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  • Corrado Alvaro, dalla Russia con amore

    Corrado Alvaro, dalla Russia con amore

    «Guardo giù nella strada e mi ricordo di colpo l’impressione che ebbi all’arrivo, quando, passato l’arco di trionfo imperiale sulla piazza Sadowa, uguale a quelli che da Roma emigrarono nel nord, mi trovai tra la folla di Mosca».

    Scrittore fra i più significativi del Novecento e sceneggiatore e intellettuale di prim’ordine, è stato anche un apprezzatissimo giornalista e reporter di viaggio. Partito dall’entroterra della Calabria – era nato nel 1895 a San Luca, sperso cuore dell’Aspromonte –, Corrado Alvaro visitò il mondo spingendosi fino in Russia, alimentando, più che appagando, con l’errare la sua inestinguibile sete di conoscenza verso tutto quello che era incognito e straniero. Sete che aveva come origine l’inesauribile passione per la letteratura, su tutte quella francese – nel 1923 tradusse parti de La prigioniera, quinto volume della Recherche di Marcel Proust – e quella, appunto, russa.

    La Russia di Corrado Alvaro

    E per un uomo occidentale la Russia, oggi come ieri, è senz’altro il primo e più immediato approdo corrispondente a un mondo cosiddetto “altro”. La misteriosa Russia – o per meglio dire, la Repubblica socialista russa, principale repubblica dell’Unione Sovietica sorta nel 1922 sulle macerie dell’Impero russo a seguito dell’aspra guerra civile e del Terrore rosso – catturò la curiosità di Corrado Alvaro. Lo scrittore calabrese ebbe modo di visitarla fra la primavera e l’estate del 1934 come inviato speciale de La Stampa.
    Quell’eccezionale relazione di viaggio uscì a puntate sulle colonne del quotidiano torinese, che al tempo dirigeva Alfredo Signoretti. Mondadori, poi, nel 1935 la raccolse nel volume I maestri del diluvio. Viaggio nella Russia Sovietica, pubblicato poi anche col titolo, editorialmente più efficace, Viaggio in Russia.

    Per Corrado Alvaro l’attività giornalistica fece da preludio a quella letteraria. Già nel 1916 – durante la Grande Guerra e ancora prima di contrarre matrimonio con Laura Babini – il sanluchese cominciò a collaborare per alcune testate come Il Resto del Carlino, Il Corriere della Sera, Il Mondo, Il Becco giallo. Quei lavori anticiparono la pubblicazione, nel 1917, dei suoi primi versi, raccolti nel libricino Poesie grigioverdi, delle sue prime novelle, La siepe e l’orto, edite nel 1920, e soprattutto del suo primo romanzo, L’uomo nel labirinto, pubblicato nel 1926.

    Antifascismo e amicizie

    Furono anni decisivi per il Paese. Il 1922 coincise con l’avvento del Fascismo e l’inizio di un ventennio che segnò in maniera indelebile la storia italiana del Ventesimo secolo. Alvaro mantenne una certa distanza dal Partito nazionale fascista e fu fra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Ciononostante la sua attività culturale non fu ostacolata dal regime, come accadde invece a molti altri uomini di cultura dell’epoca.

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    Margherita Sarfatti, musa di Benito Mussolini

    Collaborò col Popolo di Roma, testata filofascista di cui, per un breve periodo nell’estate del ’43, appena conclusa la parabola antidemocratica dello Stivale, ricoprì anche il ruolo di direttore. Taluni spiegano la clemenza del regime verso l’intellettuale calabrese attraverso la grande amicizia con Margherita Sarfatti, giornalista, critica d’arte, confidente e musa ispiratrice di Benito Mussolini.
    Nel 1934, anno di altissimo consenso del popolo italiano verso il governo Mussolini – precedette le “imprese” fasciste in Abissinia che assai entusiasmarono le piazze del Belpaese –, Corrado Alvaro ottenne quindi l’incarico dalla Stampa di realizzare un reportage nella Russia di Stalin.

    Dopo la Rivoluzione del 1917

    Si trattava di visitare un pianeta per definizione inintelligibile, che ha da sempre effuso un miscuglio di seduzione e repulsione, dato vita a scenari distorti e sentimenti contrastanti nell’uomo occidentale, attratto da quel misterioso – perché distante e perciò oscuro e poco raccontato nella sua vera essenza – mondo al di là del trentesimo meridiano Est. Un sentimento che ha origini antiche e senza dubbio ingigantitosi con la Rivoluzione bolscevica del 1917, il crollo dell’Impero degli zar e l’istituzione dell’Unione Sovietica col suo modello economico e sociale che proponeva di “esportare” nel Vecchio Continente.

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    Lenin incita la folla russa: la Rivoluzione ha inizio

    La Russia, la terra del samovar, della balalaika e della banja, delle cupole a cipolla e delle foreste di larici e betulle, il Paese venato dai lunghissimi fiumi: la Lena, il Volga, l’Oka, il Don, l’Ob’, l’Amur, l’Enisej. Un universo in bilico tra Oriente e Occidente che nel Novecento, dopo la Rivoluzione, ha ammaliato ed entusiasmato sempre più cronisti e scrittori. Fra questi, anche Joseph Roth e Stefan Zweig, autori, fra il 1926 e il 1928, di relazioni di viaggio poi confluite in note opere letterarie.

    «Una grande scuola di addestramento»

    Corrado Alvaro intraprese il suo viaggio in Russia nella primavera del 1934, nel bel mezzo del secondo piano quinquennale. L’anno che si chiuse con l’assassinio di Sergej Kirov, alto dirigente del Partito e sodale di Stalin. L’evento scatenò la reazione violenta del Piccolo Padre, ossessionato da possibili tradimenti, anche e soprattutto orditi nella sua cerchia di fedelissimi,. Iniziò così la stagione di repressione e sangue passata alla storia col nome delle Grandi purghe.
    Dopo il diluvio della Rivoluzione d’ottobre – intenzionata, riprendendo una affermazione di Viktor Šklovskij, a rifare «l’uomo dalle budella» – e la nascita del nuovo Stato, gli anni Trenta in Unione Sovietica videro affievolirsi l’illusione del comunismo universale di matrice leniniana. Continuarono comunque a essere anni di enormi stravolgimenti. In quel decennio, segnato dal terrore delle epurazioni staliniane, nacquero nuove classi sociali, esplosero le migrazioni interne, si sfruttarono fino all’impoverimento le terre. L’URSS diventò, fra trionfi e fallimenti, il laboratorio di un nuovo modo di vivere.

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    Cittadini sovietici in un gulag durante le Grandi Purghe

    Nel Paese, sconfinato, multietnico e multilingue, si susseguirono i tentativi di instaurare una convivenza civile fra tutte le etnie che lo popolavano – erano 170 milioni gli abitanti nei Soviet a quel tempo –, comprensibilmente intontite da quella Rivoluzione che in una manciata d’anni aveva provocato un epocale cataclisma, cancellando tre secoli di zarismo autocratico. «Una grande scuola di addestramento alla vita civile e ai rapporti umani»: così fotografò Alvaro l’Unione nel ’34.
    Lo scrittore, sulla scorta di una grande cultura “russa” costruita e consolidata attraverso incessanti studi privati, negli articoli su La Stampa raccontò i mutamenti sociali del Paese, la realtà in parte nascosta della Russia sovietica.

    Corrado Alvaro e la propaganda in Russia

    Descrisse la nascita di una nuova borghesia, non si sa quanto diversa rispetto a quella antecedente, detestata, vituperata e annientata. Riferì della fame e delle carestie che, dopo l’holodomor ucraino del ’32-’33, ancora erano diffuse in numerose aree rurali della sterminata Unione. Ma, soprattutto, si soffermò sull’utilizzo subdolo della propaganda, così instradante della condotta del popolo russo. Memento che ne accompagnò l’intero itinerario fu infatti badare alla potenza degenerante della propaganda: «Tra i fenomeni che formano e limitano il suo carattere bisogna annoverare questo in primo piano”.

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    Il poeta Vladimir Majakovskij

    L’autore di Gente in Aspromonte scrisse pagine civili, dedicandosi all’ostracismo, alle vessazioni e alle espulsioni ordinate e indotte verso la categoria degli intellettuali. Quella generazione stava dissipando i suoi maggiori poeti: Esenin si era suicidato, o era stato suicidato, nel 1925; Majakovskij si era sparato nel 1930, Mandel’štam sarebbe morto in un gulag nel ’38 e Cvetaeva in esilio negli Urali nel ’41.

    Un tour sotto controllo 

    «A Mosca! A Mosca!», reclamavano le protagoniste delle Tre sorelle di Anton Čechov. E come ogni viaggio in Russia che si rispetti, oggi al pari di allora, quello di Corrado Alvaro non poté che principiare da lì. Da Mosca, la Terza Roma, divenuta capitale nel 1918, dopo il diluvio. Nella città de Il Maestro e Margherita, Alvaro fu colpito istantaneamente dal suo ritmo immutabile, dalla «uniformità della sua gente» che saettava attorno alle sacre mura rosse del Cremlino e lungo i viali attraversati dai tranvai e tappezzati da giganteschi cartelli propagandistici, satirici e anticlericali.

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    La vetrina di un negozio nella Mosca degli anni ’30

    Lo scrittore andò per parchi urbani, circhi, teatri di carattere didattico – un’istituzione in URSS: «Tutta la Russia è oggi una grande messinscena» –, accompagnato come ogni burgiuà, ogni borghese occidentale – una parola che in quella Russia emetteva il suono di un insulto –, da una guida. E anche qua le virgolette sarebbero doverose, ché è ben riduttivo definire guida una persona che vigila ogni tuo passo, che, con un «sistema di investigazione minuta e quotidiana», supervisiona e affianca l’intero soggiorno dello straniero senza mai proferire una parola più del necessario.

    Le “speciali guide turistiche sovietiche” trasmisero durante il viaggio in Russia la loro disciplina ad Alvaro. Lo catechizzarono, facendogli capire con gli sguardi e i silenzi che non facesse domande inappropriate, che non si incapricciasse se l’itinerario prestabilito subisse delle modifiche improvvise e immotivate. Un rigore che possiamo immaginare assai indigesto per il viaggiatore, senz’altro curioso di posare gli occhi anche su un minuscolo frammento in più di quell’inafferrabile Paese. Di quel «rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma», per dirla con una celebre espressione di Winston Churchill.

    Da Mosca a Stalingrado, da Pietroburgo a Baku

    Tuttavia, la percezione dell’atmosfera illiberale vigente non condizionò la straordinaria inchiesta in Russia di Corrado Alvaro. Anzi, all’uscita de I maestri del diluvio un giudizio d’aria bolscevica si espresse dicendo che lo scrittore si era lasciato andare a «un nebuloso sentimentalismo».
    Il lungo viaggio di scoperta vide товарищ Alvaro soggiornare e visitare molte grandi e piccole città oltre a Mosca. Dimorò a Bolscevo, villaggio dell’entroterra della capitale, esplorò la grigiastra Gor’kij – l’odierna metropoli di Nižnij Novgorod, ribattezzata in omaggio allo scrittore Maksim Gor’kij, apprezzato da Stalin –, poi Kazan, Rostov – la più mediterranea delle città sovietiche –, Saratov, Samara, Stalingrado – oggi Volgograd ma interessata da un processo, in stato avanzato, volto a ripristinare il precedente nome.

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    Il palazzo di Caterina a Tsarskoye Selo, subito fuori San Pietroburgo

    Lo scrittore e intellettuale fece visita agli sfavillanti palazzi di Caterina e Alessandro a Carskoe Selo, poco fuori Pietroburgo – realizzati rispettivamente dagli architetti di origini italiane Francesco Bartolomeo Rastrelli e Giacomo Quarenghi –, luoghi che hanno segnato la storia del Novecento. Proprio da qua partì verso l’esilio degli Urali e la barbara esecuzione di Ekaterinburg del 17 luglio 1918 l’ultimo zar Nikolaj Romanov con la famiglia.
    «Sono belle le sere sul Volga. Dalle rive scendono gli armenti di pecore ad abbeverarsi alla corrente, bianche e luminose, e schiariscono dei loro riflessi l’acqua già violacea».
    Il sanluchese viaggiò per incalcolabili ore in treno e a bordo di vapori e battelli, lungo i tanti e multiformi scali della Madre Volga. Si spinse fino al Caucaso, a Baku – capitale dell’Azerbaigian dopo la dissoluzione dell’URSS –, la città del petrolio, «ossessione del mondo moderno» senza il quale “non è più possibile ormai né pace né guerra, né morte né vita», pensiero unico nelle piazze della città «del fuoco eterno».

