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  • Tortora, Mani Pulite e non solo: Della Valle contro i pm “stellati”

    Tortora, Mani Pulite e non solo: Della Valle contro i pm “stellati”

    In bocca sua il garantismo non è peloso: è la difesa, appassionata e sincera, di un principio di civiltà, non solo giuridica. Non potrebbe essere altrimenti nel caso di Raffaele Della Valle, avvocato battagliero a dispetto dell’età (84 anni suonati) con un passato politico di tutto rispetto, prima nel Pli e poi in Forza Italia.
    Soprattutto, non può essere altrimenti quando si è stati protagonisti di uno dei processi più tragici, controversi e, purtroppo, spettacolari dello scorso secolo: quello a Enzo Tortora.
    «Fu il primo processo mediatico e fornì il modello a Mani Pulite», spiega Della Valle. Che aggiunge: «Da quella ingiusta persecuzione giudiziaria emersero i primi preoccupanti segnali della deriva che avrebbe preso di lì a poco l’amministrazione della giustizia».
    Della Valle è impegnato in un giro di presentazioni in tutta la Calabria di Quando l’Italia perse la faccia (Pellegrini, Cosenza 2023), il libro intervista scritto assieme al giornalista Francesco Kostner. Un piccolo best seller arrivato alla quarta edizione nel giro di quattro mesi: uscito a maggio, il libro ha esaurito lo stock tre volte. Niente male davvero…

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    Un primo piano di Raffaele Della Valle

    A proposito di processi mediatici e di giustizia-spettacolo: alcuni settori della magistratura, di recente hanno espresso forti critiche sul protagonismo eccessivo di alcuni magistrati, sul ricorso ai maxiprocessi e sul dialogo, ritenuto improprio, di alcune Procure con i media…

    Le condivido alla grande, perché riguardano i fondamentali di qualsiasi operatore del diritto.

    Avvocati compresi?

    Certo, nessuno dovrebbe enfatizzare il materiale raccolto durante l’attività probatoria, tuttavia nella vita reale pochi si fissano questo limite. Tant’è: noi difensori abbiamo spesso appreso le attività degli inquirenti grazie a quello che ho definito più volte il deposito degli atti in edicola.

    Cioè la pubblicazione degli atti sui media ancor prima che in cancelleria…

    Esatto.

    A proposito del processo Tortora, Vittorio Feltri nel suo “L’irriverente” (Mondadori, Milano 2019) afferma di essere stato il primo cronista ad accorgersi che molte cose non quadravano nel teorema della Procura di Napoli e, quindi, a schierarsi col conduttore televisivo finito in disgrazia…

    Diciamo che, per quel che mi ricordo, fu tra i primi. Ma è doveroso citare anche Piero Angela, Giovanni Ascheri e Luciano Garibaldi, che assunsero da subito posizioni garantiste. Non facili all’interno dello stesso mondo mediatico: si pensi, per fare un esempio, che la Rai mandava tutti i giorni (spesso ci apriva i tg) le veline della Procura di Napoli. Ma probabilmente il primissimo fu Enzo Biagi.

    Enzo Biagi fu forse il primo innocentista nel caso Tortora

    La carta stampata, c’è da dire, fece di peggio, come scrive Vittorio Pezzuto nel suo “Applausi e sputi”

    Il Messaggero, ad esempio, arrivò a titolare “Tortora ha confessato”, salvo chiedere scusa a danno fatto. In una fase avanzata del processo, il settimanale Oggi pagò Gianni Melluso per fotografarne le nozze nel carcere di Campobasso. La rivista ricorse a un escamotage per aggirare il divieto dei magistrati: uno dei cronisti fece da testimone allo sposo.

    Parliamo di Gianni Melluso, alias Gianni il Bello, alias Gianni Cha Cha Cha. Ovvero di uno dei più grossi accusatori di Tortora, vero?

    Su Melluso, il quale si è abbondantemente squalificato da sé, sospendo il giudizio, di sicuro  tutt’altro che positivo. Ricordo solo che anche lui fu una creatura mediatica. Lo aiutò molto Francamaria Trapani, giornalista e consuocera di Francesco Cedrangolo, il procuratore capo di Napoli. A proposito di Feltri: gli va dato atto che stigmatizzò sin da subito il comportamento supino di tantissimi colleghi.

    Anche la politica reagì in maniera tutto sommato tiepida, tranne poche eccezioni. Non è così?

    Persino il Partito liberale, in cui militavo assieme a Tortora, tentennò, con la sola eccezione di Alfredo Biondi. Col senno del poi, si capisce benissimo che questa “timidezza” era anche indotta dalla pressione mediatica. Solo Pannella, con la consueta aggressività, ruppe il muro di gomma e trasformò il processo Tortora in un caso politico.

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    Gianni Melluso, uno dei primi accusatori di Tortora

    È corretto affermare che nel processo Tortora prese forma il rapporto particolare tra politica e magistratura che si sarebbe affermato durante Tangentopoli?

    Certo che sì. Fu il primo processo mediatico, per colpa dell’atteggiamento della stampa, che andò ben oltre il servilismo. Il rapporto tra magistratura e stampa, sin da allora è diventato drogato.
    Da un lato, molte Procure tendono a diventare fonti privilegiate, anzi: le fonti per eccellenza. Dall’altro, i cronisti contribuiscono a trasformare gli inquirenti in star, anzi magistar, per usare un efficace neologismo. È un meccanismo perverso che si autoalimenta.

    Al punto che il legislatore è dovuto intervenire in più modi: attraverso la riforma delle intercettazioni e, più di recente, ponendo limiti precisi alle comunicazioni degli inquirenti. Non le pare una forma di censura?

    Di sicuro in parte lo è. Ma è anche una reazione ad anni di abusi.

    Sempre di recente, è stata avanzata una proposta particolare: un master in giornalismo giudiziario riservato ai laureati in Scienze giuridiche. La riqualificazione culturale dei giornalisti non è una valida alternativa?

    Altroché. Si consideri pure un’altra cosa: finora per accedere alla professione di giornalista non sono stati necessari titoli particolari. Iniziare a promuovere per davvero la formazione culturale della categoria significa stimolare quel senso critico e di indipendenza che libera il cronista dall’asservimento alla fonte. E quindi, rende superfluo ogni intervento del legislatore a tutela di chi, fino a condanna definitiva, ha il sacrosanto diritto di essere considerato innocente.

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    Raffaele Della Valle durante l’intervista

    Il procedimento a carico del celebre conduttore fece parte di un maxiprocesso a sua volta molto spettacolarizzato: quello alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Oggi, nella magistratura, non mancano le voci critiche anche nei confronti del ricorso ai maxiprocessi. Qual è l’opinione dell’avvocato Della Valle?

    I maxiprocessi avrebbero un’utilità apparente: il risparmio di tempo e di energie che deriverebbe dalla valutazione di più situazioni e persone in contemporanea. In realtà, la pratica di mandare a giudizio molte persone contemporaneamente si traduce spesso in una mattanza probatoria, che danneggia senz’altro gli imputati e i loro difensori. Ma danneggia anche tantissimo il lavoro degli inquirenti, che finisce spesso in un tritacarne confuso.
    La differenza, in questi casi, la fanno gli inquirenti. Se sono bravi, puntigliosi, concreti e garantisti come lo fu Giovanni Falcone, i procedimenti filano bene e danno risultati. Altrimenti diventano spettacoli da stadio, tanto rumorosi quanto improduttivi.

    Dal processo Tortora emersero anche i limiti nell’uso dei pentiti…

    La gestione dei collaboratori di giustizia è un altro problema irrisolto.

    Perché?

    Perché è un problema strutturale, etico prima ancora che giuridico. La normativa, infatti, proteggeva gli ex terroristi che saltavano il fosso. Tra di loro ci furono molti pentiti sinceri che, una volta finita l’illusione ideologica e ammessa la sconfitta politica, volevano tornare alla normalità e chiesero scusa.
    Questa dinamica, va da sé, non è facilmente applicabile ai malavitosi, che non hanno motivazioni ideologiche. Non normalmente, almeno.
    Ne deriva un problema di credibilità e di affidabilità piuttosto diffuso. Anche in questo caso, il processo Tortora diede spie d’allarme.

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    Enzo Tortora in manette tra i carabinieri

    Sospendiamo il giudizio su Berlusconi, che deve essere comunque un giudizio politico. Al netto di tante polemiche, non sembra eccessivo il numero di procedimenti senza risultati subiti dall’ex premier fino alla fine dei suoi giorni?

