l’altro assegno da ex europarlamentare. Problema (e soluzione) simile per Mario Oliverio, ex governatore e consigliere che si ferma a soli 3.500 euro al mese: può contare comunque anche sulla pensione da deputato e quella maturata per il suo lavoro a scuola, seppur in perenne aspettativa per impegni politici.

    Di soldi ne vanno più del doppio, circa 7.100 euro, a Mimmo Tallini. Poca cosa, certo, al cospetto delle lezioni sul fascismo che il politico catanzarese ha generosamente regalato dai banchi dell’Aula Fortugno negli anni. Parrebbe quasi un premio alla cultura se non fosse che Mimmo Talarico, pur autoiscrivendosi al club dei principali pensatori del ‘900, ogni 30 giorni ha diritto a soli 2.700 euro. Al suo omonimo Francesco, preso da ben altri pensieri ultimamente, ne vanno invece 6.200.

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    La conclusione del curriculum presentato da Mimmo Talarico alle ultime elezioni regionali

    Inchieste, danni erariali e vitalizi in Calabria

    A volte capita che gli assegni in questione – o, almeno, parte della cifra – tornino automaticamente nelle casse di chi paga. È il caso di quanti, durante il loro mandato, si sono macchiati di danno erariale nei confronti della Regione Calabria, con conseguenze per i loro vitalizi. Solo per citare qualche nome finito in Rimborsopoli: Antonio Rappoccio e Giulio Serra, oppure Luigi Fedele.

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    Giuseppe Scopelliti, ex presidente della Regione Calabria

    Non sono gli unici percettori di vitalizio ad avere o aver avuto problemi con la giustizia italiana. Nell’elenco dei beneficiari, ad esempio, ci sono alcuni dei protagonisti della recente inchiesta che ha travolto Crotone e provincia. Vincenzo Sculco in primis, con i suoi 3.200 euro mensili, ma anche un habitué (suo malgrado) delle indagini sui politici calabresi come Nicola Adamo, che di euro ne prende quasi 6.900 ogni 30 giorni. O chi, come Peppe Scopelliti, è passato dalle patrie galere dopo gli anni nei palazzi del potere: per l’ex governatore ci sono circa 4.700 euro al mese dallo scorso ottobre. Sono pressappoco 1.500 in meno rispetto al suo predecessore Agazio Loiero, ma comunque più dei 3.900 toccati in sorte a un altro ex presidente della Regione, Giuseppe Chiaravalloti.

    In famiglia

    Gino e Michele nel resto d’Italia sono i due autori comici tra gli ideatori di Drive-In e Zelig; in Calabria i Trematerra, padre e figlio. A casa loro di euro ne arrivano circa 8.500 al mese, 4.100 al papà e il resto al pargolo. A casa Morrone invece, nell’attesa che Luca raggiunga l’età della pensione (e la relativa indennità) ci si accontenta dell’assegno da 6.400 euro mensili per il babbo Ennio. Nel remoto caso di difficoltà economiche da affrontare, c’è comunque la nuora Luciana De Francesco a poter dare una mano con lo stipendio da consigliera in aula Fortugno.

    Luigi Incarnato, a sua volta, si ritrova a lavorare gratis come braccio destro – per gli oppositori più maliziosi: alter ego – del sindaco di Cosenza, Franz Caruso, ma per fortuna ci sono i vitalizi della Regione Calabria. Nel suo caso, corrispondono a circa 3.800 euro mensili che gli consentono di entrare nel supermercato a fare la spesa senza eccessivi patemi.
    Menzione d’onore finale per Baldo Esposito: il suo, sarà che non si chiama più vitalizio tecnicamente, sembra quasi il moribondo reddito di cittadinanza. L’assegno, data la brevità dei suoi trascorsi in aula, si ferma infatti a poco meno di 1.000 euro mensili. Prendono come minimo il doppio di lui perfino i beneficiari degli assegni di reversibilità per gli ex consiglieri deceduti. Sono una cinquantina e costano in totale alla Regione poco meno di 120mila euro ogni mese.

  • «Invasioni? Sì, non sagre paesane in salsa Occhiuto»

    «Invasioni? Sì, non sagre paesane in salsa Occhiuto»

    Comincia il conto alla rovescia per il XXII Festival delle Invasioni, all’insegna – è ormai il claim di questa edizione – della contaminazione e della contemporaneità.
    Il 13 e il 14 luglio nel centro storico risuoneranno rock, elettronica, jazz, world music (qui il programma): ne abbiamo parlato con il consigliere comunale Francesco Graziadio, ideatore insieme al direttore artistico Paolo Visci, di un cartellone che vuole riproporre atmosfere post punk e suoni elettronici come negli anni d’oro della kermesse e archiviare certe edizioni «da sagra paesana dell’era Occhiuto». È l’occasione per un primo bilancio di questa esperienza a Palazzo dei Bruzi: l’entusiasmo, le difficoltà e quel silenzio irreale che regna dentro un municipio incredibilmente deserto.

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    Bagno di folla per Calcutta alle “Invasioni” del 2019, il sindaco era Mario Occhiuto
    Come te le immagini queste serate del festival?

    «Sotto il profilo artistico e musicale me le immagino fantastiche. E so che non resterò deluso. Sotto il profilo della partecipazione me lo immagino come tutti quelli che organizzano eventi di questo tipo: alle 8.00 penso che sarà un successo, alle 8.05 penso che saranno un fiasco clamoroso, alle 8.10 sarà tutto bellissimo e stupendissimo, alle 8.15 sotto il palco saremo in sette compresi mia moglie e mio figlio e così via… In realtà è una vera e propria incognita: ho percepito una grande attesa per un evento che è rimasto fermo per tre anni, ottimi riscontri per il cast artistico da parte degli appassionati, ma anche una certa diffidenza per i nomi non proprio conosciutissimi».

    Clock DVA saranno sul palco del Festival delle Invasioni 2023
    Sono state fatte scelte musicali molto particolari. Che percezione hai del pubblico cosentino?

    «Cosenza è una città con una sua storia e una sua tradizione. Ha un orecchio educato anche a sonorità non esattamente commerciali. Ho incontrato cosentini in concerti a Roma, Milano, Londra, Barcellona. Ascoltano rock, punk, post-punk, metal, elettronica, hip hop… Sono incuriositi dalle sperimentazioni. Comprano dischi, leggono riviste specializzate, fanno musica. Malgrado la posizione geograficamente periferica Cosenza ha sempre accolto con entusiasmo tutti i grandi movimenti musicali degli ultimi 50 anni, dal Beat e dal Progressive in poi. Gli artisti che si esibiranno il 13 ed il 14 sapranno soddisfare i palati più raffinati. Senza nulla togliere agli altri, possiamo dire che Clock DVA e The Bug sono nomi che hanno fatto e stanno facendo la storia della musica».

    John Cale (foto Rex Huang – Wikipedia)
    Qual è il è il tuo ricordo più bello legato alle edizioni passate del festival delle Invasioni?