    Corrado Alvaro e il desiderio di perdersi in Russia

    Lo scrittore coprì le enormi distanze sovietiche in uno stato di dormiveglia, trasognato, avvinto da un inedito stato d’animo russificante, quasi dimentico di sé e dell’immensità intorno, di una terra «troppo sperduta per essere umana».
    Il viaggio in Russia sortì un curioso effetto in Corrado Alvaro. In più di una circostanza, il calabrese si lasciò solleticare anche da inquiete fantasticherie e desideri d’oblio: «Penso di scendere dal treno, di perdermi in questo spazio che è tutta una strada, trovarmi in qualche luogo a lavorare la terra, nascosto agli occhi di tutti, fra gente remota, e di me non si saprebbe più nulla, via tutto quello che ero ieri, via il passato, via l’avvenire. Cancellarsi e perdersi in un’altra dimensione del mondo. Questo pensiero mi balena più volte durante il viaggio».

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    Un cavallo pascola nella sconfinata steppa russa

    I bisogni e le speranze del popolo

    Il lento e diversificato viaggio gli fu propizio pure per lasciarsi andare a descrizioni di paesaggi, di cieli, di atmosfere, ora europee, ora asiatiche. I lunghissimi prospekt delle città, contornati da grigi palazzoni identici fra loro e inframezzati dalle rovine delle case vecchie, i paesaggi remoti delle steppe e cinti dagli impenetrabili monti, le aree arse e scabre che gli ricordarono i villaggi d’Oriente o un paesello appena sconquassato da un terremoto.

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    Donne al lavoro in un gulag sulle isole Soloveckie

    Nei mesi in Russia, Corrado Alvaro visitò campi collettivi, fabbriche di trattrici, università e accademie, redazioni dei giornali delle fabbriche. Incontrò ufficiali dell’esercito, operai, “kulaki, i braccianti trasformati, dalla sera alla mattina, in operai per rispondere alle esigenze produttive del nuovo Stato – i pochi ancora non risucchiati nell’articolato sistema penale dei gulag che, dalle terribili isole Soloveckie ai campi lungo il fiume siberiano Kolyma, non risparmiava nessun presunto nemico del popolo. Nel solo biennio ’34-’35, secondo i documenti dell’NKVD, il commissariato del popolo per proteggere la sicurezza dell’Unione, il numero dei prigionieri nei vari campi sfiorava il milione di unità.
    E, ancora, vide pastori, artisti, ingegneri, cittadini di estrazione e cultura varia, tutti uniti dal comune sentimento, assai lungi dal lenirsi dopo lunghissimi secoli di fame e subalternità, di aperta ostilità verso la vecchia civiltà borghese. Ma tanto accecati da non vedere il mostro che gli si aggirava dentro casa.

    Memorie da un mondo in costruzione

    Corrado Alvaro parlò ma soprattutto osservò, ché «la vita quotidiana è scritta in viso a quelli che passano». Ascoltò i loro discorsi, le loro esigenze, le loro speranze. Tutto ciò senza cedere al giudizio, ma col solo intento di raccogliere «il maggior numero di memorie» e di incastrarle come tesserine di un puzzle di migliaia di pezzi al fine di consegnare una testimonianza oggettiva della Russia sovietica.
    Eppure, lo abbiamo intuito, di influenze esterne ne avvertì. Lo scrittore ravvisò tutta la precarietà di quel mondo in costruzione, ma pure una forma di pericolo imminente, indefinito ma constante, così vivo sui volti dei russi – già marchiati dal «segno degli anni tempestosi» della Rivoluzione –, così percepibile nell’aria che riportò alla mente del fine intellettuale le letture circa i moti italiani del 1848.

    Corrado Alvaro: La Russia? Atmosfera d’emicrania

    «Guardo dal finestrino le vecchie case di legno della campagna d’un tempo come resti di una vita antica. I boschi di abeti seguitano all’infinito orlando l’orizzonte pallido della lunga sera».
    Attraverso la visita ai vecchi villaggi punteggiati di isbe, alle nuove città senza acquedotti e fognature, ai kolchoz, i campi collettivi, e ai sovchoz, i poderi gestiti dallo Stato, nel suo prezioso resoconto di viaggio lo speciale burgiuà descrisse la vita socialista collettivizzata, il fermento culturale, le folle in piazza, nei teatri, nelle biblioteche, nei circoli culturali; una società viva, in movimento, in cui ogni angolo era buono per un comizio. Lo scrittore non poté non notare i discorsi e le urla, i congressi estenuanti e le disquisizioni interminabili – «un’atmosfera d’emicrania» – che si tenevano dappertutto: nelle piazze, nei salottini, nelle fabbriche.

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    Un congresso del PCUS, il Partito comunista dell’Unione Sovietica

    Attraverso le colonne della Stampa e poi le pagine del suo libro, Alvaro diede il polso di un Paese, la Russia, pieno di contrasti. Di una civiltà traboccante contraddizioni, in attesa di formare una propria identità, una terra d’illusioni e miraggi in cui era facile confondere realtà e finzione. Analizzò i diritti dei lavoratori e delle donne, rifletté sui problemi materiali dell’URSS, pesandoli di minore gravità rispetto a quelli morali e umani che già allora angustiavano l’Occidente. Rimase stupito e scosso dalla scarsissima reperibilità e dei prezzi esorbitanti dei generi di prima necessità – pane, burro, uova, farina, frutti di bosco –, e dell’arretratezza per quel che concerneva lo sviluppo delle infrastrutture.

    L’odio verso gli occidentali

    «I russi, dalla crudezza della loro vita, si raffigurano terribilissime le nostre condizioni; noi di lontano li stimiamo più progrediti; essi noi ingiusti e crudelissimi; ognuno secondo il carattere della sua civiltà».
    Da un lato la società russa concedeva ai turisti privilegi inimmaginabili per il popolo (a fini propagandistici, ovviamente, e frutto spontaneo ma avvelenato di una “stima diffidente” verso gli occidentali). Dall’altro denunciava «le condizioni del proletariato occidentale oppresso dai capitalisti», ché, scrisse Alvaro, «se con l’odio si fa poco nella vita, nell’arte è un buon concime come ogni sentimento forte».

    In vero, screditando il modello occidentale fascista – per i russi, dal lago dei Ciudi, al confine con l’Estonia, e fino alle sponde atlantiche di Lisbona, erano e sono tutti occidentali fascisti –, la monotematica comunicazione di regime della Terra dei Soviet provava a nascondere sotto il tappeto gli enormi problemi locali, esaltando le gesta di un Paese che non c’era, reclamizzando i cambiamenti di un Paese che nelle sue periferie – il Paese vero – non era cambiato per niente rispetto ai decenni precedenti.

    Dal sogno di Lenin all’incubo di Stalin

    Girovagando per l’Unione, Corrado Alvaro tentò inoltre l’impresa di indagare lo spirito dei russi, il loro inscalfibile patriottismo intriso di fatalismo. Ne cercò la fonte scavando, sempre più disilluso, i temi delle emigrazioni interne dagli angoli ultraremoti del Paese, dalla sconfinata steppa ai grandi centri, e del sistema giudiziario sovietico, nazionale e locale.
    Si imbatté nel distacco e totale disinteresse dei russi verso il denaro e il domani – tematiche così calde invece per l’uomo occidentale. Nelle pagine di di Alvaro si parla dell’industrializzazione forzata, dei salari da fame – “addolciti” con le tessere per il pane –, del potere d’acquisto pari a zero, dell’abitudine alle ore straordinarie di lavoro gratuite cui ogni buon Homo sovieticus era chiamato a beneficio della collettività.

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    Lenin e Stalin

    Denunciò a riguardo l’intenzione del governo di creare un novyj sovetskij čelovek, un uomo nuovo sovietico senza interessi privati, «spoglio d’ogni influenza di vita occidentale», sacrificato al fine ultimo del benessere collettivo che sarebbe un giorno giunto. «Se i russi hanno voluto abolire ogni segno della vita privata, vi sono riusciti pienamente».
    «L’arcangelo che liberi l’uomo dal lavoro duro non è venuto e non verrà mai, e le rivoluzioni che promettono il paradiso sono inebrianti per pochi giorni, il tempo in cui l’umanità si prende un’amara vacanza, prima di tornare alle sue leggi».
    Lo scrittore calabrese comprese che il sogno di Lenin di realizzare un comunismo globale era pressoché fallito, che «l’esperimento bolscevico», in mano a Stalin, si era oramai irrimediabilmente deformato. In una frase, riportò con largo anticipo tutti gli squarci di un disegno che sarebbe ufficialmente venuto meno svariati decenni più tardi.

    Russi e calabresi

    Quello di Corrado Alvaro per la Russia non va letto come un fatto così fuori dall’ordinario, bensì una passione che non poteva non accendersi, come ravvisa Francesca Tuscano nel saggio Alvaro tra la Calabria e la Russia. Tradizione e traduzione contenuto in Corrado Alvaro e la letteratura tra le due guerre.
    La cultura arcaica, etica e gerarchica – sotto certi aspetti e in taluni casi anche di stampo matriarcale – dell’Aspromonte di Alvaro, di fatti, era più vicina di quanto non si potesse immaginare a quella ortodossa russa.
    Aspromontani e russi uniti da una comune vita rurale, tradizionale fino all’immobilismo, dalla fierezza con cui affrontavano le difficoltà. Popoli abituati a soffrire, legati dalla visione fatalistica dell’esistenza, dalla capacità a resistere a tutto, alle invasioni, alla povertà, financo dalla loro inclinazione a inserire nei loro racconti particolari sempre un po’ cruenti, dal mescolare assieme vita e morte.

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    Contadini russi all’epoca del viaggio dello scrittore calabrese

    E poi la tradizione migratoria, «l’eterno nomadismo» dei sovietici e la “vocazione” all’emigrazione dei calabresi, popoli amabili e pittoreschi, ospitali e diffidenti, fedeli alla propria civiltà, entrambi.
    Due popoli e due culture così geograficamente lontane ma affini, per ingenuità e quella felicità primigenia che resisterebbe anche agli orrori più belluini, quelli che annienterebbero altri popoli.
    «Nei suoi viaggi Alvaro riuscì sempre a trovare ogni più piccolo segno di umanità in tutte le situazioni, a tutte le condizioni, per quell’amore verso l’uomo e la realtà che possiede chi sa di avere dentro di sé i segni di una civiltà alla quale sa di appartenere. E con civiltà si intende quella antropologica e sociale delle proprie origini».

    Contro i totalitarismi

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    Una vecchia edizione de “L’uomo è forte” di Corrado Alvaro

    Lo scrittore di San Luca non smise di interessarsi alle vicende russe e il mondo sovietico continuò a pulsare dentro il suo petto. Curò, assieme a Raissa Naldi, l’antologia Poeti russi del secolo XX. Tradusse racconti di Fëdor Dostoevskij e Lev Tolstoj. Tessé una collaborazione con Tat’jana, seconda dei tredici figli del grande scrittore di Guerra e pace, e di Sof’ja Tolstaja. Ridusse per il teatro I fratelli Karamazov. Nel 1937 iniziò una collaborazione con Omnibus di Leo Longanesi, incentrata sempre sul globo sovietico. E nell’anno seguente diede alle stampe uno dei suoi romanzi più conosciuti, strettamente legato al viaggio in URSS e ideale conclusione delle pagine russe del ’34: L’uomo è forte.

    Esplicita critica verso il totalitarismo dei regimi – in primis quello, toccato con mano, della Russia di Stalin – e in generale scritto di denuncia «delle condizioni dell’uomo sotto ogni oppressione», L’uomo è forte fu vietato in Germania, mentre in Italia, seppur visto con sospetto, venne diffuso ricevendo addirittura nel 1940 il Premio dell’Accademia d’Italia.

    Corrado Alvaro, la Russia e lo Strega

    L’esperienza in Unione Sovietica ritornò anche nel 1950 nel memoir Quasi una vita, vincitore l’anno successivo del Premio Strega. Alvaro, tutt’oggi unico calabrese ad avere ottenuto il più ambito premio letterario italiano, superò nella finale, cristallizzata come quella della “grande cinquina”, fuoriclasse della scrittura come Carlo Levi, Alberto Moravia, Mario Soldati e Domenico Rea.