    Il problema è uno solo: le vicende giudiziarie di Berlusconi sono l’appendice giudiziaria di Mani Pulite.
    Non entro nel merito di quella maxi inchiesta. Mi limito, al riguardo, a notare che, da allora, la magistratura ha cambiato il suo Dna costituzionale ed è diventata un organo politico. Faccio un esempio attuale: tra chi si oppone ai tentativi di riforma di Nordio figurano trecento magistrati, che hanno sollevato dubbi di costituzionalità.
    Ora, non sarebbe più logico mettere le normative alla prova, magari impugnando davanti alla Corte Costituzionale, quando necessario, anziché lanciarsi in proclami politici?

    Se la magistratura si politicizza non c’è da meravigliarsi di vicende come quella dell’ex capo dell’Anm Luca Palamara. Chi la fa l’aspetti, o no?

    Io mi meraviglio che ci si sia fermati a Luca Palamara, al quale si sono attribuite troppe responsabilità. Palamara, semmai, era solo un terminal di interessi e posizioni di potere consolidatissimi.
    La magistratura ha travalicato da tempo le sue funzioni. Tant’è che troviamo parecchi magistrati al di fuori delle sedi istituzionali. Li troviamo, ad esempio, nei ministeri, come consulenti e capi di gabinetto incaricati di redigere le normative. Mi pare ce ne sia abbastanza per dire che il rapporto tra l’ordine giudiziario e il potere politico ne risulti quantomeno alterato.

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    L’ex magistrato Luca Palamara

    In questi giorni ha presentato il suo libro in tutta la regione. Come le è sembrato il pubblico calabrese?

    Preparato e sensibile ai temi giuridici. E devo dire di essere rimasto favorevolmente colpito anche dagli amministratori locali con cui ho avuto modo di confrontarmi: c’è una crescita di livello che lascia ben sperare.

  • Così salveremo l’Aspromonte. Parla Pino Putortì

    Così salveremo l’Aspromonte. Parla Pino Putortì

    «Il Parco per me è un ritorno». Pino Putortì, dallo scorso settembre nuovo direttore dell’Ente Parco Aspromonte, descrive così il reincarico alla guida amministrativa dell’Ente.
    Già direttore sotto la presidenza di Tonino Perna, un passato alla direzione generale dell’Asp di Palmi prima dell’accorpamento con Reggio, Putortì parla con franchezza della situazione del Parco.

    Dalla stampa e da varie testimonianze, si ricava l’impressione che il Parco sia in perenne polemica con operatori ed esperti del settore. La dura nota dello scorso 28 luglio non lascia dubbi.

    «Credo che l’attuale Ente Parco non sia amato».

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    Pino Putortì, il direttore dell’Ente Parco dell’Aspromonte

    Parliamo degli incendi?

    «Quest’anno, non appena è scoppiato quello in zona Polsi, ci sono stati interventi immediati: cinque canadair hanno impedito che l’incendio diventasse “di chioma”.
    Il Parco può lavorare sul Piano antincendi, cosa che già fa. Non ha però competenze di intervento né risorse dedicate. Soprattutto, non possiede il patrimonio che custodisce.
    La sua funzione è fare da pungolo. E può operare in vari modi. Ad esempio, con incentivi ai privati e risorse ai Comuni per la pulizia dei boschi.
    Torniamo ai roghi. I dati a disposizione consentono di individuare un andamento ciclico del fuoco. Al riguardo, si può attuare una serie di azioni che rafforzino il monitoraggio e la prevenzione.
    Una delle criticità del 2021 ha riguardato i Dos (direttori operativi dello spegnimento). Mi era stato riferito che era personale formato da poco e con poca esperienza. Ma non posso averne certezza».

    L’intervento per limitare i disastri è solo l’ultimo anello di una catena che si è comunque rivelata debole. Ma la prevenzione è tutt’altro e dovrebbe essere la priorità…

    «Bisogna ricordare che ogni incendio è una storia a sé e dipende da variabili diverse. In ogni caso, Calabria Verde quest’anno ha fatto il proprio lavoro».

    Un canadair in azione durante i roghi dell’estate 2021

    Prima no?

    «Io lavoravo in Prefettura. Leo Autelitano, attuale presidente del Parco in carica dal 2018, chiese il nostro intervento. Assieme ai vigili del fuoco, abbiamo preso la situazione in mano. Purtroppo, devo ricordare un problema non proprio leggero. Stando a quanto riferitomi da terzi, Calabria Verde forniva coordinate errate per cui i mezzi antincendio scaricavano acqua dove non era necessario».

    Sempre nella nota di luglio l’Ente Parco ha illustrato una serie di attività.

    «Siamo partiti con il progetto Pastori custodi, esperienziali ed enogastronomici, volto a valorizzare l’antica cultura della transumanza e sensibilizzare il territorio al rispetto ed alla difesa della natura e della montagna».

    [Nda: Questa linea risulta già percorsa in passato, nelle gestioni di Tonino Perna e di Giuseppe Bombino, con il progetto pilota Pastori custodi. Quest’iniziativa puntava sulla prevenzione. Infatti, nel 2017, mentre Sila e Pollino bruciavano, in Aspromonte non ci furono disastri. Alla presentazione di quel progetto partecipò anche il prefetto. Nel 2018, con l’avvicendamento alla presidenza tra Bombino e Leo Autelitano, quella sperimentazione, che sarebbe dovuta finire nel Piano Antincendi, cadde].

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    Leo Autelitano, il presidente dell’Ente Parco dell’Aspromonte

    Il funzionamento dei Parchi può essere migliorato?

    «Ritengo che gli attuali strumenti a disposizione non garantiscano appieno le finalità della legge 394 del 1991.
    Di più: lo stesso sistema dei Parchi in Italia meriterebbe una seria revisione. Certo, il legislatore ha avuto una buona intuizione sulla governance, e ha creato un certo equilibrio di pesi e contrappesi. Tuttavia, una statistica recente rivela che in 19 parchi su 20 si registra uno scontro tra direttori e presidenti».

    Anche all’Ente Parco dell’Aspromonte?

    «Ci sono momenti di forte dialettica. Ma è nell’ordine delle cose».

    Entriamo più nel dettaglio: come funzionano i Parchi?

    La governance dei parchi è fatta di diversi organi. Tra questi, presidente, consiglio direttivo e direttore amministrativo. L’ultimo propone, i primi due dispongono».

    Tonino Perna, ex presidente dell’Ente Parco dell’Aspromonte

    E qual è il rapporto tra il Parco e gli enti locali?

    «La Comunità del Parco è costituita da Regione, Città Metropolitana e Comuni del Parco. Questa designa quattro componenti del consiglio direttivo.
    La norma prevede che i componenti designati siano esperti. Laddove, invece, sono sostituiti dai sindaci può capitare che qualcuno tenda a perorare le proprie cause o a favorire il proprio territorio».

    Sempre la politica di mezzo…

    «Il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica e quello dell’Economia sono organi vigilanti. C’è sempre un gioco della politica. Inevitabile che a volte si siano chiusi gli occhi e si siano avallate azioni da evitare».

    Questo può valere per tutte le nomine. Compresa quella del direttore. Lei che ruolo ha?

    «Il direttore fa da garante e mette le firme».

    Come interpreta il suo ruolo?

    «Voglio fare in modo che il Parco faccia un salto di qualità e che tutti – organi dell’ente, operatori, associazioni, esperti, sindaci, comunità – capiscano che occorre lavorare insieme in una visione condivisa.
    È necessario restituire l’Aspromonte ai suoi protagonisti. Alcune guide del Parco, ad esempio, sono un nostro patrimonio. Il Parco ha il dovere di dialogarci.
    Non bisogna disperdere l’eco positiva a livello internazionale che abbiamo riscontrato dopo la partecipazione alla Bit di Verona. Dobbiamo tutelare la bellezza e promuovere le economie».

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    Quel che resta degli alberi bruciati in Aspromonte nell’estate 2021

    Quali sono oggi le grandi criticità del Parco Aspromonte?

    «Sono di tre ordini: governance del territorio, pianificazione e programmazione e risorse umane. Oltre a un forte deficit di comunicazione».

    Spieghi…

    «Quando parlo di governance mi riferisco a una oggettiva difficoltà di gestione di un territorio vasto e complesso come l’area protetta del Parco. Questa difficoltà impatta direttamente sul secondo aspetto, la necessità di revisione di strumenti di pianificazione».

    Quali strumenti?