    «Questa è davvero, davvero difficile. Mi devi concedere almeno una doppia possibilità. Dal punto di vista musicale sicuramente il concerto acustico di John Cale al Duomo. Il leggendario leader dei Velvet Underground, cresciuto nella Factory di Andy Warhol, a pochi metri da me. L’urlo finale alla fine di Fear mi fa ancora accapponare la pelle. Ma Invasioni non è stata solo musica e non dimenticherà mai la performance di Fura del baus su Corso Mazzini. Uno spettacolo fantastico, con la folla che sgomitava per salire sul loro mezzo postatomico e surreale per scenderne sporca, sudata ed irragionevolmente felice. Ma restano fuori i Mutoid, I Tamburi del Bronx, la chitarra di Tom Verlaine…»

    Hai percepito critiche legate al fatto che i concerti sono a pagamento?

    «Qualcuna. Mi rendo conto che si tratta di un cambiamento importante, anche se per Lou Reed abbiamo pagato un biglietto. Devo dire, però, che l’ingresso è davvero popolare, con un prezzo politico, se mi passi il termine. Trenta euro per due serate con nove live di livello sono davvero pochi. Basta fare il confronto con le altre realtà musicali per rendersi conto dello sforzo che abbiamo fatto. Oggi gli artisti non guadagnano più con i dischi ed i concerti sono diventati costosissimi».

    E cosa rispondi a chi potrebbe obiettare che si è passati da scelte eccessivamente commerciali e mainstream – nel decennio occhiutiano – ad artisti noti soprattutto nel circuito indipendente?

    «Non mi permetto di giudicare le scelte artistiche degli altri, di dire che è cambiata proprio la prospettiva. Il Festival delle Invasioni era diventato una specie di cartellone per i cosentini rimasti in città a morire di caldo, una sagra paesana. A me le sagre paesane piacciono moltissimo, ma il Festival delle Invasioni era una cosa diversa, non il luogo dove ascoltare con una pizzetta in mano il musicista che puoi sentire alla radio del supermercato facendo la spesa. Noi abbiamo pensato di tornare allo spirito delle prime edizioni: dare al pubblico uno spettacolo di alta qualità artistica scegliendo fra i musicisti che hanno una prospettiva originale ma riconosciuta dalla critica internazionale. Con umiltà, perché siamo un Comune in dissesto e non abbiamo le disponibilità economiche di 25 anni fa. Ma anche con ambizione, perché la formula che abbiamo scelto (concentrare l’evento in due giorni) è quella di tutti i festival musicali del mondo e speriamo che, con il tempo, possa diventare un appuntamento fisso per tutti gli appassionati di musica calabresi e, perché no, italiani. Il direttore artistico Paolo Visci, che non ringrazierò mai abbastanza, ha fatto davvero un lavoro fantastico e con lui abbiamo già parlato della prossima edizione…».

    Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza
    Un primo bilancio di questa esperienza da consigliere comunale nella giunta Caruso?

    «Difficile. Una esperienza difficile persino oltre le previsioni. Delle difficoltà economiche sapevamo, anche se nessuno poteva immaginare il disastro che abbiamo trovato entrando a Palazzo dei Bruzi, ma la carenza di personale è davvero un problema che rischia di rendere vano ogni sforzo. I dipendenti del Comune sono un terzo rispetto a pochi anni fa ed è complicato trovare le risorse umane capaci di portare avanti un programma ambizioso come quello che abbiamo proposto ai cittadini. Le buone idee camminano sulle gambe degli uomini, e quando cammini a Palazzo dei Bruzi puoi sentire l’eco dei tuoi passi, tanto il silenzio che regna in quei corridoi. E poi io sono un tipo pratico, abituato a fare, ma i consiglieri possono fare ben poco. Ma se quel poco è il Festival delle Invasioni posso dirmi soddisfatto. Un’altra cosa: il risanamento dei conti. Se a fine mandato saremo riusciti a rispettare gli impegni presi (e sono ottimista) avremo reso un buon servizio alla città. Di cose da fare ce ne sarebbero tante e so che i cosentini sono critici ed esigenti, ma riuscire a governare senza fare altri debiti mi sembra un obiettivo prioritario. Per rispetto ai cosentini di domani».

  • Ponte: Lega pigliatutto. E i territori? Comparse sorridenti

    Ponte: Lega pigliatutto. E i territori? Comparse sorridenti

    Una nota della Lega – non del ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture, come sarebbe stato logico – immortala il lieto fine nella querelle sul Ponte tra la sindaca di Villa San Giovanni, Giuseppina Caminiti, e il ministro Matteo Salvini, con tanto di foto coi protagonisti sorridenti. In sostanza, tuttavia, la sindaca ha ottenuto la presenza alle riunioni del c.d.a. della Stretto di Messina s.p.a., per i rappresentanti dei Comuni di Reggio, Villa e Messina, da uditori. Tra i decisori a pieno titolo, quale componente del c.d.a., siederà invece il commissario regionale della Lega.

    Il Ponte della Lega

    Sembra dunque che il progetto Ponte sullo Stretto sia un affare che riguarda principalmente la Lega, il partito suo e del ministro. E i rappresentanti del territorio che sarà investito non tanto dall’opera, sulla cui realizzazione è lecito ancora oggi avanzare fondati dubbi, quanto dai cantieri? Relegati a ruoli di comparse.
    Avranno il loro strapuntino al tavolo delle decisioni, senza tuttavia poterle influenzare, e solo per gentile concessione del ministro. La maggioranza di governo ha sonoramente bocciato anche l’o.d.g. presentato in Parlamento, sulla cui approvazione aveva puntato la sindaca di Villa.

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    Salvini e Giacomo Saccomanno, commissario regionale della lega in Calabria

    «Il primo cittadino – si legge nel comunicato – ha fatto presente l’importanza di un coinvolgimento dell’amministrazione comunale e degli enti interessati all’accordo di programma quadro sulle grandi opere al fine di rappresentare le istanze più urgenti dei cittadini. Sul tavolo anche il progetto di Villa San Giovanni che si candida ad essere Città dei trasporti innovativa ed ecosostenibile».

    Chi spinge e chi frena

    Quindi i cittadini saranno coinvolti nella gestazione dell’accordo di programma? E come? E cosa significa che Villa si candida quale città dei trasporti innovativa ed ecosostenibile? Sembrano, o lo sono effettivamente, frasi gettate lì, perfettamente compatibili con tutta questa storia nella quale c’è chi spinge per aprire al più presto i cantieri, anche per dare lavoro a non si sa quante centinaia di migliaia di persone, senza aver chiarito le questioni fondamentali e dirimenti ancora sul tappeto:

    • sul progetto definitivo;
    • sul reperimento dei fondi;
    • sulla realizzazione delle opere senza le quali (alta velocità ferroviaria in Calabria e Sicilia, A2, Palermo – Messina, ecc.) l’ipotetico ponte non sarebbe altro che un isolato ecomostro nel nostro territorio.

    C’è chi spinge, dicevamo. E sull’altro fronte ci sono i resistenti ad oltranza. L’accusa, nei confronti di questi ultimi, è di tenere una posizione “ideologica”. E anche chi esprime perplessità si affretta a premettere di farlo «non per ragioni ideologiche».
    Sono quei termini che fanno capolino nel dibattito improvvisamente, e quatti quatti cominciano a prendere piede fino a quando chiunque, anche chi ne ignora il significato, trova il modo di infilarli in ogni discussione. Come «resilienza» o la locuzione «mettere a terra». Ghigliottina, direbbe Francesco Merlo. Cosa c’entra l’ideologia, o l’approccio ideologico, con la riflessione sulla realizzazione di un’opera? Assolutamente nulla.

