Tag: politica

  • Lo strano caso del dottor Tansi e di mister Carlo

    Lo strano caso del dottor Tansi e di mister Carlo

    Seguire le acrobazie politiche di Carlo Tansi può essere un’esperienza sensoriale di rara intensità, in cui si mescolano in parti uguali vertigini e divertimento.
    Già: le sfaccettature del personaggio sono tantissime, le sue contraddizioni pure. Difficile rintracciare una logica nella sua traiettoria (parlare di strategia sarebbe troppo). Impossibile venire a capo della sua comunicazione, semplice e caotica allo stesso tempo.

    Il sistema che t’incatena

    La traiettoria del principe dei geologi sembra essersi conclusa, per il momento, con la conferenza stampa Facebook del 17 luglio, in cui il Nostro si è più o meno “consegnato” ad Amalia Bruni.
    Le motivazioni di questo abbraccio abbondano di salti logici. Tansi, infatti, ha declinato la scelta con la consueta antipolitica: scienziata lei, scienziato lui, chi meglio di loro per dare alla Calabria il meritato destino di progresso?
    Eppoi, ha ribadito il Nostro, giusto per scansare qualche equivoco, il sistema va smantellato dall’interno e se non si sguazza nel fango non si verrà a capo di niente.

    Verrebbe voglia di dar ragione a lui e torto a quel cattivone di de Magistris, che ha reagito con toni e modi da verginella tradita e ha definito l’ex sodale un affamato di poltrone pronto a buttarsi tra le braccia di quella classe politica contro cui aveva detto di tutto e di più. Però i salti logici restano e occorre darne conto.

    Carlo Tansi detto Tanzi non era quello che non faceva coalizione con nessuno per non mescolarsi col “vecchio” e coi profittatori?
    E ancora: non era stato proprio Carlo Tansi detto Tanzi a coniare il Put, un acronimo da cantina sociale che significa Partito unico della torta ed è, appunto, sinonimo di sistema?

    Il percorso di Tansi

    L’abbraccio con la Bruni è iniziato verosimilmente a fine giugno ed è documentato da una serie di post sulla pagina Facebook di Tansi, uno più spassoso dell’altro.
    Il Nostro ha iniziato il 30 giugno, con una missiva inviata a Giuseppi Conte, studiata per profittare della crisi tra l’ex premier e Beppe Grillo: «Sarò al fianco di Conte se costituirà una nuova formazione politica».
    Col secondo post, del 5 luglio, Tansi ha osato di più: ha invocato una Grosse Coalition progressista per fermare il centrodestra di Roberto Occhiuto.

    Il 13 luglio l’arciduca dell’idrogeologia calabra ha iniziato a stringere sulla Bruni e si è detto disposto a mettere da parte l’autocandidatura a governatore. Uno sforzo non indifferente, data la mole e l’iperattività dell’ego tansiano.
    Il 14 luglio, il conte del Cnr ha proclamato urbi et orbi (più verosimilmente, tra Pollino e Stretto) il buon esito dell’incontro con la Bruni.
    Non serve davvero raccontare oltre: chi vuol saperne di più, vada sui profili social del Nostro, dove le occasioni di divertimento non mancano.

    La tansimania

    Riavvolgere il nastro di questi due anni di tansimania, coltivata dal principe dei geologi calabresi, può essere un’esperienza istruttiva su come il civismo e il giustizialismo antipolitico possano essere mezzi politici per far politica. Cioè, in molti casi, per prendere la classica greppia, disprezzata solo se vi aggrappano gli altri.
    Per fare ciò è necessario rispondere a un’altra domanda: cosa ha spinto un brillante ricercatore del Cnr, tra l’altro coccolato dai media, a sporcarsi le mani con la politica? E ancora, cosa ha trasformato il sorridente e piacione “scienziato della porta accanto” in un feroce fustigatore dei (mal)costumi politici altrui? Cosa ha propiziato la metamorfosi di un rotariano doc in Masaniello ’i nuavutri e mangiamassoni?

    Una risposta possibile potrebbe essere: la lunga frequentazione di quegli ambienti politici e sociali su cui ora lancia saette. Una frequentazione da cui ha avuto ruoli e visibilità, ma conclusasi con un trauma: la defenestrazione dalla Protezione civile calabrese, di cui era stato alla guida durante l’amministrazione regionale Oliverio.
    È questo lo spartiacque tra Doctor Carlo e Mr Tansi detto Tanzi.

    La parabola di Tansi

    Indisciplinato come tutte le personalità autoritarie, insofferente a qualsiasi mediazione, indisponibile a qualsiasi confronto in cui non la spuntasse. Tansi detto Tanzi aveva fatto irruzione sulla scena politica calabrese nella canicola estiva del 2019 in maniera a dir poco rumorosa, violando tutti i precetti basilari della comunicazione politica.

    Ha invaso Facebook, trasformandolo in un’arena virtuale da cui sparare a zero sugli avversari, reali, potenziali e virtuali.
    Si è parlato addosso un po’ ovunque e sempre ad alto volume. Ha scansato con zelo ogni tentativo di dialogo politico che contrastasse con il suo obiettivo dichiarato: diventare presidente della Regione. Ovviamente, per fare la rivoluzione e trasformare la Calabria in una specie di California del Mediterraneo.

    L’obiettivo percepito, e probabilmente reale, era un altro: entrare in Consiglio regionale purchessia, con costi e impegno minimi. Infatti, oltre che a guida (verrebbe da dire: Duce) della propria coalizione, si era candidato anche come capolista della sua Tesoro Calabria nella circoscrizione di Cosenza.
    E aveva sfiorato il colpaccio, grazie alla coincidenza miracolosa di tre fattori.

    Il primo, prevedibilissimo, è stato il collasso del centrosinistra e dei cinquestelle calabresi, incapaci di far coalizione persino con se stessi.
    Il secondo, anch’esso prevedibile, è stato la contrazione dei votanti, che gli ha reso possibile sfiorare con non troppi voti la soglia dell’otto per cento.
    Il terzo è stato l’effetto novità, che ora ovviamente non c’è più.

    Il tempo di sopravvivere a un gossip pruriginoso d’inizio estate 2020 e di riprendersi da un fastidioso problema di salute, il Nostro si è rimesso in pista per le Regionali subito dopo la tragica scomparsa della ex presidente Jole Santelli.
    Tansi è rientrato con gli stessi metodi e forse con la speranza di ottenere quegli zerovirgola in più che gli consentirebbero di sedere in Consiglio e diventare collega dei membri del Put.