    Documento illuminato e di grande valore storico sulla società russa alle porte della Seconda guerra mondiale – o Grande guerra patriottica come viene chiamato, da loro che ne sono usciti vincitori, il conflitto dai russi –, il reportage seguì quelli realizzati negli anni Venti in Francia (Lettere parigine) e nel 1931 in Turchia (Viaggio in Turchia) e confermò la statura di scrittore e intellettuale universale di Corrado Alvaro, reporter cosmopolita, viaggiatore umanista, acuto intuitore delle trasformazioni della società e attento esploratore sempre nel rispetto di realtà antropologiche e culturali trasversali e “altre”; uno scrittore non dimentico delle sue radici e al contempo orientato sempre più in là, alla ricerca di interrogativi e risposte validi a ogni latitudine, per ogni civiltà.

     

  • La Calabria brucia ancora, cronaca (social) di un disastro annunciato

    La Calabria brucia ancora, cronaca (social) di un disastro annunciato

    Alle sei di questa mattina Reggio Calabria era avvolta dal fumo e dall’odore acre degli incendi ancora in corso che hanno divorato l’hinterland cittadino. Nonostante un morto, intere aree distrutte, la costa Viola sfregiata, l’emergenza è ancora in corso. Da tutto il giorno, e ancora mentre scrivo, l’eco dell’elisoccorso e dei canadair che volano senza sosta rimbomba in tutta la città. L’aria è irrespirabile, come lo era ieri e come lo è stata stanotte.

    Se non fosse chiara la dimensione del disastro che sta colpendo la Calabria e la Sicilia, è sufficiente andare a dare uno sguardo alle mappe del fuoco in tempo reale sul sito della Nasa. Non esistono ammende, riparazioni, mea culpa. Colpire un territorio con questi atti che devono essere inquadrati come vere e proprie condotte terroristiche significa causare danni irreparabili e permanenti che causeranno effetti per gli anni a venire. Non solo in termini di salvaguardia di flora e fauna (e basterebbe quello), ma di costi sociali che si riverberano in tutti gli ambiti.

    L’eterna litania sugli incendi in Calabria

    Adesso ricominceremo con le solite litanie circa le cause di questa ecatombe. In un indistinto e maleodorante vociare da bar, la sequela sarebbe più o meno questa, con alla base sempre il vile danaro: accesso ai fondi europei per la riforestazione, compensi per le missioni in emergenza delle flotte aeree dedicate, rigenerazione dei pascoli, lavoro dei forestali (la proposta di privatizzazione di Calabria Verde cade proprio a fagiuolo), riaccatastamento delle aree agricole e/o boschive in terreni edificabili (ipotesi lunare per la legislazione che tutela le aree ambientali), piromania, roghi colposi nati da errore umano e tramutatisi in disastro ambientale, criminalità organizzata e perfino micragnose ripicche tra vicini di casa per ragioni di varia natura tra cui il deprezzamento dei terreni coinvolti per una più conveniente compravendita.

    Un canadair in azione durante gli incendi dell’estate 2021 in Calabria

    Forse ognuno di questi punti contiene un pezzetto di verità. Ma la verità in questo caso serve a poco. Le indagini per il disastro del fuoco dell’estate 2021 in Aspromonte si sono chiuse con un nulla di fatto. Nessun colpevole, ma un rimpallo di eventuali responsabilità la cui scia arriva al fuoco di oggi, giorno in cui piangiamo un morto, diverse abitazioni minacciate, interi poderi divorati dalle fiamme, boschi ridotti in cenere, linee ferroviarie e arterie stradali interrotte.

    Gestire (male) l’emergenza, nulla più

    Ma il senso vero, la desertificazione delle aree interne, dei costoni di montagna, lasciati alla rovina dell’abbandono, battuti e vissuti più da nessuno, senza coltivazioni, senza uomini che le preservano, non si azzarda a tirarlo fuori nessuno. Parliamo del massimo comune denominatore che rende queste catastrofi sempre più drammatiche.
    Non c’è nessuno che abbia interesse a preservarle e tutelarle se non come cocci di una bomboniera che è comunque andata in frantumi. Territori senza uomini e vallate deserte continueranno a subire questa sorte perché nessuno ha la lungimiranza di programmare strategie adeguate e di lungo termine. Non ci sono droni che tengano. Ci si limita a cercare di gestire – male – l’emergenza. Fin quando non ci sarà più nulla da gestire.

    https://www.facebook.com/rbocchiuto/videos/266892979396507

    Nel frattempo in queste ore non ho sentito un politico, che sia uno, spendere una parola, manifestare solidarietà, o annunciare provvedimenti concreti. In compenso abbiamo tutti visto i video social del presidente Occhiuto alle prese con i droni davanti a una stazione di monitoraggio video. Ma si sa che oggi vale in comunicazione quella strana legge per cui un esempio, che è poi il pallido simulacro di una realtà falsa e distorta, diventa per antonomasia la scopa politica paradigmatica con cui mettere il resto della polvere sotto un tappeto di vuota sostanza. Il medium è andato ben oltre il messaggio.

    Terrorismo e social network

    Vorremmo invece vedere pienamente applicato l’articolo 423 bis del codice penale, inasprito con il DL 120/2021, che punisce gli atti incendiari boschivi con al reclusione da 5 a 10 anni. Vorremmo la certezza della pena, vorremmo indagini approfondite capaci di individuare e punire aspramente chi colpisce il nostro futuro. E non basta: vorremmo che, per la rincorsa che hanno preso gli stravolgimenti climatici che continuano ad essere negati da personaggi come il ministro Salvini (basta scorrere i suoi ultimi post social), simili atti fossero equiparati ad atti terroristici.
    Vorremo questo e tanto altro. Vorremo, ma ci limitiamo a postare.

  • Silvestra Sesini, dagli orrori nazisti all’amore per Siderno

    Silvestra Sesini, dagli orrori nazisti all’amore per Siderno

    Cum panis… condividere lo stesso pane: il titolo calzante per lo scritto di Antonella Iaschi e per la serata dedicata a Siderno alla memoria di una donna. Si chiamava Silvestra Tea Sesini e ha vissuto più vite, ma con una costante: la condivisione col prossimo delle sofferenze, delle lotte, delle vittorie e delle sconfitte. Da antifascista, da partigiana, da attivista nella politica e nel sociale dopo la débacle del regime. Fino agli ultimi anni passati, lei nata a Biella come Silvia Francesca Luigia Tea, a Siderno.

    L’incontro è stato voluto dalla sezione ANPI insieme alla Federazione Italiana Teatro Amatori e all’associazione Il Gabbiano, col patrocinio del Comune di Siderno rappresentato dall’assessora Francesca Lopresti. Dopo l’introduzione di Federica Roccisano, la scena l’ha dominata in modo sublime l’attrice Daniela Bertini, con la regia di Daniele Matronda. Grande merito va attribuito ad Antonella Iaschi, poetessa e scrittrice che, come Silvestra Sesini, ha scelto di lasciare il Nord Italia per venire a vivere a Roccella Jonica.

    Il marito, l’amica e i nazisti

    Il suo testo – liberamente tratto da scritti della stessa protagonista, di Rosalba Topini e di Domenico Romeo – si apre con lo sguardo di Silvestra che scruta il mare. Pensa al marito Ugo Sesini, ebreo antifascista che finì i suoi giorni nel 1944 a Gusen, dopo l’internamento a Mauthausen.
    «Padre del mio unico figlio, compagno di vent’anni della mia vita», così lo ricorda Silvestra nella versione di Antonella Iaschi. «Sapessi, Ugo, quanto è stato difficile, continua, (…) rapportarmi con un figlio orfano senza fargli mancare il padre, senza fargli sentire la mia solitudine».

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    L’ingresso del campo di Mauthausen

    Poi la mente di Silvestra si volge all’amica Anna Maria Enriques, chiamandola con il cognome paterno negatole dalle leggi razziali. «Compagna di studi, di stanza, di ideali, di conquiste, di paure e di dolori, donna e partigiana disarmata, lottatrice coraggiosa che nemmeno le più atroci torture naziste hanno piegato».
    Antonella Iaschi rende bene lo struggimento della partigiana Silvestra Sesini che scrive «sulla battigia due date: i giorni in cui vi ho perso per sempre fisicamente, ammazzati come bestie dai nazisti, ma un’onda più saggia le ha cancellate (…) quelle date non sono nulla nel calendario delle nostre vite. Il ricordo delle ore trascorse insieme è il campo che ho a disposizione per coltivare frutti buoni. Per la cancrena nazista ho perso il vostro corpo, i vostri sguardi, i vostri abbracci, la vostra voce, ma non la forza di portare avanti i NOSTRI valori».

    Condividere lo stesso pane

    Silvestra – Antonella è tormentata. Non è sicura che quello successivo alla Liberazione sia stato e sia un tempo di pace effettiva, o solo un’apparenza. «(…) in realtà quella Pace non è mai nata se ancora esistono la fame e gli stenti, l’ignoranza e la sottomissione alla violenza sia nelle case che nelle strade. Se ancora nel mondo esistono decine e decine di guerre altre. In realtà quella libertà è un’apparenza e lo sarà fino a quando un solo bambino, un solo essere umano dovrà patire sopraffazioni e stenti».

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    Silvestra Tea Sesini

    Solo la morte riesce a separare le due amiche. Silvestra Sesini, grazie a «un provvidenziale trasferimento all’infermeria di Regina Coeli» prima della fucilazione, si salva. «La tua sorte, invece, ha calato la sua falce arrugginita sui tuoi 37 anni (…). (Le SS) ti hanno ammazzata con la pistola insieme ad altri partigiani. Tu che avevi scelto l’Amore e la Resistenza disarmata».
    Per sopravvivere al dolore immenso della morte di due persone così care e vicine, Silvestra sceglie l’unica strada che sente sua fino in fondo, di fare ciò che può rinvigorirla e in parte consolarla: «Ogni giorno della mia vita è e sarà impegno, devoto agli ideali e disobbediente all’indifferenza. Come eravamo noi. Cum panis. Condividere lo stesso pane».

    Silvestra Sesini e Siderno

    Ed ecco, infine, l’approdo di Silvestra Sesini a Siderno, nel 1958. Nelle parole che Antonella Iaschi attribuisce a Silvestra, tutto l’amore per questa terra. E certo non è un caso che, ispirandosi a Silvestra, a scriverle sia una donna che ha sperimentato la stessa emigrazione “al contrario”.

    «A inizio estate qui al Sud l’erba è già imbiondita ma ancora non è bruciata dal sole, i fichi d’India sono puntellati di fiori gialli, i gelsomini sbocciano per le mani veloci delle raccoglitrici mentre decine e decine di fiori spontanei crescono indisturbati. Se questa terra non fosse dimenticata dallo Stato, maltrattata da persone senza scrupoli, e tenuta nell’ignoranza da un sistema scolastico non sufficiente, le sue bellezze la farebbero diventare uno scrigno d’oro. Come d’altronde era un tempo.

    Qui il destino mi ha concesso di nuovo l’emozione grande di incontrare chi non avendo nulla, nemmeno i diritti primari, ti apre il cuore e si affida, senza sapere che sei tu ad affidarti a lui. La gente che si ferma a parlare con me per le strade, in piazza, al mercato, che mi racconta i propri problemi mi ha fatto diventare semplicemente e unicamente Silvestra, una di loro. (…) Questi cieli infinitamente blu, questo mare che sa essere piombo, smeraldo, ametista e turchese, questo arenile dove ogni orma mi dice “sei viva, vai avanti,” mi hanno regalato la consapevolezza di quello che ancora vorrei. È stato talmente facile innamorarmene e decidere di restare».

    Il testamento di Silvestra Sesini

    Ormai anziana, Silvestra Sesini esprime la sua volontà ultima, dando l’ennesima prova di come il nostro andrebbe conservato come mare di vita – non di morte come accade troppo spesso – per come riesce a penetrare nell’anima delle persone che gli si avvicinano: «Voglio che la mia tomba sia rivolta verso il mare. Sì, questo è il mio testamento. Affido ai Sidernesi il mio desiderio di guardare ancora una volta, anzi per sempre, il mare».