    Ma che cos’è l’ideologia?

    Io, a differenza del cognato Lollobrigida che è arrivato alla E, nel vocabolario Treccani sono alla I, dove il termine Ideologia viene così definito (tralascio l’approccio filosofico):

    «Nel pensiero marxista, l’insieme delle credenze religiose, filosofiche, politiche e morali che in ogni singola fase storica sono proprie di una determinata classe sociale, informandone il comportamento, e che dipendono dalla collocazione che questa ha nei rapporti di produzione vigenti; in quanto tale, l’ideologia, lungi dal costituire scienza, ha la funzione di esprimere e giustificare interessi particolari, per lo più delle classi proprietarie ed egemoni sotto l’apparenza di perseguire l’interesse generale o di aderire a un preteso corso naturale. Nel pensiero sociologico, il complesso di credenze, opinioni, rappresentazioni, valori che orientano un determinato gruppo sociale; anche, ogni dottrina non scientifica che proceda con la sola documentazione intellettuale e senza soverchie esigenze di puntuali riscontri materiali, sostenuta per lo più da atteggiamenti emotivi e fideistici, e tale da riuscire veicolo di persuasione e propaganda
    4. Nel linguaggio corrente: b. In senso spreg., soprattutto nella polemica politica, complesso di idee astratte, senza riscontro nella realtà, o mistificatorie e propagandistiche, cui viene opposta una visione obiettiva e pragmatica della realtà politica, economica e sociale»
    .

    Le ragioni dei contrari

    Ora, tutto mi sembra di poter dire a proposito della posizione di chi si oppone alla costruzione del Ponte, tranne che essa possa essere ascritta “ad atteggiamenti emotivi e fideistici”. O “tale da riuscire veicolo di persuasione e propaganda”. Oppure, ancora, qualificata come “complesso di idee astratte, senza riscontro nella realtà, o mistificatorie e propagandistiche”, cui si oppone una “visione obiettiva e pragmatica della realtà politica, economica e sociale”. Semmai è vero il contrario.ponte-stretto-gattuso-dice-no-e-chiede-referendum

    Chi non vuole il ponte sullo Stretto lo fa per aver valutato il contesto territoriale attuale, reputandolo bello e attrattivo così com’è, dal punto di vista paesaggistico, ambientale, naturale. Lo fa nella convinzione, validata dalla scienza e dagli studi condotti, che l’attraversamento dello Stretto può essere efficacemente garantito mediante altri mezzi, meno costosi e per nulla impattanti. Lo fa nella certezza che le difficoltà di realizzazione sono tante e tali, anche facendo riferimento ad altre opere realizzate in altre zone del “globo terracqueo”, da costituire un grosso rischio, sia in corso d’opera, sia a costruzione ultimata, per questioni geologiche, metereologiche, ingegneristiche.

    Lega, ultrà e no ponte

    Non troppo tempo addietro abbiamo dato conto, su questa rivista e più volte, di ogni aspetto particolare inerente a quanto appena esposto. Tanto da poter affermare, senza tema di smentita, che l’approccio ideologico è insito e appartiene a chi invece per il ponte si è piazzato nella curva degli ultrà, con l’atteggiamento tipico di chi crede fideisticamente in qualcosa che nulla ha a che fare con la realtà, con i fatti.
    D’altra parte, si sente spesso parlare di opere compensative rispetto alla edificazione del Ponte. Ma, di grazia, ci si vuole spiegare perché si dovrebbero prevedere compensazioni per qualcosa di così grande, bello, utile? Per quella che viene sovente indicata come la panacea di tutti i mali per una terra che si sta desertificando giorno dopo giorno, a livello umano e a livello fisico-territoriale?

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    Lo Stretto di Messina

    Non ci piace il benaltrismo, è una dottrina che non ci appartiene. Ma mai come in questa vicenda è il caso di dire con forza che sono altre le idee e i progetti, da tradurre finalmente in pratica, dei quali questo lembo di terra ha bisogno.
    Lo strapuntino conquistato dalla sindaca di Villa San Giovanni sarà utile alla propaganda leghista e perfetto per la foto di rito, ma non serve a lei come non serve al territorio che abitiamo. L’unica trincea dietro la quale vogliamo stare e che va difesa ad oltranza è quella contro chi vuole compiere una devastazione definitiva e irrimediabile nello Stretto di Messina.

  • Rende, l’agonia di una città che sognava in grande

    Rende, l’agonia di una città che sognava in grande

    Quando Empio Malara progettò la città di Rende la immaginò come una realtà urbana dove la modernità non avrebbe dovuto snaturare il senso dell’abitare i luoghi. Da questo punto di vista Rende si contrappose subito alla vicinissima Cosenza, cresciuta disordinatamente, senza un piano regolatore organico, preda della furia edilizia della metà degli anni sessanta.

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    Cecchino e Sandro Principe

    Il Principato

    Rende invece era ordinata, strade larghe, viali alberati, spazi comuni, asili che sembravano venuti da paesi scandinavi, servizi che promettevano di essere efficienti. Dietro quel progetto urbanistico, come sempre accade, c’era una visione politica, la pretesa di realizzare, per la prima volta in Calabria, una città a misura delle persone.
    L’artefice di quella visione fu Francesco Principe, socialista arcaico eppure moderno, eternamente sindaco di Rende per poi passare lo scettro al figlio Sandro, entrambi capaci per molti anni di influenzare le scelte politiche calabresi. Furono moltissimi i cosentini che dagli anni settanta in poi cedettero alla tentazione di trasferirsi oltre il Campagnano, confine immaginario e amministrativo tra le due entità urbane, in realtà cresciute una accanto all’altra senza soluzione di continuità. I prezzi bassi degli appartamenti, l’apparente maggiore vivibilità degli spazi, furono un’attrattiva per un gran numero di cosentini, per lo più piccola borghesia impiegatizia, che cercava casa.

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    L’Università della Calabria

    Dormitori, Unical e Legnochimica

    Cosenza si svuotava, perdendo residenti, ma Rende si riempiva solo di notte: per moltissimi anni i suoi quartieri ebbero il destino di restare dormitori. La bella città progettata da Malara non riuscì ad avere un’anima propria per tanto tempo, le piazze, gli slarghi, progettati come luoghi di incontro, rimasero non luoghi, spazi vuoti, perché per costruire l’identità di una città ci vuole tempo.
    Nemmeno l’arrivo dell’università riuscì a mutare il destino dei quartieri rendesi, ma portò nuova ricchezza al territorio, che conobbe un ulteriore impulso edilizio. Intere aree sorsero per dare ospitalità agli studenti fuorisede, alimentando un giro d’affari costruito sui fitti in nero. Chiunque in quegli anni ne abbia avuto la possibilità, ha acquistato uno o più appartamenti, spingendo la domanda di nuove case e immaginando proficui investimenti. Oggi Rende è probabilmente la città con il più alto numero di case rispetto ai residenti. Sul piano economico Rende si proponeva anche come attrattore di imprese, con un’area industriale piena di capannoni, ma anche con la mefitica Legnochimica, problema ancora irrisolto.