    Perciò è partito a razzo a novembre, con una lite non leggera con Pino Aprile, non ancora direttore di testata ma leader politico meridionalista. La colpa di Aprile? Avergli detto durante un incontro che sarebbe stato meglio parlare prima di programmi, poi di coalizioni e solo dopo di candidature.

    La Regola Aurea

    L’autore di “Terroni” è stato il primo a fare le spese della Regola Aurea Tansiana e del suo corollario. Secondo questa regola il mondo si divide in tre categorie: Tansi, non Tansi, anti Tansi. Secondo il corollario, i non Tansi che non seguono Tansi diventano automaticamente anti Tansi. Per chiarire con un esempio, Tallini è senz’altro anti Tansi. Ma lo sono anche gli ex interlocutori, Aprile prima e de Magistris poi. Resta un dubbio su Roberto Occhiuto: è anti Tansi perché avversario politico o, più semplicemente, perché non se lo calcola?

    Stavolta, però, le cose si sono fatte più difficili: lo scatafascio del centrosinistra e dei cinquestelle è confermato, ma manca l’effetto novità. E, a proposito di populismo e giustizialismo, è sceso in campo il molto più attrezzato (e apprezzato) Luigi de Magistris. Che, a differenza di Tansi, mastica e pratica la politica per davvero.
    In questa situazione, il principe dei geologi naviga a vista tra una contraddizione e l’altra, sperando che gli elettori calabresi, notoriamente privi di memoria storica, non se ne accorgano. Sempre a proposito di de Magistris: come si metterà Tansi se il retroscena del dialogo a distanza tra il sindaco di Napoli ed Enrico Letta dovesse portare a un dialogo politico?

    Comunque vada sarà (in)successo

    A furia di fare e disfare, Tansi è rimasto più o meno isolato. Ed ecco perché ha cercato aperture a Roma (che sarà “ladrona” e “padrona” ma fa sempre comodo) magari attraverso Conte. Ed ecco perché, dopo aver parlato di Put a tutta forza, ha lanciato l’idea di una Santa Alleanza anti Occhiuto, in cui è entrato effettivamente, della quale si può dare un’interpretazione tutto sommato in linea col personaggio: accoglietemi e scurdammoce ’o passato.

    Intanto, gli osservatori più accreditati danno il ricercatore del Cnr in progressivo sgretolamento. E lui, giustamente, reagisce e resiste come può.
    L’augurio di continuare e perseverare è il minimo. Di sicuro non avrà successo, ma almeno è divertente.

  • Genova per noi | Black bloc e polizia, diario dall’inferno della zona rossa

    Genova per noi | Black bloc e polizia, diario dall’inferno della zona rossa

    Black bloc e polizia, il G8 di Genova è stato l’inferno per la zona rossa. Pensavamo che un altro mondo fosse possibile. Adesso abbiamo raggiunto il porto insicuro di una chiusura individualista, ripiegata e arresa. Ho passato anni a fuggire dall’ombra del ricordo di quella che ero prima di quei giorni.

    Con i piqueteros, leggendo Impero di Toni Negri

    Ero da poco rientrata da una lunga esperienza di vita e lavoro in Argentina, dove le avvisaglie del movimentismo anti sistema erano emerse grazie ad “Impero”, il saggio di Toni Negri e Michel Hardt. Io avevo visto dal vivo il movimento piqueteros, quindi guardavo con un pizzico di sarcasmo e di curiosità ai disobbedienti e al movimento italiano. Non condividevo molte analisi, tuttavia ero parte di quella generazione in un giorno che mai dimenticheremo. Un giorno in cui siamo stati schiacciati tra black bloc e polizia.

    L’Italia mi aveva imborghesito

    All’epoca vivevo a Bologna, dove lavoravo per una multinazionale dei servizi bancari. Che paradosso. Il mio rapporto di coppia era in crisi, il mio compagno si era trasferito a vivere in Calabria. «L’Italia mi aveva imborghesito», sentenziava davanti alle bollette da pagare. Il fine settimana precedente al G8 avevo pranzato dai miei. Erano preoccupati dalle pieghe che la protesta stava assumendo anche sui media, avevano cercato di dissuadermi dal partecipare alla manifestazione programmata per il sabato successivo.

    Quel Casarini non mi piace

    «A me quel Casarini am pies gnanc un poc» (a me quel Casarini non piace manco un po’), diceva mio padre, vecchio comunista avvezzo alle lotte e alle manifestazioni di massa. Mia mamma, l’aveva buttata sul ricatto emotivo: «Mi farai morire di crepacuore». Per non farli preoccupare, li rassicurai, baciandoli, dicendo che non sarei andata a Genova per le proteste contro il G8. Dissi loro che sarei andata in Calabria a trovare Facundo, il mio fidanzato argentino.

    Decidiamo di andare a Genova

    Decidemmo di andare a Genova con i miei colleghi. E poi il Movimento, soprattutto grazie alla mediazione di Agnoletto e alle componenti cattoliche, come Mani Tese, non avrebbe abboccato alle provocazioni. Io, Nicola e Bruno così ci trovammo all’alba di un venerdì di fine luglio caldo e assolato, alla stazione ferroviaria di Bologna, con un piccolo zaino con gli effetti per una gita fuori porta.

    Un viaggio lungo e lento

    Partimmo con l’entusiasmo dei giusti, ci sciroppammo un viaggio lungo e lento. A Bolzaneto incontrammo altri manifestanti, disorientati come noi. Io avevo fretta di raggiungere Genova perché volevo assolutamente partecipare nel primo pomeriggio ad una assemblea organizzata dal movimento “Drop the debt”. Qualcuno ci disse che c’erano dei bus di linea per Genova Marassi, il quartiere dello stadio e delle carceri. Andammo baldanzosi a imbarcarci verso l’ultima tappa del nostro viaggio, prima della tragedia.

    Il clima era cambiato

    Il clima a Genova era cambiato. Una cappa di umidità grigia soffocava la città, cominciammo a vedere fumi neri salire in lontananza da più parti. Numerosi elicotteri volavano nel cielo e il flop flop delle eliche – rumore che assocerò da lì in avanti alla paura, alla violenza e alla sopraffazione – sovrastava di poco quello delle ambulanze.

