Farsi una cultura non ha prezzo. Lo sanno bene alla Cittadella, dove hanno deciso di arricchire gli scaffali della libreria (e non solo) senza badare troppo a spese. Nell’ultimo Burc pubblicato – il numero 60 del 29 luglio – è apparsa infatti una delibera dell’Ufficio di presidenza del Consiglio regionale che ha come oggetto “Adesione proposte di acquisto di libri, pubblicazioni e altro materiale illustrativo o documentario”. L’atto porta la firma del segretario Dina Cristiani e del presidente Giovanni Arruzzolo.
Un omaggio ai visitatori
La dirigente e il politico scrivono di accettare le proposte arrivate da quattro case editrici locali, disponendo di acquistare complessivamente poco meno di 500 volumi per una spesa totale di quasi 14.750 euro. I libri in questione, si legge nel documento, in realtà non amplieranno il bagaglio culturale dei nostri rappresentanti a Palazzo Campanella. Serviranno, invece, ad «omaggiare rappresentanti delle istituzioni, delegazioni, scolaresche o altri soggetti in visita al Consiglio regionale o per la realizzazione di eventi culturali previsti dal Piano della Comunicazione del Consiglio regionale della Calabria».
Qualcuno fa lo sconto
Un atto di generosità, dunque, che meriterebbe un encomio, ma che suscita al contempo qualche perplessità. Dell’opera Calabria letteraria edizione 2021, pubblicata da Città del Sole edizioni, per esempio verrano acquistati solo due volumi su quattro, seppure in 110 copie per ciascun tomo. Considerato lo sconto proposto dall’editore (10,50 euro invece di 15), forse sarebbe stato il caso di prendere anche l’altra metà dei volumi. Uno sconticino (18 euro invece di 20) è arrivato anche da Gangemi editore per le 50 copie di Raccontare Sambatello – Dalle origini ai giorni nostri un passato sempre vivo nella memoria di Matteo Gangemi. Meno disponibile a ribassi di prezzo, invece, la casa editrice Il cerchio dell’immagine, che incasserà 5.250 euro per le 150 copie (35 euro ciascuna) di Un luogo bello di Alessandro Mallamaci.
Quattro volte e mezzo il prezzo base
Quello che stupisce davvero è il prezzo per l’acquisto dell’opera Guida ai siti archeologici del Parco nazionale dell’Aspromonte – Dove la natura incontra l’archeologia. A scriverla è Lino Licari, che da oltre 25 anni si occupa di accompagnare i visitatori attraverso le montagne del Reggino. Il volume in questione, edito da Kaleidon, ai comuni mortali costa 20 euro (o anche meno) da quel che si apprende girovagando per il web. La Regione, però, lo pagherà più del quadruplo: per averne 70 copie ha stanziato 6.240 euro, come se ognuna ne costasse 89,15.
Il logo d’oro
Certo, sarà un’edizione diversa dalle altre. Nella delibera dell’Ufficio di presidenza si legge infatti che «il volume è composto di 128 pagine a colori, con copertina cartonata con stampa a caldo in oro, in edizione “fuori commercio” su cui verrà impresso il logo dell’Ente e saranno dedicate due pagine ad un testo istituzionale». Se cotanti cambiamenti rispetto all’originale meritino un esborso di quasi 5.000 euro in più del previsto potranno spiegarlo solo dai piani alti di Palazzo Campanella. Sempre che gli interessi farlo: in fondo i soldi impiegati per l’acquisto li mettono i contribuenti, non loro.
La questione marittima, quindi dei porti, può costituire una delle opportunità da cogliere per riportare l’economia meridionale in una linea di galleggiamento, dopo i recenti decenni che hanno aumentato il divario rispetto al centro-nord. In un Paese con oltre 8.000 chilometri di coste, la cerniera tra territorio e mondo costituita dai porti è uno degli elementi fondamentali per interpretare il ruolo dell’Italia nell’economia internazionale.
Eppure, nonostante l’evidente natura strategica della questione, tale tema stenta a trovare il posto di rilievo che dovrebbe avere nella discussione pubblica sulle prospettive dell’Italia. Me ne sono occupato in un recente libro, pubblicato da Guida editore: “Il futuro dei sistemi portuali italiani. Governance, spazi marittimi, lavoro”.
I porti meridionali sullo sfondo del PNRR
Anche nel Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza (PNRR) non emergono novità particolarmente significative nella visione del sistema portuale italiano. Prosegue una concezione delle infrastrutture che si disarticola per le diverse modalità, senza un disegno unitario del sistema logistico. Non emerge una prospettiva internazionale in chiave europea e mediterranea. Oggi – ancor di più – si avverte l’esigenza di un progetto geopolitico e geostrategico che sia in grado di collocare gli investimenti infrastrutturali in un perimetro largo composto dalle politiche industriali, logistiche e turistiche su scala internazionale.
Ancora una volta i porti meridionali, che pure movimentano quasi la metà delle merci in arrivo ed in partenza dal nostro Paese, sono rimasti sullo sfondo di una visione tradizionale, ancorata sostanzialmente all’economia italiana di diversi decenni fa, quando il nostro Paese esprimeva capacità competitiva attraverso le grandi industrie settentrionali ed i distretti del nord est.vIntanto tutto lo scenario si è radicalmente modificato, e noi non abbiamo riflettuto sulle modalità attraverso le quali assicurare una continuità competitiva al sistema produttivo nazionale, nell’era delle catene globali del valore, e nel passaggio dal capitalismo dei territori a quello delle piattaforme.
Il treno della rivoluzione tecnologia è passato
L’Italia, ed il Mezzogiorno ancor di più, si è sganciata dal treno della rivoluzione tecnologica, restando in buona parte estranea alla riorganizzazione del capitalismo digitale, se si esclude il decentramento produttivo di alcune industrie alla ricerca tattica di economia di costo. È mancata una visione strategica ed ora se ne vedono le conseguenze, dopo una lunga stasi della produttività totale dei fattori.
Il sistema portuale ha risentito dell’arretramento competitivo nazionale. Non ha colto le opportunità di crescita, mentre si sono sprecati fiumi di inchiostro sull’Italia quale piattaforma logistica del Mediterraneo. Solo l’intuizione di un imprenditore illuminato, quale è stato Angelo Ravano, ha consentito a Gioia Tauro di intercettare parte dello sviluppo mediterraneo del traffico dei contenitori, nel modello del porto di transhipment che ha intercettato i transiti delle navi madre, di dimensione crescente, oggi sino ai 24.000 contenitori per le unità più grandi.
I monopolisti del settore
Ora, in un contesto che rende sempre più solidi i monopoli e gli oligopoli, stiamo consegnando capisaldi decisivi del nostro sistema infrastrutturale ai pochi soggetti che detteranno le condizioni al mercato. Nel caso del trasporto marittimo stanno maturando le condizioni per la realizzazione di un oligopolio bilaterale che stringe legami tra vettori marittimi e terminalisti portuali, particolarmente nel settore dei containers.
MSC è il secondo armatore al mondo, subito dopo Maersk: tra le due aziende si è formata una alleanza che assieme ad altri due raggruppamenti governa quasi il 90% del traffico containers. La stessa MSC sta raggiungendo un dominio particolarmente esteso nei terminal portuali italiani del Mar Tirreno, con il governo dei terminal containers a Gioia Tauro, Napoli, Civitavecchia, Genova.
Gioia Tauro, che aveva conosciuto nella seconda metà degli anni Novanta ed all’inizio del nuovo millennio una crescita particolarmente robusta, sta tornando in questi mesi ai livelli di traffico precedenti. Proprio l’acquisizione del terminal da parte di MSC, che prima era azionista al 50%, ha determinato un rilancio delle quantità di contenitori concentrate nel porto calabrese.
Nel disegno della portualita’ italiana che viene tracciato dal PNRR torna di attualità la vecchia tesi delle due “ascelle” portuali settentrionali, rispettivamente collocate nel Mar Tirreno e nel Mar Adriatico, mentre il resto del sistema è visto sostanzialmente in una funzione ancillare.
Oltretutto, la quota più rilevante delle risorse destinate agli investimenti nella portualità (3,3 miliardi di euro per la durata del PNRR, sino al 2026) è indirizzata per la realizzazione della diga foranea di Genova, con uno stanziamento previsto di 500 milioni di euro, rispetto ad un costo dell’intero progetto pari, secondo le stime più attendibili, a poco meno di 2 miliardi di euro.