    La sedicente Crati Valley

    E mentre Cosenza restava ostinatamente ancorata al settore terziario, Rende coglieva l’opportunità della modernità ospitando le imprese della così detta Crati Valley, guizzi di futuro fatti di ricerca applicata, informatica, servizi avanzati, oggi per lo più arenati come balene spiaggiate. A guidare la crescita urbanistica e sociale di Rende è stata la famiglia Principe, al timone della città per un tempo così lungo da poter essere tranquillamente scambiata per una monarchia ereditaria. Nelle rare occasioni in cui a guidare il comune non era un Principe, il sindaco eletto era certamente riconducibile all’influenza della loro famiglia.

    L’antagonismo con Mancini

    Un successo lunghissimo che si è basato certamente su un consenso autentico, ma non meno su un potere radicato e diffuso: sia il patriarca Francesco che il figlio Sandro, hanno avuto nel tempo ruoli importanti in vari governi nazionali. Il conflitto campanilistico tra il capoluogo e la città di Rende era costruito anche sull’antagonismo politico tra i Principe e Mancini e a quei tempi l’ipotesi di una città unica è presente ma sotto forma di fantasma, un’idea che non sta tra le cose davvero probabili, ma di cui si parla. Gradualmente quell’idea cominciò a circolare restando però ben circoscritta nell’ambito della teoria, anche se non mancarono gli esercizi di fantasia sul nome, come l’ipotesi di chiamarla Co.Re. Ogni tanto la si faceva uscire dal cassetto, sempre senza eccessiva convinzione, fino a quando non divenne tema politico sempre più attuale allorchè accadde quel che non sembrava possibile: Sandro Principe venne sconfitto da Marcello Manna alle elezioni amministrative del 2014.

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    Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    Un Comune sciolto per mafia

    Non era solo il declino di una lunghissima egemonia, che già aveva dato segni di cedimento, era l’inizio di una nuova era che si sarebbe conclusa con l’onta dello scioglimento del comune per infiltrazione mafiosa. Ma all’inizio della prima consiliatura di Manna questo evento non era ancora prevedibile e Rende si candidava sempre più fortemente come antagonista del capoluogo. I suoi quartieri non sono più dormitori, la città ha lentamente costruito la propria anima. Cresce il dibattito sulla collocazione del nuovo ospedale, che Manna vorrebbe accanto all’Unical, mentre Occhiuto sulle colline di Muoio Piccolo e con fiammate sempre più frequenti si apre il dibattito sulla città unica, dove Rende spinge per un ruolo di maggiore protagonismo rispetto a Cosenza che è azzoppata da un bilancio pieno zeppo di debiti.

    Titoli di coda

    Le disavventure giudiziarie del sindaco Manna sono solo una lunga agonia che porta Rende all’ignominiosa conclusione, che poteva essere risparmiata se chi guidava la città si fosse per tempo arreso all’inevitabile. Oggi l’idea della città unica ha un nuovo convitato al dibattito, ed è proprio l’inglorioso finale di una città che voleva essere moderna e che si è svegliata prigioniera a rimescolare le carte, spostando non solo nel tempo l’eventuale realizzazione del progetto, ma anche mutando equilibri di potere ed egemonie. È come se la carta lucida su cui Malara aveva disegnato l’idea di una città nuova che doveva essere Rende fosse stata strappata con violenza e di questo non c’è nessuno che possa riderne.

  • Rende è ko: ora rischia anche la grande Cosenza

    Rende è ko: ora rischia anche la grande Cosenza

    Rende è commissariata. Ed è il caso di dire, senza troppi “forse”: finalmente.
    E non perché si ritiene lo scioglimento per mafia una salvezza. Al contrario, la città del Campagnano subirà quel che di solito subiscono i Comuni in situazioni simili: la paralisi.
    Tuttavia, lo scioglimento ha un pregio politico non proprio trascurabile: cala il sipario su un’esperienza amministrativa finita almeno da un anno, travolta dai problemi giudiziari personali dell’ex sindaco Marcello Manna e dalle inchieste, antimafia e non.
    Le quali hanno colpito non solo i vertici politici, ma hanno danneggiato in profondità anche l’amministrazione.
    I problemi non finiscono qui: Rende non è una città piccola né secondaria. E il suo scioglimento rischia di avere conseguenze oltre i confini municipali.
    Ma andiamo con ordine.

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    La Prefettura di Cosenza (foto C. Giuliani) – I Calabresi

    Scioglimento di Rende: come vola la notizia

    Il tam tam è iniziato dopo le 22 del 27 giugno: prima sono volati gli screenshot del sito del Ministero dell’Interno (o della Presidenza del Consiglio), via What’s App o social. A bomba, è arrivato qualche articolo, arronzato alla meno peggio o preimpostato come i “coccodrilli” più classici: segno che varie redazioni attendevano lo scioglimento.
    In realtà, l’annuncio è stato meno spettacolare è più mesto: un comunicato del governo affogato tra varie note, dedicate agli argomenti più disparati, tra cui le nuove regole del Codice stradale, l’abolizione di normative ottocentesche e un altro commissariamento, stavolta a Castellamare di Stabia. Anche questo è un segno: fuori dalla Calabria, Rende è una cittadina che pesa solo i suoi 35mila abitanti. In Calabria, le cose vanno altrimenti: silenzi imbarazzati dai vertici regionali, dichiarazioni più o meno di circostanza. Più qualche posa giustizialista e l’annuncio, fatto da quel che resta dell’attuale ex amministrazione, di un ricorso al Tar.
    Fin qui siamo negli atti dovuti e nelle ipotesi. Torniamo al presente.

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    L’ex sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    Il collasso della città unica

    C’è poco da essere garantisti sullo scioglimento per mafia. Questa procedura segue criteri di pubblica sicurezza, anche sganciati dagli esiti dei procedimenti giudiziari.
    Un esempio lampante è il recente scioglimento per mafia di Amantea, operato in assenza di inchieste della magistratura. Rende, oggetto di inchieste tuttora in corso ma non concluse, non fa eccezione, anzi.
    Finora hanno fatto tutti più o meno a gara a ricordare quell’autentico mostro, a metà tra il vespaio e il labirinto, che è Reset, l’operazione della Dda da cui è partito tutto.
    E qualcun altro, anche correttamente, ha raccontato che questa non è la prima volta che Rende è finita nel mirino di una commissione d’accesso. Oltre dodici anni fa era toccato alla vecchia guardia riformista. Ma Rende aveva evitato il commissariamento e il vecchio nucleo dirigente, che pure aveva passato qualche guaio, è uscito finora intero dalle attenzioni della Dda.
    Con Manna le cose cambiano: la città è sotto torchio e rischia di travolgere il processo politico-amministrativo predisposto dalla Regione, da cui dovrebbe nascere la Grande Cosenza. Vediamo come.

