Canadair che non si trovano e quando si trovano può capitare che, nel bel mezzo di un intervento, debbano tornare a Ciampino per il cambio turno dell’equipaggio. Soccorsi che non conoscono la montagna e alla difficoltà dell’intervento devono aggiungere quelle per trovare la strada giusta. Piromani agguerriti al soldo di interessi senza fine e attivi H24. Autobotti e pick up disseminati col contagocce, e bilanci dedicati alla prevenzione che, per entità dei fondi, se la giocano con la sagra della melanzana porchettata.
L’Aspromonte brucia da settimane: ettari e ettari di boschi e memorie persi per sempre, che riaprono vecchie ferite e che riportano a galla vecchi problemi. Dopo anni di relativa quiete, le fiamme hanno riaggredito la montagna su più fronti come nell’estate del 2012, l’ultima in ordine di tempo in cui si sono registrati danni simili a quelli di questi giorni. In dieci anni molte cose sono cambiate, e non sempre in meglio.
Il fuoco corre veloce
«Quando un incendio non viene contrastato efficacemente nelle prime ore, poi è difficile riuscire a domarlo. Le nostre montagne sono impervie, in molti punti quasi inaccessibili. È difficile intervenire quando il vento si alza e le fiamme diventano alte. A San Lorenzo il canadair si è visto dopo due giorni. Troppo tardi». Pietro è un vecchio operaio travasato dall’Afor a Calabria Verde, una vita passata nelle squadre antincendio che operano nel parco. «Il vero problema resta la prevenzione. Una volta eravamo in centinaia ad occuparci del bosco, ora nella mia squadra siamo in 19 quasi tutti anziani come me e prossimi alla pensione. Noi facciamo il nostro, ma il territorio è gigantesco».
Il Parco d’Aspromonte avrebbe le carte in regola
Sono 64 mila ettari spalmati dal Tirreno allo Jonio passando per i 2000 metri di Montalto, un patrimonio naturale inestimabile, uno scrigno di storie e di memorie. In poco più di venti giorni, di questa meraviglia tutta calabrese, sono andati in fumo quasi 5 mila ettari. Un disastro che solo per caso non ha distrutto anche le faggete vetuste di San Luca, fresche di nomina a patrimonio dell’umanità e che ha reso evidente come più di qualcosa, nei meccanismi a tutela del parco stesso, non sia girata per il verso giusto. E non solo per colpa dei canadair.
Eppure, almeno a livello teorico, il parco d’Aspromonte ha tutte le carte in regola. Dettagliatissimo il piano quinquennale anti incendiboschivi. Al suo interno le linee guida per gli interventi di prevenzione e spegnimento degli incendi con tanto di tabelle storiche, fattori di rischio, idee per la salvaguardia del territorio da realizzare a braccetto con chi quel territorio stesso lo vive. Ma quello che splende sulla carta, a volte, non brilla della stessa luce nella realtà.
Il Parco difeso da sei autobotti
«La rapidità dell’intervento deve essere assicurata sia da una corretta e omogenea dislocazione delle squadre e dei mezzi antincendio – si legge nel piano Aib del parco nazionale d’Aspromonte – e sia dall’esistenza e corretta percorribilità delle vie di comunicazione». Passati ormai i tempi dell’elefantiaca pianta organica dell’Afor – diventata negli anni, suo malgrado, ricettacolo di clientele e favoritismi – la realtà del 2021 si scontra con una penuria di mezzi e uomini disarmante.
Nel territorio del parco svolgono servizio 5 autobotti dell’azienda Calabria Verde – a cui si devono aggiungere quelle dei vigili del fuoco che operano nelle caserme comprese entro i confini del parco – più una del consorzio di bonifica. Sei mezzi in totale, dei quali quattro stazionano in aree di competenza dell’ente e due sono invece parcheggiate, rispettivamente, a Reggio e Roccella, decine di chilometri lontani dalle montagne.
La localizzazione delle autobotti attive nel Parco nazionale d’AspromonteLa localizzazione delle autobotti e della altre strutture A.I.B. nel Parco del Pollino
Stesso discorso per i pick-up, i mezzi in genere in forza alla protezione civile e che hanno comunque una capacità di una cisterna ridotta che varia tra i 300 e i 500 litri. Nel parco d’Aspromonte sono sette, disseminati un po’ a pelle di leopardo e per fare rifornimento, spesso devono fare tragitti di ore con tempi morti che posso risultare decisivi. Il confronto con la forza schierata dal parco nazionale del Pollino – per buona parte ricadente in Calabria – è disarmante.
Il prezzo della sicurezza
Tra una sagra al fantomatico km zero culinario e uno spot tra vecchi con la coppola storta, i fondi destinati alle cose serie sono andati via via scemando e così, anche il parco d’Aspromonte si è trovato a fare i conti con la nuova realtà. Una realtà così striminzita che ha portato l’ente a stilare un piano di spesa antincendio di 120mila euro l’anno valevole fino al 2022. Una somma ridicola – solo mandare in tv durante le Olimpiadi il mortificante spot targato Muccino è costato cinque volte di più alle casse pubbliche – che comprende le spese per le attività di previsione, prevenzione, avvistamento, acquisto macchine e attrezzature, attività informative, sorveglianza e interventi di recupero.
Sintesi economica del piano A.I.B. del Parco d’Aspromonte
In soldoni, fanno circa due euro per ettaro speso in prevenzione e spegnimento. Un recinto striminzito, stretto tra 100mila di fondi propri e 20mila bollati come «altri fondi» che per oltre metà (70mila euro) viene investito per pagare le squadre di sorveglianza e che lascia alle attività di prevenzione (interventi di silvicoltura, piste forestali, punti d’acqua) una mancia di 30 mila euro.
Vi sentite poco bene? No problem: se alle comunali dovesse vincere Marco Ambrogio avrete un ospedale sotto casa. La proposta del candidato post Pd, soccorritore di Occhiuto in questi due mandati e oggi scopritore del civismo, sarebbe la soluzione dei molti e antichi guai della sanità calabrese.
Più ospedali per tutti
Il leader della lista La più bella Cosenza di sempre oggi si è prodotto in un’idea rivoluzionaria: perché non costruire piccoli ospedali in ogni quartiere? Ed ecco inserita l’intuizione dentro il programma elettorale. Ogni area cittadina avrà il suo mini nosocomio, con medici pronti a produrre diagnosi. Peccato che una cosa del genere già esista: si chiamano ambulatori e basterebbe farli funzionare.
In realtà l’idea di Ambrogio è parecchio più ambiziosa. Gli ospedali di quartiere, benché “piccoli”, avrebbe a loro disposizione strumenti diagnostici sofisticati e medici specialisti. Il candidato non spiega dove trovare le risorse per realizzare questo progetto con una sanità che boccheggia ed è assediata da emergenze. Ma in campagna elettorale certi dettagli contano poco. Senza considerare che nel corso di tutto il secondo mandato di Occhiuto uno dei temi roventi è stato proprio l’individuazione del luogo dove costruire il nuovo (vero) ospedale, con il conflitto tra Oliverio e Occhiuto che frapponeva veti ed ostacoli tali da mandare per adesso nel dimenticatoio la soluzione del problema.