  • Nicola Serra, un big socialista per tre generazioni

    Nicola Serra, un big socialista per tre generazioni

    La dedica di una strada importante nel centro di Cosenza, il titolo altisonante (e un po’ vintage) di antifascista, ma soprattutto il ruolo di sottosegretario alla Marina nel governo Facta del 1922, pochissimo prima dell’inizio del Ventennio. Non male per un socialista come Nicola Serra, partito come politico “contro”, anche con una certa determinazione.
    Ma il “contro”, nel suo caso, vale fino a un certo punto: Serra è uno di quei notabili che, prima o poi, emergono. Il che non si può dire di altri omonimi del Nostro, notabili o non.
    Ad esempio, non si può dire per Antonio Serra, studioso cosentino d’età barocca e padre dell’economia moderna, che muore in carcere, a dispetto di meriti non proprio leggeri. Né di un altro Nicola Serra, un giovane partigiano ligure morto di stenti a Mauthausen nel 1944.
    Ma torniamo al Serra sottosegretario e, soprattutto, alla sua Cosenza.

    Nicola Serra: un notabile tra due secoli

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    Nicola Serra

    Nicola Serra è un esponente tipico dell’alta borghesia postunitaria. Nasce a Cosenza il 24 maggio 1867, quindi a distanza di sicurezza dal Risorgimento e dalla sua forte carica retorica.
    Questo aspetto anagrafico non è proprio secondario: consente a lui e ai suoi coetanei una visione critica della vecchia guardia.
    Serra, figlio di Gaetano e di Vincenza Carbone, proviene da una famiglia benestante. E segue il percorso di vita tipico della classe sociale di appartenenza (o, se si preferisce, dei figli di papà): frequenta il Liceo Telesio, dove ha per compagni di classe Luigi Fera e Pasquale Rossi. Una volta conseguita la maturità, prende la laurea in Giurisprudenza a Napoli: l’ideale biglietto da visita per il notabilato cittadino.
    Infatti, prima ancora che in politica, si fa notare soprattutto nel foro, di cui diventa subito un big.

    La passione socialista

    Un altro segno di appartenenza al notabilato cosentino è l’orientamento politico, quasi sempre rigorosamente a sinistra.
    E Nicola Serra non se ne priva: infatti è un socialista convinto. A fine 1892 fonda, assieme a Pasquale Rossi il primo circolo socialista di Cosenza. E scalda i motori in vista del primo appuntamento politico importante: le Amministrative cittadine del 1893.
    Proprio per preparare il terreno, Serra, dà vita – assieme a Rossi, a Luigi Caputo e a Domenico Le Pera – a Il Domani, un settimanale di cultura e propaganda socialista.
    Ma né il circolo né il giornale riescono a darsi una linea precisa ed entrambi durano poco. Va meglio alle elezioni, dove l’avvocato prende 423 voti e risulta il quarto degli eletti: non male in una città che ha poco più di 15mila abitanti e vota poco meno della metà dei maschi maggiorenni. Il successo elettorale galvanizza i socialisti, che ricostituiscono il circolo e provano a fare un altro giornale, senza riuscirci.
    Ma non per colpa loro: i socialisti cosentini sono un gruppo di élite che pesca consensi, ma non sono radicati nella città. In più, subiscono le pressioni e le repressioni del governo, guidato dall’ex garibaldino ed ex repubblicano Francesco Crispi, che dà un giro di vite proprio agli ambienti socialisti.
    Quale migliore occasione per cacciarsi in un guaio, per fortuna non grosso?

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    Francesco Crispi

    La prima condanna e le seconde elezioni

    A rileggerle col senno del poi, certe disavventure giudiziarie sembrano incidenti creati apposta per ottenere l’aureola del martire.
    È il caso di Humanitas, il giornale socialista fondato dall’agitatore roglianese Giovanni Domanico, forse la testa più calda dei socialisti cosentini.
    Domanico, figlio di un grosso proprietario terriero, è abituato agli incidenti e alle manette. Ma non si può dire la stessa cosa di Serra, che inizia a collaborare a Humanitas nel 1894, assieme ai soliti Rossi e Caputo e a Luigi Milelli, e il primo aprile di quell’anno firma un manifesto in cui rivendica con orgoglio la propria militanza socialista.
    La provocazione funziona sin troppo: Serra finisce sotto processo e si becca una condanna per aver violato le norme di pubblica sicurezza imposte dal governo crispino.
    Forte di questa “medaglia”, stringe un accordo politico col notabile amanteano Roberto Mirabelli e si candida nella sua lista per le Amministrative del 1895.
    Prende 945 voti e rientra in Consiglio comunale assieme a Rossi. Ma le polemiche sono dietro l’angolo.

    Nicola Serra e i compagni col grembiule

    La candidatura di Mirabelli è il prodotto di una resa dei conti interna alla loggia “Bruzia-De Roberto” del Grande Oriente d’Italia, che entra in guerra contro Luigi Miceli, notabile longobardese della sinistra storica e parlamentare di lungo corso.
    A dire il vero, all’epoca negli ambienti socialisti la massoneria non è così malvista. Ad esempio, Pasquale Rossi è iscritto al Goi.
    Ma c’è chi polemizza con le scelte di Rossi e Serra. Ne è un esempio la lettera anonima pubblicata dal periodico La Vigilia, in cui l’avvocato è accusato di voler sacrificare il gruppo socialista alle proprie ambizioni. Il circolo cosentino reagisce compatto, ma la polemica sortisce comunque un suo risultato: Rossi lascia la carica di assessore comunale dopo pochi mesi.
    Tuttavia, la rielezione spiana la strada a Serra in un’altra importante istituzione cittadina: l’Accademia Cosentina, di cui l’avvocato diventa socio corrispondente nel dicembre 1895 e socio ordinario pochi mesi dopo.

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    Pasquale Rossi

    Nicola Serra in crisi col Psi

    Risalgono al 1897 le prime avvisaglie della crisi dei socialisti cosentini. Infatti, Crispi ritorna al potere e riprende le sue abituali repressioni, che polverizzano il circolo cosentino.
    Ma pure nel resto della provincia le cose non vanno benissimo, perché Giovanni Domanico subisce un’accusa infamante almeno a livello politico: sarebbe stato, nientemeno, che un confidente della polizia.
    Nicola Serra si ritrova nel mezzo della polemica. Prima, per amore di partito sostiene la candidatura di Domanico nel collegio di Rogliano alle Politiche del 21 marzo 1897. Poi, a dicembre dello stesso anno, fa parte del collegio di probiviri che espelle Domanico dal Psi.
    Il resto sono colpi di coda: nel 1899 Serra ricostituisce assieme a Rossi e a Luigi Aloe, il circolo cosentino. Poi si candida alle Amministrative del 1900 e risulta eletto assieme al solito Rossi, al giornalista Antonio Chiappetta, ad Aurelio Tocci e ad Aloe. Ma la giunta cade poco meno di un anno dopo e la città rivà alle elezioni.
    Stavolta Serra non ce la fa. Ma, forte del ruolo acquisito nel notabilato locale, cambia partito e se ne va coi radicali.

    Un notabile di sinistra

    A questo punto, è doverosa una riflessione sul ruolo di Nicola Serra nel notabilato (non solo) cosentino. Giusto per capire come certi rapporti sociali superano da sempre le appartenenze politiche.
    Un primo rapporto forte è con gli esponenti di punta della massoneria cosentina. Ci si riferisce, in particolare, a Luigi Fera, parlamentare di lungo corso nel Partito radicale e poi ministro giolittiano, e a Oreste Dito, storico e maestro venerabile della loggia Bruzia-De Roberto. Serra, nel 1898 fonda assieme ai due big in grembiule la rivista Cosenza Laica, con cui polemizza contro gli ambienti cattolici cittadini.
    Anche i legami familiari hanno il loro peso: nel 1906 Serra sposa Maria La Costa, baronessa di Malvito. Dal matrimonio nasce Lydia, che diventa la prima avvocata calabrese.

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    Lydia Toraldo Serra

    Nicola Serra e i legami coi cattolici

    Dopo essersi laureata a 23 anni a Napoli, Lydia lavora assiduamente nello studio paterno. Ha come collega un altro praticante di talento: Gennaro Cassiani, il classico ragazzo di belle speranze. Originario di Spezzano Albanese, Cassiani è nipote per parte di madre di Ambrogio Arabia, un altro principe del foro. Di orientamento cattolico-popolare, Arabia diventa sindaco di Cosenza nel 1913.
    Per Gennaro è solo questione di tempo: nel dopoguerra è uno dei primi deputati Dc e diventa sottosegretario e ministro a più riprese.
    Torniamo a Lydia, che è l’altro tassello dei legami tra Serra e il mondo cattolico. Nel 1933 la giovane avvocata sposa un altro promettente cattolico: Pasquale Toraldo, ingegnere e marchese di Tropea. Lydia segue il marito nella cittadina vibonese, dove viene ben accolta. Al punto di diventare, nell’aprile ’46, sindaca di Tropea in quota Dc.
    È la seconda sindaca della Calabria. La batte di un mese Ines Nervi Carratelli, prima cittadina di San Pietro in Amantea.

    Nicola Serra parlamentare e poi ministro

    Chi cambia partito trova un tesoro. Nicola Serra, diventato nel frattempo anche vicepresidente dell’Accademia Cosentina (1906), si candida alla Camera nel 1909.
    Il risultato non è male: 964 voti al primo turno e 1.883 al secondo. Ma non bastano e l’appuntamento è rinviato.
    Per la precisione, al 1913, quando l’avvocato prende 5.497 preferenze e diventa deputato col Partito radicale.
    Ci riprova nel 1919 e prende più voti: 5.686, che tuttavia non gli bastano per il bis. Il quale arriva due anni dopo, quando cambia collegio (non più Cosenza ma Catanzaro) e lista (l’Unione nazionale democratica, di ispirazione giolittiana), prende 19.660 voti e partecipa da “governativo” ai lavori dell’ultimo Parlamento dell’età liberale.
    Chiude la carriera come sottosegretario alla Marina mercantile nel secondo governo Facta. La sua parabola politica finisce qui.
    Già: i fascisti decidono di non aver bisogno di Serra e non lo includono nel listone coi liberali.

    Gennaro Cassiani

    Interludio: la strage di Firmo

    È il 29 gennaio 1923. Siamo a Firmo, paese arbëreshe dell’entroterra cosentino.
    Un’antica rivalità divide due gruppi di famiglie. Il primo, guidato dal sindaco e segretario del fascio Celeste Frascino, è composto da ceti emergenti, che hanno trovato nel fascismo un notevole ascensore sociale. Il secondo, invece, è composto da alcuni notabili, che – da abitudine cosentina – militano a sinistra o addirittura nel Psi.
    Tra questi due gruppi il sangue è cattivissimo e i malumori sono esasperati dalla contrapposizione fascismo-antifascismo, che sfocia in provocazioni e atti di violenza continui. Il 29 gennaio Frascino provoca di brutto l’appaltatore Angelo Feraco, che per tutta risposta gli dà un pugno in faccia e fugge.
    Il sindaco lo raggiunge, afferra la pistola e spara. Ferisce Feraco e Raffaele Lo Tufo, un contadino che passa per caso. E uccide Domenico Gramazio, un ufficiale in pensione, arrivato sul posto per aiutare Feraco.
    Da questo fattaccio scaturisce un processo durissimo, che termina con la condanna di Frascino. Tra gli accusatori, nel ruolo di avvocato di parte civile, c’è Nicola Serra.

    Nicola Serra e il fascismo

    Serra va giù durissimo, nel processo contro Frascino e accusa direttamente il fascismo che, a suo giudizio, è responsabile del clima di violenza diffuso.
    In realtà, il fascismo, subito dopo la presa del potere, inizia a scaricare i vari Frascino e tenta la pesca nel notabilato di età liberale. Chi non si espone, è cooptato e prosegue la carriera, come il deputato liberale Tommaso Arnoni, che diventa podestà di Cosenza.
    I notabili che si sono esposti, invece, finiscono sostanzialmente nel freezer. Di solito, perdono gli incarichi pubblici ma non i ruoli professionali né il prestigio sociale. È quel che capita a Serra, che continua la carriera da avvocato ma perde il ruolo di presidente dell’Accademia Cosentina.
    Tuttavia, questo notabilato riemerge nel secondo dopoguerra, spesso grazie alla mediazione della Dc, che recupera una buona fetta della classe dirigente liberale, e la fa coesistere con gli antifascisti ma anche coi fascisti meno compromessi.
    Nicola Serra non partecipa a questo recupero solo per raggiunti limiti di età.