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    L’aula bunker di Lamezia, dove si svolge Reset

    Ordinaria amministrazione

    Sappiamo alcune cose. Innanzitutto, i nomi dei commissari che gestiranno Rende per i prossimi diciotto mesi: il prefetto a riposo Santi Gioffrè, la viceprefetta di Cosenza Rosa Correale e Michele Albertini, dirigente di seconda fascia della prefettura di Brindisi.
    Questa terna avrà due compiti: certificare la presenza mafiosa nel Comune di Rende e quindi metterla in condizioni di non nuocere; gestire l’ordinaria amministrazione.
    E qui casca l’asino.
    Riavvolgiamo il nastro: il disegno di legge regionale da cui dovrebbe derivare la fusione di Cosenza, Rende e Castrolibero in un Comune unico, prevede due passaggi e un termine finale.
    I passaggi, ricordiamo, sono: referendum consultivo tra i residenti delle tre città e gestione guidata da un commissario che dovrebbe portare la nuova città alle sue prime elezioni.
    La deadline è prevista a febbraio 2025. In pratica alla scadenza più o meno secca dei diciotto mesi di commissariamento di Rende.
    Andiamo di nuovo con ordine. Per il referendum consultivo, che dovrebbe tenersi a breve, non ci sarebbero troppi problemi: il voto sarebbe legato all’area urbana e non ai singoli municipi. Quindi la terna di commissari rendesi dovrebbe preoccuparsi, al massimo, dei seggi e della loro sicurezza.
    Il problema è lo step successivo.

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    La sede del Comune di Rende

    Scioglimento di Rende: mostri in arrivo

    Si è già detto: nel secondo passaggio, un commissario dovrebbe guidare i sindaci di Cosenza, Rende e Castrolibero alle elezioni della nuova città, dopo aver fuso gli uffici dei tre Comuni ed elaborato le linee guida urbanistiche, finanziarie e politiche.
    Per Cosenza e Castrolibero non ci sarebbero problemi perché, si scusi il bisticcio, ci sono i sindaci. Recalcitranti ma ci sono.
    Per Rende c’è il problemone: i commissari antimafia potrebbero gestire l’autoscioglimento di un Comune in un ente più grande?
    Quasi di sicuro no. Anzi, in tutto questo c’è una cosa certa: lo scioglimento totale di un Comune non è un atto di ordinaria amministrazione. Altrettanto sicuri sarebbero i mostri giuridici che uscirebbero da questa situazione.
    Primo mostro: la coesistenza tra due commissari, quello della città unica e quello antimafia, che dovrebbe sciogliere del tutto un Comune “inquinato”.
    Secondo mostro: la fusione tra un Comune sciolto per mafia, ancora in predissesto, e uno in dissesto spinto.

    Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi
    Sandro Principe, ex sindaco di Rende e leader dell’opposizione (foto Alfonso Bombini)

    La tempesta perfetta

    Si può far finta di non capire i problemi che nasceranno dall’attuale situazione di Rende e, quindi, si può andare avanti verso la città unica. Lo hanno fatto, ad esempio, alcune associazioni nel corso di un dibattito all’Unical.
    Le opposizioni di Rende, nel frattempo, vanno alla carica e accusano Manna: lo scioglimento è colpa sua, recitano varie note stampa, perché non si è dimesso.
    Su tutto, resta un rebus difficile da interpretare: lo scioglimento toglie dall’imbarazzo il Pd, che pure aveva sostenuto l’ex sindaco e forse riporta numeri nell’area riformista, che ha finora fatto opposizione in Consiglio comunale e si prepara a opporsi, praticamente da sola, al progetto di città unica.
    Rende non è l’unica città importante di Cosenza ad aver subito il commissariamento per mafia: prima di lei è toccato (come già detto) ad Amantea. Ma anche a Cassano e, prima ancora a Corigliano Calabro.
    Ma nessuno di questi centri ha il peso economico e culturale della città del Campagnano. Soprattutto, nessuno ha il suo ruolo geografico di tassello importante per la città unica. Che ora traballa vistosamente.
    La tempesta è alle porte. E i primi lampi fanno capire che non sarà un acquazzone estivo: si annuncia perfetta.

  • Rende sciolta per mafia: tornerà la fiducia dopo l’arroganza?

    Rende sciolta per mafia: tornerà la fiducia dopo l’arroganza?

    Lo scioglimento del Consiglio comunale di Rende per mafia è una pagina nera per uno dei municipi più importanti della Calabria.
    Rende, infatti, è sede universitaria e ha una popolazione composita e aperta anche per l’afflusso e lo stabilirsi di tanti studenti e docenti. In più, vanta un reddito medio tra i migliori della regione. Viste le dimensioni e la centralità culturale, economica e politica della città, lo scioglimento turba tutta la provincia di Cosenza e la Calabria.

    Rende e mafia: un’inutile caccia al colpevole

    Facile persino indicare le responsabilità dirette e indirette di questa situazione amara.
    Ciò che però ha colpito negli anni, soprattutto nei mesi scorsi, è stata la completa mancanza del senso del limite e del ridicolo negli attori politici coinvolti in questa faccenda.
    Davvero nessuno può dirsi esente da uno spregio continuo del comune senso del pudore. Di quel senso comune rappresentato dall’opinione pubblica, già nel Settecento definita come “tribunale” dei potenti.

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    La sede del Comune di Rende

    Mafia a Rende: un potere spregiudicato

    A Rende il potere ha agito senza la minima considerazione della grammatica istituzionale e politica democratica. La quale prevede un confronto costante con la società civile, con le sue rimostranze, le sue titubanze, le sue critiche.
    Paradossale che si siano sottratti a questo confronto, in primo luogo, una giunta e un sindaco che hanno oltrepassato gli steccati ideologici in nome di un civismo trasversale che ha messo insieme Forza Italia, Partito Democratico e altre forze di tutto l’arco costituzionale.
    Per rimanere all’ultimo anno (e mentre le inchieste e i provvedimenti giudiziari si susseguivano) si sono alternati, in nome di un malinteso garantismo, ben quattro sindaci. Negli ultimi mesi, il sindaco, più volte oggetto di provvedimenti, si è persino riproposto alla guida dell’Anci Calabria, a cui inopinatamente era stato indicato quale elemento non divisivo.

    Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi
    Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    Niente remore: governiamo e basta

    Nelle ultime settimane si sono dimessi consiglieri di maggioranza e sono cambiati assessori per arrivare all’approvazione di Psc e Bilancio. Insomma, nessuna remora nell’azione di potere, anche di fronte a una società civile esterrefatta per le continue notizie di abusi e delusa per il livello dei servizi amministrativi peggiorato negli anni.
    Insomma, il potere ha mostrato quell’arroganza che Alberto Sordi ha reso nel personaggio del Marchese del Grillo.
    Lo stesso dicasi per le forze politiche maggiori. Forza Italia, il cui capogruppo in Provincia è elemento di punta dell’amministrazione rendese, pare essersi dissolta rispetto alle dinamiche locali.
    Non una manifestazione per la città. Non una dichiarazione del pur assai loquace presidente regionale Occhiuto. Guardare dall’altra parte è stato evidentemente il mantra suggerito da qualche rubicondo spin doctor.