Cosenza indipendente
Ma a ben guardare non è meglio avere venti piccoli ospedali a pochi passi – avrà pensato Ambrogio – che uno nuovo e grande ma distante? In fatto di proposte audaci lui stesso recentemente aveva anche annunciato che – in caso di vittoria elettorale – avrebbe ridato vita alle circoscrizioni comunali, che nel suo programma sarebbero «il vero front office tra le esigenze quotidiane e la politica delle alte stanze».
Una bella idea, quella di ridurre le distanze tra i cittadini e la burocrazia, velocizzando le pratiche e snellendo le procedure. Tuttavia il Governo potrebbe non essere d’accordo, visto che una legge dello Stato le ha abolite.
Forse dentro le pieghe del programma di Ambrogio però c’è la soluzione: una repubblica autonoma di Cosenza. Non sappiamo se sarà la più bella di sempre, certamente sarà indipendente e con molte circoscrizioni e più ospedali per tutti.
La doppia sortita di Mario Oliverio e Giuseppe Aieta contribuisce a seminare altro caos nel centrosinistra. Dopo la discesa in campo post ferragostana dell’ex governatore, arriva l’invito all’unità e alla pacificazione, almeno per limitare i danni.
I due, il consigliere uscente e l’ex presidente, hanno giocato a “poliziotto buono e poliziotto cattivo”: il primo ha esortato i “compagni” a cercare la concordia in chiave anti destra, il secondo ha lanciato un ricatto vero e proprio. Si farà da parte, ha detto senza troppi giri di parole, solo se gli altri due competitor faranno altrettanto.
Questo appello, oltre che tardivo, risulta senz’altro irricevibile per de Magistris, il quale si è spinto troppo avanti per fermarsi ora. Ma è altrettanto irricevibile per Amalia Bruni?
Sei scatole mezze vuote
Allo stato dell’arte, le liste schierate a fianco della scienziata sarebbero sei: quel che resta del Pd, il Movimento 5 Stelle – che, detto francamente, non ha mai avuto presa sul territorio e non ha neppure le statistiche a favore -, le due liste di Carlo Tansi(Tesoro Calabria e Calabria Libera) e il Psi, che ricambia coi suoi piccoli numeri la benedizione dello stato maggiore dem alla candidatura di Franz Caruso a sindaco di Cosenza. Più la lista del presidente, che rischia di essere la vera grana.
A differenza del suo predecessore Pippo Callipo, che aveva esperienze e frequentazioni forti, Bruni è una neofita della politica “politicata”, e soffre di un problema doppio: la penuria di candidature forti al di fuori del Pd (le quali, presumibilmente, si sfogheranno nella lista di bandiera) e la mancanza di strutture organizzate che possano attrarre la società civile. Per riempire le sue liste personali le resterebbero gli amministratori locali. Ma chi sarebbe disposto a rischiare in una contesa percepita comunque come perdente?
I tre dell’Ave Maria
Infatti, si sarebbero impegnati a dare una mano tre consiglieri uscenti: il cosentino Graziano Di Natale, il catanzarese Francesco Pitaro e il reggino Marcello Anastasi.
I tre hanno un dato in comune: sono stati eletti nelle liste di Io resto in Calabria, il movimento civico del Re del tonno.
Ma questo non fa di loro dei civici “puri”. Senz’altro non lo è Graziano Di Natale, che mastica la politica con competenza (e in maniera piuttosto incallita): è il genero dell’ex big Mario Pirillo – che è un pezzo della storia politica del Tirreno cosentino – ed è il “dominus” incontrastato del circolo del Pd di Paola, la città in cui ha iniziato la propria fulminea ascesa politica.
Tuttavia, il consigliere uscente non ha rinnovato la tessera di partito per presentarsi come civico (e, suggeriscono i maligni, per non doversi misurare coi big del Pd). Meglio la lista del presidente, che però non può essere lasciata vuota, perché quando si perde il quorum è più difficile da raggiungere.
Di Natale, forte dell’esperienza che manca alla neurologa, si starebbe dando un gran da fare per reclutare candidati, senza andare troppo per il sottile: infatti, riferiscono i bene informati, si sarebbe rivolto a Marcello Manna, il sindaco di Rende.
L’interrogativo, a questo punto, è banale e sconcertante allo stesso tempo: a cosa è dovuta questa richiesta a un primo cittadino che regge la propria amministrazione su una maggioranza di centrodestra, piena tra l’altro di recalcitranti fedelissimi della famiglia Occhiuto e dell’assessore regionale uscente Gianluca Gallo?
La risposta non è banalissima: alla sostanziale impraticabilità del capoluogo e di buona parte dei Comuni dell’hinterland, presidiati con piglio militare da Carlo Guccione e Nicola Adamo.
Il caos cosentino
Manna, ovviamente, non si sarebbe sbilanciato. Anzi, riferiscono sempre i bene informati, che il sindaco rendese sarebbe intenzionato ad agire come nel 2020, cioè a restare fuori dalla contesa per non restarne travolto. Tanto più che è diventato rappresentante dell’Anci Calabria col voto di sessantasette sindaci. Un po’ pochi, visto che i primi cittadini con diritto al voto sono più di quattrocento. Ma, c’è da notare, tra questi i sostenitori di area dem sono stati praticamente la maggioranza.
I nomi disponibili per una candidatura con la Bruni nella città universitaria sarebbero due, uno più impraticabile dell’altro: Fabrizio Totera e Ariosto Artese. Il primo, infatti, è legato a Nicola Adamo, che sull’area urbana di Cosenza gioca la partita della sopravvivenza politica, il secondo è diviso tra due lealtà. La prima è di natura familiare: Ariosto è il fratello di Annamaria Artese, assessora nella giunta di Manna. La seconda è costituita dal legame con i Gentile, in particolare con l’ex senatore Tonino.
Il bottino, per di Natale, insomma si preannuncerebbe magro.
Inutile pescare fuori Rende, neppure dove qualche realtà grossa vicina al Pd ci sarebbe. Ad esempio, il popoloso Comune di Luzzi. In effetti, Umberto Federico, il sindaco del paese della Valle del Crati, sarebbe pronto a candidarsi, ma lo farebbe nel Pd, in ticket con Enza Bruno Bossio, la moglie di Adamo.
Quest’ultima, inoltre, sarebbe in ticket anche con Franco Iacucci, l’attuale presidente della Provincia, su cui ha puntato le proprie fiches Carlo Guccione.
Un triangolo delicato, il cui baricentro è a Cosenza, dove lo stato maggiore del Pd gioca la partita della vita.
Squilibri precari
Proprio da Cosenza arriva la prova della fragilità della coalizione di Amalia Bruni. Com’è noto, il Pd si è schierato, non senza qualche difficoltà, a favore della candidatura a sindaco di Franz Caruso.
Tuttavia, c’è chi non gradisce troppo il penalista cosentino, espresso formalmente dal Psi ma graditissimo da Nicola Adamo: Carlo Tansi e i Cinquestelle, che sono al lavoro, nemmeno troppo sottotraccia, per spingere la candidatura di Bianca Rende, la quale non ha gradito di candidarsi in ticket con Caruso.
Tansi, che non è mai stato tenero con Adamo (anzi, lo considera uno dei pezzi più estremi del Put), ha abbassato i toni dopo aver fatto l’accordo con Bruni. E, al momento, non è dato sapere se ha intenzione di esternare qualcosa sulla candidatura di Enza Bruno Bossio. la quale, va detto, è in regola sia coi criteri del codice etico del Pd sia con quelli della Commissione antimafia.