    «Il piano del Parco, il regolamento, il piano di sviluppo socioeconomico e la zonizzazione, su cui stiamo cercando di intervenire con fatica,
    Alcune linee guida erano state messe insieme, forse un po’ sommariamente. Bisogna rafforzare tutta la pianificazione e intervenire in modo serio su un nuovo perimetraggio delle zone che bilanci protezione, tutela e sviluppo del territorio.
    Non è pensabile, ad esempio, che zone di diversa tipologia confinino in maniera diretta, come accade ora. Questo produce confusione e alimenta gli ostacoli alla governance dei territori. Il danno è stato compiuto anni fa. Recentemente abbiamo approvato il Piao (Piano integrato di attività e organizzazione) 2023-2025 con il nucleo della nuova programmazione».

    Giuseppe Bombino, altro ex presidente del Parco dell’Aspromonte

    [Nda: sotto la precedente presidenza Autelitano, l’allora ministra dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, sentito il parere di Regione, Provincia e Comuni competenti, emanava un decreto che riperimetrava il Parco: dai 76.000 ai 64.153 ettari attuali. Quest’operazione diminuiva l’area protetta, e ne ridisegnava la geografia con quella zonizzazione su cui oggi si vuole intervenire]

    Ha detto «a fatica»: perché?

    «L’organigramma dell’Ente Parco è ridotto all’osso. Attualmente, e con difficoltà, riusciamo a coprire solo l’ordinario.
    Il parco ha perso nove risorse per provvedimenti di mobilità concessi in regime di finanza invariata. Ciò significa che non ci sono i fondi per assumere nuove risorse se non sostituendole con la mobilità in entrata.
    il Parco allo stato attuale è depauperato in modo quasi irreversibile. Stiamo tentando di risalire la china. Sono poi in corso questioni che non è il caso di approfondire in questa sede».

    Di nuovo: perché?

    «La situazione è delicata».

    [Nda: che lo sia davvero risulta da diverse fonti. Da notizie riservate, sarebbe in corso una serie di accertamenti presso i ministeri competenti e l’Avvocatura dello Stato su mobilità e assunzioni.
    In particolare, sulle procedure di stabilizzazione degli lsu volute dal presidente. Questi, a sua volta, avrebbe presentato un altro esposto alla Procura della Repubblica.
    Inoltre lo stesso Piao fotografa uno stato dell’ente non in perfetta salute.
    Durissima la parte del documento dedicata alla situazione del personale: «Si è venuta evidenziando una scarsa conoscenza delle competenze del personale e l’assenza di una banca dati delle competenze». Inoltre, «resta di particolare attenzione il monitoraggio del benessere interno ed il clima lavorativo all’interno dell’organizzazione, specie a fronte di una evidente conflittualità interna». Questo quadro la dice lunga, in attesa delle pronunce degli organi competenti e delle valutazioni della Procura].

    Alberi dell’Aspromonte a due anni dell’incendio

    Quale idea vuole portare avanti?

    «Un Parco per tutti. Lavorare su quello che può garantire il futuro e proteggere la bellezza anche attraverso lo sviluppo delle comunità locali. Bisogna dare piena attuazione agli obiettivi delineati nella legge 394. Il fine della conservazione per me è questo».

    Cosa dobbiamo attenderci?

    «Sono in corso una serie di attività e una proficua interlocuzione con la Regione. Abbiamo presentato alla dirigenza del Settore parchi ed aree naturali quattro schede per un valore tra i 6 e i 7 milioni. In più, dopo un’attenta revisione del bilancio, risulta un avanzo di 5 milioni e 200mila euro che verranno allocati per diversi interventi».

    La sfida più grande?

    «Accessibilità e sistema della mobilità verso il Parco in un’ottica di intermodalità».

     Come si vede tra un anno?

    «Se le operazioni che sto cercando di realizzare andranno in porto, sarò dove mi trovo adesso. Altrimenti, ormai vicino alla pensione, sarò felice di dedicarmi alla pesca».

    È stanco?

    «Conduco una battaglia quotidiana e non nascondo le mie difficoltà».

  • Non è mafia ma quasi: l’ascesa dei clan rom a Reggio Calabria

    Non è mafia ma quasi: l’ascesa dei clan rom a Reggio Calabria

    Le dichiarazioni del pentito Vittorio Giuseppe Fregona sulla criminalità rom di Reggio Calabria sono l’ultimo dei tre tasselli che delineano una mutata morfologia della ’ndrangheta in Calabria.
    Addirittura una nuova “geopolitica” criminale in cui emergono e si rafforzano inediti equilibri di potere.
    Seguiamo questa trama in tre tappe.

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    Il tribunale di Reggio Calabria

    Criminalità rom: una storia in tre tappe

    Nel 2005 Arcangelo Badolati, nel suo volume I segreti dei boss (Klipper, Cosenza 2008) affronta la criminalità del Cosentino, con riferimenti specifici al mutato ruolo dei clan rom nelle gerarchie di malavita. Badolati, nello specifico, approfondisce i fatti relativi all’indagine Lauro e alla faida di Cassano (2002-2003).
    Il 18 aprile 2023 a Catanzaro la Procura arresta 62 cittadini rom. Nelle ordinanze di custodia cautelare, relative all’operazione coordinata dal procuratore Gratteri, il gip Filippo Aragona contesta per la prima volta il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso.
    Inoltre, stesso Gratteri parla apertamente di intercettazioni che testimoniano l’affiliazione dei rom alla ’ndrangheta con tanto di battesimo.
    Il 12 maggio 2023 nel processo Epicentro il pentito Fregona, interrogato dal pm Walter Ignazitto, delinea un salto di qualità dei clan rom di Arghillà.

    Droga e case popolari: l’impero della criminalità rom

    I dettagli della deposizione riguardano l’ingresso di questi clan nel mercato degli stupefacenti con il benestare delle cosche di Catona e la gestione abusiva degli alloggi popolari. Lo stesso pentito, inoltre, dichiara di essere a conoscenza di riti di affiliazione alle ’ndrine reggine.
    Il quadro tracciato da Fregona testimonierebbe la nuova autonomia dei clan rom nella gestione di attività illecite. E quindi il loro affrancamento dalle ’ndrine storiche come i Serraino, celebrati di recente anche su Amazon Prime. Anche a Reggio Calabria, sotto l’apparente coltre di immobilismo, qualcosa si muoverebbe. O meglio si sarebbe già mosso.
    Il caso di Reggio Calabria aprirebbe un nuovo squarcio sulle dinamiche con cui la ‘ndrangheta sta mutando assetto e organizzazione in tutta la regione. E i primi esiti del caso Ventura suffragano le dichiarazioni di Fregona.

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    Maria Serraino e la nipote Marisa in un singolare ritratto di famiglia

    Caso Ventura: troppa violenza per un alloggio

    A Reggio nel 2022 Patrizio Bevilacqua riceve una condanna in primo grado a 5 anni e 6 mesi per estorsione insieme all’ex moglie Anna Maria Boemi.
    È la sentenza 1369 sul noto caso della famiglia Ventura.
    Come appartenente alla Polizia Penitenziaria, Vincenzo Ventura era regolare assegnatario di un alloggio popolare al rione Marconi.
    Ma la sua famiglia fu costretta ad abbandonare l’appartamento dopo attacchi verbali e fisici, minacce di morte e danneggiamenti. Poi l’immobile fu occupato abusivamente dai rom. Questi lamentarono, con diversi comunicati e in vari servizi tv, l’illegittimità dello sgombero ordinato dal Tribunale.
    Il caso Ventura resta una vicenda travagliata e violenta dai cui atti processuali emergono rapporti tra Bevilacqua ed esponenti del comando dei Vigili urbani di Reggio Calabria.

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    L’alloggio popolare della famiglia Ventura nel quartiere Marconi devastato dai vandali

    Case popolari: il mercato della criminalità rom

    Durante l’audizione di Ventura del 7 aprile 2016 in Commissione controllo e garanzia, l’allora delegato al Patrimonio edilizio del Comune di Reggio, Giovanni Minniti, dichiarava di conoscere la vicenda e i suoi protagonisti e sottolineava che «nel tempo in cui è stato assessore e delegato è venuto a conoscenza su alcune vicende legate alla vendita degli alloggi. Ci troviamo a constatare che c’è un “Mercato delle case”, che con un gioco maldestro e pericoloso [è] gestito dalle famiglie dei Nomadi, circa 300 alloggi del Patrimonio Edilizio venduti in modo poco chiaro». Da allora poco si è mosso.