    Mafia a Rende: anche il Pd ha le sue colpe

    Il Pd regionale non è riuscito a nominare un commissario di un circolo il cui segretario è stato prima incompatibile e poi è finito ai domiciliari. Anche da questa parte, piuttosto, silenzio.
    Anzi, il segretario provinciale e il suo factotum, responsabile degli enti locali, hanno sfondato qualche limite quando hanno deciso di incontrare le stesse aree politiche di cui i loro ispiratori sono stati i principali carnefici: hanno cucito la coalizione civica ora sciolta per mafia e l’hanno fatta votare e sostenuta sino all’ultimo.
    Del resto, lo stesso segretario provinciale, in quanto reggente del circolo, è atteso dagli iscritti da mesi per un confronto che sveli come e perché i due candidati alla segreteria locale, assessori della giunta appena sciolta, sono stati sui decisi sostenitori.

    Ricucire la fiducia

    Insomma, anche le forze politiche nazionali hanno pensato che governare Rende fosse tutto e qualsiasi tentativo di lettura della società rendese uno sforzo inutile, persino dannoso. Il governismo si rivela ancora una volta malattia mortale per la credibilità della Politica.
    Della triste vicenda rendese si parlerà a lungo e diciotto mesi di commissariamento non basteranno a ricucire la fiducia tra Politica e Società.
    Tuttavia è necessario provarci, senza nostalgie ma con una presenza costante nei quartieri della città. Soprattutto, con una capacità di studiare e proporre soluzioni ai diversi problemi dei cittadini e una accanita volontà di dispiegare orizzonti di sviluppo. Dopo le pagine buie, la storia continua e, con impegno, si possono ancora scrivere capitoli interi di buon governo.

    Antonio Tursi

  • Pnrr e Por: i quattrini ci sono, sbrighiamoci

    Pnrr e Por: i quattrini ci sono, sbrighiamoci

    Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), avviato dopo la pandemia, ha stimolato molte aspettative nel nostro Paese.
    Ad esso sono state legate in parte le prospettive di crescita economica, che dipendono anche dalla capacità di realizzare la transizione ecologica e quella digitale, le principali missioni del piano.
    Al Pnrr si è guardato, poi, come a uno strumento per ridurre le disuguaglianze territoriali che storicamente caratterizzano l’Italia. Le risorse, come si sa, sono ingenti. Ammontano a 191,5 miliardi (di cui, è bene ricordarlo, 122,6 sono prestiti), cui se ne aggiungono altri 30 del “fondo complementare”, per un totale di 222 miliardi da impiegare entro il 2026.

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    La storica sede di Bankitalia a Reggio Calabria

    I dubbi sul Pnrr

    Oggi, l’enfasi che ha accompagnato l’approvazione del Pnrr comincia a lasciare spazio ai dubbi. Sarà in grado l’Italia di spendere, nei tempi previsti e secondo gli obiettivi stabiliti, le risorse disponibili?
    I primi dati mostrano come questi dubbi non siano infondati. L’attuazione del piano procede a rilento: molti sono gli ostacoli normativi, burocratici, organizzativi da superare.
    Per quanto riguarda la Calabria, il rapporto annuale sull’economia regionale, redatto dalla Banca d’Italia, contiene utili dati sullo stato di avanzamento del Pnrr, ma anche dei programmi finanziati dai fondi europei.

    Il Pnrr in Calabria

    Secondo il rapporto, a maggio, risultavano assegnati ai soggetti pubblici calabresi (Regione, Comuni, altri enti e imprese nazionali partecipate dallo Stato come Anas e Ferrovie, Rfi) circa 5 miliardi di euro.
    In rapporto alla popolazione calabrese, si tratta di 2.265 euro per abitante (a fronte dei 1.911 euro della media nazionale). La quota principale dei fondi, il 31 per cento, è assegnata ai Comuni, mentre il 27 per cento a operatori nazionali (enti e società partecipate).
    Qual è lo stato di attuazione? Ad aprile di quest’anno (ultimo dato disponibile), i bandi di gara delle amministrazioni locali calabresi ammontavano a 764 milioni di euro, pari al 26 per cento degli importi che queste dovranno utilizzare.

    La cittadella regionale di Germaneto

    Pnrr e Calabria: ritardi nella media

    Nel quadro generale dei ritardi che caratterizzano l’attuazione del Pnrr, il dato dei Comuni calabresi, pur modesto, è sostanzialmente in linea con quello nazionale. Ciò significa che, come le altre amministrazioni locali italiane, anche quelle calabresi sono tenute ad accelerare le procedure indispensabili per attuare i progetti nei tempi previsti. Secondo le stime della Banca d’Italia, da qui al 2026, i comuni calabresi dovrebbero incrementare la capacità di spesa tra il 94 e il 125 per cento, pena il sottoutilizzo delle risorse.

    Allarme Por: diamoci una mossa

    Se per il Pnrr è necessaria un’accelerazione delle procedure, più critica risulta l’attuazione dei progetti finanziati con fondi europei. Ci riferiamo al Programma operativo regionale (Por) 2014-2020 gestito dalla Regione. Alla fine del 2022, risultava speso solo il 60 per cento dei 2,3 miliardi di euro messi a disposizione della Calabria; una percentuale inferiore a quella delle regioni italiane meno sviluppate (oltre alla Calabria, Campania, Puglia, Basilicata e Sicilia). In base alle normative europee, la spesa dovrà essere completata entro il 2023, per evitare il disimpegno automatico delle risorse non utilizzate. Pochi mesi, dunque, per recuperare ritardi accumulati negli anni.pnrr-calabria-ritardi-nella-media-pericolo-vero-sono-fondi-por

    I soldi? Ci sono: usiamoli

    Si consideri che, per il ciclo di programmazione 2021-27, la Calabria ha già ottenuto 3,2 miliardi di euro: un importo maggiore di quello del ciclo precedente che pure si fatica a utilizzare.
    A fronte dei problemi e delle strutturali carenze (anche infrastrutturali) che caratterizzano la regione, l’incapacità a utilizzare pienamente i fondi disponibili sarebbe difficile da comprendere. Si perderebbe non solo la possibilità di realizzare investimenti, si darebbero anche argomenti a quanti sostengono che, in Calabria, il problema non stia tanto nella disponibilità di risorse, quanto nella capacità di utilizzarle in maniera efficace per creare opportunità di sviluppo.

    Vittorio Daniele
    professore ordinario di Politica economica
    Università Magna Graecia

  • Gli orfani di Silvio in cerca di una nuova casa

    Gli orfani di Silvio in cerca di una nuova casa

    Gli orfani di Silvio in cerca di casa. Non cedete alla pena, gli orfani in questione non sono esattamente diseredati. Al contrario, detengono il potere di decidere dei destini della Calabria attraverso le proprie scelte amministrative. Parliamo di chi ha mostrato di saper costruire e controllare il consenso elettorale e che in passato – ma ancor di più recentemente – ha rappresentato la forza del partito di Berlusconi.

    Adesso però, dopo la morte del fondatore, Forza Italia è in disfacimento. I  players politici nostrani devono ricollocarsi e presto, perché è vero che i voti locali sono di loro proprietà, ma senza un riferimento nazionale che li inquadri nel contesto politico generale e successivamente europeo, non vanno da nessuna parte. Di qui l’urgenza, quando ancora il lavoro delle prefiche è in corso, di guardarsi attorno e negoziare passaggi che garantiscano posti di prima classe.