Il ruolo delle ZES
La novità più significativa, aggiunta nella fase conclusiva della redazione del PNRR, riguarda il rilancio delle zone economiche speciali (Zes). Il Governo di Mario Draghi, per iniziativa del ministro Mara Carfagna, ha assunto, nell’ambito del Decreto Semplificazioni, l’opportuna iniziativa di varare l’autorizzazione unica per insediare nelle Zes nuovo stabilimenti industriali e logistici: rispetto alle 34 autorizzazioni precedentemente necessarie si tratta di un rilevante passo in avanti per attrarre investimenti e rilanciare lo sviluppo. Questo provvedimento si affianca ai 630 milioni di euro previsti per rafforzare l’armatura infrastrutturale delle Zes, portando a circa 4 miliardi il totale delle risorse stanziate per il sistema portuale italiano nel PNRR.
Lo strumento delle zone economiche speciali, che sono oggi più di 5.000 nel mondo, costituisce una nuova chiave di politica industriale che ha rappresentato la formula di successo dei porti di Tanger Med in Marocco o Shenzhen in Cina. Anche qui, però, non si può pensare che le zone economiche speciali abbiamo successo se il Paese non sarà in grado di intercettare le catene globali del valore con le quali si articola l’economia mondiale. Un solo dato potrebbe aiutare a riflettere: negli anni settanta del secolo passato operavano circa 7.000 grandi aziende multinazionali. Ora questo munero è arrivato a superare quota 140.000: l’Italia, invece, continua ad essere caratterizzata da medie e piccole imprese, se si esclude qualche caso di aziende che però definiamo “multinazionali tascabili”.
La Cina è vicina
La danza del cambiamento è guidata dalla grande dimensione, e gli altri soggetti economici sono sostanzialmente vassalli nella struttura delle catene globali del valore. Senza un riposizionamento economico del tessuto produttivo, nazionale e meridionale, sarà davvero molto difficile tornare a contare nel disegno della geopolitica internazionale, composta da poteri economici che strutturano i mercati, determinando una gerarchia concorrenziale.
Alla base di un disegno strategico così lacunoso sul sistema portuale italiano esiste una carenza di visione geopolitica e geoeconomica. Per l’intera Unione Europea la partita dei prossimi due decenni si giocherà nel Mediterraneo: un quarto dei traffici marittimi mondiali transitano nel Mare Nostrum, all’interno del quale la Cina ha posizionato le due pedine strategiche di posizionamento nel porto del Pireo e nei porti del Nord-Africa. Dal punto di vista militare la Russia e la Turchia stanno progressivamente incrementando la propria sfera di influenza mediante il ricorso ad una presenza militare sempre più visibile, dalla Siria alla Libia.
L’Ue e il Mediterraneo
L’Unione Europea non potrà mai aspirare ad un ruolo nel confronto tra le grandi potenze se non sarà in grado di imporre il proprio punto di vista in casa sua, vale a dire nel sistema mediterraneo. L’Italia potrebbe e dovrebbe svolgere questo ruolo, assieme a Francia, Spagna, Grecia. Il Next Generation EU prevedeva non soltanto azioni nazionali dei singoli membri, ma anche interventi trasversali di diverse Nazioni su temi strategici di interesse comune. Che a nessuno sia venuto in mente di costruire un disegno di consolidamento e di sviluppo per il Southern Range mediterraneo è sintomo di una grave debolezza strategica del pensiero comunitario.
Nulla si dice sulla necessità strategica di potenziare le autostrade del mare tra la sponda nord e quella Sud del Mediterraneo, così come è stato fatto nel Nord Europa, dove questi collegamenti sono finanziati con risorse comunitarie. Sarebbe nell’interesse comunitario intessere una rete fitta di collegamenti marittimi nello spazio mediterraneo per contrastare l’egemonia cinese.
Le connessioni, oltre alle infrastrutture, giocano un ruolo di assoluto primo piano nella politica commerciale internazionale, perché determinano opportunità di scambio che possono modificare anche la mappa delle relazioni internazionali dalla quale dipende il confronto concorrenziale tra i grandi blocchi economici. Si rischia di perdere una grande occasione che riguarda non solo l’Italia, ma l’intera Europa. Nello spazio economico mediterraneo si gioca una delle partite decisive per il posizionamento geostrategico in un mondo che sarà caratterizzato da una globalizzazione sempre più di natura regionale.
La principale innovazione contenuta nella ultima versione del PNRR riguarda lo stretto legame che si costruisce tra piano degli investimenti e riforme per la modernizzazione. Sin dall’inizio questo principio costituiva un pilastro nelle linee guida del Next Generation EU.
Anche per l’organizzazione futura dei porti il disegno riformatore sarà un elemento centrale. Sono previsti una serie di interventi importanti per superare gli immobilismi che hanno rallentato la competitività del sistema italiano. Innanzitutto, la semplificazione normativa dovrebbe consentire tempi di attraversamento minori per la realizzazione degli investimenti.
Poi sarà definito finalmente un regolamento sulle concessioni che si attende dalla legge 84/94, con la definizione dei criteri in base ai quali saranno assegnate ai privati le concessioni delle attività economiche nei porti.
Si vedrà come saranno superare le resistenze che si preannunziano già per le concessioni turistico ricreative, per le quali oggi esiste una legge nazionale, in ampio e chiaro contrasto con la normativa comunitaria, che prevede una proroga di queste concessioni al 2033.
Riforme con una visione
Proprio sul fronte delle riforme si potrà misurare l’efficacia delle azioni previste dal PNRR. Superare l’ingessamento burocratico – che ha sinora impedito una risposta competitiva dei porti italiani rispetto alla evoluzione dei mercati – sarà la sfida fondamentale per consentire al sistema portuale italiano di supportare il tessuto industriale mediante una adeguata organizzazione logistica.
Resta però la necessità di allargare la vista, e di considerare il futuro della portualità italiana all’interno di un orizzonte più vasto, connettendola al rilancio industriale, alla logistica, al ridisegno delle relazioni internazionali. Non si tratta solo di costruire infrastrutture. È necessario avere una visione.
E non dobbiamo nemmeno dimenticare che l’economia nazionale continua ad essere caratterizzata da una componente di produzione sommersa ed illegale. I porti rispecchiano anche queste antiche distorsioni del nostro Paese, anche e soprattutto nel Mezzogiorno. Ed i porti italiani, anche quelli meridionali, si caratterizzano per tutta una serie di traffici illegali: dal traffico di armi a quello della droga, dalle esportazioni di rifiuti pericolosi alla importazioni di prodotti contraffatti.
Stroncare l’illegalità è un requisito indispensabile per rilanciare la portualità nazionale nello scenario dell’economia globalizzata dei nostri tempi. Oggi invece siamo stretti nella doppia gabbia di un modello economico entrato in crisi irreversibile, e di un sistema che spesso funziona andando oltre la soglia della legalità.
Il sistema a un bivio
Il combinato disposto di questi due mali conduce alla marginalizzazione dell’Italia e del suo Mezzogiorno. Le ingenti risorse che l’Unione Europea ha deciso di investire in Italia servono proprio a riscrivere i meccanismi di funzionamento del sistema. I prossimi passi sulle riforme saranno davvero decisivi. I primi tre pilastri che stiamo affrontando riguardano la riforma della giustizia, la legge sulla concorrenza, la riforma delle concessioni. Si vedrà dall’esito finale delle votazioni parlamentari se ne usciremo con adattamenti gattopardeschi oppure se, una volta tanto, decideremo davvero di imboccare la strada, difficile ma necessaria, del cambiamento e della trasformazione.
Milioni di euro destinati all’edilizia popolare nel centro storico di Cosenza dirottati su altre zone della città, incluso un belvedere sul Crati. Le ultime variazioni agli interventi previsti dall’Agenda Urbana – un maxi finanziamento destinato al capoluogo e alla vicina Rende – hanno animato il consiglio comunale di ieri a Palazzo dei Bruzi. A scontrarsi, la consigliera d’opposizione Bianca Rende e il vice sindaco – e probabile candidato alla successione di Occhiuto per il centrodestra – Francesco Caruso. Secondo la prima, infatti, la strategia adottata dalla maggioranza penalizzerebbe per l’ennesima volta la parte antica della città, privilegiandone, al contrario, altre. E alimentando il sospetto che, più che l’urbanistica, ad orientare le scelte possano essere state le elezioni alle porte.
I soldi li mette l’Aterp
Tutto ruota intorno a una delle linee d’intervento previste inizialmente. Era la numero 9.4.1 e prevedeva, tra le altre cose, «Riqualificazione e miglioramento sismici di Palazzo Bombini Longo». Nel corso dell’istruttoria è venuto fuori che buona parte del denaro destinato ai lavori – 2,5 milioni sui 3,35 totali stimati – sarebbe arrivato dall’Aterp. Pertanto sarebbe stato possibile dirottare i fondi del municipio su altri progetti in elenco. Uno in particolare ha fatto storcere il naso alla consigliera. Si tratta della «Realizzazione spazi di partecipazione e inclusione sociale nei parchi urbani della città di Cosenza: Belvedere sul fiume Crati», che, stando alla delibera di Giunta 72/2021, ha visto rimpinguato il budget di un milione e 100mila euro.