    Alloggi popolari: quel disordine non è un caso

    Il 12 giugno 2020 la Terza commissione speciale permanente politiche sociali e del lavoro si riuniva per discutere di patrimonio edilizio ed edilizia residenziale pubblica. I verbali della dirigente, l’avvocata Fedora Squillaci, disegnano un quadro quantomeno caotico.
    Squillaci parla di un settore di difficile gestione, a cominciare dalla sistemazione dell’archivio, di ruoli notificati a deceduti ancora risultanti titolari di alloggio, di ostilità dei dipendenti del settore, di carenza nell’organico.
    La dirigente afferma che «c’era anche chi faceva visitare gli appartamenti ai nomadi con la conseguenza che il giorno dopo venivano occupati abusivamente […] non lo posso dimostrare ma sono convinta che c’è un mercato dietro al patrimonio degli alloggi Erp, c’è un premeditato disordine, caos e ingovernabilità che consente di fare ciò che si vuole […] Su 3.000 alloggi c’è un’altissima percentuale di abusivismo». Ivi compresi i beni confiscati.
    Emerge un quadro desolante: un ipotetico mercato degli alloggi probabilmente gestito in modo violento e “imprenditoriale”, protetto da legami opachi con altrettanto ipotetiche ramificazioni nel municipio. Che di questo si tratti non c’è ancora certezza. Ma le suggestioni sono tantissime.

    Case popolari nel rione Marconi

    Le tariffe quartiere per quartiere

    Alcuni bene informati parlano espressamente di mercato, di gestione dei rom e di divisione in territori: da Arghillà al Rione Marconi. E c’è chi ipotizza tariffe che vanno dai 3.000 ai 10.000 euro, per prestazioni di vario tipo.
    Ad esempio, la possibilità di scegliere l’alloggio con una maggiorazione dei prezzi e quella di ottenerlo comunque, magari con l’“intervento” dei rom, se è già occupato.
    Questo prezzario certificherebbe un’organizzazione stabile col benestare della ’ndrangheta. E ribadirebbe che i clan rom sarebbero ormai affiliati e non più semplice manovalanza.

    Vita e carriera di Patrizio Bevilacqua

    Bevilacqua, oggi interdetto a vita dai pubblici uffici, correva per le Amministrative reggine del 2011 nel movimento Pace di Massimo Ripepi, uno dei leader dell’attuale opposizione.
    Bevilacqua, almeno fino alla pandemia – riferiscono alcune fonti -, e comunque a procedimento in corso, sarebbe stato inoltre alle dipendenze di Eduardo Lamberti Castronuovo, noto imprenditore reggino, già assessore al Comune di Reggio e poi sindaco di Procopio.
    Il 5 dicembre 2012, in un servizio di Rtv, Lamberti, tra l’altro editore della testata, dichiarò che «ad uno di loro [rom] ho affidato le chiavi di casa […] Si chiama Patrizio, lo potete incontrare tutti». Parlava di Patrizio Bevilacqua.
    Definire criminali tutti i rom è, come dice Lamberti, uno stereotipo. Ma fa quantomeno specie che il protagonista di vicende opache poi attenzionate dalla magistratura mantenesse determinati rapporti con una personalità arcinota della vita pubblica reggina. Cioè di una città in cui tutti si conoscono.

    La Questura di Reggio Calabria

    Non è mafia… quasi

    Ora, la sentenza 1369 contro cui Bevilacqua e Boemi hanno fatto appello, contestava ai condannati una forma di consorteria con ignoti, ma non arrivava al delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso.
    Ma, se le ipotesi sono concrete, anche a Reggio Calabria si viene delineando un nuovo ruolo e una rafforzata capacità da parte dei clan rom. Presidiare il territorio, intimidire, minacciare, gestire (in associazione) un vero e proprio racket delle case popolari con una metodologia malavitosa studiata, concordata, attuata, forti di connivenze anche all’interno delle pubbliche amministrazioni.
    Se non è mafia, questa, ci somiglia assai.

  • Meridionali? Inferiori nati. Torna un vecchio pregiudizio

    Meridionali? Inferiori nati. Torna un vecchio pregiudizio

    Inferiorità meridionale? Alcune tesi non scompaiono mai del tutto. Tra queste, l’idea secondo la quale il ritardo del Mezzogiorno non dipenda solo da cause oggettive, economiche o politiche, ma sia, in ultima analisi, da ricercare nei meridionali stessi.
    Con l’Unità d’Italia, in molti scritti e discorsi, la diversità tra Nord e Sud venne rappresentata come contrapposizione tra civiltà e barbarie, tra Italia e Africa.
    Alla fine dell’Ottocento, in un tempo di “superstizione della scienza” – come scrisse Gramsci – l’opinione già diffusa dell’inferiorità meridionale assunse la forza di “verità scientifica”.
    A questo argomento, tra l’altro, chi scrive ha dedicato un capitolo de Il Paese diviso. Nord e Sud nella storia d’Italia (Rubbettino, Soveria Mannelli 2019).

    Cesare Lombroso, il padre della Criminologia moderna

    Due Italie, due razze

    Il criminologo Cesare Lombroso, e ancor più nettamente gli antropologi Giuseppe Sergi e Alfredo Niceforo, entrambi siciliani, argomentarono che in Italia vi fossero due “stirpi” o “razze” e che quella che popolava il Sud avesse origine africana (si escludevano i greci). Essendo di origine africana, la razza meridionale era «refrattaria, cioè inerte, davanti ai nuovi portati della civiltà» e meno adatta di quella nordica al progresso sociale e culturale.

    L’inferiorità meridionale secondo Richard Lynn

    Quest’idea, mai del tutto abbandonata, riemerge ancora. Fece scalpore e scandalizzò, la tesi di Richard Lynn, psicologo recentemente scomparso. Lynn nel 2010, in un articolo sulla rivista Intelligence, sostenne che i divari socioeconomici tra Nord e Sud dipendano da differenze nel Quoziente d’intelligenza (QI). Secondo Lynn, il QI medio dei meridionali sarebbe di circa 10 punti inferiore a quello dei settentrionali a causa dell’eredità genetica dei fenici e degli arabi che, in epoche diverse, si insediarono in parte del meridione.
    La tesi di Lynn, condivisa da altri studiosi, presuppone l’esistenza di razze umane differenti per alcune caratteristiche fisiche e sotto il profilo cognitivo. Sulla base dei risultati dei test sul QI e di quelli scolastici, Lynn ha stilato una graduatoria internazionale dell’intelligenza. Ai primi posti, col QI più alto, gli asiatici dell’est (giapponesi, coreani, cinesi), seguiti dalle popolazioni europee o di origine europea; al fondo della graduatoria, le popolazioni dell’Africa Subsahariana e gli aborigeni australiani.

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    Lo psicologo neorazzista Richard Lynn

    I terroni? Sono sempre i più stupidi

    All’articolo di Lynn ne sono seguiti diversi altri. Tra i più recenti, quello di Emil Ole William Kirkegaard e di Davide Piffer. I due studiosi hanno sostenuto nel 2022 che le differenze nell’intelligenza media tra Nord e Sud Italia siano rimaste sostanzialmente stabili sin dall’Unità.
    Per dimostrarlo, i due ricercatori hanno utilizzato dati ottocenteschi sul cosiddetto age-heaping, cioè l’arrotondamento dell’età che, secondo alcuni, misurerebbe l’incapacità della popolazione a far di conto.
    Hanno mostrato, poi, come i dati dell’Ottocento siano in relazione con i risultati attuali nei test scolastici Invalsi e con gli indicatori di sviluppo socioeconomico delle regioni italiane.
    Nello stesso numero della rivista che contiene l’articolo di Kirkegaard e Piffer (Mankind Quarterly) ce n’è un altro di Richard Lynn, in cui si riportano i risultati dei test su un campione di bambini siciliani di 6-11 anni che, secondo la rilevazione, avrebbero un QI medio di 92 punti, inferiore a quello disponibile per alcune città o regioni del Nord Italia.

    Anche la Spagna ha i suoi terroni

    Questi studi non riguardano solo l’Italia, ma anche altri paesi. Ad esempio la Spagna, dove esistono divari regionali nei livelli di sviluppo e nei risultati scolastici. Alla loro base vi è la tesi secondo la quale la causa ultima delle differenze internazionali nello sviluppo socioeconomico sia da ricercare nella genetica, nell’intelligenza delle popolazioni. In altre parole, la natura umana è all’origine delle disuguaglianze.