Sotto ricatto
Questo gioco di intrecci, che rischia di far collassare il Pd proprio a partire da Cosenza, fa capire l’efficacia del “ricatto” di Oliverio.
In un’eventuale contesa, l’ex presidente comprometterebbe in maniera irrimediabile le liste di Bruni, che rischierebbe addirittura di arrivare terza. E forse è proprio questo il «bagno di sangue» di cui ha parlato Giuseppe Aieta.
Tra liste deboli (quelle di Tansi e dei grillini) o di difficile compilazione, pollai diventati troppo stretti per galli troppo forti (il Pd) e residui di vecchie glorie (Psi), le possibilità di evitare che la sconfitta si tramuti in disastro sono diventate poche.
E sembra un beffardo paradosso che l’unica mano tesa arrivi da chi sa benissimo di non avere più nulla da perdere e gioca al tanto peggio tanto meglio, perché anche il crollo del Pd sarebbe un suo successo.
Oliverio ha fatto il suo gioco con grande efficacia. Chi è disposto, ora, a vedere le sue carte?
La sopravvivenza fisica di Cosenza vecchia passa per la necessità di intervenire sulle abitazioni private. Non serve essere urbanisti per capirlo. I crolli si moltiplicano, così come le famiglie costrette a vivere sotto la spada di Damocle di in un soffitto che può venire giù da un momento all’altro. Al fondo resta la domanda posta da Domenico Gimigliano, uno degli attivisti di Prima che tutto crolli: «Quale è il senso del centro storico di Cosenza»? L’Atene della Calabria ha abbandonato Telesio per abbracciare la forza effimera e seducente della leggenda di Alarico tanto cara al sindaco Mario Occhiuto.
E come sempre, alla vigilia delle elezioni amministrative, tornerà ad affacciarsi, sotto forma di slogan o proposte fantasiose, il tema della ripresa della parte più antica della città. Senza tenere conto di quanto sia cambiata. Oggi interi quartieri sono un suk dove si mescolano culture e parlano lingue diverse.
I 90 milioni per il centro storico
Prosegue il percorso di avvicinamento dei 90 milioni di euro del Cis (Contratto istituzionale di sviluppo) per il centro storico di Cosenza. Anna Laura Orrico – parlamentare ed ex sottosegretario ai Beni Culturali in quota M5S – continua a seguire la vicenda: «Il Mibact compie passi in avanti con la procedura. Sta raccogliendo documentazione degli enti. In seguito saranno firmati i disciplinari. Quindi saranno indette le gare d’appalto, speriamo entro il 2021 affinché i lavori partano nel 2022». Ma con quei soldi si potrà intervenire solo su edifici pubblici, mentre quelli più a rischio sono tutti privati.
Superbonus 110%, un treno per pochi
In linea teorica il Superbonus 110% è quel treno che passa una sola volta anche per Cosenza vecchia. In pratica la parcellizzazione delle proprietà degli stabili ne rende improbabile un’applicazione generalizzata, producendo l’impossibilità della cessione del credito.
Cosa si può fare? Il coordinatore della commissione Lavori pubblici dell’Ordine degli ingegneri di Cosenza, Marco Ghionna, suggerisce comunque una «mappatura accurata di tutti gli stabili, un censimento degli immobili e, contestualmente, un’interrogazione pubblica sull’albo pretorio». Al termine di questa procedura, forse, il Comune avrà informazione utili e spazio di agibilità. Peccato che servirebbero 10 anni per legge. Tempo entro il quale anche l’erede più sperduto potrebbe legittimamente pretendere di esercitare un diritto su una porzione anche piccola di uno stabile.
Come muore una proposta di legge
Servirebbe una legge speciale per Cosenza vecchia allo stesso modo di Agrigento e Siracusa. Peccato non essere una Regione a Statuto speciale come la Sicilia. Ma per Vittorio Sgarbi, già assessore di Occhiuto proprio con delega al Centro storico, era tuttavia una strada da percorrere seppure impraticabile.
Un’altra strada è stata tentata da una serie di associazioni e cittadini raggruppati sotto il titolo “Prima che tutto crolli”, depositando in Regione una proposta di legge (273/10) di iniziativa popolare, applicabile ai centri storici calabresi. Anche il candidato a sindaco Franz Caruso ha di recente parlato di un legge speciale.
Crolli nel centro storico di Cosenza
Crolli all’ingresso del rione Santa Lucia
Nonostante la minuziosa analisi – completa di spunti storici e soprattutto dotata di copertura economica – il testo non ha riscontrato il favore concreto della maggioranza guidata dall’allora governatore Mario Oliverio. Dopo un primo passaggio favorevole in commissione Ambiente, presieduta da Mimmo Bevacqua, la proposta di legge non è arrivata mai in commissione Bilancio. Una morte lenta e annunciata, dopo un piccolo oblio.
Da vergogna a tesoro: il caso Matera
«Se il Mibact riconosce il centro storico di Cosenza come bene culturale è possibile che ci sia una legislazione alternativa a quella regionale». Sarebbe molto più semplice agire sui patrimoni privati preda dell’incuria e dell’abbandono. A suggerire questo percorso, di difficile attuazione, è Raffaello De Ruggieri, presidente della Fondazione Zetema, uno dei protagonisti del miracolo compiuto a Matera: da vergogna nazionale (come disse Togliatti) a Capitale europea della cultura 2019, anno in cui era sindaco della città lucana. «Siamo riusciti – sottolinea De Ruggieri – nell’impresa epica di trasformare la questione culturale in una questione politica, di instillare nella comunità il veleno buono dell’appartenenza. Il modello Matera è replicabile, abbiamo vinto perché ha partecipato la comunità».
Il centro storico di Matera
Matera, capitale europea della Cultura 2019
La storia di Matera insegna quanto contino – aggiunge – «costanza e caparbietà, oggi le configurano come resilienza». Quando tutti scappavano dai sassi, De Ruggieri nel 1969 comprò casa nel posto che avrebbe stregato Pierpaolo Pasolini, Henri Cartier-Bresson, Adriano Olivetti.
«Il notaio non voleva redigere l’atto, sconsigliandomi l’acquisto», commenta con ironia l’ex primo cittadino, aggiungendo: «Le battaglie si fanno con le testimonianze e noi creammo il partito dei salmoni, nuotando controcorrente».
È pure un flop a 5 stelle la mancata riapertura dell’ex Tribunale di Rossano. Il M5S poteva fare di più con 4 parlamentari della Sibaritide. Ci sarebbe da aggiungere Vittoria Baldino, originaria di Paludi ma eletta nella circoscrizione Lazio 1.
Al Governo il ministro della Giustizia è stato fino a poco tempo fa un grillino ortodosso e giustizialista come Alfonso Bonafede. Nessun partito o movimento politico ha mai avuto una pattuglia così grande da quelle parti. Centrodestra e centrosinistra non hanno fatto meglio.
La città adesso è diventata Corigliano-Rossano e conta 80mila persone. Ha il Pil più alto della Calabria e tanta storia ma non si è mai arresa allo scippo del Tribunale. Almeno nella sua componente rossanese. Perché il campanilismo qui non è morto con la città unica.