Dai palazzi decrepiti al belvedere sul Crati
Niente più contrasto al disagio abitativo a Cosenza vecchia, quindi, e un occhio di riguardo al turismo invece. «Perché – ha chiesto in aula Rende – le economie risultanti dall’intervento su palazzo Bombini, anziché essere reinvestite su questa misura, alla luce dei crolli quotidiani su Cosenza storica, si traducono in un rimpolpamento per un intervento che è il Belvedere sul fiume Crati?». Il riferimento all’altra misura riguarda soprattutto il rione Santa Lucia, nel quale sarebbero possibili gli agognati espropri (e la successiva riqualificazione) di fabbricati problematici.
«Agenda urbana – ha replicato Caruso – non prevede la possibilità di utilizzare risorse finanziarie per coprire spese di esproprio. Su Santa Lucia abbiamo elaborato una strategia specifica, destinando 2 milioni e 58 mila euro, che prevede interventi anche su edifici che attualmente sono ancora privati, ma che stiamo per espropriare avvalendoci del Contratto di quartiere, per un importo complessivo di circa 4 milioni, che ci consentirà di acquisire gli immobili su cui poi intervenire con i due milioni e 58 mila euro del programma di Agenda Urbana».
Una frattura ancora da ricomporre
Come mai non utilizzare la possibilità di espropriare edifici del centro storico, finora definita impossibile a più riprese dal municipio, per intervenire su qualcun altro di essi attraverso i 90 milioni in arrivo dal Mibact con il Cis allora? Una domanda che ieri nessuno ha fatto in aula.
E il belvedere sul Crati contestato dalla consigliera invece? Per il vice sindaco non si tratterebbe solo di «un intervento per valorizzare l’area a fini turistici». Stimolerebbe, al contrario, una «rigenerazione importante che si pone come elemento di ricucitura e ricomposizione di una frattura con il centro storico». Più o meno quello che è già stato detto a proposito del ponte di Calatrava, anch’esso realizzato con una quota di fondi destinati in origine all’edilizia popolare. Quanto la frattura con il centro storico si sia ricomposta grazie all’opera dell’archistar valeriana resta, per usare un eufemismo, poco evidente.
Fa acqua da tutte le parti. Con l’aggravante che si tratta di acqua sporca, che fuoriesce dagli scarichi fognari attraverso troppe tubature non regolarmente collettate e finisce direttamente e abusivamente nei corsi d’acqua che sfociano a mare. Da anni il sistema di depurazione calabrese minaccia – e l’inchiesta Archimede ne è una prova – lo stato di salute del mare degli oltre 800 km di costa tra Jonio e Tirreno. Proprio sul litorale ovest molto spesso appaiono enormi chiazze, strisce e bollicine giallastre, che inibiscono i bagnanti dalla voglia di fare un tuffo e, in generale, rischiano di tenere lontani i turisti.
Le istituzioni minimizzano, i cittadini si indignano
E così sono ripartite le polemiche, tra social network, comunicati e conferenze stampa di assessori e sindaci che accusavano i cittadini indignati di fare «cattiva pubblicità» al Tirreno calabrese con la diffusione di «immagini di mare sporco non veritiere». Non si tratta di «merda», ha spiegato Fausto Orsomarso, ma di semplice e naturale «fioritura algale» e chi dice il contrario rischia una denuncia.
Il giudizio dell’esperto
Una analisi approfondita prova a farla un veterano dell’ingegneria idraulica dell’Università della Calabria. Il professor Paolo Veltri spiega che «il mare calabrese è di tipo oligotrofico, cioè presenta pochi nutrienti e, anche in presenza di alte temperature, non dà luogo a fioritura di alghe. Può succedere – sostiene Veltri – ma non è di certo un fenomeno sistematico». Il problema dell’acqua marrone del Tirreno resta quella depurazione finita a più riprese nel mirino della magistratura.
Promesse e protocolli
Intanto, mentre Capitano Ultimo ha promesso lo sblocco dei fondi – circa 70 milioni di euro – per sanare le procedure di infrazione e i depuratori malfunzionanti, si aspetta l’adesione di tutti e 21 i Comuni del Tirreno cosentino al protocollo d’intesa promosso dalla Provincia di Cosenza su input determinante del comitato “Mare Pulito”. Si chiede soprattutto monitoraggiocostante e la trasparenza sui dati dei sistemi di depurazione.
Un turista israeliano pensava fosse stato bombardato il centro storico di Cosenza. La professoressa Marta Maddalon racconta questo aneddoto durante il Sesto senso di marcia, il tour fra le macerie della città vecchia organizzato stamane dal Comitato Piazza Piccola. Succede a via Galeazzo Tarsia, sventrata e abbandonata dopo alcuni crolli. L’idea del Sesto senso di marcia nasce in contrapposizione ai Cinque sensi di marcia, ideato e organizzato dall’assessorato alla Cultura del Comune di Cosenza, guidato da Rosaria Succurro.
Crolli e carcasse
Crolli, carcasse di auto e un sole da controra accolgono i camminatori del Sesto senso di marcia a Santa Lucia. Ma «le zone più colpite – commenta Stefano Catanzariti del Comitato Piazza Piccola – sono anche la Garrubba e via Giuseppe Campagna». L’abbandono del centro storico non è una questione vicina nel tempo. Sono «30 anni di abbandono diffuso, assenza istituzionale e servizi spostati altrove». E poi ci si lamenta se cresce il disagio sociale.
Catanzariti si propone di «sovvertire l’idea che il centro storico sia un problema solo dei residenti». Residenti e abitazioni in mano a molteplici eredi sono uno degli ostacoli alla sua messa in sicurezza. Ecco perché l’attivista punta tutto su «una legge speciale che dovrebbero caldeggiare amministrazioni locali e parlamentari». C’è da capire ancora la sua applicabilità giuridica a questo contesto.
Marta e John, l’acqua fino alla testa a via Gaeta
«Avevamo l’acqua fino alla testa, per più di un anno». Marta Maddalon è una linguista dell’Unical che vive insieme al glottologo John Trumper proprio in via Galeazzo di Tarsia.
«I topi erano centinaia, abbiamo passato mesi di inferno, era tutto bloccato» – continua la professoressa universitaria – e le «macerie sono state lì finché non abbiamo bloccato corso Telesio chiedendo che venissero rimosse».
Quando «si abbatte succede anche questo» – precisa la Maddalon: «Quelle case non erano a pericolo crollo».
Perché «quando una casa è recuperabile, la si svuota lasciando le pareti perimetrali per non dare l’idea di un bombardamento». E i turisti israeliani, abituati a situazioni di conflitto, non hanno avuto difficoltà a notarlo.
Demolire e mandare via la gente
«Tutta l’area di Santa Lucia risulta chiusa e transennata con enormi difficoltà per chi ci vive». Parole pronunciate dell’attivista Roberto Panza davanti a una piccola folla di camminatori in pausa. E se i «contratti di quartiere hanno fallito, serve comunque verificare – puntualizza Panza – il percorso dei milioni che la settimana scorsa il Comune ha destinato a Santa Lucia, ma noi crediamo sia sempre il solito giochetto».
Gli attivisti temono il destino di altri centri storici: buttare giù e demolire, mandare via la gente per favorire la nascita di b&b.
Timori e proposte si uniscono al caldo che continua a battere duro. Un pugno di superstiti del tour nel centro storico raggiunge alcune sedi istituzionali, compreso Palazzo dei bruzi. In dono portano una pietra e una cartolina della città vecchia. Una di quelle dei crolli, giusto per ricordare di aggiornare i cinque sensi di marcia a sei.
C’è un retroscena di alcuni mesi fa che potrebbe gettare luci (e proiettare ombre) sull’attuale bailamme del centrodestra calabrese, che si appresta, fatti salvi sorprese e terremoti, a vincere le prossime Regionali. Con un unico problema sul tappeto: il quanto.
Riavvolgiamo il nastro. Il dietro le quinte risalirebbe alla scorsa primavera e avrebbe due protagoniste: Wanda Ferro e Giorgia Meloni. Quest’ultima, stando ai bene informati, avrebbe gelato la combattiva deputata, che covava da tempo l’ambizione a succedere alla scomparsa Jole Santelli, magari per prendersi una rivincita sulle sfigate Amministrative del 2014.