    Luigi Facta

    Una celebrazione particolare

    Inizialmente duro col regime, Serra modera i toni. Ma comunque non cerca cariche né tessere.
    Muore a Cosenza il 22 aprile 1950 all’età importante di 83 anni.
    Quattro giorni dopo, lo ricordano in una seduta alla Camera Fausto Gullo, Gennaro Cassiani e Adolfo Quintieri, altro astro nascente della Dc cosentina.
    Classe 1887, Quintieri proviene dal mondo dell’associazionismo cattolico. Non è antifascista, ma a-fascista e, tranne per il solito giro di parentele che ammorbidisce tutto, non ha legami sostanziali con la classe dirigente liberale di cui fa parte Serra.
    Con l’ascesa di questa nuova dirigenza (e la contemporanea estinzione anagrafica di quella precedente) la politica, anche calabrese, volta pagina.
    Ma questa è un’altra storia.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • GENTE IN ASPROMONTE | Il Sud che avanza tra la Locride e lo Stilaro

    GENTE IN ASPROMONTE | Il Sud che avanza tra la Locride e lo Stilaro

    U rigugghiu. L’argento vivo nelle vene, frutto di una rabbia da trasformare in opportunità. Mi accolgono quasi a quest’urlo i ragazzi di We are South: Giulia Montepaone, Aldo Pipicelli, Adele Murace, Guerino Nisticò, Sofia de Matteis, Raffaele Dolce, Annalisa Fiorenza, Valentina Murace, Giorgio Pascolo e Luca Napoli.
    Formano una rete che unisce gli ultimi paesi della Locride con i primi del catanzarese. Qualcosa che va oltre le cooperative o le iniziative dei singoli borghi e che cerca di fare modello e sistema.

    Che cos’è We are South

    We Are South non è solo una rete, ma un metodo di collaborazione, uno standard di qualità affiancato dall’adesione a una certa etica, l’essere partecipi e solidali.
    Resistenza. Resilienza. Coraggio. Sotto questo marchio si lavora nel rispetto delle stesse mission e vision: l’esigenza di fare comunità lavorando sui luoghi e sulle persone, il rispetto e la tutela dell’ambiente, la salvaguardia e la diffusione dei patrimoni, la cultura biologica.
    É una storia che va raccontata per due motivi: rappresenta una best practice e costituisce una cinghia di trasmissione tra le anime della Calabria.

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    La vallata dello Stilaro

    Siamo in una terra di confine, periferia della periferia, a cavallo tra Aspromonte e Serre: la valle dello Stilaro. Ma anche qui qualcosa si muove. Bivongi, Stilo, Monasterace, assieme a Guardavalle, Santa Caterina dello Ionio e Badolato sono il cuore di questo nuovo ecosistema. Lavorano insieme sotto un unico marchio per promuovere quei territori, ricucendo ferite e connettendo persone. Il loro brand nasce per facilitare le persone a riconoscere lo standard e i valori comuni, attraverso un marchio e un logo che dall’identità visiva, la forma, si proietta in sostanza.

    Lo Stilaro fa rete

    La tappa a Samo e Natile, mi aveva messo di fronte a molti interrogativi e altrettanti dubbi: il rapporto tra autentico e mitopoietico, il marketing territoriale, i legami di comunità, la resilienza e la questione femminile.
    Quando ho scoperto che nello Stilaro c’era qualcosa che rappresentava un altro passo in avanti nello sviluppo di processi di rete per la rigenerazione territoriale, sono partito per Bivongi.
    Remoto borgo di centenari che, assieme a Stilo e Pazzano, domina la vallata dello Stilaro. Bivongi è un abitato nascosto in mezzo alle ultime pendici dell’Aspromonte. Un luogo di acque termali, di cascate e di vecchie miniere. Un toponimo incerto che Rohlfs fa risalire al greco Boβὸγγες presente nel Brebion, documento greco del 1050 circa, ritrovato nella biblioteca privata dei conti Capialbi a Vibo Valentia.

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    Uno scorcio della piccola Bivongi, paese dei centenari

    Avevo preso appuntamento con Adele Murace, artigiana orafa, ambientalista, attivista, femminista e animatrice di We are South. Arrivando dalla marina e risalendo la vallata, una curva dopo l’altra, questa terra remota sembrava schiudersi con verecondia agli occhi del viaggiatore, tra il bianco abbagliante delle rocce e l’ampio greto di un fiume, un tempo navigabile, che oggi mostra le sue nudità. Era molto caldo e il verde intenso delle foreste che si arrampicavano sulla montagna circondava un borgo che sembrava appeso e sospeso tra le pendici della vallata.

    La (nuova) vita di Adele

    Al mio arrivo Adele mi ha accolto con un gran sorriso, dandomi il benvenuto. Durante i primi contatti al telefono mi aveva accennato del suo impegno a 360 gradi. E, soprattutto, di questa necessità di raccontare queste terre con uno spirito diverso, nuovo, lontano dal senso di vergogna e di inferiorità che i suoi stessi abitanti avevano fatto proprio.
    «Avevo capito che la narrazione, un nuovo storytelling poteva contribuire a cambiare la percezione negativa, il senso di arrendevolezza e la prostrazione che molti di noi hanno interiorizzato. Sul mio canale Instagram avevo realizzato la rubrica SudProud: interviste per raccontare storie di riscatto e di vittoria dei calabresi e diventare esempio per tutti noi. Avevo ragione. Dopo i primi video i miei follower locali avevano iniziato a scrivermi. Tutti dicevano la stessa cosa: grazie per gli esempi che ci hai mostrato. Se ce l’hanno fatta loro, posso farcela anche io».

    Adele è una ritornata: «Ho vissuto qualche anno al nord dove ho lavorato in fabbrica e aziende. Il senso di malessere che provavo mi ha riportato a casa dove ho costruito la vita che desidero. Oggi sono un’artigiana orafa, ho la mia azienda, mi auto-gestisco e questo mi permette di potermi anche muovere sul territorio».
    Adele, come gli altri membri di We are South, non è solo una partiva IVA che ha deciso di investire nella sua terra.

    Tartarughe, consultori e bimbi a scuola

    È una donna che combatte per salvaguardarla e promuoverla: «Sono impegnata sul territorio perché credo che sia imprescindibile. Durante la pandemia abbiamo costituito il gruppo WWF Stilaro Vibo Valentia, sollecitati da chi ci diceva che, con ogni probabilità, le Caretta Caretta venivano a nidificare anche alla nostra marina. Mancava però un monitoraggio strutturato che confermasse la teoria, poi risultata vera. Quell’anno trovammo venti nidi. Oggi, dal gruppetto sparuto che eravamo, siamo in cinquanta: tuteliamo gli ecosistemi marini, quelli montani e quelli dunari. Parte delle mie battaglie è dedicata alle donne e alla condizione femminile nella Locride. Ho promosso la riapertura del consultorio di Bivongi e continuo a lottare per la piena applicazione della legge 405. E si sa che istruzione, sanità e infrastrutture forniscono le condizioni minime per vivere nelle aree periferiche».

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    Alla ricerca delle Caretta Caretta

    Nel documento appena approvato dalla Regione per la riprogrammazione della rete sanitaria territoriale il consultorio di Bivongi entrerebbe nel cosiddetto “modello spoke” assieme a tutti gli altri 6 consultori della Locride: 36 ore settimanali lavorative garantite coperte da ostetrica, assistente sociale e oss. Non sono previsti però psicologi né ginecologi: «Avanzeremo queste proposte di modifica, cui anche Occhiuto ieri ha aperto, e chiederemo la disposizione di strumentazione di prevenzione».
    Ma la sanità non è tutto. «L’ultimo autobus che parte da Bivongi esce alle 16.30 mentre l’ultimo che entra arriva alle 21. Il prossimo anno la scuola elementare non aprirà perché ci sono solo 4 bambini. Come cittadini, non comprendiamo i limiti a una collaborazione tra paesi attigui per salvare la presenza di un servizio così importante in tutti e tre».

    We are South: tutti insieme appassionatamente

    U rigugghiu di Adele è lo stesso sentimento di cui a turno mi parlano Guerino, Annalisa, Giulia e Aldo ed è quello che ha impresso un’accelerazione definitiva ai loro progetti di vita. Perché, mi dice, «ho imparato negli anni che, se ognuno fa la sua parte, l’entusiasmo può essere contagioso. Si chiama legge dell’attrazione e il territorio sta rispondendo bene».
    Uniti sotto un unico brand che raffigura i Bronzi di Riace, stanno ricostruendo sulle macerie dell’abbandono e della sfiducia, ognuno con le proprie competenze.

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    Giulia Montepaone

    Guerino, badolatese, restato, cresciuto a pane e politica, rappresenta la memoria storica della vallata e ha una lunga militanza nei movimenti dal basso.
    Valentina, ritornata nel 2020 per affiancare il padre nella gestione dei vitigni eroici di famiglia, un passato come top manager del Marriot di Venezia, ha deciso di mettere a frutto l’esperienza maturata trasmettendo un metodo organizzativo per rafforzare percorsi di turismo etico.
    Aldo, restato, è un disegnatore e un grafico, ha creato il logo della rete e gestisce una nota pagina social con cui divulga proverbi calabresi. Giulia, botanica, è impegnata nella difesa dei sistemi dunari e botanici.
    Annalisa, albergatrice e ristoratrice, ha resistito alle minacce del racket. «Il pilastro di legalità che non ha mai mollato e che continua a rimettersi in gioco», sottolinea Adele. «Andiamo da Guerino», mi esorta.

    Piccolo è bello, ma serve una strategia

    Dalla montagna, scendiamo al mare dove lui ci aspetta. «Oggi questo isolamento, questa marginalità, può diventare punto di forza. Ma, attenzione, pensare di ripopolare un paese interno per come era è una mera masturbazione intellettuale. Invece con diverse attività, strategie, progetti i borghi possono essere resi vivibili sia per chi ancora ci risiede, sia per chi potrebbe venirci. Servono però piani strategici nazionali e internazionali. Quelli tanto sbandierati durante il periodo pandemico. Tutto fumo e niente arrosto.

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    Guerino Nisticò

    Guerino è un fiume in piena: «L’Italia è tutta una questione meridionale. Anzi è la questione meridionale di una nuova questione europea. Noi siamo il sud del sud dell’Europa. Sotto la presidenza Oliverio fu presentato il progetto Crossing per la ripopolazione dei borghi: 136 milioni di euro per un fallimento totale. Ora ci si riempie la bocca di PNRR. Sulla misura A (420 milioni da ripartire tra Regioni e Province Autonome, ndr) il comune di Gerace ha ottenuto un finanziamento di 20 milioni di euro. Per la misura B (580 milioni su base nazionale da dividere tra 229 borghi, ndr) sono stati stanziati 11 milioni di euro da suddividere per 133 progetti. Ma di che cosa stiamo parlando?!?».

    Aree interne e finanziamenti

    Secondo le linee guida del Governo, Gerace sarebbe stato scelto come borgo “pilota” a rischio abbandono. Una sorta di laboratorio in cui sperimentare per ricalibrare o riapplicare. La questione delle aree interne rappresenta in effetti un vero vaso di Pandora. Fabrizio Barca, da ministro, aveva intuito l’importanza del tema e aveva elaborato la Strategia Nazionale per le Aree Interne, poi resa strutturale dal collega Provenzano. La nuova programmazione 2021-2027 inserisce nella strategia 56 nuove aree che si vanno ad aggiungere alle 67 del settennato precedente: 1904 Comuni e una popolazione di più di 4 milioni e mezzo di persone. A questo si aggiunguno i 15 milioni per il 2023 previsti dalla cosiddetta “legge salva borghi.

    Per le aree interne, la Calabria vanta un ampliamento: a quelle già presenti, tra cui la Jonio–Serre riconfermata nella nuova programmazione, se ne sono aggiunte altre. Tra queste quella del Versante Tirrenico Aspromonte. La Regione, tramite il Dipartimento Programmazione, stabilisce criteri e linee guida degli interventi assegnando la competenza sui bandi ai diversi settori di pertinenza: turismo, mobilità, ecc. Un tema che va inserito in una più generale analisi della capacità di spesa dei fondi europei, per cui la Calabria non ha mai brillato.