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    Emil Kirkegaard, studioso neorazzista e allievo di Lynn

    Inferiorità meridionale? Solo un fatto economico

    Questa tesi è fortemente contestata. Per quanto riguarda l’Italia sappiamo che, effettivamente, ci sono ampie differenze regionali nei risultati dei test scolastici, come conferma anche l’ultimo rapporto Invalsi 2023. Tuttavia, dimostrano molte ricerche, i divari regionali nei test scolastici sono, in larga misura, spiegati da fattori culturali, sociali ed economici e, probabilmente, in parte anche dalla qualità media dell’istruzione.
    Differenze regionali nei test sul QI e in quelli scolastici sono documentate in molti Paesi, per esempio in Germania, Portogallo, Regno Unito e Spagna. In tutti i casi, i punteggi nei test risultano più elevati dove maggiori sono i livelli di sviluppo. Il legame tra QI e sviluppo socioeconomico è molto forte.

    Lo psicologo americano James Robert Flynn

    L’effetto Flynn

    Questo legame è così forte che i risultati medi nei test d’intelligenza tendono ad aumentare col progresso socioeconomico. È  un fenomeno affascinante e incoraggiante, noto come “effetto Flynn”, osservato in molte nazioni.
    Alle tesi richiamate si possono opporre molte obiezioni. La più ovvia è che, a oggi, non esistono prove scientifiche di differenze razziali nel QI. Inoltre, lo stesso concetto di “razza” applicato agli uomini è discutibile. Di conseguenza, non esiste alcuna prova che l’influenza genetica africana, nei meridionali come in altre popolazioni, possa avere una qualche influenza negativa sulle capacità cognitive. Quello che, invece, sappiamo con certezza è che tra Nord e Sud Italia esistono radicati divari sociali ed economici. Sotto questo aspetto, non certo per quanto riguarda il QI, l’Italia è un paese con profonde differenze.

    Vittorio Daniele
    professore ordinario di Politica economica
    Università Magna Graecia

  • Disastri naturali, la Calabria è la più vulnerabile d’Europa

    Disastri naturali, la Calabria è la più vulnerabile d’Europa

    Non succede, ma se succede… in Calabria farà più danni che in tutto il resto d’Europa.
    Parliamo di disastri naturali e degli effetti sul territorio e sugli esseri umani a tutti i possibili livelli. L’allarme stavolta proviene direttamente dalla Commissione europea che dall’ottobre del 2022 pubblica uno studio in costante aggiornamento. L’ultimo upgrade risale al mese scorso e i risultati sono a dir poco inquietanti per la Calabria.
    Emerge, infatti, come in Europa l’Italia sia il paese più vulnerabile alle catastrofi naturali insieme a Bulgaria, Romania e Grecia. Tuttavia, mentre in prospettiva le cose negli altri tre paesi appaiono in lento miglioramento, in Italia la situazione sembra destinata a rimanere stabile.

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    La mappa della vulnerabilità delle province italiane

    Perentoria l’indicazione per il nostro territorio: «Italiani sono anche altri due primati: la regione più fragile del continente è la Calabria e la provincia è Reggio Calabria».
    Scopo dello studio è avvisare gli amministratori locali e nazionali per correre ai ripari prima che sia troppo tardi.
    Il governatore Occhiuto, insomma, è un “avvisato speciale”, visto che la Calabria è la zona con i peggiori indici di vulnerabilità in caso di disastri naturali.

    Irpinia e Giappone: un confronto impietoso

    Quattro i fattori che determinano l’indice di vulnerabilità totale: economico, sociale, ambientale e politico. Per capire meglio bisogna pensare ai tanti fenomeni naturali di forte impatto quali terremoti, inondazioni, siccità, tempeste e altri eventi di tipo atmosferico, frane ecc. Questi avvenimenti in zone pericolose sono molto più probabili ma a parità di pericolosità le zone più vulnerabili sono quelle dove poi si verificano i danni maggiori per la scarsa organizzazione locale e le ripercussioni sui cittadini provocano disastri nei disastri.

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    Il tragico terremoto in Irpinia del 1980

    Il terremoto in Irpinia, ad esempio, e i terremoti in Giappone spiegano bene di cosa parli lo studio della Commissione europea. Zone più pericolose come il Giappone con terremoti superiori in magnitudo a quello dell’Irpinia hanno avuto moli meno danni a cose e persone. La Calabria ha il massimo punteggio di vulnerabilità in Europa e il capoluogo regionale il peggiore di tutte le province dell’Ue. Questo il dato sui cui tutti i calabresi devono riflettere e a partire dai quali gli amministratori devono darsi da fare sin da subito. Prima che sia troppo tardi.

    Disastri naturali: lo studio europeo

    Il Disaster Risk Management Knowledge Centre (Drmkc) del Joint Research Centre (Jrc) della Commissione europea ha pubblicato uno studio con l’obiettivo di accendere un faro sulla vulnerabilità ai disastri naturali dei paesi europei. Rappresenta un primo tentativo di indagare, attraverso la definizione di un indice, sulle possibili conseguenze di calamità.
    Il Drmkc ha sede nel Jrc di Ispra, alle porte di Varese. È un laboratorio europeo che, grazie a una impressionante ricchezza di dati, consente la gestione in tempo reale delle crisi provocate da disastri naturali.
    Non tutti i beni, i sistemi o le comunità con lo stesso livello di esposizione a un pericolo specifico sono ugualmente a rischio: conoscere la vulnerabilità, perciò, è fondamentale per determinare il livello di rischio.

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    Reggio Calabria risulta essere la provincia più vulnerabile d’Europa

    Asset molto esposti possono avere una vulnerabilità molto bassa, quindi essere considerati a basso rischio: in una zona sismica un edificio tradizionale è più vulnerabile di uno costruito con criteri antisismici. Per queste ragioni, dunque, la vulnerabilità è la componente fondamentale di cui tener conto nella definizione delle politiche e delle azioni per la riduzione del rischio di catastrofi. Ridurre la vulnerabilità e l’esposizione dei territori e delle comunità è la via più efficace per ridurre il rischio, dal momento che non è sempre possibile ridurre la gravità e la frequenza dei pericoli naturali. Ancora di più, se si considerano gli impatti dei cambiamenti climatici.

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    Tra le regioni europee è ancora la Calabria a guidare la classifica dei peggiori

    Le colpe dell’uomo

    La funzione dell’indice e della mole di dati raccolti è anche quella di aiutare gli amministratori a prendere le decisioni. Per ridurre la vulnerabilità è necessario identificare e affrontare i fattori di rischio quasi sempre derivanti da scelte e pratiche di sviluppo economico e urbano inadeguate. Essi hanno, infatti, un legame con il degrado ambientale, la povertà, la disuguaglianza, le istituzioni deboli.
    I governi possono applicare strategie e politiche per ridurre la vulnerabilità introducendo misure precise, progettate per ridurre sia la componente “indipendente dal pericolo” (dovuta essenzialmente all’azione dell’uomo) che quella “dipendente direttamente dal pericolo” (legata agli eventi naturali).

    In particolare, la vulnerabilità indipendente dal pericolo, su cui si concentrano gli indici costruiti dal JRC, tiene conto degli ostacoli che indeboliscono le capacità di un sistema o di una comunità di resistere alle sollecitazioni poste da qualsiasi pericolo. Descrive la suscettibilità a potenziali perdite o danni delle comunità indipendentemente dalla loro esposizione ai vari pericoli. Si basa su molteplici fattori che caratterizzano una comunità situata in un determinato territorio.

    Disastri naturali e vulnerabilità: il caso Calabria

    Nel 2022 la regione europea più vulnerabile ai disastri naturali in assoluto era la Calabria, seguita dalla Ciudad de Melilla (città autonoma spagnola situata sulla costa orientale del Marocco). Un graduino del podio più giù, altre due regioni italiane: Campania e Sicilia.
    Nella classifica delle province, il poco invidiabile primato è di Reggio Calabria e dei primi 30 nomi più della metà sono di altre province italiane. La maggior parte si trovano nel Mezzogiorno, ma non solo: ci sono anche Latina, Frosinone, Fermo, Pesaro-Urbino, Pescara, solo per citarne alcune.

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    Le medie nazionali di vulnerabilità e i cambiamenti negli anni, regione per regione

    Nel confronto rispetto alla media nazionale, sorprendono alcune situazioni specifiche. In positivo la Puglia, il cui indice è in costante e moderata discesa sotto la media italiana, come la Val d’Aosta. In miglioramento anche la Sicilia, mentre sono in netto peggioramento Trento e Bolzano che partivano da situazioni molto virtuose. Nessun progresso, invece, per la Calabria
    Le aree più vulnerabili pagano soprattutto la fragilità economica e ambientale: in Calabria 4 province su 5 segnano il massimo di vulnerabilità ambientale. Quanto all’indicatore di vulnerabilità sociale, vede livelli molto bassi in tante province del Sud e delle isole. Peggio di così è difficile fare.