L’ingresso dell’ex tribunale di Rossano Calabro durante l’occupazione
La Scutellà si batte in solitaria
Eppure qualcuno nel Movimento 5 Stelle in questi anni ha tentato di muovere le acque. Elisa Scutellà, deputata grillina di Corigliano-Rossano, ha presentato una proposta di legge per la riapertura dei 31 tribunali. Adesso si attende che arrivi in Commissione Giustizia, di cui lei fa parte. Poi seguirà il normale iter alla Camera di competenza. Non è così facile. Perché gli equilibri politici sono cambiati. Non poco. Tra Bonafede e la Cartabia esiste una distanza siderale. Così come tra Conte e Draghi.
La proposta di legge porta la firma anche delle parlamentari calabresi Enza Bruno Bossio (Pd) e Wanda Ferro (Fdi). Ma non quella di Vittoria Baldino, Francesco Forciniti e Francesco Sapia. Gli ultimi due hanno lasciato il movimento quando Grillo ha imposto di votare la fiducia a Draghi.
Elisa Scutellà, parlamentare del Movimento 5 stelle
E in Senato?
La senatrice Rosa Silvana Abate non poteva tecnicamente firmare la legge della Scutellà. Invece poteva essere tra i firmatari dello stesso testo presentato a Palazzo Madama da un’altra 5 stelle, Felicia Gaudiano. Non lo ha fatto. Anche la Abate però fa parte della squadra di parlamentari della Sibaritide.
In principio fu la Cancellieri
La Riforma della Giustizia del ministro Annamaria Cancellieri ha di fatto emesso la sentenza di morte verso il tribunale di Rossano e altri 30 in tutta Italia. Era il 2012. Non è andata meglio con Andrea Orlando, ex guardasigilli del Pd da sempre vicino al consigliere regionale della Calabria, Carlo Guccione. Il centrodestra ha, pure, la sua quota di responsabilità. E su Jole Santelli, allora parlamentare di Forza Italia e in passato sottosegretario alla Giustizia, è sempre circolata insistentemente la voce che si fosse spesa per la salvezza del Tribunale di Paola. Lei si è sempre opposta con forza a questa versione. Vennero un po’ tutti alla protesta per la riapertura del Tribunale, soprattutto il Pd con i suoi parlamentari.
Nel 2013 erano tutti nel Pd. Da sinistra Stefania Covello, Enza Bruno Bossio, Ernesto Magorno e Mimmo Bevacqua a sostegno della protesta pro Tribunale
Il colpo a vuoto di Graziano
L’ultimo tentativo di portare avanti la battaglia per il tribunale di Rossano si è scontrato con la mancanza del numero legale. Così gli stessi colleghi di maggioranza e opposizione hanno affossato la proposta di legge del consigliere regionale dell’Udc, Giuseppe Graziano. Voleva essere un atto di impulso verso il Parlamento. A questo punto ci si chiede se la trovata di Graziano fosse o meno velleitaria ed elettorale, visto che si vota a ottobre e rimane forse una sola seduta a Palazzo Campanella per approvare il testo del “Generale”.
Era uno Stasi di lotta
Da sinistra l’ex governatore della Calabria, Peppe Scopelliti con Mauro Mitidieri e Flavio Stasi, allora impegnati nello sciopero della fame in difesa del tribunale
Fatta la nuova città, trovato il nuovo sindaco: Flavio Stasi. Una parte di credito e fiducia se l’era conquistata proprio quando fece – insieme all’attuale assessore agli Affari legali, Mauro Mitidieri – lo sciopero della fame in difesa del Tribunale di Rossano. Allora Stasi era militante e attivista di Terra e Popolo. Adesso è tutto cambiato. Da primo cittadino ha presieduto nel 2020 un consiglio comunale aperto. Per sensibilizzare deputati e cittadini sulla vicenda dell’ex tribunale. Ma anche lui ha mollato la presa su un problema così difficile come la ridefinizione della geografia giudiziaria.
La manifestazione contro la chiusura dell’ex Tribunale di Rossano
Castrovillari non ha risolto i problemi
L’avvocato Maurizio Minnicelli è stato uno dei protagonisti del movimento in difesa del tribunale di Rossano. Un presidio poi accorpato a Castrovillari. Dove, sostiene il penalista: «Abbiamo assistito nel corso degli anni a un aumento delle pendenze e nessuna riduzione dei tempi dei processi, ad aggravi di spesa senza alcun risparmio».
Minnicelli analizza non senza autocritiche rivolte alla comunità di appartenenza. «Forse non siamo stati molto in allerta 20 anni fa – aggiunge – quando si parlava di questa riforma». Le colpe sono anche della «società civile» secondo l’avvocato di Corigliano-Rossano «incapace di comprendere che la battaglia per il tribunale non fosse una lotta di casta». Di casta no e nemmeno di classe. In un territorio dove la criminalità organizzata non molla la presa, il presidio di giustizia copriva un bacino di 150mila persone sulla fascia jonica. Questo lo sa bene Nicola Gratteri. Non a caso il procuratore di Catanzaro aveva riportato a galla in Commissione antimafia la vicenda dell’ex tribunale di Rossano.
Per l’edizione 2020 ha ricevuto sostegno dalla Direzione generale Cinema del Mibact, dal Dipartimento di Stato degli Usa, dal regno d’Olanda, dal Canada, dalle ambasciate di Norvegia, Germania, Irlanda, Austria, Svezia, Australia, dall’Istituto culturale coreano. Ma nemmeno un centesimo dalla Regione Calabria.
La motivazione? Il progetto – anche dopo un riesame – secondo la commissione chiamata a giudicarlo ha ottenuto sei punti in meno del minimo (54/100) necessario per beneficiare dei fondi. Il successo delle edizioni passate, il patrocinio del Parlamento europeo e di Palazzo Chigi, il respiro internazionale della manifestazione forse non fanno punteggio a queste latitudini.
Una torta da un milione e mezzo
La stagione culturale calabrese 2020 costerà alla Regione Calabria circa un milione e mezzo di euro divisi per i 41 soggetti, tra pubblici e privati, che si spartiranno la torta dei finanziamenti a valere sui PAC 2007/2013. Gli esclusi per vizi di forma o mancanza dei requisiti sono stati in totale 29. Tra i destinatari del bando enti pubblici, fondazioni, associazioni culturali, imprese, cooperative e consorzi operanti nel campo della promozione culturale.
I requisiti indispensabili erano sostanzialmente due: avere svolto almeno sei edizioni dello stesso progetto negli ultimi dieci anni e la realizzazione di eventi che abbiano un legame «duraturo e caratterizzante col bene o con il luogo in cui si svolge».
L’importo massimo del contributo erogabile era di 50mila euro per i singoli partecipanti e 75mila euro per le domande presentate in forma associata.
Le graduatorie sono distinte per enti pubblici e soggetti privati. Delle sedici amministrazioni comunali vincitrici, 15 hanno ricevuto il massimo (o quasi) del finanziamento erogabile. Solo il Festival del Libro dei ragazzi promosso dal Comune di Zumpano ha ricevuto 25.500 euro.
Il municipio di Zumpano, unico tra gli enti beneficiari del bando a incassare circa la metà del massimo richiedibile
Cinquantamila euro anche per le associazioni Armonie della Magna Grecia, Associazione Culturale Novecento, Ama, così come per il Festival Trame 2020. La Cenerentola dei privati è il lametino Color Fest, che ottiene appena 10.296 euro. Occorre, però, considerare che molti eventi si sono svolti in streaming con un abbattimento dei costi fino al 50%.