    L’Ue non basta

    Il documento presentato dall’ISTAT Vent’anni di mancata convergenza sulle politiche di coesione per il Sud fotografa un peggioramento generalizzato del sistema-Italia con picchi negativi al Sud e in Calabria. Un dato che, affiancato alle recenti tendenze demografiche, «fa presupporre che invecchiamento e spopolamento possano in futuro contribuire ad ampliare i divari in termini di reddito con il resto d’Europa». Secondo la Commissaria UE alle Politiche Regionali Ferreira «da sola la politica di coesione non può guidare lo sviluppo di un’intera regione o di un paese». Traduzione: servono investimenti pubblici nazionali.
    Bisogna migliorare «la capacità dei beneficiari e degli enti intermedi di pianificare gli investimenti, costruire linee progettuali e svolgere procedure di gara» In proposito, «nel quadro finanziario 2021-2027 vengono stanziati 1,2 miliardi di euro per lo sviluppo delle capacità amministrative e l’assistenza tecnica che si concentra interamente sui beneficiari e sugli organismi di attuazione nel Sud».

    La cittadella regionale di Germaneto

    Dopo un’analisi di contesto la Regione Calabria ha deciso di investire per lo più sui progetti per l’invecchiamento attivo. Alcune fonti mi hanno confermato che i progetti di aging e telemedicina, su cui investe SNAI Calabria, sono risultati vincenti. La logica rispecchia la conformazione della popolazione delle aree interne, per lo più anziana, su cui si è deciso di investire (1.200 milioni su fondi PNRR) attivando progetti di assistenza capaci di incentivare un’economia basata sull’alleanza tra giovani e anziani.

    Il sistema Badolato

    Si tratta di uno dei modelli possibili. Guerino mi dice che a Badolato da anni esiste un sistema rodato: case a 1 euro e accoglienza degli stranieri. Il borgo è rinato grazie al turismo residenziale a alla comparsa di nuovi nuclei familiari. È stata scongiurata la chiusura della scuola. «We are South lavora in questa direzione. Questo gruppo che abbiamo creato, si innesta su percorsi attivi da tempo. Il nostro innato senso di accoglienza e ospitalità facilita e aiuta certi percorsi di incoming. Siamo esperti in turismo relazionale e puntiamo all’internazionalizzazione di questi territori. Il confronto con l’altro può aiutare questi luoghi a evolvere il proprio modo di pensare e di pensarsi. Ci sono storie simili alla nostra in tutta la Calabria: un processo che si è velocizzato negli ultimi 5 anni».

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    Badolato, uno dei paesi nella rete We are South

    Salutato Guerino ci spostiamo da Annalisa, la prima a immaginare un filo che unisse tutti i paesi di questo progetto assieme ad Adele: «Siamo partite con i mercatini di Natale e poi tutto è venuto da sé». Annalisa è albergatrice e ristoratrice e membro del consorzio GOEL. 67 ettari all’interno del parco archeologico dell’antica Kaulon affacciati sul promontorio di Punta Stilo a un passo da dove, nel 2012, Francesco Scuteri, “l’archeologo scalzo”, Direttore del Museo di Arte contemporanea di Bivongi, ha ritrovato il mosaico del drago, delfino e ippocampo, uno dei più grandi e importanti dell’età greca.

    «Collaboravamo già per la vendita degli agrumi, ma ho aderito al consorzio nel 2013 dopo il secondo attentato incendiario del 2012 che ha distrutto il tetto e il primo piano del nostro agriturismo». Sospesi a picco sul mare in questo luogo ucciso e rinato sette volte, mi pare di avere davanti lo spirito di un’araba fenice magnogreca. Annalisa non si è mai arresa.

    Bio, attentati e solidarietà

    «Produciamo tutto quello che vendiamo, anche il pane e la pasta realizzati con farine calabresi. Faccio il bio dal 2013. Dei sette attentati subiti, due sono stati devastanti: nel 2015 è stato dato a fuoco il capannone con tutta l’attrezzatura, trattore compreso. GOEL ci ha aiutato facendo letteralmente da scudo. Stare all’interno di una cooperativa ti scherma. Non sei più solo. Sono stati loro a spingerci a raccontare la nostra storia. Abbiamo poi creato fondo, anche con piccole donazioni, che consentisse alle vittime del racket di ripartire, perché la difficoltà maggiore delle vittime è ricominciare. Finché non terminano le indagini l’assicurazione non risarcisce. Siamo arrivati a 70.000 euro».

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    Annalisa Fiorenza

    Il rogo risaliva al 31 ottobre di quell’anno e abbiamo deciso che a dicembre avremmo inaugurato il nuovo trattore acquistato con la Festa della Ripartenza. Ci sono stati anche due ministri. Questa reazione cosi forte ha evidentemente spiazzato. Non c’è stato più alcun attentato. Quello che mi ha lasciato l’amaro in bocca è che a sostenerci sono venuti da fuori, perché sul territorio si ha paura. Abbiamo comunicato che è possibile trasformare il dolore in una storia vincente. Ed è l’esempio che cerchiamo di veicolare anche con We are South».

    We are South: l’unione fa la forza

    Ospitalità, tutela, valorizzazione e promozione dei territori, riconversione della rabbia in opportunità rappresentano ormai i topoi che, tappa dopo tappa, ricorrono. Ma, in questo caso, We are South sviluppa quanto fatto sia a Natile, sia a Samo. I ragazzi hanno capito che l’unione fa la forza, che occorre mettere in rete i borghi e che, per ottenere risultati, è imprescindibile coinvolgere le comunità. Solo attraverso questo passaggio le reti si rafforzano, le economie nascono e si trasformano in ecosistemi di crescita. Ed è solo così che una qualsiasi forma di brand diventa autentica e incarna quello che Guerino chiama lo spirito del luogo.

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    Un altro scorcio di Bivongi

    «Qualche tempo fa, a Bivongi, fu avviato il progetto albergo della longevità: furono realizzati 40 posti letto, un ristorante e un’enoteca con standard da 4 stelle. La comunità non era pronta, le infrastrutture e l’apparato politico nemmeno. Ad oggi rimane davvero poco di quel sogno. Noi possiamo fare il nostro, come stiamo dimostrando. Ma c’è bisogno di coraggio politico».
    È lo stesso messaggio che mi ha indirizzato Monsignor Bregantini: le persone, le reti, le imprese, le comunità, il terzo settore possono fare molto. Ma serve una regia politica chiara, coraggiosa, visionaria. Quella che ad oggi in Calabria e in Italia continua a latitare.

  • Ponte tra Calabria e Sicilia? Prima ricolleghiamo Jonio e Tirreno

    Ponte tra Calabria e Sicilia? Prima ricolleghiamo Jonio e Tirreno

    Neanche un grande scrittore, o un regista, sarebbe stato capace di mettere l’una accanto all’altra le diverse scene alle quali abbiamo assistito in questi giorni legate, direttamente o indirettamente, alla vicenda Ponte sullo Stretto.
    Gli incontri in pompa magna tra varie amministrazioni, tra le quali quelle di Reggio Calabria e Villa San Giovanni, e l’a.d. della società Pietro Ciucci, durante i quali nessuno ha alzato un sopracciglio per mettere in dubbio un qualsiasi aspetto critico della questione Ponte.
    La dichiarazione dell’ineffabile ministro Salvini, che con nonchalance comunica che se non si farà l’alta velocità in Calabria, perché lui «non vuole una linea a zig zag» (sic), poco male, il ponte si realizzerà lo stesso.

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    I sindaci in protesta nell’androne della Prefettura di Cosenza

    L’occupazione della Prefettura da parte di numerosi sindaci dello Jonio cosentino che chiedono di incontrare Meloni «per avere notizie sullo stato di realizzazione delle opere di compensazione ambientale del Terzo Megalotto e di superare la fase di stallo che si è creata in merito ad esse ed agli svincoli dopo il silenzio di questi anni e tutte le relative richieste disattese». E poi il colpo di scena. Quello che rompe la narrazione corrente e racconta come davvero stanno le cose al di là dei proclami.

    Coast to coast

    La Regione Calabria comunica che da gennaio 2024 la strada statale 682 Jonio-Tirreno, voluta allora fortemente dal presidente della Provincia di Reggio Vincenzo Gallizzi, sarà chiusa per 20 mesi (dubitare sui tempi è lecito, non farlo è da stupidi creduloni). Il motivo? La galleria sotto il Monte Limina richiede improcrastinabili lavori di manutenzione.

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    La SS 682 Jonio-Tirreno

    Per chi non lo sapesse, la 682 collega le due coste calabresi, la piana di Gioia Tauro con la Locride. L’opera presenta criticità evidenti per la carreggiata angusta e i conseguenti limiti di velocità. Realizzarla, però, ha consentito a due territori, separati in linea d’aria da pochi chilometri ma da una catena montuosa imponente, di venire a contatto quotidianamente. Non è solo una questione di spostamenti di merci e persone. O della possibilità degli abitanti della Locride di raggiungere i capoluoghi e gli aeroporti di Lamezia e Reggio molto più agevolmente. Dal punto di vista economico una via di comunicazione del genere, in una terra condizionata fortemente dalla sua conformazione geomorfologica, costituisce un oggettivo elemento di sviluppo, favorendo scambi e concorrenza.

    Priorità in Calabria: il Ponte o le strade?

    Sia chiaro che nessuno si sogna di chiedere il rinvio sine die di un intervento necessario su un tunnel lungo oltre tre chilometri. Il problema è un altro. Le risorse e le energie di programmazione anche mentali (?) dello Stato italiano sono in questo momento concentrate su un intervento che presenta molti aspetti critici: l’effettiva utilità; la tenuta gestionale dal punto di vista finanziario; le difficoltà progettuali, etc.

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    Matteo Salvini mostra il plastico del progetto del ponte sullo Stretto di Messina

    Ma, alla luce dei fatti appena elencati, è il Ponte sullo Stretto la priorità per la Calabria? O è affrontare tutte le manchevolezze alle quali si è fatto rapido cenno?
    Venendo meno il collegamento della Jonio – Tirreno, non ci sono altre trasversali in grado di ovviare decentemente ai gravi problemi che questa chiusura comporta. Torneremo a decenni fa, con la superstrada jonica 106 da un lato, e l’autostrada dall’altro. A meno che non si voglia pensare che la 280, da Lamezia alla 106 jonica, possa fungere da arteria sostitutiva. O addirittura, più a sud, la 111 Gioia Tauro – Locri o la Bovalino – Bagnara. Nessuno sano di mente può arrivare a tanto.

    Un referendum sul Ponte in Calabria

    E allora torniamo al problema dei problemi, quello del quale non ci stancheremo mai di parlare. Facciamo scientemente i “benaltristi”, giacché giocare questo ruolo, nella situazione data, è da persone responsabili, non un voler dire sempre e solo no “a prescindere”. Ideologicamente, direbbe qualcuno solo perché questa è la vulgata corrente. È, casomai, opporre ragionevolezza a sventatezza, approssimazione, sciatteria decisionale.
    Non credo che la Calabria abbia bisogno del Ponte. Ma voglio che la Calabria e i calabresi siano messi nelle condizioni di potersi muovere, dentro e fuori dai confini regionali, rapidamente, efficacemente, con mezzi e vie moderne.
    L’isolamento ha pesato e pesa ancora molto. È una delle cause principali, se non la principale, dell’arretratezza e del sottosviluppo. Ma dobbiamo decidere noi del nostro destino: bisogna indire un referendum per dare una volta per tutte la parola al popolo calabrese.

  • Zes unica per il Sud: derby in maggioranza per Giorgia Meloni

    Zes unica per il Sud: derby in maggioranza per Giorgia Meloni

    Alzi la mano chi, almeno per un attimo, non abbia subito pensato alla vecchia Cassa per il Mezzogiorno nell’apprendere della disponibilità dell’UE a valutare l’estensione del regime di favore delle Zes (Zone Economiche Speciali) a tutto il Mezzogiorno.
    Occorrerà del tempo, certo, per mettere a fuoco le tante questioni di merito che questa Zes Unica per il Sud, inevitabilmente, solleva sul piano delle politiche di attrazione degli investimenti.

    Zes Unica per il Sud: chi comanda però?