    Il nostro primo incontro con i black bloc

    A Marassi capimmo di essere finiti in un campo di battaglia. Una ventina di ragazzi, tutti vestiti di nero, casco integrale, mazze di ferro in mano. Erano capeggiati da un porta bandiera che rollava il tempo della marcia, avanzavano spaccando macchine e vetrine. Fu il nostro primo incontro con il black bloc, la falange avanzava indisturbata con la bandiera nera al vento. Rimanemmo bloccati più dallo stupore che dalla paura per una ventina di secondi, poi Bruno ci gridò di scappare. Dallo schieramento di polizia cominciavano a sparare lacrimogeni.

    Verso la zona rossa

    Alcuni manifestanti stavano saccheggiando un supermercato. La polizia era all’angolo opposto, noi ricominciammo a scappare. A quel punto la paura si era già impadronita di me, il disorientamento di fronte alla sproporzione di forze impiegate e ai black bloc, che agivano indisturbati, mi stava facendo salire il panico. Man mano che ci avvicinavamo alla zona rossa, incrociavamo ragazzi come noi terrorizzati, feriti, che scappavano e ci dicevano di allontanarci da lì ma non sapevamo dove andare.

    Hanno ucciso Carlo Giuliani

    A un certo punto sentimmo distintamente degli spari. Mentre scappavo, correvo, senza sapere bene cosa stesse succedendo, in un pulsare frenetico della città, mi vibrò il cellulare in tasca. Impaurita e stupita, lo guardai. Era un Alcatel blu, sullo schermo campeggiava la scritta “mamma”. Risposi simulando un affanno da scalata in montagna, i miei mi sapevano sul Pollino, in Calabria. Senza lasciarmi parlare mi disse: «Ninì, hai visto che hai fatto bene a dar retta ai tuoi genitori e a non andare a Genova! Hanno appena ammazzato un manifestante, un ragazzo come te».
    Era Carlo Giuliani, a piazza Alimonda.

    Alessia Alboresi

    consigliere comunale Corigliano-Rossano

     

  • Alarico, da Mancini a Occhiuto la supercazzola continua

    Alarico, da Mancini a Occhiuto la supercazzola continua

    La questione Alarico è più trasversale e lontana nel tempo di quanto si pensi. La responsabilità di questa operazione di riapparizione del mito, una vera e propria supercazzola, è di «Giacomo Mancini e del festival Invasioni, ovviamente con scopi, senso e obiettivi diversi rispetto a quelli di Mario Occhiuto» – commenta l’antropologo Giovanni Sole, che ha persino scritto un libro (Il Barbaro buono e il falso beato, Rubbettino), dove racconta l’ossessione dei calabresi – dei cosentini in particolare – per gli invasori e l’odio riversato verso i figli più illustri.

    «Telesio è stato perseguitato da questa città rimasta essenzialmente simile a quella raccontata dai viaggiatori del passato». Una comunità capace di «odiare e boicottare – sostiene il docente dell’Unical in pensione – le sue menti migliori, perché i suoi abitanti sono fatti così, spacconi che scimmiottano le grandi metropoli, con una borghesia fondiaria desiderosa di conquistare quarti di nobiltà, senza nessuno spirito di innovazione e cambiamento. Altro che Atene della Calabria!». Giovanni Sole parla del passato per decifrare il presente. «Mario Occhiuto ha capito perfettamente la psicologia dei cosentini rimasta invariata nel corso del tempo e ne ha tratto benefici politici per se stesso». Lo studioso intravede una sostanziale continuità tra la città del leone socialista e quella dell’architetto di Forza Italia.

    Giovanni Sole, antropologo e docente universitario
    La leggenda del re marcatore

    Il tesoro di Alarico sta progressivamente diventando come quello di Tutankhamon. Porta male. Occhiuto fu sfiduciato (poi rieletto con percentuali bulgare) durante la prima consiliatura a metà febbraio del 2016. Il giorno dopo era previsto un convegno sul re dei goti con annesso film, mai girato, che avrebbe dovuto dare lustro a Cosenza e lavoro a un esercito di maestranze locali. Di recente è toccato a Fausto Orsomarso, assessore regionale con delega anche al Turismo, subire gli effetti della maledizione ed essere bersagliato su Facebook.

    Su un manifesto della sua #Calabriastraordinaria tra i marcatori identitari da promuovere è comparso il fantomatico tesoro di Talarico, con una ingombrante “t” in più. E, siccome «non si hanno notizie certe, di quello di Alarico» – sostiene ancora Sole – probabilmente l’autore del testo intendeva riferirsi al «re del morzello di Catanzaro», come si legge in uno dei tanti commenti ironici apparsi sui social. Altri ricordano il brand di cravatte di alta sartoria oppure un delizioso caciocavallo silano.

    Resta nelle cronache di questa città la brochure presentata alla Bit di Milano con l’immagine di Himmler, capo delle SS arrivato a Cosenza anche lui per trovare l’inesistente tesoro. Il sindaco Occhiuto e l’assessore alla Cultura del Comune di Cosenza, Rosaria Succurro, hanno cercato di difendere quella scelta. Come? Virando sul valore storico di quell’episodio e sul solito ritornello delle strumentalizzazioni politiche di avversari e odiatori di varia natura e genere.

    Alarico, il tesoro e il museo che non c’è
    La statua equestre dedicata ad Alarico. Alle spalle, quel che resta dell’ex hotel Jolly

    Il primo cittadino nel re barbaro ha visto, invece, un modo per fare marketing e per cercare di costruire un museo senza reperti, senza un monile o una pietra preziosa del tesoro. Giovanni Sole fa notare come esista anche una «segnaletica nella città vecchia con una freccia che fornisce indicazioni per raggiungere proprio il tesoro di Alarico». E che «le fonti su Alarico non hanno alcun valore storico».

    Poco importa, si direbbe. Gli scavi sono iniziati lo stesso. Poi però li ha bocciati il Mibact. Anche la demolizione dell’edificio destinato ad ospitare il museo è diventata questione per i tribunali. Un classico di Palazzo dei Bruzi in questi anni. Proprio come l’utilizzo di celebrità amiche per promuovere un progetto (Sgarbi, Luttwak o il sinologo Sisci) o il ricorrere di nomi legati ad altre vicissitudini comunali.