Nulla da fare, avrebbe detto la ducessa di Trastevere: fino alle prossime politiche, meglio evitare la Calabria, fonte di guai.
Che per Fdi, tra l’altro, non sono stati pochi né leggeri: si pensi agli indagati e agli ammanettati eccellenti, frutto spesso di una campagna acquisti non troppo cauta (come nel caso di Giancarlo Pittelli, all’epoca di Rinascita Scott fresco di trasloco da Forza Italia).
La Calabria, tra le varie controindicazioni di cui i politici romani devono tener conto, ha anche la facilità con cui avvengono indagini e arresti. Lo diciamo con tutto il garantismo possibile, ma pure con la consapevolezza che in politica e per l’opinione pubblica le manette sono sempre micidiali, anche quando l’ammanettato viene prosciolto. E allora, come mai – è proprio il caso di dire – questo ritorno di fiamma? La risposta è, ovviamente, nei corridoi della Roma “che conta”.
La pietra di scambio
Si è detto e ridetto che la scintilla sarebbe esplosa per la mancata assegnazione ai meloniani della poltrona in Rai. Ma è solo una scintilla e forse neppure troppo grande per provocare tanto incendio.
Secondo gli addetti ai lavori il problema vero riguarderebbe le prossime Politiche e starebbe nel mix micidiale tra il patto di coalizione che lega il partito degli ex An con Lega e Fi e la composizione del prossimo Parlamento, dimezzato dal referendum dello scorso autunno. Un cocktail da cui le ambizioni della Giorgia nazionale potrebbero subire un drastico ridimensionamento. Vediamo come.
Il patto politico prevedeva che seggi e collegi dovrebbero essere distribuiti in base alle proporzioni elettorali ottenute nel 2018. Se fosse confermato, la ducessa incapperebbe male: a lei toccherebbe poco meno del cinque per cento della torta, che varrebbe meno di una guarnizione di zucchero in un Parlamento bonsai.
Questo timore, motivatissimo, potrebbe spiegare tutte le mosse della Nostra, che si è arroccata a destra, restando all’opposizione mentre gli altri si apprestavano a sostenere Draghi, e ha radicalizzato le proprie posizioni pur continuando a governare nelle realtà regionali e locali in cui il centrodestra è in maggioranze.
A parti e geografia invertite, sembra lo stesso scenario del 2011.
Di lotta e di governo
Nel 2011 l’anomalia non era l’Italia ma la Calabria. Qui Roberto Occhiuto, che era all’opposizione a Roma, aveva piazzato l’Udc in posizioni di governo, in cambio di notevoli dividendi politici: assessorati regionali (anche per placare gli appetiti degli avversari interni, reali e potenziali, a partire dai Trematerra), postazioni di comando a tutti i livelli, il Comune di Cosenza, passato per la prima volta a destra (inclusa quella ex neofascista) grazie a Mario Occhiuto.
Oggi si è rovesciato tutto: Giorgina governa nelle realtà locali assieme agli alleati romani, ma è la principale oppositrice di Draghi. Anche lei, come Roberto Occhiuto 1.0, di lotta e di governo. Nel frattempo, fa di più: la campagna acquisti, innanzitutto tra gli alleati part time e dove può.
Così facendo, è lievitata nei sondaggi, che la danno, a seconda dei casi e delle committenze, per prima o per primissima.
Ma con questi chiari di luna l’insidia è dietro l’angolo, perché ti puoi gonfiare di voti e restare marginale lo stesso. E, peggio ancora, se non hai strutture forti di partito ma ti affidi ai consensi dei notabili vecchi (qui da noi i Morrone) e più o meno nuovi (l’immarcescibile Fausto Orsomarso), rischi l’evaporazione.
A tacere di un altro rischio: l’iperattivismo delle Procure, che in Calabria sono scatenate e promettono fuoco e fiamme.
Ce n’è abbastanza per dire che la Calabria non è solo pericolosa ma può portare pure sfiga: come dare torto alla Meloni?
E allora l’unica soluzione sarebbe: arraffare più voti e ruoli sul territorio per rivenderli bene a Roma, anche, se e quando (come ora) serve, a costo di far saltare il banco.
Dinamiche (im)politiche
Dunque, si risveglia Giorgia, si risveglia Wanda – che, a dirla tutta, forse non ha mai dormito – e rialzano la posta. Va da sé che anche un bambino capirebbe che è solo un modo di apparare le cose. Un messaggio non troppo a distanza per far capire agli attuali alleati part time che o mollano qualche osso oppure iniziano i problemi.
Intendiamoci, la Calabria resta una terra “maledetta” da cui guardarsi a vista, per chi è abituato a negoziare in certi ristoranti della Roma bene. Tuttavia, da noi si gioca la partita più grossa, tolto ovviamente il big match della Capitale: la Regione, dove la vittoria dovrebbe essere cosa fatta, più 83 Comuni, di cui il più importante è Cosenza.
Partita grossa e complicata: Cosenza sarà pure una città declinante, a livello economico e demografico, ma resta il capoluogo di una provincia che è metà regione e, soprattutto, è il quartier generale della famiglia Occhiuto.
Non è un caso che, per completare il puzzle, siano utilissimi anche i retroscena cosentini. Uno, in particolare, riguarda la scelta del “campione” che dovrebbe prendere il posto del non più candidabile Mario Occhiuto: il mite e fine Francesco Caruso, che dovrebbe rivendicare l’eredità dell’archistar, il quale per ringraziare gli farebbe da vice.
La voce più accreditata sostiene che, per meglio indorare la pillola con alcuni potentati cosentini, Roberto Occhiuto avrebbe tentato di attribuire la candidatura di Caruso a Fratelli d’Italia.
E i meloniani forse accetterebbero, perché i loro big cosentini (i Morrone e Fausto Orsomarso) sono proiettati sulla scala regionale, e lascerebbero spazio per un’altra partita delicata, che farebbe comodo a Roberto Occhiuto: l’affaire Gentile.
Pino Gentile, il terzo comodo
La famiglia Gentile sta a Cosenza come l’Impero Ottomano alla vecchia Europa: sono declinanti ma vitali e, soprattutto, controllano ancora molti voti. Nessuno, ancora, può evitare di fare i conti con loro, non foss’altro per aggirarli o affrontarli. Meglio, quando si può, averli alleati. E quest’alleanza per Roberto Occhiuto è una necessità forte, anche per dinamiche politiche che non dipendono da lui.
Infatti, Andrea Gentile, figlio di Tonino l’ex senatore di Fi ed ex big di Ncd, è il primo dei non eletti di Cosenza alla Camera. Quindi, se Roberto diventasse governatore e lasciasse il posto, Gentile Jr entrerebbe a Montecitorio e risveglierebbe il potere della vecchia dinastia cosentina.
Non a caso, Pino Gentile sarebbe pronto con una lista per appoggiare Occhiuto nella scalata a Germaneto e a fornire il suo appoggio anche a Cosenza.
Un equilibrio delicatissimo da gestire perché i calabresi hanno capito benissimo una cosa: la Calabria si vince o si perde da Cosenza e dalla sua provincia. E questo sin dai tempi di Loiero.
Tiriamo le somme
E la Meloni, quindi la Ferro, in tutto questo? Fanno in Calabria quel che fanno in tutto il resto d’Italia, dove governano o stanno all’opposizione col resto del centrodestra: rompono le scatole per ottenere di più.
In questo caso, la Calabria pesa come un Comune del Lazio o una Provincia della Lombardia: è una pietra di scambio. Può essere barattata con più seggi alle prossime Politiche o con un congruo numero di assessorati a Roma, la città in cui il mandibolone del Duce resta un’icona pop in vari strati della popolazione.
In Calabria, Fdi ha, al momento, il massimo che poteva ottenere nel 2020: lavicepresidenza del Consiglio regionale, l’assessorato chiave del Turismo e le Ferrovie della Calabria, appaltate anch’esse a Fausto Orsomarso.
Gli analisti sono convinti che la quadra si dovrebbe trovare con la cessione della presidenza o della vicepresidenza, probabilmente alla scalpitante Wanda, che al momento è anche la campionessa di Catanzaro, senz’altro per meriti suoi ma anche per i guai giudiziari capitati a Mimmo Tallini.
I bene informati riferiscono di recenti consultazioni romane di Roberto Occhiuto per risolvere il problema e a breve avremo la risposta al quesito che affanna la politica calabrese: quanti dividendi dovranno cedere a Roma per consentirgli di governare la Calabria?