Troppi errori, niente fondi
L’anno del Covid ha mietuto vittime anche nel blasonato mondo degli eventi culturali regionali. Fuori per un cavillo burocratico la kermesse Moda Movie, storico evento che unisce moda e spettacolo, fondata da Sante Orrico e giunta oramai alla 25° edizione.
Per i privati le ragioni dell’esclusione sono prettamente di natura finanziaria: bilanci non completi, mancanza del rendiconto, assenza della certificazione della capacità economica del soggetto che promuove l’evento.
Quando, invece, parliamo di pubblico ecco venir fuori l’incapacità dei burocrati nel compilare a dovere e inviare la domanda di partecipazione.
Bocciata per incompletezza la richiesta di finanziamento presentata dal Comune di Castrolibero per la rassegna teatrale “Chi è di scena”. Una svista imperdonabile per la città di Orlandino Greco. Alla mail di partecipazione del Comune di Martirano Lombardo per “Rockon” mancano gli allegati.
Arrivano fuori tempo massimo la domanda del Comune di San Fili per la “Notte delle Magare” e quella del Comune di Oriolo per “La stagione teatrale Oriolese 2020”. Sono entrambi eventi attesissimi e capaci di richiamare ogni anno centinaia e centinaia di turisti.
Macroscopica, invece, la svista del Comune di Simeri Crichi che, per la 9° edizione del Presepe Vivente, decide di partecipare con un raggruppamento tra Comune e associazioni non previsto però dal bando.
Di sfortunata casualità si potrebbe parlare per il Comune di Saracena, che non riesce a partecipare all’avviso perché la carta d’identità allegata al progetto risulta danneggiata. Un salto del responsabile della pratica all’Ufficio Anagrafe del suo stesso ente sarebbe tornato utile probabilmente.
Sfumano anche la “Sagra degli Arnedos” di Rovito e lo storico festival “Radicamenti – Festa della Seta” del Comune di Mendicino per una mancata risposta al soccorso istruttorio della Regione Calabria. Magari i dirigenti erano in smart-working…
Clausole e ripescaggi
Il bando di gara era chiaro: potevano ambire ai fondi regionali gli organizzatori di eventi svolti dal 1 gennaio al 31 dicembre2020. Nessuna deroga Covid.Così almeno sembrava all’inizio. Deve ringraziare un cavillo l’associazione Cluster, veterana dei finanziamenti regionali ed organizzatrice del Festival del Fumetto “Le strade del paesaggio” a Cosenza. La XIV edizione era prevista per il 2020 ma, sospesa causa Covid, la si è realizzata nel 2021.
A far ottenere i fondi a Cluster, però, sono state due magiche paroline presenti nel bando: “avvio dei lavori”. Una nota a piè di pagina del bando definisce come “la data di inizio dei lavori di costruzione relativi all’investimento oppure la data del primo impegno giuridicamente vincolante ad ordinare attrezzature o di qualsiasi altro impegno che renda irreversibile l’investimento, a seconda di quale condizione si verifichi prima”.
Tanto è bastato per salvare il finanziamento e qualche malpensante potrebbe chiedersi perché non sia stato adottato lo stesso criterio per la “Notte delle Magare” ad esempio. Tra la graduatoria provvisoria di aprile e quella definitiva dei primi di agosto, comunque, le differenze sono quasi nulle. E i pochi ripescati gongolano ripensando alla bocciatura iniziale divenuta promozione (e denaro).
Riammesso dopo il riesame il “XXIII Festival della Musica” del Comune di Spezzano Sila, dapprima escluso per documentazione incompleta. Rientrano in zona Cesarini anche “MusicAma Calabria” di AmaCalabria , “Arte immaginazione, creat(t)ività e multiculturalità” dell’associazione La città del Sole, la “XXI edizione del Festival dell’Aurora” della Fondazione Odyssea. Ognuna di loro porta a casa 50mila euro, il massimo del finanziamento erogabile. Per “Ricrii 18”, la manifestazione proposta da Scenari Visibili, il ripescaggio porterà in cassa, invece, circa 14mila euro.
Per fortuna, Leo Battaglia è vivo e lotta con noi, altrimenti sai che noia a Ferragosto. Grazie alla sua trovata, ispirata al trash più spettacolare, ha dato di che parlare ad avversari, ambientalisti e benpensanti e ha fatto ridere tutti gli altri, cioè la stragrande maggioranza dei calabresi.
Il lancio delle mascherine chirurgiche con sponsor elettorale dall’elicottero sulle spiagge dell’Alto Jonio cosentino ha movimentato le cronache politiche, altrimenti scarne, di questo periodo.
Dalla Lega non c’è alcun imbarazzo apparente per il gesto di Battaglia, famoso nel passato per aver fatto imbrattare le pareti pubbliche e i cavalcavia coi suoi spot elettorali. Anzi, c’è chi dice con un certo candore che in politica contano anche i voti e l’esponente cosentino ne pesa oltre duemila. Di questi tempi, oro zecchino.
E sono proprio i voti la croce e delizia della Lega calabrese.
Candidature big e militanti in fuga
Si può anche pensare tutto il male possibile della Lega. Ma al partito di Salvini occorre riconoscere un merito: è l’unica formazione politica di centrodestra in cui la militanza ha ancora un valore.
E, non a caso, la fuga dei trecento militanti, capitanati dall’ex segretario provinciale di Cosenza ed ex vicesegretario regionale Bernardo Spadafora ha destato non poco scalpore e qualche preoccupazione.
Il capitano Salvini, impegnato a promuovere il suo nuovo corso moderato, non sembra eccessivamente turbato. Anzi, la sua unica preoccupazione, a detta dei bene informati, è presentare in tempo utile liste confezionate con un occhio particolare ai voti. E pazienza se qualcuno si fa venire il mal di pancia: in politica, secondo il cinico capitano, contano anche i risultati. Quindi, pazienza se si perde un pezzo di base.
I vertici calabresi del Carroccio (cioè la terna capitanata da Giacomo Saccomanno e composta da Roy Biase e Cataldo Calabretta), si sono dati un bel da fare per bilanciare tutti gli equilibri e quadrare più cerchi possibili, aiutati in questa missione dal recente tour elettorale del leader nazionale, giunto in Calabria per promuovere i referendum sulla giustizia ma anche per fare campagna acquisti.
Il salto sul Carroccio del vincitore
Iniziamo da Cosenza, dove il Carroccio schiererà in lista, oltre al menzionato Battaglia, il consigliere uscente Pietro Molinaro (che tra l’altro figurerebbe tra gli affetti da mal di pancia, per via del mancato assessorato all’Agricoltura), Antonio Russo, il sindaco di Mirto Crosia, e Simona Loizzo, la cui candidatura è stata presentata con una mega conferenza stampa.
Secondo i malevoli, Loizzo sarebbe anche un’interfaccia di Pino Gentile, la cui candidatura è in discussione a causa di un processo in cui il big cosentino è tuttora alla sbarra. Quindi, con grande probabilità, la famiglia politica più forte di Cosenza darà il proprio contributo elettorale proprio attraverso la dentista cosentina, che vanta di suo un forte radicamento nella Sanità che conta.