    Una prima questione, affatto secondaria, sembra tuttavia emergere sul piano della coerenza politica dello strumento.
    La domanda è: ma perché un governo che punta sull’autonomia differenziata (Lega e Salvini in primis) sceglie di virare su uno strumento centralista e dirigista come la Zes Unica (voluta fondamentalmente dal ministro Fitto e quindi da Fratelli d’Italia)per il Sud?
    E in tale scenario, le Regioni del Sud, che prima avevano le loro Zes, continueranno ad avere dei ruoli di definizione e governance delle politiche di attrazione e semplificazione? O, piuttosto, saranno chiamate ad una mera esecuzione di uno spartito immaginato a Roma e/o a Bruxelles?
    Ce n’è davvero tanta di incertezza da superare.

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    Le attuali Zes in Italia

    Il derby nella maggioranza: dirigisti vs liberisti

    L’impressione è che, conclusasi la luna di miele post elettorale, comincino a cristallizzarsi quelle differenze di fondo che, comunque, la coalizione legittimamente esprimeva ed esprime.
    La mia impressione è che un derby dirigisti-liberisti appaia chiaramente profilarsi all’orizzonte perché, così come già sta accadendo su Giustizia e Fisco, anche la questione dell’autonomia differenziata non fa impazzire di gioia il maggiore partito dell’alleanza e cioè Fratelli d’Italia. Partito che, sempre più chiaramente, tende a raffreddare gli eccessi liberisti della Lega e, in misura meno accesa, di Forza Italia.

    Zes Unica per il Sud: la sfida perfetta

    Chi definisce la politica industriale? Il governo centrale, sentiti i territori, o saranno i territori a farlo magari in coerenza con le scelte già adottate, ad esempio nei partenariati della programmazione europea 2021/27?
    Risposte non semplici anche perché, alla vigilia delle elezioni europee che saranno, come noto, su base proporzionale, nessuno ha voglia di sbagliare messaggio al proprio elettorato di riferimento.
    La Zes Unica per il Sud è la sfida perfetta: centralismo vs regionalismo, statalisti vs liberisti, Fratelli d’Italia vs Lega e Forza Italia.

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    Il porto di Gioia Tauro è la Zes calabrese

    Semplificazione e strategia

    E la sinistra? Abbastanza incredibilmente il PD, a giudicare almeno da una dichiarazione del capogruppo alla Camera, sembrerebbe non gradire l’annuncio centralista del ministro Fitto accusando, piuttosto, il governo di ritardare colpevolmente, da mesi, l’istituzione della Zona logistica semplificata della Toscana.
    Il che sembrerebbe legittimare un giudizio negativo verso le Zes Uniche per il Sud.
    Insomma una situazione tutta in divenire alla quale occorrerà dedicare la giusta attenzione nei prossimi mesi. Di sicuro il Sud ha bisogno di attrarre investimenti e di dotarsi di procedure autorizzative semplificate.
    La speranza è che nell’ansia della semplificazione non si dimentichi il disegno strategico complessivo della politica industriale al Sud.
    Spesso è accaduto.

  • Pasquale Rossi: un medico dei poveri al servizio del socialismo

    Pasquale Rossi: un medico dei poveri al servizio del socialismo

    Medico per professione, studioso per vocazione, rivoluzionario per tradizione (familiare) e missione. Pasquale Rossi è una figura forte del panorama socialista, non solo calabrese, di fine ’800, grazie a una vita intensa, anche se non proprio avventurosa, divisa tra attività politica e produzione intellettuale.
    Cultore curioso e profondo di sociologia, può essere considerato una versione italiana di Gustave Le Bon, l’iniziatore degli studi sulla psicologia di massa.
    Peccato solo che Le Bon sia stato praticamente rimosso dalle riflessioni culturali (e politiche) contemporanee. Altrimenti Pasquale Rossi avrebbe avuto di più delle consuete dediche toponomastiche.

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    Pasquale Rossi

    Pasquale Rossi, la rivoluzione in famiglia

    La dedica per eccellenza è la strada che porta all’ingresso dell’autostrada di Cosenza: la mitica via Pasquale Rossi, che i più conoscono per essere obbligati ad attraversarla quando entrano in città o ne escono.
    Il Nostro nasce a Cosenza il 12 febbraio 1867. Il cognome è piuttosto comune, molto meno le tradizioni familiari.
    È il terzo dei quattro figli di Francesco, classe 1807 e avvocato di grido, e di Cornelia Via, possidente più giovane di 25 anni del marito, tra l’altro sposato in seconde nozze.
    I Rossi sono la classica famiglia altoborghese cosentina dell’epoca, per estrazione economica e culturale e per attitudini politiche.

    Pasquale Rossi sr: il nonno carbonaro di Tessano

    Anzi, la politica fa parte della storia di famiglia: Pasquale Rossi, il nonno e omonimo di Pasquale, è stato un cospiratore antiborbonico. Maestro venerabile della vendita carbonara (l’equivalente di una loggia massonica) di Dipignano, Pasquale senior aderisce alla Repubblica Napoletana del 1799. A questo punto, la sua vicenda si intreccia con quella di Vincenzo Federici, detto il Capobianco, rivoluzionario e carbonaro di Altilia, dapprima filofrancese e poi oppositore di Gioacchino Murat.
    Federici, che finisce al patibolo nel 1813, è un raro caso di un rivoluzionario giustiziato per eccesso di zelo liberale.
    Finita anche l’esperienza napoleonica, nonno Pasquale continua a cospirare, anche in maniera piuttosto seria: la sua ultima esperienza forte avviene nei moti costituzionali del biennio 1820-21. Questi cenni dovrebbero far capire il background socio-culturale di Pasquale: sinistra altoborghese ma non fighetta, caratterizzata da un certo amore per la cultura, merce sempre più rara nelle classi politiche calabresi.

    Maria de Medeiros interpreta Eleonora Fonseca Piementel, l’eroina della Repubblica Napoletana

    L’esordio telesiano di Pasquale Rossi

    Tappa obbligata della Cosenza bene (non solo) dell’epoca: il Liceo Telesio. Secondo una certa retorica cosentina dura non solo a morire, ma persino a star male, ci sarebbe una differenza tra i “telesiani” e tutti gli altri: i primi sarebbero dei predestinati, pronti a diventare classe dirigente, gli altri, anche se più bravi no.
    Oggi non è vero: per accorgersene basta un’occhiata, anche distratta, ai curricula della Cosenza-che-conta, non pochi dei quali risultano addirittura carenti di titoli. A fine ’800, invece, è più che vero: Pasquale Rossi si diploma nel 1885, assieme a due compagni di classe destinati a carriere importanti. Cioè Nicola Serra e Luigi Fera. E scusate se è poco.
    Sembra l’identikit di un leader della sinistra contemporanea: figlio di papà con storia familiare alle spalle, studi importanti e amicizie altolocate.
    Ma nel caso di Pasquale Rossi, la differenza vera la fanno altri fattori: l’impegno e la capacità.

    Laurea e primi guai a Napoli

    Anche l’iscrizione all’Università di Napoli e la scelta della Facoltà, Medicina e Chirurgia, confermano lo stile molto cosentino di Pasquale Rossi.
    Forse è cosentina anche la passione politica. Ma, soprattutto, la propensione ai guai.
    Il Nostro studia con profitto. Ma, nel tempo libero, segue anche delle lezioni extra facoltà. Ad esempio, quelle di Silvio Spaventa, filosofo, deputato ed ex ministro dei Lavori pubblici e zio di Benedetto Croce. Oppure quelle di Giovanni Bovio, filosofo, storico del diritto e deputato repubblicano.
    Giusto una curiosità per gli amanti della musica: Bovio è anche il papà di Libero Bovio, poeta e paroliere della grande canzone napoletana. Suoi i testi di superclassici come Guapparia, Reginella, Lacreme Napuletane, ’O paese d’o sole, ’O marenaro, Zappatore e Signorinella.

    Il filosofo e politico Silvio Spaventa

    Torniamo a Pasquale Rossi, che in quegli anni si occupa poco di musica e molto di politica. Proprio a Napoli, l’aspirante medico incontra il socialismo. Infatti, fonda due circoli politici, il primo di studenti repubblicani e socialisti, il secondo di socialisti e anarchici. Con un pizzico di Calabria in più: ci si riferisce al ferroviere di Fiumefreddo Bruzio Francesco Cacozza e al cosentino Antonio Rubinacci, tipografo e poi segretario della Camera del lavoro della sua città.
    Tanta passione porta i primi guai: nel 1891 finisce in manette e subisce una condanna per aver partecipato ai disordini del Primo Maggio. Ma questo disguido non gli impedisce di laurearsi l’anno successivo col massimo dei voti. E, da buon notabile, di tornare a Cosenza.

    Medico e socialista in prima fila

    C’è una differenza tra i figli di papà di allora e quelli odierni: per molti dei primi, il socialismo o l’ultra-sinistra erano cose serie, capaci di marchiare a fuoco tutta la vita.
    Così è stato per Pasquale Rossi, che, una volta rincasato, apre un ambulatorio medico per i poveri e fonda un circolo socialista a Cosenza.
    Per la precisione, è il secondo della provincia, perché il primato cosentino spetta a Celico, dove sorge un circolo nel 1892, praticamente a ridosso della nascita del Psi.
    Ma ciò non toglie nulla al ruolo di Rossi, che nel 1893 è delegato dei due circoli al congresso di Reggio Emilia e finisce sotto l’ala di Filippo Turati. A questo punto, il Nostro si lancia alla grande, sia come intellettuale sia come politico.

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    Il leader socialista Filippo Turati

    Giornali ed elezioni

    Appena tornato dall’Emilia, Pasquale Rossi lancia due testate giornalistiche: Il Domani, un settimanale pensato per spingere i socialisti nelle elezioni suppletive di luglio 1893, e Rassegna Socialista, un mensile di alto profilo cultural-ideologico.
    Più borderline l’attività politica vera e propria. Nel 1895 Rossi gestisce un’operazione delicatissima: l’appoggio alla candidatura alla Camera del repubblicano amanteano Roberto Mirabelli contro il longobardese Luigi Miceli, ex garibaldino e supernotabile della sinistra.
    L’operazione riesce, ma ha un prezzo: l’alleanza, per le Amministrative di Cosenza, con il blocco liberaldemocratico. Quest’altra operazione è, addirittura, mediata dalla massoneria cosentina, in guerra con Miceli.
    Ma l’alleanza è innaturale e Rossi si ritrova isolato. Diventa assessore comunale ma è costretto a scegliere: o il municipio o il partito. Infatti, si dimette.
    Ma ha ruoli di primo piano nei successivi congressi regionali socialisti: quello di Paola (1896) e quello di Catanzaro (1897), a cui partecipa addirittura il mitico Andrea Costa.

    Andrea Costa, il pioniere del socialismo italiano

    La psicologia delle folle

    Il Pasquale Rossi studioso lascia almeno un’opera importante: L’animo della folla (Cosenza, 1898), che riprende e aggiorna La psicologia delle folle (1895), il superclassico di Le Bon.
    Al riguardo, è doverosa una riflessione: il socialismo italiano della seconda metà dell’Ottocento ha poco idealismo e non (ancora) molto marxismo. In compenso, è zeppo di positivismo, che è la corrente culturale egemone, almeno fino all’avvento di Gentile e Croce. Questo mix di socialismo e positivismo è tipico della sinistra dell’epoca e, per fare un esempio, condiziona anche i big successivi, a partire da Gramsci (che, non a caso, si forma a Torino, la capitale del positivismo italiano).
    Tuttavia, questo socialismo ha due caratteri particolari. È più umanitario che militante, più dialogante che rigido. Soprattutto, è aperto allo studio dell’irrazionalità.
    Che è poi il nodo centrale della psicologia delle masse, che riguarda Le Bon e il suo allievo italiano, cioè Pasquale Rossi.
    Il problema di Le Bon nella successiva storia della cultura socialista, è essenzialmente uno: le sue riflessioni non hanno alcuno sbocco “progressista”, ma si prestano davvero a tutti gli usi. E non è un caso che proprio Le Bon abbia influenzato la metamorfosi intellettuale e politica di un altro socialista, destinato a ben altra carriera: Mussolini.
    Forse anche questi motivi stanno dietro alla “rimozione” dell’intellettuale parigino dal panorama culturale Novecentesco. Una guerra tra egemonie, insomma, che ovviamente travolge i pesci più piccoli, anche se di grande spessore. Come Rossi, appunto.