  • Tragedia sulla Jonio-Tirreno: ma quando ci sarà una presa di coscienza?

    Tragedia sulla Jonio-Tirreno: ma quando ci sarà una presa di coscienza?

    Una famiglia percorre il sentiero che da Bivongi conduce alle cascate del Marmarico. Vengono da San Calogero. Una madre di 36 anni con la figlia di 4, suo fratello con la compagna e la figlia di 3 anni. Sono allegri, spensierati, hanno deciso di festeggiare così il compleanno dell’avvocato Antonella Teramo, la madre, tornata da Milano in Calabria per trascorrere le vacanze coi suoi cari. Incontrano delle persone – due amici e la figlia di uno di loro – e lei, dal carattere espansivo e cordiale, raccomanda loro di fare attenzione, ché alcuni passaggi nascondono insidie inaspettate.

    Morte sulla Jonio-Tirreno

    Certamente sa, ma in quel momento non ci bada, che il pericolo vero, in Calabria, non sono i sentieri di montagna, ma le strade che collegano le varie parti di un territorio notoriamente accidentato.
    Qualche ora dopo, l’auto sulla quale percorrono la Jonio-Tirreno (strada statale 682) si scontra frontalmente con un’altra occupata dal solo conducente. Questi e la madre muoiono sul colpo; la bambina di 4 anni, Maya, poco dopo all’ospedale di Polistena. Feriti gravemente la bambina di tre anni e gli altri due familiari, che avevano fatto la promessa di matrimonio lo scorso 30 marzo.

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    Antonella Teramo

    Concorrenza sleale

    Da circa un mese si dibatte sulla prossima chiusura di questa strada. Ci sono lavori improcrastinabili da effettuare nella galleria che buca per tre chilometri il monte Limina. Ciò di cui invece non parla chi decide cosa fare, dove e quando, sono gli interventi su tutto il sistema delle comunicazioni della regione: stradali, ferroviari, marittimi, aerei. E quando affronta l’argomento, è solo per reclamizzare il ponte sullo Stretto e la destinazione al Nord dei fondi che servirebbero per rendere il sistema moderno, efficiente, e soprattutto sicuro. È vero, accade che una delle cause degli incidenti automobilistici sia da imputare all’alta velocità, all’imprudenza. Già, perché gli straccioni calabresi per spostarsi senza rischiare, la vita o sanzioni pesanti, lo devono fare a 50 chilometri orari. Anche quando hanno esigenze lavorative che imporrebbero tempi limitati, come succede nei luoghi solo ipoteticamente concorrenti che con ipocrisia vengono definiti più fortunati.

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    La Galleria Limina sulla SS 682 resterà chiusa per almeno 20 mesi

    Una presa di coscienza

    Non di fortuna si tratta. Sono le scelte scellerate a fare della Calabria una terra ormai senza futuro. Scellerate e frutto di un’accondiscendenza, da parte della classe dirigente locale, che sfocia nel servilismo, nell’ascarismo più eclatante. Una pratica, sia chiaro, non imputabile esclusivamente alla Destra. Così, la traiettoria storica calabrese si presenta come un libro già scritto, dal finale scontato. Il nostro cammino, al contrario di quanto asseriva qualcuno, è identico al rotolare della palla sul biliardo: parte e arriva dove deve arrivare. L’unico ostacolo che potrebbe incontrare, fuor di metafora, è quello che finora non si è mai effettivamente presentato: una presa di coscienza che porti i calabresi tutti, in primis la sua classe dirigente, a prendere nelle proprie mani il futuro di questo «sfasciume pendulo sul mare» per tentare, nei limiti del possibile, di migliorarne la sorte.

  • Teatro Rendano, nuovi fondi dal ministero

    Teatro Rendano, nuovi fondi dal ministero

    Anche quest’anno – dopo lo stop del recente passato – il Ministero della Cultura contribuirà alle attività del Teatro Rendano di Cosenza. I finanziamenti saranno due e ammontano a quasi 250mila euro.
    Il primo stanziamento per il Teatro Rendano riguarda il Fondo unico per lo Spettacolo. Grazie a un decreto della Direzione generale dello spettacolo del Ministero appena pubblicato, il Comune di Cosenza otterrà poco più di 100 mila euro. Lo scorso anno il contributo ammontava a 90 mila euro. Si tratta, nello specifico, della seconda annualità del triennio Fus 2022-20024 e riguarda le attività liriche ordinarie.

    Teatro Rendano: attesa per Puccini e Mascagni

    Un altro piccolo passo avanti per ritorno ai fasti di un tempo del Teatro Rendano, dunque. Il sindaco Franz Caruso ha sottolineato come si sia «ripreso a programmare la stagione lirica dopo anni di fermo». Il Rendano tornerà davvero fiore all’occhiello della città grazie all’Opera? Non resta che attendere. Per il momento da Palazzo dei Bruzi informano che a curare la stagione sarà ancora il maestro Luigi Stillo. Due i titoli in programma: Madama Butterfly di Giacomo Puccini, del quale ricorrerà nel 2024 il 100° anniversario della morte, e Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni. Le due opere andranno in scena al Teatro Rendano tra novembre e dicembre prossimi.

    I fondi per l’Orchestra Sinfonica Brutia

    E gli altri finanziamenti romani? Riguardano l’assegnazione del contributo alle nuove istituzioni concertistico-orchestrali. Tra queste, nel medesimo decreto che assegna i soldi per l’opera al Teatro Rendano,  figura anche l’Orchestra Sinfonica Brutia. Beneficerà quest’anno di un contributo di oltre 137 mila euro. L’OSB, attualmente in tournée con tappe previste anche al di fuori della regione, si conferma quindi un progetto di valore nonostante i timori sorti alla sua istituzione.
    Caruso, nel sottolineare il risultato ottenuto, ha inteso spendere parole di ringraziamento per il dirigente del Settore Cultura, Giuseppe Bruno, e la funzionaria dello stesso settore, Annarita Callari. Senza il loro impegno nel seguire l’intero iter procedurale i finanziamenti ministeriali per il 2023 ministeriali rischiavano di finire altrove.

  • Sottoscritto protocollo di intesa tra Anpi e Comune di Casali del Manco

    Sottoscritto protocollo di intesa tra Anpi e Comune di Casali del Manco

    Sottoscritto un protocollo di intesa tra Anpi Presila e Comune di Casali del Manco. Si tratta di un «protocollo per la memoria, la coscienza, la resistenza». È quanto si legge nel comunicato stampa dell’Anpi Presila “Eduardo Zumpano”. «Motivazioni dal grande valore ideale, di cittadinanza attiva – sottolinea la nota – e di profondo rispetto per le istituzioni democratiche nate dalla resistenza e dalla lotta partigiana». A firmare il documento sono stati il presidente Anpi Presila, Massimo Covello e la sindaca di Casali del Manco, Francesca Pisani. Erano presenti anche il vicepresidente dell’Anpi Presila “E. Zumpano”, Maria Cristina Guido e gli assessori del Comune di Casali del Manco, Michele Rizzuti e Gianluca Ferraro.
    «La Presila e nello specifico Casali del Manco sono storicamente riconosciuti come “culla” dell’antifascimo non solo calabrese. Un territorio che ha visto personaggi come Zumpano, Gullo, Curcio, Prato, Caruso, i Martire, Vencia, Nicoletti, Carravetta, Pisano e tantissimi altri essere protagonisti, anche a costo della vita, nella lotta partigiana. Il protocollo di intesa vuole favorire l’ideazione e la promozione di percorsi di memoria, conoscenza e divulgazione. La Costituzione, l’antifascismo e l’impegno civile per la democrazia e la giustizia sociale verranno promossi e sostenuti attraverso azioni e appuntamenti non solo come il 25 Aprile ed il 2 Giugno (ma anche il 25 Luglio e tanti altri). E così tenere vivi gli ideali di libertà, democrazia ed uguaglianza soprattutto tra le giovani generazioni».
    La sindaca di Casali del manco ed il presidente dell’Anpi Presila hanno infine dichiarato congiuntamente: «La stipula di questo protocollo segna una pagina importante in questa fase storica contrassegnata da derive preoccupanti per la pace, la democrazia, l’unità del Paese. Questa amministrazione e l’Anpi intendono far rivivere, anche con questo protocollo, la migliore storia politica, sociale e culturale della Presila».