Simona Loizzo, già gentiliana DOCG, sarà nelle liste della Lega alle prossime Regionali
Un discorso a parte merita la candidatura di Mariano Casella, ex consigliere comunale di Diamante, imprenditore e amministratore del supermercato Conad a Diamante. Casella è anche il fratello di Anna Francesca, la giovane ex vicesindaca di Diamante e moglie di Ernesto Magorno, attuale sindaco del centro dell’alto Tirreno cosentino, ex segretario regionale del Pd e attuale senatore di Italia Viva.
Si è vociferato a lungo dei tentativi (falliti) di Magorno di portare il suo partito nel centrodestra. Ora, con tutta probabilità, il senatore ha calato il suo carico di briscola. Le ragioni di partito saranno sacre senz’altro, ma per lui è importante avere amici anche nelle forze che, con molta probabilità, governeranno la Regione. Perciò ha preso il toro per le corna, ha bypassato le forze centriste e ha bussato direttamente a destra: un Salvini è per sempre. O quasi.
Nel resto della Calabria vale la militanza
Nel collegio di Catanzaro, invece, il Carroccio ha schierato in prima fila il suo dirigente Antonio Macrì e i consiglieri regionali uscenti Filippo Mancuso e Pietro Raso. Un asset elettorale decisamente più di partito.
Un discorso simile vale per Reggio, dove risulta confermata Tilde Minasi. Squadra vincente non si cambia? Certo. Ma anche logica ferrea di partito più ragion politica.
La Lega, infatti, deve confermare i risultati dalla Sila Greca in giù e acchiappare quanto può a Cosenza, dove l’emorragia dei trecento può creare qualche guaio.
A partire, magari dalle Amministrative del capoluogo bruzio, perché tra le defezioni si registra quella del consigliere comunale cosentino Vincenzo Granata, esponente del Carroccio a Palazzo dei Bruzi, già incaricato di compilare la lista per le prossime comunali.
L’abbandono di Granata, fratello di Maximiliano, attuale presidente del Consorzio Vallecrati, ha a che fare più con ragioni di equilibrio politico che di militanza ideologica: a differenza degli ammutinati di Spadafora, Granata non ha una matrice destrorsa e c’è chi lo considera più vicino agli Occhiuto (Mario o Roberto non importa) che ai vertici regionali leghisti.
Dove andranno a finire i dissidenti?
Un rifugio possibile per i dissidenti potrebbe essere Fratelli d’Italia, che si ostina a esibire nel simbolo la mitica fiamma tricolore (per quanto ridotta a poca cosa, più piccola che nel simbolo della ex An).
Ma nel partito della Meloni, gonfiatosi nei sondaggi grazie a una campagna acquisti aggressiva e incauta, la militanza non è proprio uno degli elementi forti. Resterebbero i mini partiti, cioè i seguaci di Maurizio Lupi e di Giovanni Toti.
Per quel che riguarda Noi con l’Italia di Lupi, ci sarebbe poco da fare: le liste sono quasi completate e l’orientamento è decisamente centrista. Qualcosa, invece, si muoverebbe in Coraggio Italia, il movimento federato che fa capo a Toti e a Luigi Brugnaro, il sindaco di Venezia.
Luigi Brugnaro e Giovanni Toti
Anche questo movimento starebbe preparando proprie liste. E per il collegio di Cosenza spunta già un nome: Alfredo Iorio, calabrese trapiantato a Roma già vicino alla Lega. Anzi, vicinissimo, visto che è stato l’uomo ombra di Vincenzo Sofo durante le ultime europee e poi, durante le Regionali 2020, di Pietro Molinaro. Che sia lui il Mosè a cui toccherà il compito di portare i dissidenti verso qualche improbabile terra promessa?
Neodemocristiani alla carica
I seguaci di Maurizio Lupi si sono dati un gran da fare e, quatti quatti, hanno quasi completato le liste per le Regionali e si preparano ad aggredire anche Cosenza.
Noi con l’Italia vanta un organigramma regionale non numeroso ma compatto, in cui c’è lo zampino di Pino Galati, un altro evergreen del centrismo calabrese, intenzionato a “morire democristiano” (infatti, ha smentito come gossip ferragostani le voci che lo darebbero pronto a inciuciare con Salvini…).
Lo stato maggiore dei lupacchiotti calabri è costituito da altri tre evergreen: il cosentino Franco Pichierri, già notabile dell’Udc, e aspirante sindaco di Cosenza, il vibonese Michele Ranieli, che gestisce il collegio di Catanzaro-Vibo-Crotone (insomma, la “Grande Catanzaro”), e il reggino Nino Foti, già parlamentare azzurro.
Pichierri si è mosso in due direzioni: ha preparato due liste (una con la sigla di partito e l’altra personale) con cui tenterà l’avventura a Palazzo dei Bruzi in “amichevole concorrenza” col centrodestra e ha compilato la lista per il più importante collegio elettorale regionale.
Ne fanno parte l’ex sindaco di Acri Nicola Tenuta e il big della CislFranco Sergio, già consigliere regionale con Oliverio.
A Catanzaro, invece, sono schierati Concetta Stanizzi, avvocata e presidente provinciale della Lega italiana tumori, Tea Mirarchi, consigliera comunale di Soverato, Tranquillo Paradiso, consigliere comunale di Lamezia, e Levino Rajani, presidente provinciale dell’Ordine dei farmacisti di Crotone.
Più delicati gli equilibri a Reggio, dove figura il nome di Maria Tarzia.
Conto alla rovescia
Secondo i bene informati la Commissione Antimafia è già all’opera sui nominativi inviati dai responsabili calabresi e dovrebbe fornire il suo responso nei primi giorni della prossima settimana.
Ovviamente, a chi ne ha fatto richiesta, visto che i Masanielli di de Magistris hanno risposto picche in maniera sdegnata: il loro codice etico sarebbe più forte del regolamento della Commissione parlamentare. Mario Oliverio, invece, si è limitato ad annunciare la propria candidatura con due liste a supporto e non è dato sapere se aderirà alla sfida “legalitaria” lanciata da Roberto Occhiuto.
Il conto alla rovescia per confermare o smentire il totonomi è iniziato…
Muoia il Pd con tutti i suoi elettori: Mario Oliverio ha deciso di spaccare quel che resta dei democrat e presentarsi alle Regionali. Da solo. Contro il suo vecchio partito che lo ha scaricato come l’ultimo dei reietti. In una prova di forza che probabilmente lascerà a terra più vittime sul campo amico (?) che quello nemico.
Alle tradizioni non si rinuncia
Non è certo un fulmine a ciel sereno, la notizia era nell’aria da tempo. Almeno da quando Oliverio era riapparso sulla scena dopo un autoesilio volontario tra gli amati boschi silani tramite una Fondazione che in realtà dovrebbe occuparsi di temi che col voto di ottobre dovrebbero avere poco a che vedere. E poi a certe tradizioni nella sinistra calabrese non si rinuncia: che elezioni sarebbero se non si andasse tutti divisi? E così ecco arrivare l’ufficialità della candidatura alla presidenza della Regione del grande ex. Lo slogan, a giudicare dai post dei comitati che lo sosterranno, sarà quello di Gene Wilder nell’immortale Frankenstein Junior di Mel Brooks: «Si può fare».