    A supportare il Rup della “Riqualificazione della confluenza dei fiumi Crati e Busento e realizzazione del museo di Alarico” è Mario Capalbo, architetto ex socio del sindaco. Occhiuto lo aveva messo al vertice dell’Amaco. Sotto la sua presidenza, però, la municipalizzata ha accumulato perdite per circa 3,5 milioni di euro. Occhiuto per premiarlo di cotanto successo lo aveva “promosso” dirigente del Comune, salvo fare marcia indietro nel giro di poche ore. Ma solo perché aver presieduto l’Amaco fino a poco prima rendeva Capalbo incompatibile col nuovo incarico in municipio. Non con quello da quasi 40mila euro legato ad Alarico però.

    Se ad affiancare il Rup è Capalbo, la direzione dei lavori del fantomatico museo dedicato al barbaro, invece, è stata invece affidata alla Sigeco Engineering. Tra i soci compare Antonino Alvaro, che risulta tra gli indagati dell’inchiesta sul collaudo di piazza Bilotti. Ad oggi sulla confluenza del Crati e del Busento rimane soltanto una statua equestre dedicata al condottiero e lo scheletro del piano terra del Jolly, mostro architettonico già sede dell’Aterp. Nulla più.

  • Oliverio cerca casa, Iacucci sfratta la sua fondazione

    Oliverio cerca casa, Iacucci sfratta la sua fondazione

    Da un po’ di tempo convivevano da separati in casa, poi Franco Iacucci ha sfrattato Mario Oliverio. Il consiglio provinciale di Cosenza, nell’ultima seduta, ha approvato la restituzione dei locali concessi dall’ente alla Fondazione Europa Mezzogiorno Mediterranea (FEMM). Quella, cioè, presieduta dall’ex governatore regionale.

    Il presidente della Provincia ha affidato a poche righe il suo punto di vista. «La attività culturali della Fondazione si sono ridotte nel tempo e non sono più attinenti alle funzioni fondamentali della Provincia. C’è necessità di reperire nuovi locali da allestire ad uffici per la gestione e l’attuazione delle misure provenienti dal PNRR».

    Il megafono di Oliverio

    La FEMM è stata costituita dalla Provincia di Cosenza nel 2005. Lo scopo? Promuovere lo scambio culturale, commerciale ed economico tra il territorio e i Paesi del Mediterraneo. Da più di un anno, però, è il megafono di Oliverio. Complice lo strappo politico (e non solo) avvenuto tra i due, i ben informati parlano di uno Iacucci su tutte le furie, tanto da essersi rivolto al prefetto di Cosenza per riuscire ad ottenere copia degli ultimi bilanci della Fondazione. Da quando tra i due ex sodali non corre più buon sangue l’ente provinciale è stato tagliato fuori da ogni comunicazione o partecipazione alle attività della fondazione. Lontani i tempi in cui era utilizzata da entrambi per fini e progetti comuni.

    La FEMM conta più di 23mila follower su Facebook. Un miracolo dei social, se non fosse che è frutto del cambio nome della pagina La Voce della Calabria, aperta il 1 settembre 2014 e riconducibile – come si evince dai primi post – all’omonimo sito di informazione diretto da Gianfranco Bonofiglio, ex socialista, ex leghista, ora vicino a Luigi de Magistris.

    La pagina diventa ufficialmente Fondazione Europa Mezzogiorno Mediterraneo il 10 ottobre 2020 e cambia l’immagine di profilo con il logo della FEMM il 16 ottobre 2020 (il giorno dei funerali di Jole Santelli). Da quel giorno al 29 aprile 2020 è un susseguirsi di post, interventi, video. Sono tutti incentrati sulla figura di Mario Oliverio e sulle sue proposte, ben lontane dagli obiettivi statutari di cooperazione tra i paesi del Mediterraneo.

     

    La cronologia della pagina della Fondazione mostra la modifica di precedenti intestazioni come La Voce della Calabria

    La Fondazione Europa Mezzogiorno Mediterraneo

    Ma facciamo un passo indietro. Il 20 settembre del 2004 l’allora presidente della Provincia di Cosenza Mario Oliverio ottiene dal Consiglio il via libera per la costituzione della Fondazione Europa Mezzogiorno Mediterraneo con una variazione urgente di bilancio di 200mila euro. Soldi pubblici da destinare a titolo di quota del patrimonio della personalità giuridica della Fondazione.
    Ufficialmente la FEMM nasce per incentivare «il dialogo tra le culture e le civiltà dei Paesi del Mediterraneo coinvolgendo Università Calabresi, Comuni, Regione, forze sociali e soggetti privati». Su 33 consiglieri provinciali presenti 22 votano a favore, 11 si astengono.

    La variazione di bilancio da 200.000 euro votata dalla Provincia per costituire la FEMM

    Ma il riconoscimento per la personalità giuridica non è automatico. La Prefettura di Cosenza interviene (con nota del 20 giugno 2005 prot. 187/3Area 5°) rilevando delle osservazioni sulla struttura organizzativa. La Provincia non può sostituirsi al Cda.
    Nella nota la Prefettura consente la partecipazione dell’assemblea generale della Provincia alla Fondazione, ma puramente come organo consultivo per approvare le linee di indirizzo dei programmi annuali e pluriennali. Tutto viene demandato al consiglio di amministrazione, ritenuto “organo fondamentale della stessa”.
    Il Consiglio provinciale il 26 giugno 2005 prende atto dei rilievi e approva le modifiche statutarie con voto unanime.

    Le modifiche allo Statuto della Fondazione approvate dopo i rilievi della Prefettura

    Le attività della fondazione hanno inizio ufficialmente il 2 settembre 2005 con la sottoscrizione a Napoli del protocollo d’intesa tra Oliverio, il segretario generale della MdM Walter Schwimmer e il presidente della “Fondazione Mediterraneo” Michele Capasso. La FEMM sarà la sede calabrese della Fondazione Mediterraneo. Negli anni si svolgono diversi eventi: “II meeting euromediterraneo”, la mostra “Stracciando i veli”, il “Premio Mediterraneo per le Scienze e la Ricerca”, il “Concerto euromediterraneo” e i seminari sul ruolo del Mezzogiorno nel Mediterraneo.