     

  • Tropea: gelato a peso d’oro, esulta il sindaco

    Tropea: gelato a peso d’oro, esulta il sindaco

    Spennati e contenti. A quanto pare ci sarebbe da festeggiare per i turisti a Tropea dopo che Omio – piattaforma di prenotazione di treni, autobus e voli – ha rivelato come una pallina di gelato sulle spiagge della Perla del Tirreno risulti tra le più care d’Europa. Secondo la ricerca, che ha coinvolto 75 spiagge di 20 Paesi diversi – si spenderebbero di media, infatti, 3,50 euro.
    Per pagare di più toccherebbe andare nella ben più dispendiosa Francia a Tolone, Cannes, Marsiglia oppure, in alternativa, a Bournemouth nel Regno Unito. Negli altri 70 litorali sotto esame si spende o quanto nella località calabrese  – a Saint Tropez, Nizza, Positano, San Pietro-Ording (Germania) – o decisamente meno. Basti pensare che in templi del turismo di lusso come Capri o la Costa Smeralda il prezzo di una pallina di gelato è di parecchio inferiore a quello che Omio attribuisce a Tropea.

    Caro gelato, esulta il sindaco di Tropea

    Il mini salasso in questione però, si diceva, incontra i favori dell’amministrazione comunale. Che prima mette in dubbio l’attendibilità del dato – «non ci risulta» – poi lo dà per buono. E lo valuta così: «Non una bocciatura ma semmai una promozione».

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    Il sindaco di Tropea, Giovanni Macrì

    Il sindaco Giovanni Macrì, novello Elkann/Briatore de noantri per l’occasione, lo dice apertamente. Il dato «confermerebbe l’esatta e coerente direzione intrapresa da Tropea in questi anni: posizionarsi in alto nei mercati turistici, per la sempre maggiore qualità complessiva della proposta ricettiva ed esperienziale, inclusa quella enogastronomica ed artigianale di cui il gelato è forse il simbolo più forte». E pensare che qualcuno tende ancora ad associare l’enogastronomia di Tropea alla cipolla e non al gelato…

    Ciao poveri

    Quindi, largo ai sillogismi. «Se il gelato a Tropea risulta tra i più costosi d’Europa significa anzitutto che è anche uno dei gelati più buoni, per qualità delle materie prime e della preparazione artigianale delle nostre gelaterie», continua Macrì. Che poi si complimenta con i gelatai locali per l’ottima posizione nella classifica degli esosi.
    «La qualità – afferma – si paga sempre e Tropea continua a non voler essere una destinazione per tutti i target, per i tutti i gusti e per tutte le tasche».

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    La Tropea da cartolina

    Il sindaco vuole «selezionare la domanda dei visitatori e non ricercare o accontentarsi dell’indistinto sovraffollamento stagionale» Perché, se non fosse chiaro, fare in modo che chi ha poco in tasca ma vorrebbe comunque godersi il mare della Costa degli Dei non si faccia vedere da quelle parti è «doveroso ed auspicabile».

  • Luigi Fera: il primo superbig della politica calabrese

    Luigi Fera: il primo superbig della politica calabrese

    Un predestinato dallo strano destino. Luigi Fera è, con tutta probabilità, il politico cosentino di maggior rilievo dell’età liberale.
    Tuttavia, ha subito i capricci di una toponomastica un po’ disordinata: già intestatario, per quasi un cinquantennio, della piazza con cui termina Corso Mazzini, è ora titolare dell’ex Corso d’Italia, la strada che porta dalla ex Piazza Fera al Tribunale di Cosenza.
    Questo cambiamento è il prodotto di una decisione urbanistica unica: l’intestazione di una piazza a un vivo, qual era a inizio millennio il mecenate Domenico Bilotti.
    Pochi ricordano che Fera ha comunque lasciato qualche impronta sulla città: il primo piano regolatore e il vecchio palazzo delle Poste, un esempio bello (e poco valorizzato) di architettura di età giolittiana.
    Ovviamente i meriti di Fera non si fermano qui.

    La vecchia piazza Fera

    Un notabile predestinato

    Luigi Fera è stato il primo politico calabrese ad avere ruoli ministeriali di spicco e a mantenerli a lungo. Dopo di lui avrebbero fatto meglio, durante il fascismo, Michele Bianchi e, dopo, Riccardo Misasi e Giacomo Mancini.
    Una carriera così solida e forte non si costruisce per caso né per soli meriti. Contano tantissimo il contesto familiare e l’appartenenza sociale.
    Ciò vale anche per Fera, che nasce a Cellara, un borgo tra il Savuto e la Sila, il 12 giugno 1868 nella classica buona famiglia, almeno secondo gli standard dell’epoca.
    Infatti, suo papà Michele è medico (una stimmata del notabilato meridionale più autentico), professore di Scienze naturali al Liceo Telesio e presidente del Comizio agrario cosentino. Sua madre, Rachele Crocco, proviene da una famiglia di proprietari.
    Il giovane Luigi frequenta il Telesio, in una classe piuttosto privilegiata, dove divide i banchi con Pasquale Rossi e Nicola Serra, altri due futuri big della storia contemporanea calabrese.
    I legami col notabilato non finiscono qui: in una fase importante della sua carriera, Fera incrocerà altre due famiglie che contano, i Morelli di Rogliano e i Quintieri di Carolei, nel contesto piccante di uno scandalo d’epoca. Ma andiamo con ordine.

    Luigi Fera avvocato rampante

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    Luigi Fera

    Luigi Fera sale con zelo tutti i gradini della carriera dei notabili. Finito il Liceo, si iscrive all’Università di Napoli, dove frequenta Giurisprudenza e Filosofia.
    È allievo, piuttosto bravo, di Giovanni Bovio e Filippo Masci e ama il giornalismo: non a caso è intimo di Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, fondatori e cervelli de Il Mattino.
    Una volta laureato, Fera torna a Cosenza. Prima (1892-1893) insegna Filosofia al Telesio e poi si dà all’avvocatura penale. Per non farsi mancare niente, aderisce alla loggia “Bruzia”. Ricapitoliamo: professore, penalista e massone. Gli ideali trampolini per la carriera politica. Che inizia dal gradino base: il municipio.
    Infatti, diventa consigliere comunale nel 1895, dopo aver redatto per un anno articoli di fuoco sul settimanale La Lotta.
    Da consigliere, dedica le sue attenzioni alla riapertura della Biblioteca Civica. Tanto impegno gli vale la nomina a segretario perpetuo dell’Accademia Cosentina. Fera riprende, inoltre, le polemiche culturali. Al riguardo, fonda con Nicola Serra e Oreste Dito il giornale Cosenza Laica, con cui dà battaglia agli ambienti cattolici più ultrà.

    Sindaco per pochi giorni

    Ricapitoliamo ancora: professore, avvocato, pubblicista, consigliere comunale e accademico cosentino. A Luigi Fera manca solo la carica di sindaco.
    Che arriva nel 1900, col rinnovo del consiglio comunale. Ma il trionfo dura pochissimo: il nuovo consiglio, squassato da faide interne e da compromessi instabili, non ha una maggioranza. Fera diventa sindaco per pochi giorni, poi deve mollare la presa.
    Ma l’appuntamento col successo vero è solo rimandato. Arriva nel 1904, grazie a uno scandalo che il notabile cosentino risolve brillantemente da avvocato.

    Morelli vs Quintieri: due casate a confronto

    Non è una storia di corna, sebbene ci vada vicino. Né un drammone shakespeariano. La contesa familiare tra i Morelli di Rogliano e i Quintieri di Carolei, ricostruita con grande efficacia dal giornalista Luigi Michele Perri nel romanzo storico Il Monocolo (Eri-Rai 2011), è una storiaccia di provincia dai contorni boccacceschi.
    I protagonisti sono Caterina Morelli, figlia unica di Donato, patriota risorgimentale e padrone politico di Rogliano, e suo marito Salvatore Quintieri, fratello minore di Angelo, imprenditore e finanziere caroleano e astro nascente della politica cosentina.
    Deputato nel 1890 e seguace di Francesco Crispi, Angelo Quintieri passa con Giovanni Giolitti nel 1891. Giusto in tempo per candidarsi alle Politiche del 1892.
    Non prima di aver stretto un accordo con Morelli, che nel frattempo è diventato senatore e gli lascia il suo collegio di Rogliano. L’alleanza tra le due famiglie è sancita dal classico matrimonio dinastico: appunto, quello tra Caterina e Salvatore.
    Proprio da questo matrimonio nasce lo scandalo, tuttora gustoso da raccontare.