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    Gustave Lo Bon

    La morte prematura di Pasquale Rossi

    Dalla fine del XIX secolo, la parabola di Pasquale Rossi è condizionata da una domanda: dove sarebbe arrivato, se non fosse morto a soli 38 anni?
    Le premesse per fare ancora molto, per lui c’erano tutte. Nel 1898 subisce un doppio processo, a Portici e a Reggio Calabria, con un’accusa particolare: aver incitato all’odio sociale nella rivista Calabria Nuova, in cui commenta i moti di Milano e la pesantissima repressione. Il rischio è grande, ma il tipo di reato (d’opinione), è un gol per un socialista.
    Che in effetti ritenta il colpaccio: una candidatura alla Camera nel 1904, che va male per un soffio. Tra una cosa e l’altra, il medico cosentino, si sposa (1898) e diventa padre cinque volte.
    Poi la morte improvvisa, a Tessano, la frazione di Dipignano da cui proveniva la sua famiglia, il 23 febbraio 1905.
    Una brusca interruzione per una vita intensa e non sempre in linea con i canoni del notabilato.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Da Teramo un calcio alle sbarre del razzismo e al razzismo delle sbarre

    Da Teramo un calcio alle sbarre del razzismo e al razzismo delle sbarre

    Le esperienze sociali attraversano il tempo, giocano d’anticipo sulla globalizzazione e sull’imperialismo. È nella loro propria natura avere fortissime radici territoriali e grande sensibilità internazionale e internazionalista verso chi vive le stesse condizioni, separato “soltanto” da centinaia di chilometri.
    In trasferta abruzzese e laziale per lavoro incastro in modo da poter essere alla splendida settimana di musica, partite, dibattiti e cucina promossa dalla Casa del Popolo di Teramo, dietro il titolo, senza cedimento alcuno, AMA LO SPORT, ODIA IL RAZZISMO. Un programma a domani, un filo rosso nella memoria.
    Un calendario bello fitto, sentito, carico. In cartellone, riflessioni su sanità e urbanistica in città, un’iniziativa a cura del Collettivo femminista Malelingue – esperienza molto briosa e curiosa, schierata e capace di essere trasversale ad anagrafe e lavoro -, revival calcistico e dibattiti sui temi della giustizia.

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    La tifoseria del Cosenza storicamente schierata contro il razzismo e da sempre solidale coi rifugiati

    Calcio e razzismo, da Cosenza a Teramo

    Chi scrive sente un po’ di piacevole malinconia, ricordando la partecipazione di tifoserie di tutta Italia (non solo nel calcio) ai “vecchi” mondiali Antirazzisti. Che poi lì di “vecchio” invero c’era molto poco, perché le analisi di partenza erano buone, fresche e attuali: il razzismo come prodotto di marketing, come pregiudizio per escludere, come virus da fare crescere per sostituire sicurezze rubate con insicurezze presunte.
    Ora la partecipazione ultras nel sociale è meno presente (e Cosenza anzi è una piazza ancora più reattiva di troppe altre) e soprattutto si è un po’ annacquata la valenza comunitaria e politica. L’apoliticità è stata dappertutto un modo per allentare frizioni, ma anche per espellere le pratiche di alternativa dal basso che sembravano più interessanti e radicali.

    Curve e politica

    E comunque a Teramo si respira dei gradoni il senso bello, non il mettere il cappello a una tifoseria per conto di pochi, ma i ricordi umani e sportivi che rendono ogni realtà con ancora un certo attaccamento calda e rituale. A latere di partitelle e grigliate, cori e fiaccolate per i ragazzi scomparsi e cresciuti in gradinata: pratica bella, anche se non hai una sciarpa al collo o ne porti una di un’altra bandiera. Il succo è lì: politica sociale e riti della curva sono parti di una cultura individuale e collettiva; le puoi e le devi discernere. Anzi, lo facciamo tutti sempre più spesso e con un po’ di autocritica dovremmo dire che è la conseguenza di un passato prossimo nel quale invece eravamo convinti dovessero essere per forza la stessa cosa. No, non lo sono, ma le connessioni esistono ed esisteranno.

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    I Los Fastidios a Teramo

    Nell’umida bolgia del campetto Smeraldo incontro i Los Fastidios: li ascolto, certo, ma soprattutto noto una cosa che appartiene alla vita dei musicisti e dei movimentisti. Il venirsi a trovare, il cercare di vedere le cose che accadono, i temi che scaldano. A me tocca una bella tavolata con gli amici di Napoli Monitor sulla questione carcere, in particolare ergastolo e 41bis. Presente Yairaiha Onlus e ben due stand di libri: uno di storia e memoria critica locale; uno su temi di pena e giustizia. Ed è emozionante come raziocinio e militanza civile si tocchino nella folla di centinaia di persone.

    Calcio, carcere e non solo

    Questo carcere (la sua regolazione formale e i suoi effetti sostanziali) colma sempre meno le promesse di sicurezza su cui si è fondato. E sempre di più squarci totalmente inediti si aprono davanti alle ingiustizie peggiori: quando emerge la foto del sovraffollamento, della mancanza di alternative, della impunità esibita di chi ne ha la forza e dell’annullamento totale di chi è considerato ormai smorzo di carne, parte di una discarica sociale.
    Sfumature nelle sfumature: reati che potrebbero essere depenalizzati, ad esempio. Maggiore attenzione alla prevenzione culturale e sociale in caso di violenze domestiche, stato di necessità e indigenza, politica sulle droghe.

    I tanti interventi s’affollano molto più critici e policromi delle nostre relazioni scolastiche: si sta bene, c’è il piacere di commentare, di stare assieme, senza la costrizione del torto e della ragione. Risuonano naturalmente sensibilità comuni. Mi appassiono nelle ore precedenti e successive a sentire cosa succeda in una piccola città del Sud e purtroppo certi costumi e malcostumi sembrano il racconto di una nazione intera. I crolli nelle case popolari, il costo della vita, la precarietà del lavoro. Una artigianale mostra fotografica racconta il vissuto di quartieri storici e periferici, coi loro personaggi, le loro panchine, lo sporco e il pulito, la generosità e il disservizio.

    Mostra fotografica nella settimana antagonista di Teramo

    Empatia, non volemose bene

    Chiacchiero con Davide e Giovanni, metalmeccanici. Schiena e braccia di quella parte di industria che non conosce sosta, talvolta nemmeno contro la vita degli altri. Ascolto volentieri come possa declinarsi la questione di genere in terre di provincia dove altrimenti il racconto sarebbe che rivendicare diritti è lezioso, fa perdere tempo e salute. C’è la carretta da tirare. C’è una buona presenza di migranti, accolta senza l’ipocrisia del volemose bene ma con la concretezza di alcune precedenti esperienze della rete Sprar. Abbiamo buttato via il bambino ancora prima dell’acqua sporca: anzi, quella la abbiamo lasciata nella bacinella, ma sulle migrazioni “navighiamo” male e a vista. Le uniche acritiche certezze sono accordi internazionali dagli effetti incompatibili alla dignità umana.

    L’immancabile mangia e bevi come da copione

    Tanta gastronomia e lì bello pure registrare la felicità e la simpatia di chi ha lavorato ore e forse giorni e continuano a non avere e non volere sosta. Tutto senza profitto. Una squadra che segna e continua a segnare.
    Me ne vado davvero leggero: leggero di questa robustissima costituzione che pratica la sua lotta con la comunità, i legami, la libertà. Questa Teramo, popolare e frizzante, colta e curiosa, empatica e rude, mi ha colpito in bene. I baci e gli abbracci camminano da soli tra pugni chiusi e pugni in tasca. La sera placa l’afa e la cassa suona. E dovunque siano queste feste scalciano le sbarre del grigio per liberare felicità e impegno.

    Domenico Bilotti
    Docente di “Diritto delle Religioni” e “Storia delle religioni”, Università Magna Graecia

  • Franco Dionesalvi: non è che l’inizio

    Franco Dionesalvi: non è che l’inizio

    Franco Dionesalvi non si è mai pensato intellettuale nel senso ampolloso e ingaggiato del termine. Lo era invece e ben di più nello sguardo sul mondo e nel legame storico-affettivo con la sua città: nessun localismo, nessun souvenir, solo studio, amore, agorà al massimo grado.

    Tante vite in un una

    È parziario, oltre che impossibile, ricordarlo libro per libro, composizione per composizione, reading per reading. Come per tutti gli scrittori che lavorano da amanuensi la materia della loro scrittura per il filtro dell’ibridazione dei linguaggi, ogni opera è il tassello di un percorso intero ed interiore. Non una scatola chiusa. Quindi, in Dionesalvi vivono tante vene e filoni, tante storie attraverso i suoi scritti rivivono. Le avanguardie letterarie, ad esempio. Senza fare l’archivistica degli stratagemmi semantici, ma investigando il rapporto immediatamente politico-emotivo fra segno e senso. Era uomo del Concilio, pur essendo un bambino nei primi Sessanta, ma gli apparteneva naturalmente un cristianesimo di base, semplice, diretto, dialogico. Ecumenico ed etimologicamente cattolico: persona singolare e universalità collettiva.

    Un uomo del ’77

    Era uomo del ’77, ancora. Non per portarsi addosso le stimmate laiche di un percorso di autonomia (sul quale ormai tutti hanno la loro, tutti ne hanno fatto parte e tutti lo hanno rinnegato), ché anzi le simpatie estetiche e comportamentali di Dionesalvi andavano più agli Indiani che agli Autonomi. Era figlio del ’77 in quella naturale postura antiautoritaria che ti fa capire, volenti o nolenti, la morte di un certo tipo di appartenenze e l’emersione di una soggettività disorganizzata e plurale, oltre certe logiche e chiese, bisognosa, anzi, di nuovi stimoli, nuove istituzioni e -ancora una volta!- nuovi canali comunicativi.

    Franco Dionesalvi: come ricordarlo?

    Non si sa come potercelo ricordare Franco Dionesalvi, quale lato debba più prevalere sugli altri: l’amministratore razionale e visionario insieme? Conoscitore dei sistemi locali della cultura europea (come da sua ottima tesi di dottorato) o attivista che apre squarci nuovi e si inventa il festival cittadino che segna una generazione, lontano anni luce da cover e refrain dei decenni successivi? Il romanziere colto, sperimentale, e però legato anche all’abc del romanzo di formazione, alla narrativa come scavo psicologico e percorso di crescita? Il poeta omaggiato a New York o il profeta per un certo periodo dimenticato in patria? Il corsivista ironico e propositivo o l’uomo di teatro che dal dramma ricavava storie di popolo? base-centrale-franco-dionesalvi

    Lo ricordo, allora, al netto di tanti begli incontri personali (che con Franco erano o l’uno a uno o il cenacolo improvvisato con amici di tavolo e conversazione sempre nuovi), per una delle sue ultime antologie poetiche, Base Centrale.
    A quel libro è legata una circostanza a suo modo e a propria volta storica. La prima presentazione pubblica a Cosenza dopo la pandemia: chiostro del San Domenico sold out. Cinquanta panche piene e se non ci fosse stato il distanziamento sociale ne avrebbe riempito cento.

    Base centrale

    Non credo né mai crederò a provvidenzialismo alcuno: ci sono artisti, anche nel campo figurativo, le cui ultime opere sono profezie e altri per cui semplicemente non c’è più niente di nuovo da leggere e guardare. Base Centrale è perfettamente coerente a un percorso, a una ricerca, a uno stile. E l’autore stesso avrebbe probabilmente avuto difficoltà a superarsi: sarebbe andato, come tipicamente suo, nella direzione opposta a ogni comodità astratta, a ogni sciatteria mentale.
    In Base Centrale c’è l’amore, il racconto del disagio, la simbologia religiosa, la denuncia pasoliniana dei tempi disincarnati (ma assai meno cattedratica, perciò più pura), persino le scosse telluriche della pandemia sulla già frantumata socialità industriale.

    Consoliamoci: siamo molto meno che a metà strada per riabbracciare compiutamente tutti i temi e slanci inaugurati dall’autore. Uomo di fede, fede in primis nella donna e nell’uomo, come i predicatori in lotta di un millennio addietro, potrebbe dirci allora: non è che l’inizio. Figli di un umano non ancora nato e a cui non verrà impedito di vedere luce.

    Domenico Bilotti
    Docente di “Diritto delle Religioni” e “Storia delle religioni”, Università Magna Graecia