    Gli orfani di Silvio a Cosenza e provincia

    Nella provincia di Cosenza i giocatori ancora in lutto, ma già in posizione di partenza, sono Gianluca Gallo, potente e votatissimo assessore regionale, i fratelli Occhiuto e anche i Gentile. A rappresentare questi ultimi al momento c’è solo Katya, figlia di Pino, nell’assemblea regionale. Tra poco, però, la famiglia potrebbe ritrovare una proiezione nazionale grazie alla decisione della Giunta per le elezioni della Camera dei deputati di cambiare le regole a partita finita e validare tutte le schede dichiarate nulle. Ciò consentirebbe al figlio di Tonino, Andrea, di sedere in parlamento pur essendo stato bocciato dall’elettorato.

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    Silvio Berlusconi e Roberto Occhiuto in una foto di due anni fa

    «Troppo moderati per Fratelli d’Italia»

    Per tutti loro oggi è necessario trovarsi un altro vascello. E considerando la storia, la cultura di provenienza, la fluidità che sempre li ha caratterizzati, pare difficile che Gallo e gli Occhiuto si imbarchino con la Meloni. «Troppo moderati – spiega ridendo Water Nocito, docente di Diritto – per andare con Fratelli d’Italia, è più naturale che cerchino una sponda centrista, o meglio, terzopolista». Insomma una casa nuova che c’è solo sulla carta, ma che potrebbe prendere corpo grazie alla ben nota abilità manovriera di Renzi.

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    Matteo Renzi e Carlo Calenda

    «È inevitabile che Gallo e gli Occhiuto guardino verso Renzi. È lui, più che Calenda cui credo sia destinato il ruolo di follower, a saper dare le carte e giocare poi la delicata partita con la maggioranza di governo».
    Perché è chiaro che tutti i passaggi che si concretizzeranno, avverranno dopo aver valutato il “prezzo”: da una parte il valore di chi porta consistenti pacchetti di voti, dall’altra quello di chi accoglie fornendo identità nazionale ai singoli politici senza casa.

    Tutti insieme è difficile

    Per il docente Unical «nulla è ancora deciso, ma ogni cosa è già in movimento e il valore politico dei partecipanti giocherà un ruolo determinante. Per esempio, Roberto Occhiuto ha dimostrato che nella Regione nulla si muove senza il suo consenso. D’altra parte Gallo potrebbe aver potenziato la sua già solida base elettorale» e questo potrebbe metterli in competizione all’interno della nuova casa politica comune.
    Discorso forse differente per i Gentile. Anche a causa della potenziale competizione interna al nascente terzo polo in cui confluirebbero gli ex azzurri, potrebbero tentare di capitalizzare la loro posizione approdando verso Fratelli d’Italia.

    Gli orfani di Silvio nel resto della Calabria

    Tutto in alto mare invece negli altri territori. A Vibo i forzisti erano vicini alla Ronzulli e dunque occorrerà attendere la scelta della parlamentare europea, che comunque squagliandosi Forza Italia, negozierà anche lei qualche passaggio altrove.
    Nel catanzarese invece i forzisti sono messi maluccio a causa della perdita di molte figure di spicco e «la capacità attrattiva di Wanda Ferro giocherà un ruolo importante».

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    Mangialavori, Occhiuto e Ronzulli a Vibo nell’ultima campagna elettorale per le Regionali

    A Reggio invece lo sguardo è puntato verso Francesco Cannizzaro, dominus sullo Stretto nel partito che fu di Berlusconi. In caso le mura azzurre dovessero venire giù dopo la scomparsa del leader fondatore, è probabile che Cannizzaro non abbandoni la sua anima centrista, figlia di una sedimentata cultura di destra, ma saldamente democristiana, quindi dovrebbe restare immune da tentazioni meloniane e o di tipo leghista.
    Quanto a Crotone, dove le forze politiche hanno tutte lasciato perdite sul campo, l’uomo forte in grado di orientare le scelte resta Roberto Occhiuto.

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    Berlusconi e Cannizzaro

    Popolari e conservatori

    Il più prossimo banco di prova di questi nuovi nascenti equilibri, che dovrebbero trovare concretezza nel corso dell’imminente estate, saranno le elezioni europee del prossimo maggio. «In quella occasione Meloni cercherà di scomporre il quadro politico unificando Popolari e Conservatori. Se l’operazione le riuscisse, diventerebbe la protagonista della scena politica, avendo colto un traguardo che nemmeno la Merkel aveva toccato» spiega Nocito guardando oltre i confini di casa nostra.

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    Un primo piano di Giorgia Meloni

    Se invece questa strategia non dovesse riuscire e Fratelli d’Italia restasse con i Conservatori, il peso politico di un Terzo polo renziano, con dentro quanto resta di Forza Italia sarebbe maggiormente significativo.
    Insomma, per gli orfani di Silvio in questa danza che sta per cominciare, il rischio è di sbagliare passo e pagarla cara.

  • Il primo Silvio e la rivoluzione liberale

    Il primo Silvio e la rivoluzione liberale

    Silvio Berlusconi ha avuto un grande merito: ha offerto identità, spazio politico e rappresentanza ad una miscellanea di anime culturali da sempre presenti nel Paese.
    Liberisti e cattolici liberali, neo corporativisti, nazionalisti, europeisti, socialisti, atlantisti, riformisti: tutto, in una precisa fase storica, è entrato a far parte di Forza Italia.
    La narrazione, spesso disonesta, del berlusconismo ha finito per cancellare questa straordinaria intuizione di Silvio Berlusconi: sdoganare, come si diceva spesso, aree e bisogni precisi che in un grande Paese come il nostro risultavano schiacciati dal mainstream della sinistra e del sindacalismo manierista e militare della Triplice che tutto occupava e tutto gestiva.

    Berlusconi sdoganò politicamente anche gli ex missini come Gianfranco Fini

    Affascinati da quella Forza Italia

    Ecco perché un liberista come il sottoscritto, amante del libero mercato e della deregolamentazione, si lasciò affascinare, insieme a ad altri amici, dal progetto di Forza Italia. La rivoluzione liberale, la curva di Laffer, lo Stato che arretra, le privatizzazioni erano luoghi magici dell’immaginario dei liberisti di quegli anni.
    Silvio Berlusconi ha avuto il merito di creare un luogo politico dove declinare questa visione della società.
    Gli uomini della prima Forza Italia erano Pera, Martino, Baget Bozzo, Urbani: intellettuali di prestigio che fungevano da garanti del disegno politico e della grande intuizione di Silvio Berlusconi.

    Antonio Martino, ex ministro degli Esteri e della Difesa nei governi Berlusconi

    Il primo Berlusconi e poi?

    Occorre distinguere, con coraggio, il primo Berlusconi dal Berlusconismo degli anni successivi. Le idee, anche quelle grandi, camminano sulle spalle degli uomini. Se sbagli gli uomini e le donne a cui affidare il progetto, fatalmente, finisci per indebolirlo. Ed è esattamente ciò che è capitato, negli anni, al disegno di Berlusconi. Non passi dal 34% al 7% dei consensi elettorali per caso.
    Ma tutto ciò non deve cancellare il portato storico dell’intuizione di Silvio Berlusconi: se solo si fosse riusciti a mantenere la barra dritta quando la maggioranza berlusconiana sfiorava il 40% oggi, forse, parleremmo di un’Italia diversa con più attenzione al merito e all’equità fiscale.