    Francesco Crispi

    Il figlio della discordia

    La giovane coppia (lei poco più che quattordicenne, lui poco più che ventenne) si stabilisce a Carolei.
    Per un certo periodo, le cose sembrano filare: Salvatore ha qualche propensione extraconiugale di troppo, parrebbe, ma coccola la moglie. Il problema emerge quando non arriva il figlio, il super erede che dovrebbe fondere le casate.
    Nel tentativo di sbloccare la situazione, i due si trasferiscono a Napoli, dove si fanno visitare dal celebre medico Antonio Cardarelli. Il responso non è bellissimo per Angelo: l’infertilità sarebbe responsabilità sua, perché affetto da ipotrofia ai testicoli.
    Nel 1900, tuttavia, Caterina annuncia di essere incinta. Il bambino nasce a Napoli ed è battezzato col nome di Giovanni Donato. Ma la serenità della coppia finisce qui.
    Il piccolo ha appena sei mesi, quando Salvatore denuncia la moglie di due reati pesanti, che avrebbe commesso in alternativa l’uno all’altro: o l’adulterio o la simulazione di parto. Per difendersi, Caterina deve provare di non aver simulato il parto né di aver fatto ricorso alla fecondazione “alternativa”. E che, quindi, come tutti gli orologi rotti, anche Salvatore è in grado di azzeccare l’ora due volte al giorno.
    A questo punto, entra in scena Luigi Fera, che difende la giovane e la fa vincere, anzi stravincere. Non solo Caterina è prosciolta da ogni accusa, ma ottiene la separazione da Salvatore, che è comunque costretto a riconoscere il figlio.
    Questa brillante performance forense diventa un balzo in avanti per la carriera di Fera, che entra nelle grazie del vecchio Morelli.

    Un monumento di Donato Morelli

    Luigi Fera in Parlamento

    Donato Morelli muore nel 1902. Ma l’alleanza dinastica coi Quintieri è evaporata da tempo.
    Luigi Fera approfitta di questa rottura e si candida alle Politiche del 1904 proprio nel collegio di Rogliano, sgomberato tra l’altro anche da Angelo Fera, che ha mollato la politica un anno prima per motivi di salute.
    La competizione elettorale resta comunque uno scontro tra le due casate: i Morelli, o quel che ne resta, rappresentati da Fera, e i Quintieri che tentano di riempire la casella vuota con Luigi, il secondogenito della famiglia caroleana.
    Luigi Quintieri è un giolittiano e perciò gode del favore dei prefetti. Fera no e si candida con il Partito radicale. Ciononostante vince alla grande, anche perché i roglianesi, dopo lo scandalo, non vedono di buon occhio i Quintieri. A questo punto, il neodeputato cosentino ha la strada spianata per una carriera parlamentare brillante, che lo porta a ricoprire importanti cariche ministeriali in fasi a dir poco drammatiche: gli anni della Grande Guerra e l’ascesa del fascismo.

    Giovanni Giolitti

    Un riformista in carriera

    La parabola parlamentare (e poi ministeriale) di Luigi Fera si può definire con un aggettivo: riformista.
    Tutto il resto – il consueto trasformismo, i tentennamenti, i cambi di idee a volte repentini – fa parte senz’altro dello stile dei notabili tardo ottocenteschi. Ma è anche un comportamento quasi obbligato per i centristi laici e moderati come Fera, che rischiano di restare schiacciati tra le due nuove tendenze della politica italiana: l’allargamento del corpo elettorale, che emargina pian piano la borghesia liberale, e i partiti di massa (socialisti e popolari e poi comunisti e fascisti).
    Fera si muove con grande abilità e ottiene grossi risultati. La sua è una politica essenzialmente progressista. Ad esempio, quando promuove la costruzione della tratta ferroviaria Sibari-Crotone (1905) o quando spinge per l’approvazione della legge sulla Calabria (1906).
    Discorso simile a livello urbanistico: è sua la legge che fissa il piano regolatore che amplia il territorio di Cosenza (1912) e lo estende fin quasi dentro i casali e fino quasi a Rende.
    Di particolare rilievo, al riguardo, le polemiche con Francesco Saverio Nitti sull’assetto della proprietà fondiaria, che meritano una rapida riflessione a parte.

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    Francesco Saverio Nitti

    Nitti vs Fera: due meridionalisti a confronto

    Il dibattito tra i due big è fortissimo ed è giocato tutto in casa. Cioè nelle file del Partito radicale, da cui provengono entrambi.
    Riguarda, come anticipato, la situazione delle proprietà agricole e riflette il diverso background dei due.
    Nitti è un economista e parla da tecnocrate: il mercato, tramite libere contrattazioni tra proprietari e contadini, deve risolvere da sé il problema.
    Luigi Fera, al contrario, esprime preoccupazioni sociali e politiche: lo Stato deve intervenire con riforme opportune e deve regolare il mercato, piuttosto selvaggio in questo settore.
    Inutile dire, in questo caso, che le preoccupazioni di Fera risultano più aderenti alla realtà calabrese: sono le stesse cose che, circa quarant’anni prima, diceva Enrico Guicciardi, primo prefetto della Cosenza postunitaria, col supporto di Vincenzo Padula. Ma questa è un’altra storia. La si cita solo per far capire come in Calabria le cose fossero cambiate poco, dall’Unità alle soglie della Grande Guerra.

    Luigi Fera “conservatore”?

    Ci sono due episodi della vita politica di Luigi Fera in apparente controtendenza all’impostazione progressista: l’affossamento alla mozione di Leonida Bissolati per l’abolizione del catechismo nelle scuole elementari e l’appoggio alla conquista della Libia, promossa da Giolitti.
    Il primo, cioè l’affossamento della mozione Bissolati, fu probabilmente un tentativo di evitare la crisi che si profilava nella massoneria, a cui Fera e Bissolati appartenevano.
    La mozione Bissolati è appoggiata dal gran maestro Basilio Ferrari, che propone la censura nei confronti di tutti i deputati massoni che rifiutano l’appoggio alla mozione. Al contrario, è osteggiata da Saverio Fera, sovrano gran commendatore del Rito scozzese e pastore protestante. Luigi Fera e Giolitti provano a evitare il dibattito parlamentare per evitare due cose: la spaccatura del mondo laico e la crisi della massoneria. Non ci riescono.
    Per la guerra di Libia, è doverosa un’altra considerazione: il colonialismo, all’epoca di Fera, non è considerato un male. Anzi. Fera vede come tanti, nell’impresa nordafricana un modo per alleggerire le pressioni sociali che provengono dalle masse contadine del Sud, a cui la conquista di nuovi territori può offrire sbocchi alternativi.

    Truppe coloniali italiane in Libia nel 1912

    Luigi Fera ministro

    Una stranezza di Luigi Fera è l’atteggiamento di fronte alla guerra. Il politico calabrese è di sicuro interventista. Ma non si capisce subito bene con chi. Ovvero se con Austria e Germania o con Inghilterra e Francia.
    Ad ogni modo, in seguito all’ingresso dell’Italia in guerra, Fera fa l’ultimo salto di qualità. Diventa ministro delle Poste nei governi di Paolo Boselli e di Vittorio Emanuele Orlando. Poi, alla fine della guerra, diventa ministro di Grazia e giustizia sotto Giolitti (1919).
    Questa sequenza ministeriale è il massimo del potere e del prestigio raggiunto da un politico calabrese dall’Unità alla crisi del sistema liberale.

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    Vittorio Emanuele Orlando

    Un altro mondo

    L’ascesa politica del fascismo è l’ultima spallata a quel mondo in cui si è formato Luigi Fera. Ma il big cosentino non lo sa. O forse lo sa fin troppo, ma vede nelle squadre di Mussolini il male minore.
    Infatti, Fera appoggia i fascisti e ottiene, in parte i loro consensi nel 1921, quando si candida e risulta eletto per l’ultima volta. Per lui i comunisti sono il vero pericolo, a cui i fascisti si limitano a reagire. Di più: Fera non dispera in una successiva evoluzione democratica del movimento di Mussolini.
    Tuttavia, la situazione precipita col delitto Matteotti (1924) e il parlamentare cosentino, che intuisce di non poter proseguire oltre la propria carriera, si ritira a vita privata.
    Rifiuta la candidatura offertagli dai fascisti e si limita a fare l’avvocato a Roma. Muore nella capitale il 9 maggio 1935, nel momento di massima forza del regime. È decisamente un altro mondo, in cui per Fera e quelli come lui non c’è più posto.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.