Se prima eravamo in due
Non c’è due senza tre, quindi dopo Amalia Bruni e Luigi de Magistris all’elenco degli aspiranti governatori più o meno di sinistra si aggiunge il sangiovannese in cerca di un (difficile) bis a scoppio ritardato. La mancata ricandidatura al termine del suo primo mandato per far spazio al fallimentare esperimento civico targato PippoCallipo era rimasta sul groppone a Oliverio. Non che la sua di esperienza alla Cittadella sia rimasta impressa nella mente dei calabresi come una delle più felici della storia del regionalismo, ma il caos che da tempo regna in casa democrat ha convinto il politico silano che nel centrosinistra lui possa – e debba – ancora dire la sua.
Classici intramontabili
Difficile ipotizzare che la tripartizione dei voti tra i candidati della gauche crei difficoltà a Roberto Occhiuto, anzi. Con elezioni che non prevedono ballottaggi come quelle calabresi vince chi prende anche un solo voto in più dei rivali. E se i tuoi pescano tutti nello stesso bacino elettorale (o quasi) probabilmente quel voto in più non lo avranno. In compenso per Oliverio sarà l’occasione di riproporre l’intramontabile schema che da anni caratterizza le vicende del Pd locale e di quello bruzio in particolare.
Due di qua e uno di là
Protagonisti quasi sempre Oliverio e altri due big cosentini: Nicola Adamo e Carlo Guccione. A rotazione due di loro si alleano e l’altro si smarca, con combinazioni di volta in volta differenti. Il solitario di turno in questo modo fa vedere quanto ogni tentativo di vittoria sia impossibile senza lui e i voti che porta con sé. Spesso, per un curioso scherzo del destino, accade quando a contrapporsi al centrosinistra è uno dei fratelli Occhiuto. La storia recente di Cosenza ne è l’esempio più evidente, con l’attuale e ormai uscente sindaco che ha beneficiato dei dissidi del momento tra i tre ex Pci per sbancare alle Amministrative sia nel 2011 che nel 2016.
Il toto-nomi
Sarà così anche alle Regionali? Stavolta gli avvantaggiati dalla sua corsa in solitaria potrebbero essere in due, quel de Magistris con cui Oliverio avrebbe anche flirtato e Occhiuto Jr, seppur con risultati finali ben diversi. Certo è che all’annuncio del sangiovannese è scattato il toto-nomi su chi potrebbe seguirlo in lista. Con lui dovrebbero esserci il fedelissimo Giuseppe Aieta e il suo carico di preferenze e il figlio di quel Brunello Censore che a Vibo i suoi voti li ha sempre. Quanto a Reggio, altri esclusi eccellenti del recente passato, come l’ex consigliere Francesco D’Agostino, potrebbero dar man forte a Oliverio. Una grana non da poco per la Bruni, visto che “Palla Palla” difficilmente non si sarà fatto i conti prima di sciogliere le fatidiche riserve sul suo ritorno in prima linea. Se poi quei conti gli permettano di aspirare davvero alla presidenza della Regione o solo di uscire vincitore dalla guerra fratricida si vedrà.
Qualche giorno fa su questo stesso giornale, Sergio Pelaia ha scritto un illuminante articolo sul non finito e sul consumo di suolo che erode paesaggi e luoghi naturali, coste e colline di questa terra martoriata. Al cemento, in questa torrida estate si è aggiunto il fuoco che ci sta portando via alberi, animali, paesaggi e risorse. Abbiamo perso, e seguiamo perdendo, le tracce della antica civiltà magnogreca, fondata su proporzione e stile, in una parola sulla bellezza. Al modello delle città antiche, in tutto il sud, circondate di bellezza, abbiamo sostituito il precario, l’ordinario, il degradato, in una caotica, brutta, distorta modernità.
Oggi, dopo i danni della pandemia, del clima impazzito, della terra ferita, riscoprire massicce dosi di bellezza quotidiana, come la tazzina del caffè di tutti i giorni, dunque come virtù civile, vuol dire rieducarci alla cultura e al gusto del bello, proprio perché nelle condizioni che stiamo vivendo, le città, i luoghi, le piazze, i paesaggi dell’anima e dello sguardo, le case, devono essere il rifugio di una nuova, necessaria meraviglia delle piccole e grandi cose, degli sguardi e della mente.
La bellezza come necessità
Sembra, questa necessità, questa urgenza di bello, il vezzo di un inguaribile esteta, ma si tratta in Calabria, una terra piena di ferite dell’orrore sotto ogni forma, di una necessità impellente, di un ritrovare una rotta che dietro la parola bellezza trascini armonia, ovvero quella qualità di noi esseri umani di appagare l’animo attraverso i sensi, ritrovando il gusto di una meritata, significativa contemplazione.
È come se si fossero inceppati più di un meccanismo nelle nostre menti, così da rimanere impigliati e incapaci di uscirne, non sapere più capire cosa selezionare per estasiarci e contemplare, e al nostro sguardo perduto dietro sequenze di non finito, di coste martoriate, di terre bruciate, di degrado a perdita d’occhio, si aggiunge quello miope della cronica incapacità della politica di oggi di confrontarsi con la bellezza e saperla offrire e diffondere nelle comunità.
Un’arma contro la rassegnazione
La politica calabrese – italiana – non lo sa il significato di bello, non pratica la bellezza, non è un “ingrediente” delle attività volte a rendere tutto migliore perché nel brutto trova alimento alle proprie aspirazioni di potere elettorale, creando bisogni piuttosto che soluzioni. Un dato preoccupante, un tratto civile che un protagonista delle ribellioni alla mafia, alla malavita, al malcostume imperante, già negli anni Settanta, come Peppino Impastato – ucciso nel 1978 – aveva ben descritto.
«Se si insegnasse la Bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità: si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla Bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore».
Un’idea condivisa
Bellezza, Impastato lo scriveva con la maiuscola, non a caso, e nel suo significato militante, il bello aveva un preciso senso: non estetica aristocratica, ma riconoscimento di ciò che è buono, della qualità, prima che della quantità.
Ma Impastato non è stato il solo a proporci questa visione delle cose. Papa Francesco ne ha parlato nella sua bellissima enciclica “Laudato sii”, e non so quanto, proprio i cattolici ne abbiano seguito l’insegnamento. E ancora prima del Papa, quella figura straordinaria del cardinal Martini, scriveva «Quale Bellezza salverà il mondo? Il mondo moderno, essendosela presa contro il grande albero dell’essere, ha spezzato il ramo del vero e il ramo della bontà. Solo rimane il ramo della Bellezza, ed è questo ramo che ora dovrà assumere tutta la forza della linfa e del tronco», riferendosi ad un brano dello scrittore russo Solženicyn sull’unità di queste virtù.
Il divario tra cittadini e politica
La bellezza, dunque, può ancora salvarci? Citando una frase abusata, ma che in momenti difficili come questo appare come una vera ancora di salvataggio, forse sì. Però occorre fare in modo che – soprattutto per le nuove generazioni che vivono oggi la pandemia come un monito – sia ancora realizzabile il sogno di educare la gente alla bellezza, per mantenere vivi curiosità e stupore. E questo può avvenire solo coltivandola la bellezza, dalle scuole alla società, con le Arti, la Natura, la Cultura, soprattutto, armi civili potentiche agiscano contro tutte le inciviltà, l’arroganza, la negligenza, la rinuncia e rassegnazione, atteggiamenti cronici che al sud hanno finito -oggi- per aumentare il divario enorme tra cittadini e politica.