    Cosa lascia all’Italia

    Questo nulla toglie alla stagione ideale del primo Berlusconi. Questo Paese deve a Silvio Berlusconi il merito storico di aver salvaguardato, tutelato e rappresentato un bisogno di modernità e di europeismo, di moderazione e di valori liberali, di mercato ma anche di attenzione al sociale.
    Il berlusconismo eticamente debole, immaginato dalla sinistra, è frutto di una deriva inarrestabile del sistema di potere e dei tanti cerchi magici che hanno accompagnato la stagione finale del leader.
    Ma questo Paese al di là delle tante contraddizioni deve dire grazie a Silvio Berlusconi.
    Senza di lui avremmo avuto meno alternanza democratica, meno innovazione istituzionale, meno mercato e soprattutto tanta retorica di sinistra.
    Berlusconi non era un santo. Nessuno di noi lo è.
    Grazie presidente.

  • Jole, Nobel e Gegè: il Cav di Calabria ingegnere all’Unical

    Jole, Nobel e Gegè: il Cav di Calabria ingegnere all’Unical

    Certamente non aveva letto Gramsci, figuriamoci, ma Silvio Berlusconi il messaggio del comunista sardo l’aveva intuito bene. Aveva capito che la conquista del potere per essere duratura ed efficace, deve essere preceduta dalla conquista dell’egemonia culturale. E quella battaglia il Cavaliere l’aveva vinta piano piano. Modificando la società italiana, forgiando letteralmente un Paese nuovo, costruito sul desiderio di un benessere privato. Una grande operazione di distrazione collettiva, di ottimismo infondato, che rifuggiva ogni forma di impegno.

    Una rivoluzione senza spargere sangue

    Le sue armate erano le sue televisioni, che entravano ogni giorno nelle case di tutti e atomizzavano la società, risultando mille volte più efficaci. Una rivoluzione senza sangue, fatta con le tette prominenti delle ballerine di Drive In, di programmi ridanciani, costruiti su battute facili e un po’ sguaiate, mille miglia lontane dall’eleganza vigilata dei programmi della vecchia Rai. Il potere politico è venuto dopo, quando fu necessario capitalizzare la mutazione antropologica imposta da anni di dominio televisivo. Ma anche il quel caso lo strumento televisivo, in vario modo determinò la nascita e il trionfo del berlusconismo. Come quando nel ’94 il Cavaliere asfaltò Achille Occhetto nel confronto televisivo.

    Pier Silvio Berlusconi e le ragazze di Drive In durante una puntata della trasmissione

    Berlusconi vs Occhetto: la modernità conquista la politica

    Ad arbitrare quella partita che divenne la Waterloo di Occhetto c’era un giovanissimo Mentana. Il leader della sinistra era vestito tristemente di marrone, come un qualunque funzionario di partito, pronto ad argomentare con ragionamenti lunghi e complessi. Ma dall’altra parte c’era un nuovo mostro, con il doppio petto blu di alta sartoria e la cravatta di Marinella che costavano quanto tutto il guardaroba del segretario post comunista.
    Non era solo una questione d’immagine, anche se questa svolse un ruolo fondamentale, ma pure di parole: lunghe e complicate quelle del leader della sinistra, brevi come slogan pubblicitari quelle di Berlusconi.
    E se hai plasmato la testa di milioni di persone avendoli trasformati da cittadini in massa e da elettori in pubblico, allora stravinci.
    Era la modernità che si impadroniva della politica.

    Berlusconi, Occhiuto e i Gentile: Forza Italia arriva in Calabria

    Ancora oggi quel confronto televisivo viene analizzato nelle aule dove si studia comunicazione di massa, esattamente come si rivede il confronto tra Nixon e Kennedy. Ma quel trionfo fu solo la battaglia finale. La guerra era cominciata prima, quando Berlusconi aveva piegato la grande struttura di Publitalia alle esigenze politiche, facendola diventare un partito. Ogni ufficio dell’agenzia di raccolta pubblicitaria divenne una sezione della nascente Forza Italia. E ogni figura di vertice di quella struttura si trasformò in coordinatore per investitura imperiale.

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    Pino e Tonino Gentile

    Fu così che in Calabria Giovambattista Caligiuri, Gegè per gli amici, uomo di punta di Publitalia, costruì dal nulla un partito la cui forza elettorale venne presa in prestito dai fratelli Gentile, allora potentissimi. Così potenti da scacciare un giovane ma già rampante Roberto Occhiuto, che pure tra gli Azzurri avrebbe voluto stare.
    L’ingresso dei Gentile non fu indolore. I militanti (che però non si chiamavano così) occuparono la sede di Corso Mazzini con i soffitti affrescati. Si opponevano all’ingresso dei potenti fratelli, che a loro sembravano il vecchio.
    La rivolta durò fino a quando da Berlusconi in persona giunse l’ordine di sgombrarli. Perché è vero che quelli erano i Club della libertà, ma i Gentile servivano per vincere.

    Berlusconi e la Calabria tra Regione e Parlamento

    E infatti anche in Calabria i berlusconiani stravinsero a lungo, governando la Regione, ma anche mandando in Parlamento parecchi calabresi. Per esempio Jole Santelli, che divenne pure sottosegretario in un paio di governi Berlusconi. Parecchio tempo dopo il centrodestra la candidò alla guida della Calabria proprio su decisione del Cavaliere. Berlusconi però ebbe a lamentarsi, con la consueta tendenza alla volgarità scambiata per simpatia, del fatto che lei «in 26 anni non gliela aveva mai data».

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    Il comizio di Berlusconi con la celebre battutaccia su Jole Santelli

    In Calabria Berlusconi venne pure a prendersi una laurea honoris causa, diventando ingegnere. Quel simbolico titolo accademico acquisito nel ’91, però, dovette sembrare troppo poco ai suoi adoratori calabresi. E infatti fu Tonino Gentile a proporne – senza percepire il rischio dell’esagerazione –  la candidatura al premio Nobel.
    Del resto la fedeltà può andare oltre ogni limite. E non furono pochi i calabresi eletti in Forza Italia che votarono nel 2011 assieme a mezzo Parlamento asserendo che davvero Berlusconi credeva che Ruby Rubacuori fosse la nipote di Mubarak.

    L’eredità di Berlusconi e il berlusconismo in Calabria

    Oggi, a dispetto della canzoncina cantata a squarciagola a margine dei comizi, Silvio non c’è più. Quel che Berlusconi lascia è un Paese mutato per sempre, deluso dalla impossibilità di inseguire un benessere ingannevole come una pubblicità, ma più povero moralmente e culturalmente.
    La sua eredità è una destra nazionale muscolare che si è nutrita di quel populismo di cui il Cavaliere era stato fautore, ma che lo aveva prontamente sepolto ancora da vivo.
    In Calabria Berlusconi ci lascia la politica delle promesse, degli annunci trionfanti, dei larghi sorrisi. Perché il berlusconismo sopravvive al suo creatore.

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    Silvio Berlusconi con Roberto Occhiuto