Cosenza è la seconda provincia per numero di intimidazioni agli amministratori locali dopo Napoli nel 2020. Sono 26 rispetto ai 17 del 2019. Il numero complessivo delle intimidazioni è sceso a 12 nel primo semestre del 2021, rispetto ai 16 dello stesso periodo nel 2020. La Calabria si piazza al quinto posto tra tutte le regioni nell’analisi relativa ai trend del primo trimestre del 2021.
Sono dati emersi dal report dell’Osservatorio nazionale sul fenomeno degli atti intimidatori nei confronti degli amministratori locali.
Garantire sicurezza ai sindaci
Dobbiamo garantire ai sindaci la giusta sicurezza, la tranquillità di poter svolgere il proprio mandato senza «pressioni” o delegittimazioni. Altrimenti diventerà sempre più difficile e rischioso svolgere l’attività di amministratore pubblico».
Sono parole espresse da Franco Iacucci, presidente della Provincia di Cosenza. Stamane ha partecipato – on line – come delegato dell’Upi (Unione province italiane) alla riunione dell’Osservatorio nazionale sul fenomeno degli atti intimidatori nei confronti degli amministratori. Erano presenti il ministro degli Interni, Luciana Lamorgese e il sottosegretario Ivan Scalfarotto.
Suo malgrado e certamente per necessità, almeno sulle mascherine il Capitano Ultimo è stato un precursore. Il volto lo copre da tanti anni, più di quelli trascorsi da quando catturò Totò Riina. Oggi, però, Sergio de Caprio non è più un uomo dell’Arma bensì un politico atipico. Che continua a definirsi «carabiniere straccione» e che ha in mano un settore delicatissimo e complicato qual è l’ambiente calabrese.
Il video di propaganda
La delega all’Ambiente gli è stata affidata, com’è noto, la compianta Jole Santelli annunciandolo con una conferenza stampa show – con tanto di trailer che vi riproponiamo sotto – che si tenne a neanche un mese dalla sua elezione a presidente della Regione.
Non in quella Calabria che si disse di voler trasformare in «una grande riserva naturale», ma in un elegante sala di Montecitorio. «Sono nato dove il vento corre libero e non c’è niente che spezza i raggi del sole», dice di sé su Twitter il Capitano Ultimo, impregnando ogni post della retorica del «popolo della strada» e della «fratellanza» contro «l’avidità del dominio».
Diciotto mesi di annunci
Se con lui all’assessorato all’Ambiente sia stata fatta «una scelta chiara per la #Calabria che vuole #dialogo e #democrazia contro ogni autoritarismo politico o mafioso» e se si stia concretizzando l’obiettivo di «tutelare l’autodeterminazione delle comunità calabresi» spetta agli stessi abitanti della regione valutarlo. Intanto però dalla sua nomina sono passati 18 lunghi mesi e di annunci Ultimo ne ha fatti tanti. Il più recente riguarda un “problemone” storico come quello della depurazione.
«Abbiamo sbloccato situazioni – ha dichiarato lo scorso 21 luglio – che erano ferme da anni. Le abbiamo monitorate con i sindaci e con i tecnici dei Comuni. Abbiamo preparato 125 interventi su 120 Comuni e finanziato le progettazioni con 65 milioni di euro già approvati, come anticipo sul Fondo di coesione e sviluppo, ai quali si aggiungeranno quasi 200 interventi, ridimensionati su 100 milioni di euro». Tutto questo «si chiama programmazione», ha aggiunto. Gli effetti concreti sul territorio di tanta capacità programmatica, però, quando la seconda estate del suo assessorato è già in parte compromessa e inchieste come quella della Procura di Paola svelano situazioni quantomeno imbarazzanti, stentano ancora a rivelarsi.
Certamente la questione è atavica. E il «mare da bere» i calabresi, in particolare in alcuni tratti del litorale tirrenico, se lo sognano fin dai tempi delle scuse pubbliche di Agazio Loiero, i cui successori non sembrano aver fatto meglio. Intanto se ne occupano le Procure: quelle di Vibo e Lamezia hanno creato una sorta di team interforze per monitorare l’inquinamento del mare. E i politici di ogni schieramento che minacciano di denunciare chiunque dica che il mare è inquinato si ritrovano a fare i conti con ciclici imbarazzi.
L’assessore smentito dal “burokrate”
A Ultimo capita anche di puntare il dito contro i «tanti burokrati che cercano solo il dominio». Ma chissà cosa pensa di quelli che hanno la responsabilità amministrativa del suo settore alla Cittadella. Un caso, anche questo recente, fa capire quanto sia disarmante misurare la distanza tra le parole e la realtà, tra gli annunci e le carte. È successo a San Ferdinando, Comune della Piana di Gioia Tauro nel cui territorio sfocia un fiume, il Mesima. Attraversa buona parte dell’entroterra vibonese ed è indicato da anni come portatore di inquinamento perché qualcuno ci sversa dentro reflui e liquami di ogni tipo.
Il Comune di San Ferdinando si dà da fare per cercare di evitare che anche quest’anno arrivi a mare una certa portata di schifezze. Ma con pochi fondi l’unica soluzione praticabile secondo l’ente è ancora una volta quella dello sbarramento. Realizzare, cioè, una sorta di diga di sabbia con dei tubi che ci passano in mezzo per cercare di filtrare i liquidi inquinanti prima che sfocino a mare. Il Comune avvia quelle che vengono definite interlocuzioni istituzionali e già a marzo incontra Ultimo. L’ultima riunione risale al 30 giugno. «L’assessore De Caprio – ha fatto sapere l’amministrazione di San Ferdinando – ha garantito il sopralluogo immediato da parte di Calabria Verde in previsione dello sbarramento della foce».
Succede però che il Wwf insorga perché ritiene lo sbarramento non risolutorio e dannoso per l’ecosistema dell’area e che chieda alla Regione se abbia autorizzato o finanziato interventi simili. La risposta del direttore generale del dipartimento Ambiente è stringatissima, ma eloquente. «Non risultano al momento interventi finanziati da questo Dipartimento per lavori sul fiume Mesima, né richieste di autorizzazioni per la realizzazione di interventi». In sostanza il dirigente generale smentisce ciò che Ultimo aveva garantito agli amministratori locali.
Le ultime parole famose
Il comunicato sul sito web della Regione porta la data del 3 novembre 2020. Il titolo è: «Rifiuti, De Caprio: “Ecco il piano che cambierà la regione”». L’attacco, con le dichiarazioni dell’assessore-carabiniere, è ancora più deciso: «Abbiamo approvato le linee guida del Piano di gestione rifiuti regionale, che ci porterà a discariche zero entro due anni». È un «provvedimento – continua Ultimo – completo, di sistema. Lo faremo alla luce del sole per la Calabria e insieme ai calabresi». Un anno è quasi già passato, quel Piano non è finora mai arrivato nell’aula del consiglio regionale, che intanto approva cose evidentemente più urgenti come il tg web di Palazzo Campanella. È rimasto, dunque, solo un atto di indirizzo.
Dal privato al… privato
In vigore c’è invece quello approvato nel 2016 dalla maggioranza che allora sosteneva Mario Oliverio. Prevedeva la realizzazione di una serie di impianti per i quali a distanza di 5 anni si registrano forti ritardi. Le conseguenze di tutto ciò si rivelano in una recente ordinanza. Nel documento la Regione ammette che tra luglio e settembre potremmo portare fuori dalla Calabria 10mila tonnellate di rifiuti «a prezzi esorbitanti» e che comunque ciò non basta. Così siamo tornati a portare i rifiuti alla discarica della società Sovreco a Crotone a cui viene riconosciuta una tariffa di 180 euro a tonnellata per un massimo di 600 tonnellate al giorno. Equivale a oltre 100mila euro ogni 24 ore.
A proposito del ricorso ai privati, però, Capitano Ultimo aveva assicurato: «La cosa più importante è quella di creare una metodologia di dialogo trasparente e privo di interessi locali». Tutto questo per «affrontare e sostenere la transizione di un sistema della gestione del ciclo dei rifiuti sempre emergenziale, condizionato dalla prevalenza di interessi privati, ad un sistema a prevalenza pubblica». Un anno fa la stessa Santelli aveva respinto la proposta di conferire a Crotone a costi minori di quelli attuali rivolgendosi, peraltro, anche a un paio di Procure.
Le pale girano ancora
Anche qui partiamo da un annuncio. Ansa, 9 febbraio 2021: «Sono state sospese in Calabria le autorizzazioni per la realizzazione di impianti eolici ed elettrodotti “in quanto rappresentano una violenza alla bellezza della regione e allo sviluppo del turismo”. Lo ha disposto l’assessore alla Tutela dell’ambiente della Regione, Sergio De Caprio». Ci si aspettava che a una dichiarazione del genere, accolta con un certo favore dagli ambientalisti, seguisse una legge regionale. O, almeno, un atto di indirizzo politico. Invece nulla, nessun provvedimento ufficiale. Forseci si è resi conto che la Corte costituzionale ha già bocciato un tentativo analogo fatto dalla Regione Campania nel 2016.