    Come il PCI degli anni ’50

    «Molte associazioni calabresi sono “progettate” dai politici e dai loro consulenti per strategie di interesse personale e non per l’interesse collettivo ne è il prototipo l’Associazione Europa Mezzogiorno Mediterraneo onlus, il cui Statuto – o meglio, l’organigramma sociale e l’organizzazione gerarchica all’interno dello Statuto – ricorda quello del Partito Comunista degli anni Cinquanta».
    Così, Saverio Alessio, sangiovannese e presidente di Emigrati.it commenta la nascita della FEMM.

    «Mario Oliverio, fondatore filantropo di questa associazione, ha pensato bene, appena insediatosi alla guida della Giunta provinciale di Cosenza, di operare – scrive in un suo intervento – una variazione di bilancio per trasformarla in fondazione. Tutto questo senza alcuna commissione scientifica a valutare l’effettiva validità delle attività svolte dal sodalizio. Se Mario Oliverio è davvero convinto che una fondazione euromediterranea, partorita dalla sua associazione onlus e da nessun’altra delle centinaia che esistono in Calabria sia assolutamente indispensabile per lo sviluppo futuro della nostra Regione, perché non investe i suoi soldi personali in tale ente privato anziché quelli dei contribuenti? E le associazioni onlus che lavorano davvero con quali soldi saranno finanziate se una consistente variazione di bilancio provinciale è stata dovuta all’associazione del presidente della Provincia?». Interrogativi tutti caduti nel vuoto, almeno fino ad oggi.

    Otto euro al mese

    Tutto cambia nella seduta del consiglio provinciale del 28 novembre 2013. Oliverio, con la mente già alla Cittadella, riesce a far approvare un nuovo statuto della Fondazione. Il documento introduce una norma che consente la partecipazione di banche locali e associazioni dei produttori. Un bel modo per finanziarsi l’imminente campagna elettorale.

    Il piano di Oliverio – avallato da Franco Iacucci, suo caposegreteria all’epoca – si compie nel 2014. Il politico sangiovannese è riuscito a imporre la sua candidatura a governatore, mancano pochi giorni alle elezioni regionali. Il 9 ottobre il Consiglio provinciale approva il cambio di sede della Fondazione dall’iniziale Corso Telesio n. 7 a Piazza XV Marzo n. 5. Per questa nuova sede la Fondazione dovrà versare alla Provincia un canone annuo di cento euro. Ovvero 8,33 euro al mese.

    A ratificare l’atto di concessione è il vicepresidente della Fondazione Mario Bozzo. Poco opportuna sarebbe stata infatti una firma da parte di Oliverio nella triplice veste di presidente della Provincia, della Fondazione stessa nonché candidato alla presidenza della Regione.

    FEMM fatale

    Tutto fila liscio per qualche anno. Poi, nel 2019, tra Iacucci e Oliverio qualcosa si rompe e la FEMM non contribuisce a ricucire i rapporti. Il 20 luglio 2020, infatti, Oliverio ritorna sulla scena politica attraverso la fondazione con tanto di conferenza stampa, apertura di sito internet (in manutenzione) e della pagina social, molto attiva fino a poco tempo fa. Meno, parrebbe, dopo la decisione di Iacucci di andare dal prefetto. L’attuale presidente della Provincia ha optato per le maniere forti – o, se preferite, i dispetti – contro il suo predecessore. E ora alla FEMM, dopo aver cambiato orizzonti trascurando il Mediterraneo per la più montana Palla Palla, toccherà cambiare anche casa. Al prezzo di prima non sarà facile trovarne una nuova.

     

  • Civica allo Stato? La politica si divide, l’Accademia sogna

    Civica allo Stato? La politica si divide, l’Accademia sogna

    Il presidente dell’Accademia cosentina, Antonio D’Elia, ne è convinto: la Civica si salva solo se si statalizza. Nei piani ottimistici dell’accademico entro due anni l’operazione si dovrebbe concludere con l’istituzione di una Sezione Civica della Biblioteca Nazionale di Cosenza. A spiegare il da farsi è l’avvocato Antonio Gerace: «Per poter avviare la procedura di statalizzazione è necessario saldare prima i debiti. Su questo lo Stato non transige. Posto che si riesca a sanare il deficit, il procedimento prevede cinque step: parere favorevole del Consiglio comunale e di quello provinciale; delibera dirigenziale Mibact o decreto ministeriale; parere del Cda della Civica; scioglimento dell’ente morale e trasformazione della Biblioteca in sezione Civica della Biblioteca Nazionale». Non esattamente il più rapido degli iter burocratici per una struttura ridotta alla canna del gas.

    Oneri allo Stato, onori all’Accademia

    Morta la vecchia Civica, resterebbe in vita l’Accademia Cosentina. Che di lasciare il passo proprio non ne ha intenzione. Saldati tutti i debiti pregressi – salvo un provvidenziale e sperato condono – tutti gli oneri resterebbero in capo al Mibact (lavoratori, manutenzione, etc.) mentre gli onori all’Accademia. Che, estromessi Comune e Provincia, si aprirebbe all’associazionismo cittadino mantenendo il controllo sul patrimonio librario in qualità di comitato scientifico. Oltre alla valutazione di tutte le opere da acquisire, manterrebbe la paternità sui circa 250mila volumi attualmente presenti che resterebbero nella sede di piazza XV marzo perché beni vincolati dalla Soprintendenza e inalienabili. Il pennacchio sarebbe salvo, gli scempi delle passate gestioni a braccetto con gli enti locali un ricordo da non rinverdire.

    Il bluff a Santa Chiara per risparmiare sull’affitto
    L'ingresso del complesso di Santa Chiara
    L’ingresso del complesso di Santa Chiara

    Qualcosa di simile è già accaduto di recente. Il 24 luglio 2020 il Mibact-Segretariato regionale per la Calabria ha acquisito il Complesso di Santa Chiara, costola della Civica, dall’Agenzia del Demanio. Questo passaggio ha consentito alla Biblioteca di non avere più l’onere di versare i 7000 euro di canone di affitto mensile per la struttura. In che modo? Grazie a un successivo accordo, si è prevista la cessione per un controvalore simbolico di 79mila euro del complesso di Santa Chiara alla Provincia. Il patto non cancella i debiti nei confronti del Demanio, ma almeno non ne genera di nuovi. «Un bluff» lo ha definito il presidente della Provincia, Franco Iacucci, che, se fosse stato fatto per tempo, avrebbe consentito un risparmio di 600mila euro invece di creare un debito di pari entità. Nessuno, però, ci ha pensato prima, neanche Occhiuto che pure per un breve periodo ha guidato contemporaneamente sia il Comune che la Provincia. O, se lo ha fatto, ha aspettato a lungo prima di passare dalle idee ai fatti. Intanto il debito aumentava.