Intanto succede, per fare due esempi, che a Cirò (Crotone) solo una sollevazione dei viticoltori impedisca che venga costellata di pale eoliche la “collina del vino”. E che a San Vito sullo Jonio (Catanzaro) si decida di tagliare 750 alberi per fare spazio ai moderni mulini a vento. Su quest’ultima vicenda non è noto il parere di Ultimo.
La multiutility? Sorical permettendo
Tranquillizza, però, sapere che «la Calabria si allontana dalla palude del localismo condizionato da lobby e ‘ndrangheta e crea una multiutility pubblica che gestirà rifiuti, acqua ed energia rinnovabile in una dimensione interregionale, insieme al Mezzogiorno del Mediterraneo, portando benessere e sviluppo per il popolo calabrese».
Di concreto, in realtà, al momento c’è solo una delibera di indirizzo con cui la Regione prova a verificare se ci siano le condizioni per acquisire le quote private di Sorical e, così, far uscire dalla liquidazione avviata 9 anni fa la società che gestisce l’acqua calabrese, magari per farne un vessillo elettorale della Lega. Ma aspettiamo fiduciosi.
La Regione pagherà poco meno di 600mila euro alla Rai per l’esordio a cinque cerchi del discusso cortometraggio di Gabriele Muccino sui canali della tv nazionale. Nonostante la presentazione dello spot risalga alla tarda estate del 2020, nei successivi undici mesi la battaglia legale tra la Cittadella e la Viola Film, società di produzione individuata dal regista, per la condivisione anticipata del filmato ha fatto sì che quest’ultimo circolasse, con non troppe fortune e numerose parodie, soltanto sul web. Passata la tempesta di critiche iniziali, le visualizzazioni si sono sempre più ridotte mentre l’estate si avvicinava.
Un aiuto in regia per Muccino
Il corto, però, ufficialmente è rimasto nei cassetti fino a fine luglio. La diatriba in tribunale si è chiusa in primavera con uno sconticino alla Regione, che si è accaparrata l’opera per poco meno di un milione e 400 mila euro (circa 300mila in meno del previsto), e la promessa di ritocchi – a spese (circa 90mila euro, recitano gli atti) della Viola – per qualche scena particolarmente infelice.
Nino Spirlì sul set a Palmi per la nuova versione di Calabria Terra mia
«Come può raccontare l’Amore, l’Eterno Bello, le profonde rughe dell’Arte, che sono l’Anima di questa Calabria, morbida e tortuosa, solennemente silenziosa e guardinga, seppur maternamente amorevole, un uomo che non conosce la fraternità, il “cum patire”, la solidarietà, l’equità?», chiedeva, d’altra parte, proprio Spirlì soltanto dieci mesi fa riferendosi a Muccino. All’inizio di giugno, invece, il successore di Jole Santelli era sul set di Palmi per la realizzazione della nuova versione riveduta e corretta dello spot.
Tokyo costa
Nonostante l’illustre supporto istituzionale alle riprese, per avere il remake di Calabria Terra mia – questo il titolo scelto da Muccino – in Cittadella hanno atteso il 2 luglio 2021 e altri quindici giorni sono passati per il preventivo della Rai. In Regione avranno pensato che, visto che un anno era andato già perso, tanto valeva far partire la campagna promozionale in ritardissimo ma col botto. E cosa fa più spettatori delle Olimpiadi in questo periodo? Nulla. In più Tokyo 2020 arriva un anno dopo il previsto. Proprio come lo spot, che avrebbe dovuto portare i turisti quest’anno e non il prossimo.
Quindi ecco 482.435,45 euro per mamma Rai, di cui 417.437,45 per il piano TV e 65.000 per quello digital. Tutto condito da un altro centinaio abbondante di migliaia di euro per l’Iva. Totale 588mila e rotti euro, che sommati al milione e quattro speso per girare il corto portano il costo dell’operazione Muccino a poco meno di due milioni.
Sulla Rai per due settimane
Ma è un conto che presto dovrà essere aggiornato: l’accordo con la Rai prevede la trasmissione degli spot soltanto dal 24 luglio all’8 agosto. Poi per farci rivedere ancora Raul e Rojo sul piccolo schermo alla Cittadella toccherà di nuovo allentare i cordoni della borsa. Sarà anche per questo che sempre Spirlì dalla sua bacheca Facebook ha annunciato urbi et orbi gli orari indicativi della messa in onda dei filmati per il weekend, non sia mai ce ne perdessimo uno.
Dopo il bombardamento di sabato, infatti, con il corto di Muccino andato in scena una quindicina di volte, stando al palinsesto diffuso dal presidente f.f. già domenica si era scesi a cinque passaggi in tv. Aumenteranno di nuovo? Diminuiranno? Ai followers l’ardua sentenza. Per capire se, invece, gli spot porteranno davvero nuovi turisti ormai toccherà aspettare l’estate prossima.
La sera del 9 luglio 2021 Maria Bellizzi, partita quasi un secolo prima dalla Calabria, è a casa a Montevideo con sua figlia Silvia. Aspettano con impazienza di mettersi in contatto con l’Italia, è da 22 anni che lo aspettano questo momento. Era il 25 giugno del 1999 infatti, quando Maria fece ritorno a Roma per depositare la denuncia di sparizione di suo figlio alle autorità italiane. Quel giorno, davanti al pubblico ministero Giancarlo Capaldo, Maria non era sola. Insieme a lei c’erano le signore Marta Casal, moglie di Gerardo Gatti, italo-uruguaiano scomparso a Buenos Aires; Luz Ibarburu, madre di Pablo Recagno, italo-uruguaiano anche lui scomparso a Buenos Aires, Cristina Mihura, moglie di Bernardo Arnone, italo uruguaiano scomparso a Buenos Aires e Aurora Meloni, moglie di Daniel Banfi, cittadino italo-uruguaiano assassinato a Buenos Aires. Sono tutti desaparecidos.
Maria Bellizzi nel 1928 è partita dalla Calabria, dal paese di San Basile, una comunità greco-albanese aggrappata alle pendici del Pollino. Quel 25 giugno del 1999 è a Roma per denunciare la scomparsa del suo primogenito, Humberto Bellizzi, cittadino italo-uruguaiano rapito a Buenos Aires. E da quando è sparito nel nulla che Maria non ha pensato ad altro, trasformandosi da un giorno all’altro da una tranquilla casalinga a una madres, una delle instancabili protagoniste dell’organizzazione che più di qualsiasi altra ha saputo rappresentare una spina del fianco delle dittature civico militari che hanno segnato il momento più buio del ’900 in America latina.
Maria per quarant’anni ha girato le questure, i commissariati, i tribunali e le ambasciate di più paesi per chiedere di suo figlio. Quella denuncia a Roma è stato il primo atto del Maxi Processo Condor, oggi Maria ha 96 anni e freme per ricevere la notizia della sentenza definitiva. Si può solo provare a immaginare cosa prova nel momento in cui squilla il telefono.
DOV’È HUMBERTO?
Aprile del 1977, fra i banchi dell’università Piero nota un’assenza insolita. Le lezioni sono iniziate da poche settimane e finora il suo compagno di studi Humberto non ne ha saltata nemmeno una. La sera tardi ci pensa e, prima di rincasare, decide di passare da casa sua per capire il perché di questa assenza inaspettata. Casa di Humberto è a via Bartolomè Mitre, a pochi isolati dal Congresso argentino. Quando Piero gira l’isolato e inizia a guardare il vecchio condominio, sulla porta del palazzo nota subito un tipo guardingo che non ha mai visto.
Si avvicina guardando le finestre in alto e decide lo stesso di salire le poche scale che lo separano dal primo piano. Lì trova quello che non poteva immaginare. Nell’appartamento ci sono delle persone che rovistano affannosamente fra le cose di Humberto. Piero non chiede, immagina siano pericolosi, perciò continua a salire le scale facendo finta di niente. Perde un po’ di tempo finendo il corridoio di un altro piano. Poi torna indietro, riscende e corre ad avvertire gli altri: Humberto non c’è, Humberto è scomparso.
Pochi giorni prima Jorge Goncalves Busconi, orologiaio all’incrocio fra le strade San Josè e Belgrano, sempre nel distretto dove ha sede il Congresso di Buenos Aires, stava per uscire dal lavoro. Passeggiava con la sua Maria, incinta di otto mesi, che ora racconta la scena agli amici, radunati per capire cosa stia succedendo in quel quartiere. Un gruppo di uomini armati le hanno chiesto a muso duro: «Sei anche tu uruguaiana?». Alla risposta negativa l’hanno tirata via con uno strattone: «Allora allontanati». Jorge è stato preso e portato via in un lampo. Il giorno prima del suo arresto Jorge era a casa di Humberto, sono amici da tempo e in quel periodo si vedono con molta frequenza. Ora sono entrambi spariti.
Il Palazzo del Congresso a Buenos Aires
Perché li hanno presi, che tipi sono? Dell’orologiaio Jorge non abbiamo detto solo che aveva 35 anni, Humberto invece nel 1974 ne ha 24. In Uruguay questo figlio di italiani ha completato gli studi primari al Colegio Nuestra Senora de Pompeya, ha studiato medicina e ha vissuto con i suoi genitori e sua sorella minore Silvia in un appartamento di Montevideo, a via Enrique Aguiar, numero 5014. Da giovanissimo ha diretto il giornale di quartiere “El Sol” e ha lavorato nella pubblicità come pittore di lettere e fumettista. In Uruguay ha militato nel ROE (Resistenza Studentesca Lavoratrice) e all’istaurarsi di una feroce dittatura militare ha pensato, come molti giovani connazionali, di trasferirsi in Argentina, in quel momento l’ultimo baluardo apparentemente democratico del Cono Sud dell’America latina. L’unica illusione di futuro.
A Buenos Aires è arrivato nel 1974, ha lavorato nella pubblicità per la società Nestlé e successivamente ha aperto anche la dispensa alimentare con i suoi amici Carlos Ramirez, Ricardo Perez e proprio Jorge Goncalves Busconi. Si tratta di una piccola attività commerciale, un magazzino all’incrocio tra Sarmiento e Montevideo, nella zona del Mercado Rosado. Con Ricardo Perez erano anche soci in un’altra attività, un laboratorio di pittura pubblicitaria proprio davanti all’appartamento di Humberto, sull’insegna c’è scritto “Tabarà”.
Il 19 aprile1977, Humberto, uruguaiano figlio di italiani ha ottenuto la cittadinanzaargentina da un mese. Quella mattina è una come tante, fino a quando arriva una persona al suo appartamento e chiede di parlargli per commissionargli un lavoro di pittura pubblicitaria su una vetrina.Humberto risponde che la cosa gli interessa, ma che prende i lavori a metà con il suo socio Ricardo. Allora gli chiede dove sta il socio, e lui lo porta dall’altro lato della strada, dove si mettono d’accordo per andare tutti insieme all’indomani a vedere questa vetrina. Tutto normale.
Poi però arriva una telefonata che normale non è. Un cliente che ha una gioielleria avvisa Ricardo di non andare in quel posto, perché all’incrocio fra le strade Independencia e Entre Rios c’è gente strana ad aspettarli. È invece troppo tardi per Humberto, che a quel punto già non si trova più. Non si sa se è andato in anticipo all’appuntamento o se lo abbiano preso in quella fatidica strada. L’unica cosa che si sa che è sparito in pieno giorno e in pieno centro, proprio come il suo amico Jorge.
Ma perché a Humberto Bellizzi, uno studente e lavoratore come tanti altri, è toccata una sorte così crudele? Una domanda che perseguita gli amici e i familiari, e che ad oggi ha una sola possibile risposta. Nel 1974, nell’anniversario del golpe uruguayano, Humberto aveva partecipato a una manifestazione in Argentina. La manifestazione non era autorizzata, perciò fu arrestato insieme a 101 connazionali. Fu subito rilasciato, ma inserito in una lista. La colpa di questo giovane è stata quindi aver manifestato da uomo libero contro la dittatura, un affronto che i tiranni del tempo non potevano dimenticare.
EL ATLETICO
Secondo testimonianze più recenti, i due sarebbero stati portati nel Club Atletico, uno dei centri di detenzione clandestina di cui pullulava in quel periodo Buenos Aires. Era una caserma militare, l’avevano chiamata Club Atletico per celare il fatto che in realtà la lettera “A” stava per “Antisovversivo”. Atletico, Banco e Olimpo erano tre centri collegati, tanto che nei processi si parla di questo sistema di repressione come “ABO”. L’Argentina in quel periodo vive così, nella bugia legalizzata. Mentre si prepara ad ospitare i Mondiali del 1978 in un clima di festa nazionale, nelle pance segrete delle caserme tortura, uccide e fa sparire un’intera generazione.
Il Club Atletico si trovava in Avenida Paseo Colón numero 1266, nel quartiere di San Telmo, uno dei più antichi della città. È statooperativo per un anno circa, dal febbraio del 1977 fino a inizio 1978, quando lo hanno smantellato per la costruzione dell’autostrada 25 de Mayo. I suoi orrori sono finiti sotto una montagna di terra che li ha coperti per decenni. Nel seminterrato del Club Atletico si stima siano transitati circa 1800 prigionieri, pochissimi sono sopravvissuti.
«Il tuo nome d’ora in poi sarà K-35, poiché per gli estranei sei scomparso», ha raccontato di essersi sentito dire nel Club Atletico il sopravvissuto Miguel Ángel D’Agostino. Trascinato per le scale fino al seminterrato, è stato privato di ogni effetto personale. Poi è stato spersonalizzato, è diventato una lettera e un nome, come accadeva nei centri nazisti. L’accostamento non è casuale, all’interno del Club Atletico si sentiva ripetutamente una cassetta con i discorsi di Hitler a tutto volume, accompagnati dalle urla e dalle risate dei repressori.
La sopravvissuta Ana María Careaga, aveva sedici anni quando finì all’Atletico e sua madre è ancora desaparecida. Ha raccontato questi dettagli al Conadep, la commissione governativa che ha fatto luce sui crimini di Stato in Argentina: «A quel tempo l’unica cosa che poteva salvarci dalla sofferenza era la morte. Poiché nessuno sapeva dove fossimo, dissero di avere tutto il tempo del mondo. L’unico modo per fermare la sofferenza era morire, perché non ci avrebbero lasciato liberi e non ci avrebbero lasciato morire per poter continuare a torturarci».
Un’altra sopravvissuta a quest’orrore ha dichiarato di aver visto e riconosciuto all’interno del Club Atletico Jorge Goncalves Busconi. Da qui si ritiene che anche a Humberto Bellizzi sia toccato lo stesso destino. Ricostruzioni storiche e giudiziarie ritengono inoltre molto probabile che i rapitori abbiano consegnato i due amici a ufficiali dell’intelligence dell’esercito uruguaiano che interrogavano e torturavano in quel centro in Argentina. Fra i più famosi ci sono i membri della Compañía de Contrainformaciones, il maggiore Carlos Calcagno e il capitano Eduardo Ferro.
L’ex militare uruguaiano Jorge Nestor Troccoli ha anche lui origini italiane e si è distinto nelle operazioni congiunte con l’Argentina per dare la caccia a quelli che venivano considerati sovversivi. È stato l’unico imputato del Processo Condor giudicato in aula, visto che per sfuggire alla giustizia del suo paese è venuto a rifugiarsi in Campania, prima a Marina di Camerota e poi a Battipaglia, dove il dieci luglio 2021 è stato arrestato. Dovrà scontare la pena definitiva all’ergastolo. Questa è la notizia che Maria aspettava da anni.
UNA STORIA DI CALABRIA
Il nome completo del figlio di Maria è Andres Humberto Bellizzi Bellizzi. Non c’è errore, il cognome è ripetuto due volte perché è lo stesso della madree del padre, entrambi provenienti da San Basile, un paese del Pollino in provincia di Cosenza dove è evidentemente molto diffuso. Quando per le prime volte andò a chiedere di suo figlio in commissariato gli capitò un funzionario che le disse: «Ah, il ragazzo con un doppio cognome, qui non c’è». Era il segno che lo sapeva eccome dov’era il figlio.
Maria, come molti corregionali dell’epoca, arriva a Montevideo da bambina per la legge di ricongiungimento familiare. Il papà, partito tempo prima per sfuggire alla fame del Sud Italia fra le due guerre mondiali, aveva finalmente trovato occupazione stabile e poteva riabbracciare la sua famiglia. È il 1928, il viaggio, lunghissimo e pericoloso, Maria lo compie insieme alla madre: è un nuovo inizio, che presto si presenta come ancora più difficile. Il padre di Maria muore giovanissimo, e a lei tocca prendersi cura dei fratelli per aiutare la madre a sostenere la famiglia. Studia, lavora e a vent’anni sposa Andrés Bellizzi, anche lui oriundo di San Basile. Hanno due figli, Humberto e Silvia.