    Civica allo Stato? I debiti non si cancellano

    Il professore Gimigliano propone «l’iscrizione della Civica nel registro dell’Unesco come patrimonio culturale del mondo». L’ipotesi che sia ancora lo Stato a levare le castagne dal fuoco, d’altra parte, al momento non è affatto scontata come si potrebbe credere. Chiare a riguardo le parole di Anna Laura Orrico, ex sottosegretario di Stato ai Beni e le Attività culturali del Governo Conte: «La statalizzazione non risolve la problematica debitoria pregressa. Tale evenienza può verificarsi solo nel momento in cui i soggetti che governano la Civica esprimono in maniera formale una volontà precisa in tal senso». Il Governo ha già stanziato 10 milioni per la biblioteca, chiedere anche che a Roma rinuncino agli affitti arretrati sembrerebbe troppo. Se l’unica speranza a cui aggrapparsi secondo l’Accademia è il trasferimento della biblioteca allo Stato, non sembrano del tutto d’accordo però gli altri soci.

    Municipalizzare la Civica: l’idea c’è, i soldi no

    Il meno intransigente è il presidente della Provincia, Franco Iacucci. «Anche se come ente non abbiamo più la delega alla Cultura, alla statalizzazione pura preferirei una formula mista». Mario Occhiuto, invece, ad aprile 2020 si è rivolto a D’Elia dicendo di essere stanco di foraggiare la Civica, dimenticando forse che Palazzo dei Bruzi non versa un centesimo da un paio d’anni. Poi ha avanzato l’ipotesi di una municipalizzazione dell’ente morale. Se la Biblioteca fosse del Comune – questa la posizione del sindaco – sarebbe possibile un «nuovo indirizzo gestionale». A quello, sosteneva, seguirebbero le «attività propedeutiche al suo effettivo rilancio».

    Non semplice, però, secondo il parere del dirigente comunale del settore Cultura, Francesco Giovinazzo. Che a novembre 2020 ha spiegato ai consiglieri che nel bilancio post dissesto al vaglio del Governo «quello alla Biblioteca è stato considerato come un contributo. Come tale non rappresenterebbe una spesa obbligatoria. Il servizio che ne deriva è catalogato tra quelli non essenziali». Una dichiarazione che, se dovesse trovare conferma, metterebbe una seria ipoteca sul futuro della Civica. Sempre Giovinazzo: «Va sviluppato un ragionamento per stabilire se si configura a carico del Comune un obbligo di partecipazione, se si tratta veramente di un contributo e come è possibile prevedere somme che nel bilancio stabilmente riequilibrato non ci sono». Con la municipalizzazione si troverebbero? Visti i recenti investimenti sulla cultura è difficile dirlo.

    Barricate bipartisan

    Rigida la posizione della consigliera comunale di opposizione Bianca Rende, che boccia la statalizzazione e tira in ballo la Regione. «Per me i volumi della Biblioteca Civica sono inalienabili come i Bronzi di Riace. Difendere la Civica è difendere il genoma di Cosenza. Serve una classe dirigente che pensi alla cultura, nessuno ha ancora portato a compimento la legge regionale che istituisce un sistema unico delle Biblioteche regionali».
    Sulla stessa barricata la collega di maggioranza Annalisa Apicella. «Non si può rinunciare a un patrimonio identitario di Cosenza e di tutta la provincia. Bisogna avere il coraggio di affrontare il tema, anzitutto partendo dallo statuto e senza pregiudizi ideologici, altrimenti non ne usciremo».
    Agli oltranzisti dell’inamovibilità dei libri, la direttrice della biblioteca, Antonella Gentile, ha replicato con sconsolata ironia. «A lasciare deperire e perdere definitivamente il patrimonio librario preferisco un trasferimento ovunque purché i libri siano tutelati e valorizzati».

  • Ponte sullo Stretto, torna la gallina dalle uova d’oro

    Ponte sullo Stretto, torna la gallina dalle uova d’oro

    Per qualcuno è un’opera strategica, per altri, invece, il ponte sullo Stretto è una infrastruttura irrealizzabile. Gli ambientalisti dicono che devasterebbe irreversibilmente il territorio e la fauna marina. Altri ancora, poi, che sarebbe solo un favore alle mafie, dato che ingrasserebbe tanto Cosa Nostra quanto la ‘ndrangheta. È un tema ciclico. Sia sotto il profilo politico, che sotto quello economico. E, come vedremo, anche sotto quello criminale. Il tema della costruzione del ponte sullo Stretto torna costantemente. A intervalli irregolari, ma torna.

    La linea di Roberto Occhiuto

    La possibilità di collegare la sponda reggina con quella messinese, divise da soli tre chilometri di mare, è qualcosa di cui si parla da tempo immemore. Almeno da quarant’anni sotto il profilo politico. Ma qualcuno si è sforzato di trovare traccia anche nella storiografia antica. La prima proposta di realizzazione di un ponte è datata 1866, allorquando il ministro dei Lavori Pubblici Jacini incarica l’ingegnere Alfredo Cottrau, tecnico di fama internazionale, di studiare un progetto di ponte tra le due sponde.
    In questi mesi di pandemia si è spinto molto anche affinché il progetto entrasse nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Il costo del progetto è di circa 4 miliardi (3,9 per la precisione) per coprire una distanza di 3,3 km su una delle zone più a rischio sismico d’Italia.

    L’ultimo a (re)iscriversi al gruppo di sostenitori del ponte sullo Stretto è Roberto Occhiuto. Oggi vicepresidente dei deputati di Forza Italia ma, cosa ancor più rilevante, candidato alla presidenza della Regione Calabria per il centrodestra. «Un collegamento stabile e veloce tra Calabria e Sicilia rappresenta per noi una priorità nazionale. Il ponte non servirebbe solo a 7 milioni di cittadini calabresi e siciliani, ma a tutto il Mezzogiorno e al Paese intero. Sarebbe un viatico di sviluppo, lavoro, crescita e turismo», ha detto all’inizio di luglio, commentando la decisione del Governo presieduto da Mario Draghi, che ha riformulato la propria linea. Impegnandosi, di fatto, al reperimento di risorse per la realizzazione dell’opera.
    Arrivando da Occhiuto, la battaglia pro ponte diventa quindi più di un documento programmatico per il candidato favorito per la vittoria delle prossime Regionali.

    Quanto è già costato il ponte sullo Stretto

    Un’idea. Una chimera, forse. L’atto più concreto riguardante il ponte sullo Stretto è l’esproprio effettuato, ormai qualche decennio fa, ad alcuni malcapitati proprietari dei terreni dove dovrebbe passare l’opera. Che ha già bruciato parecchi quattrini. Per la realizzazione era stata costituita anche una società: la Stretto di Messina SpA. Siamo nel 1981. Nei primi anni ’80, infatti, si inizia a parlare, concretamente, della realizzazione del collegamento tra le due sponde. E allora ci si muove: nella Stretto di Messina, infatti, gli azionisti sono lo Stato e Anas. E, nonostante del ponte non ci sia nemmeno una pietra, l’opera è già costata parecchio: 300 milioni di euro se si considera quanto sborsato per i dipendenti e per varie vicende burocratiche legate agli appalti.

    Ma la cosa più grottesca (e tipicamente italiana) è che la società Stretto di Messina continua a gravare sul bilancio dello Stato, sebbene sia in liquidazione dal 2013. Per la precisione, costa 1500 euro al giorno. Il calcolo è presto fatto: oltre mezzo milione di euro l’anno. E poi, ovviamente, lo stipendio dal commissario liquidatore, le parcelle per i revisori dei conti e una serie di costi incredibili e inspiegabili per una società che non ha mai operato e che ora è ferma da quasi un decennio. Ma non finisce qui.

    Durante uno dei governi presieduti da Silvio Berlusconi, che con Forza Italia è sempre stato uno dei fautori del ponte, la gara d’appalto per la realizzazione dell’opera venne vinta da Impregilo. E ora Impregilo chiede circa 700 milioni di euro in un contenzioso che farebbe aumentare ancor più il bilancio da capogiro dell’opera mai costruita. Da qui, l’ormai nota cantilena dei pro ponte: «Costa meno realizzarlo che non realizzarlo».

    L’impatto ambientale del ponte

    Una delle battaglie più veementi poste contro la costruzione del ponte sullo Stretto è ovviamente quella degli ambientalisti. Da anni Legambiente (ma non solo) si sgola per dimostrare, tramite studi e relazioni, come la costruzione di un’opera così invasiva potrebbe sconvolgere l’ecosistema dello Stretto di Messina. Anche recentemente, le associazioni ambientaliste hanno sottolineato l’insostenibilità del progetto del 2010, che oggi si vorrebbe rilanciare.
    Si tratta di uno studio effettuato dal General contractor Eurolink (capeggiato da Impregilo), da parte del Webuild (società composta da Impregilo-Salini e da Astaldi) di un ponte sospeso ad unica campata della lunghezza di 3.300 metri, sostenuto da torri alte 400 metri. Quella proposta fu abbandonata dopo che Eurolink non produsse, nel marzo 2013, gli approfondimenti economico-finanziari e tecnici richiesti, recedendo dal contratto con la concessionaria Stretto di Messina SpA. Che poi fu messa in liquidazione.

    Da sempre, gli ambientalisti sottolineano come il ponte sullo Stretto sorgerebbe in una delle aree a maggiore rischio sismico del Mediterraneo. Su tutti, basti ricordare il terribile sisma che colpì Messina e Reggio Calabria nel 1908. Gli scavi necessari per l’opera a unica campata potrebbero poi incidere pericolosamente sul delicato equilibrio territoriale dei versanti calabrese e siciliano. Infine, lo Stretto di Messina è caratterizzato da un’alta biodiversità. I più recenti studi localizzano ben dodici siti delle Rete Natura 2000, tutelati dall’Europa ai sensi delle Direttive Habitat e Uccelli.

    Gli appetiti delle cosche 

    Da sempre, infine, l’idea del ponte sullo Stretto sembra ingolosire molto le cosche. Non solo quelle di ‘ndrangheta. Ma anche, ovviamente, gli omologhi siciliani di Cosa Nostra per il versante messinese. A dirlo sono le sentenze irrevocabili. Dal 1985 al 1991, infatti, la provincia di Reggio Calabria verrà interessata da una sanguinosissima guerra di ‘ndrangheta. A fronteggiarsi, due schieramenti agguerritissimi: l’uno, facente capo al cartello De Stefano-Tegano-Libri, l’altro agli Imerti-Condello. Una mattanza durata sei anni che terminerà nel 1991, dopo circa 700 morti ammazzati sull’asfalto, con l’uccisione del giudice Antonino Scopelliti, che avrebbe dovuto rappresentare l’accusa in Cassazione nel maxiprocesso a Cosa Nostra istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
    Una guerra che sarebbe nata (anche) per gli appetiti mafiosi delle famiglie ‘ndranghetiste sul ponte. In quel periodo, infatti, si parla con maggiore insistenza dell’opera.

    Nel 1982 il Gruppo Lambertini presenta alla neonata società concessionaria, la Stretto di Messina S.p.A., il proprio progetto di ponte. Nello stesso anno il ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno, Claudio Signorile, annuncia la realizzazione di «qualcosa» «in tempi brevi». Due anni più tardi si ripresenta agli italiani con una data precisa: «Il ponte si farà entro il ‘94». Nel 1985 il presidente del consiglio Bettino Craxi dichiara che il ponte sarà presto fatto. La Stretto di Messina S.p.A. il 27 dicembre 1985 definisce una convenzione con ANAS e FS. Proprio nel 1985, quando si avviano le ostilità tra le ‘ndrine. E forse non è un caso che la guerra inizi proprio da Villa San Giovanni, località ancor più centrale di Reggio Calabria per la costruzione del ponte.