Andrés e Maria Bellizzi insieme a loro figlio Humberto
Humberto Bellizzi con sua madre Maria e la sorella Silvia
Maria si occupa della famiglia e cresce i figli nella pace, fino a quando il colpo di Stato militare impone la partenza al figlio. Lui comunque torna spesso a casa e non le dà molto da pensare: studia, lavora tanto e ottiene ben presto la cittadinanza permanente in Argentina. Poi però il golpe militare arriva anche là. E una domenica, il 25 aprile del 1977, la notizia che Humberto è sparito insieme a Jorge raggiunge quella casa di italiani a Montevideo. La vita di quella famiglia viene sconvolta per sempre.
Maria da quel giorno si trasforma in un’icona di lotta in Uruguay, diventa referente nazionale de la Asociación de Madres y Familiares de Detenidos-Desaparecidos. Assurge a simbolo per migliaia di donne, manifestando in prima fila per i diritti umani ogni volta che ve n’è occasione, nonostante l’avanzare dell’età.
Anni di lotta e di dignità, poi nel 1986 Maria rivela a un settimanale uruguaiano di aver finalmente scoperto perché sparì il figlio. Dieci giorni dopo aver presentato la denuncia di sparizione di Humberto al Ministero degli Affari Esteri uruguaiano, rivelò Maria, l’allora cancelliere Rovira convocò la famiglia Bellizzi. Ed è in quelle stanze che scoprirono la triste verità, anche se in modo ufficioso.
Perché era stato preso suo figlio? Perché in quel momento, furono queste le parole di un funzionario, «era necessario arrestare tre uruguaiani in Argentina». Ma perché proprio lui? Perché nel 1974, quando ancora l’Argentina era democratica, c’era stata una manifestazione per protestare contro il golpe in Uruguay e 101 manifestanti uruguaiani finirono in una lista, che anni dopo si rivelerà una lista di morte. La colpa di Humberto, dunque, fu quella di aver osato manifestare liberamente contro la violenza. Un affronto i tiranni che non potevano dimenticare.
Il cantante Jorge Drexler posa a sostegno della battaglia per Humberto Bellizzi
Maria non si è mai fermata, ha aderito convintamente all’idea di far partire il processo in Italia. Il 12 maggio del 2017 è riuscita a incontrare Sergio Mattarella richiamandone l’attenzione sul tema decenni dopo l’impegno di Pertini. Al tempo dell’incontro fra Maria e il Capo dello Stato del suo paese di origine, la sentenza di primo grado del Processo Condor di Roma pareva continuare la linea dell’impunità storica.
Ma Maria che non è tipo da arrendersi, lo stesso ha manifestato i suoi buoni auspici al Presidente della Repubblica consegnandogli una lettera in cui gli ha chiesto di occuparsi del caso di Nestor Troccoli e dei torturatori che hanno trovato riparo in Italia, invitando Mattarella a leggere i cognomi della lista dei desaparecidos, per potersi accorgere di quanto questa storia abbia a che fare con il nostro paese.
«Gli dissi anche che fino all’ultimo respiro della mia vita avrei continuato a lottare per conoscere la verità e fare giustizia per mio figlio e per tutti i detenuti scomparsi», ricorda Maria Bellizzi a I Calabresi, e oggi che finalmente c’è una sentenza definitiva è arrivato il momento di fare il punto sul suo impegno. «È stato davvero un sollievo ricevere la notizia della sentenza. Nonostante la distanza nel tempo e nei chilometri», ha aggiunto, «la giustizia è stata conquistata e credo che ora si apra al mondo un precedente internazionale. È importante per le nuove generazioni in tutti i posti del mondo dove tutto questo ancora accade».
Quando è stata chiamata a deporre in aula a Roma, nel 2015, gli imputati della scomparsa del figlio erano nel frattempo deceduti. Perciò la sua deposizione ha avuto un valore collettivo, ricostruendo la vicenda della sparizione di Humberto ha potuto parlare del Plan Condor come di un coordinamento repressivo internazionale fra gli apparati di due paesi sotto dittatura militare.
«Mi sono trovata davanti una corte lontana, insensibile, disinteressata ai gravi fatti denunciati», ricorda. D’altra parte, però, è grata a tutte le organizzazioni che si sono spese per la causa, dai sindacati agli uffici consolari. «Lasciatemi evidenziare in modo molto positivo l’impegno e la sensibilità di tanti. Del senatore Felipe Michelini, di Jorge Ithurburu e della “24marzo”, del pm Tiziana Cugini e degli avvocati, in particolare il nostro avvocato Arturo Salerni, un eccellente professionista e una persona cordiale, anche lui calabrese. Non posso fare a meno di ricordare e ringraziare giornalisti, storici e testimoni come Roger Rodriguez, Martín Almada, oltre alla ricercatrice Francesca Lessa. È importante che la stampa continui a diffondere i contenuti di questa sentenza, che si affermi grazie alla pena perpetua che la sparizione forzata è un crimine di lesa umanità permanente. È un importante punto di arrivo».
E ora? «Non è finita. Devo infatti anche sottolineare che nonostante ci sia una condanna, manca la verità. Gli archivi esistono, li conosciamo, ma tutto è ancora nascosto in un patto di omertà che lo conduce alla tomba. Ci devono dire che fine hanno fatto i corpi dei nostri cari, perché esistono ancora, sono presenti, sono memoria. Finché non avremo la risposta continueremo a chiedere con tutta la voce che abbiamo in corpo: ¿Dónde estan?».
RIVOLUZIONARI DI CALABRIA
La Regione Calabria si è costituita parte civile nel caso di Humberto Bellizzi. In questa enorme ferita aperta del Novecento, Maria non è l’unica madre coraggio calabrese, ce ne sono tante. Una è Angela Maria Aieta, finita a bordo dei voli della morte per aver sfidato i militari argentini che avevano arrestato suo figlio, Dante Gullo. Alla sua memoria la cittadina tirrenica di Fuscaldo ha dedicato una scuola. Il caso di Angela Maria è uno dei pochi in cui ci si ricorda di ricordare questi emigrati che hanno combattuto per un’idea di pace in continenti lontani. Un altro eroe calabrese di questa vicenda è stato Filippo Di Benedetto, il sindacalista già sindaco del Pci a Saracena che in Argentina ha contribuito a salvare decine di vite. Per la ricostruzione di queste storie in pubblicistica, c’è da ringraziare l’impegno della giornalista calabrese Giulia Veltri.
Dante Gullo: sua madre Angela Maria Aieta fu un’altra delle vittime di origini calabresi uccisa in uno dei voli della morte
Restano però decine e decine gli eroi calabresi di cui non si ricorda nessuno. Come Libero Giancarlo Castiglia da San Lucido, comandante del distaccamento guerrigliero che ha combattuto la dittatura in Brasile. Vite perse nel nulla, come quelle di Salvatore Amico, desaparecido di Corigliano Calabro, Francesco Carlisano di Pizzoni, Lucio Leone di Cosenza. E di tanti, tanti altri, solo a San Basile ce ne sono altri due. Erano fratelli, si chiamavano Hugo e Francisco Scutari Bellizzi. La loro storia è stata raccontata dalla storica calabrese Rossella Tallerico.
Hugo fu sequestrato il 5 agosto del 1977 e rinchiuso anche lui nel Club Atletico. Lavorava in una banca come delegato sindacale, e combatteva in favore dei diritti dei lavoratori. Anche la sua compagna, Delia fu sequestrata e portata nel Club Atletico, ma dopo 92 giorni fu liberata. Hugo, invece, divenne un desaparecido. Nel loro ultimo incontro, Delia promise al suo amato che avrebbe continuato a combattere in favore della libertà e democrazia, battaglia che dopo 37 anni Delia continua a portare avanti.
Francisco, invece, fu sequestrato il 18 ottobre del 1978, mentre aspettava un suo compagno di militanza del gruppo politico al quale apparteneva, in un angolo di Buenos Aires. Francisco, giunto all’appuntamento, trovò un operativo delle forze repressive che tentarono di bloccarlo. Lui riuscì a scappare, riparandosi in un palazzo, ma lo catturarono. Una sopravvissuta, detenuta nel Centro di Detenzione El Olimpo, reso celebre dal film capolavoro di Marco Bechis, raccontò al fratello Horacio che Francisco fu portato lì, ma non gli seppe dire se vi fosse arrivato vivo o morto.
Per ricordare il coraggio di questi emigrati calabresi a San Basile oggi c’è una piazzetta solitaria, ogni tanto qualche emigrato va a mettere un fiore sotto la targa che dice: “Largo dei desaparecidos”.
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