    «Tra le ragioni alla base della “guerra di mafia” che ha interessato l’area di Reggio Calabria tra il 1985 e il 1991, sembra esserci anche il controllo dei futuri appalti relativi alla costruzione del ponte sullo Stretto», riportano le sentenze ormai definitive. Il ponte sarebbe stato, dunque, il casus belli. Ma anche uno dei motivi della pace, sancita con la garanzia di Cosa Nostra. Come spiega il collaboratore di giustizia Filippo Barreca: «Anche i siciliani presero posizione nel senso che andava imposta la pace fra le cosche del reggino, essendo in gioco grossi interessi economici la cui realizzazione veniva compromessa da quella guerra. Mi riferisco al ponte sullo Stretto nonché alle opere pubbliche che dovevano essere appaltate su Reggio Calabria».

  • Muccino, il trucchetto della Regione per non parlarne più

    Muccino, il trucchetto della Regione per non parlarne più

    L’interrogazione che si era persa e poi fu annullata. Sarebbe il titolo efficace per una ipotetica sceneggiatura sul destino di “Sul cortometraggio Calabria terra mia, del regista Muccino”. Presentata il 21 ottobre del 2020, smarrita nell’oblio delle mille carte della Regione Calabria, ricomparsa dopo otto mesi col destino di essere annullata “per assenza del proponente”.
    Il proponente era Francesco Pitaro. Eletto in una lista che sosteneva Callipo, è passato poco dopo al gruppo Misto. Pitaro alla versione fornita da Giovanni Arruzzolo, presidente del Consiglio regionale, proprio non ci sta.

    Il consigliere c’è, ma non si vede

    «Quel giorno ero presente in aula e ho tenuto anche degli interventi» racconta come prova del suo impegno. In effetti sulla pagina della Regione è riportato il video del suo intervento, con cui annuncia voto contrario ad alcuni provvedimenti che l’opposizione considerava inammissibili.

    «Mi ero allontanato dall’aula – prosegue – perché il mio naturale interlocutore, cioè il presidente Spirlì, era assente. Dunque non avrei avuto nemmeno in quella occasione risposta alla mia interrogazione». Nella seduta precedente, il 18 Giugno, proprio Spirlì aveva chiesto di rimandare la discussione perché non del tutto preparato a fornire informazioni. E «per cortesia istituzionale avevo acconsentito», sostiene Pitaro.

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    Francesco Pitaro, consigliere regionale del gruppo Misto

    Fuga dalla risposta

    Sembra un giochino un po’ infantile, costruito attorno alle pieghe del regolamento per sfuggire all’obbligo istituzionale di dare risposte su un tema che ha fatto sorridere molti. E che, però, ha anche rappresentato una scelta “strategica” e molto orgogliosamente propagandata dell’amministrazione Santelli. In realtà è la misura di una pratica politica che sceglie la furbizia a discapito dell’impegno responsabile, lo sgusciare rispetto alla difesa delle proprie scelte. O, forse, l’unica soluzione per una classe dirigente consapevole dell’indifendibilità di certe operazioni.

    Viene da immaginare gli assessori riuniti e un po’ seccati, in cerca della via di fuga meno imbarazzante per evitare di parlare ancora del corto di Muccino. Poi il colpo di genio di Arruzzolo, che scorgendo vuoto il banco di Pitaro si affretta a dichiarare decaduta la questione. Tattiche elusive, davanti a un argomento imbarazzante dopo la magra figura rimediata dal video. Doveva promuovere la Regione, ha scatenato ilarità e critiche sui social, tra congiuntivi torturati a morte e stereotipi consunti di coppole e bretelle indossate da giovani in improbabili piazze di paesini.

    Uno scontro più corto del filmato

    Il seguito della storia è uno scontro tra il committente e il regista, accusata di aver divulgato il prodotto realizzato senza le necessarie autorizzazioni, con conseguente minaccia di non eseguire il pagamento della cifra pattuita.
    Sembrava il via di una battaglia legale e invece si è giunti presto ad un accordo piuttosto banale: uno sconto, nemmeno sostanzioso. Il Burc racconta che dal milione e 600 mila euro del costo iniziale si è scesi ad un totale di 1.382.729,90 euro.

    Del video intanto non c’è traccia. Scomparso dai social e mai usato sui canali istituzionali, né su quelli destinati alla promozione del territorio. Il presidente facente funzioni ha chiesto al regista alcuni aggiustamenti, mai chiaramente definiti. Pare che sparirà il finocchietto dalla soppressata.

    Pitaro tenta il bis

    Intanto Pitaro non si è arreso. E dopo aver visto decadere la sua interrogazione per una assenza mai davvero avvenuta ha ripresentato il quesito. Certo nemmeno lui è sembrato particolarmente insistente. Da ottobre del 2020, data di presentazione della prima interrogazione, fino a giugno 2021 non risulta abbia marcato stretto la Giunta per sollecitare repliche. «Non avrei potuto fare altro, le regole a riguardo sono stringenti. Il consigliere che propone una interrogazione – spiega – può solo attendere la risposta».

    Intanto, perché in Calabria non ci facciamo mancare niente, dalla graduatoria relativa al finanziamento di grandi eventi culturali sono scomparsi alcuni festival storici. E anche su questo l’implacabile Pitaro ha avanzato richiesta di accesso agli atti.
    «Il 17 giugno ho fatto richiesta di tutti i verbali della Commissione di valutazione. Tuttavia ne sono stati consegnati solo alcuni e non quelli precedenti la fase di annullamento della graduatoria», racconta.  E il materiale pervenuto «non è sufficiente» per poter svolgere il suo mandato.

    Il rimpianto che non ti aspetti

    Le preoccupazioni di Pitaro sembrano ben fondate. Alcuni eventi culturali esclusi sono assai rappresentativi di fermenti culturali vivaci, importanti ed apprezzati. Nell’elenco figurano il Peperoncino Jazz festival, il Festival d’Autunno e gli eventi della Fondazione Trame, cancellati proprio nell’anno in cui Vibo è “Capitale italiana del libro“.

    Al netto delle motivazioni, sono scelte che appaiono come scarsamente sensibili verso le realtà dei luoghi e al successo di certi eventi. Al punto da far affiorare una inattesa nostalgia, quella dei tempi di Oliverio. Sembra un’eresia, eppure è il consigliere Giuseppe Aieta a spiegare che l’allora governatore destinò 7 milioni di euro agli eventi culturali nel triennio 2017/19. L’attuale Giunta ha stanziato per i grandi festival solo un milione e 300 mila euro. Meno dei soldi sborsati per un cortometraggio senza sapore.