In comune hanno molte cose, soprattutto quella di essere ingombranti per i loro stessi schieramenti. Poi c’è l’umana tendenza all’autoconservazione che li spinge a svolazzare di fiore in fiore nel tentativo di carpirne il profumo e succhiarne la linfa. Le metafore finiscono qui, perché le gesta dei personaggi in questione non sono esattamente ancorate all’idealismo ma a quel realismo che in politica, specie nella periferia della periferia calabrese, si traduce in sfrontato cinismo.
Non sono certo i soli, ma i loro profili sono paradigmatici di come vadano le cose in quel di Vibo Valentia, dove su trasversalismo e consociativismo si potrebbe istituire dei corsi di laurea. Sono quattro, due vengono dalla “città” e gli altri due dall’entroterra. Hanno cambiato casacca più volte, certo più per necessità che per propensione concettuale, e sono pure chiacchierati. Ma, direttamente o indirettamente, si preparano a giocare un ruolo di primo piano in vista delle prossime elezioni regionali.
Hasta la victoria a volte
Partiamo dal più giovane, Vito Pitaro. Avvocato, 45 anni, a gennaio 2020 è stato eletto nella lista “Jole Santelli presidente” con 5.024 preferenze. È alla sua prima legislatura regionale, ma a Palazzo Campanella ci era già stato prima, vedremo come e con chi. Dal 2005 al 2007 è stato consigliere comunale nella sua città, Vibo, nonché assessore alle politiche sociali, della famiglia, del volontariato, dell’associazionismo e sanitarie. Deleghe eterogenee, proprio come il suo percorso politico. Oggi Pitaro è un irrinunciabile portatore di voti del centrodestra – in molti scommettono in un suo boom di consensi esteso fino ai confini crotonesi del collegio – ma fino a qualche anno fa era addirittura un compagno: è stato in Rifondazione comunista e nei Comunisti italiani, quindi socialista e anche dirigente del Pd.
L’ex comunista Vito Pitaro
In una delle poco esaltanti sedute di questi mesi del consiglio regionale, vestito come se stesse festeggiando un matrimonio a Little Italy, ha dato il meglio della sua arte oratoria per sbeffeggiare l’opposizione di centrosinistra rispetto ai danni fatti nel recente passato. Nessuno dei dirimpettai, però, gli ha ricordato che proprio nella vituperata legislatura precedente è stato tra i ben remunerati collaboratori di uno dei consiglieri del Pd più vicini a Mario Oliverio, Michele Mirabello.
Intercettazioni che scottano
Magari, regolamento alla mano, la Commissione Antimafia non potrà fare il “favore” a Roberto Occhiuto di segnalare il suo nome, che però compare, non da indagato, in un paio delle più rivelanti inchieste antimafia che hanno riguardato il Vibonese negli ultimi anni. In una, “Rimpiazzo”, ci sono intercettazioni parecchio sconvenienti dei suoi colloqui con un presunto killer ed elemento di vertice, descritto come piuttosto sanguinario, del clan dei “Piscopisani”.
L’altra è Rinascita-Scott: nell’aula bunker del maxiprocesso il suo nome, anche qui non da indagato né da imputato, è riecheggiato più volte. E nelle carte, per esempio, c’è una telefonata tra un indagato e uno dei principali imputati, Giovanni Giamborino, in cui quest’ultimo dice: «’Sto Vito è uno spregiudicato… di nessuna cosa si guarda… fa compari, comparaggi con tutto».
Il rinnegato
Per anni Pitaro è stato il plenipotenziario su Vibo di Brunello Censore, ex uomo forte del Pd ora rinnegato dal suo stesso partito e riparato tra le fila di Mario Oliverio, con cui pare voglia candidare il figlio. Nato a Serra San Bruno 63 anni fa, cuoco, commercialista, docente di scuola superiore, è stato consigliere comunale e poi sindaco del suo paese dal 2002 al 2005. Quindi il grande salto: eletto consigliere regionale nell’era Loiero si conferma, passando all’opposizione, anche quando vince Peppe Scopelliti.
Da sinistra verso destra, Vito Pitaro, Stefano Luciano (capogruppo del Pd al Comune di Vibo) e Brunello Censore
La carriera non si ferma e nel 2013 arriva addirittura alla Camera. Un figlio del popolo, di famiglia umile e cresciuto nella sezione del Pci di un paese di montagna, fa ingresso a Montecitorio e ci resta per 5 anni. Bersaniano quando vince Bersani, renziano quando si afferma Renzi, poi ovviamente anche Zingarettiano, alle primarie per il fratello di Montalbano incassa grandi numeri e diventa un personaggio social per un’espressione che riassume il suo credo politico – «a mia mi piacia mu ‘ndi vidimu allu bar, mu parramu , mu facimu…» – e per l’imitazione con tanto di video spopolante sul web che ne fece un giovane studente durante un incontro pubblico.
Né con te né senza di te
A maggio del 2018 il consiglio regionale della Calabria gli ha riconosciuto il vitalizio per i due mandati a Palazzo Campanella: 8 anni e 29 giorni per un assegno mensile di 4.113,58 euro. Alle primarie nazionali di cui si diceva (marzo 2019) fece una lista, “Calabria con Zingaretti”, assieme a Carletto Guccione e contro Oliverio. A giugno del 2019 dichiarava convinto: «Il Pd vada oltre Oliverio o la sconfitta è certa. Il progetto di cambiamento è diventato continuismo. Ripartiamo dal civismo».
Probabilmente poi avrà cambiato idea sul civismo quando Pippo Callipo mise una x sul suo nome alle Regionali del 2020 facendolo ripiegare su Luigi Tassone, oggi ricandidato dal Pd che, come tanti altri nel percorso politico di Censore, gli ha voltato le spalle dopo aver beneficiato del suo appoggio. Oggi è tornato con Oliverio.
Per Brunello la discesa è iniziata con la batosta presa alle Politiche del 2018, quando non è riuscito a farsi rieleggere alla Camera venendo superato dalla meloniana Wanda Ferro e dalla grillina Dalila Nesci. Lui all’epoca deteneva ancora le redini del Pd a Vibo e la sua prima vendetta fu l’espulsione dai dem dell’ex presidente della Provincia Francesco De Nisi.
L’espulso già senza tessera
Nato a Filadelfia nel ’68, ingegnere, eletto più volte sindaco del suo paese con percentuali bulgare, De Nisi viene dai cattolici di centrosinistra confluiti nella Margherita, ma quando Censore lo ha fatto espellere lui non aveva la tessera del Pd da due anni. Hanno fatto scalpore le foto che lo ritraevano all’epoca in un conciliabolo romano con il senatore di Forza Italia Giuseppe Mangialavori, ma oggi nessuno si stupisce più nel vederlo mani e piedi nel centrodestra.
A gennaio 2020 si è candidato con Jole Santelli nella “Casa della libertà” ma, nonostante i 7mila voti presi, non è riuscito a diventare consigliere regionale. Stavolta ci riproverà con la creatura politica di Giovanni Toti, “Cambiamo”.
Francesco De Nisi
La poltrona al fratello
Nella sua Filadelfia ha lasciato la poltrona da primo cittadino ben salda sotto le terga del fratello minore, Maurizio, mentre alla Provincia ha condiviso con il suo predecessore, Gaetano Bruni, la sorte di dimettersi prima della scadenza naturale del mandato da presidente per inseguire uno scranno parlamentare mai raggiunto. La storia di quell’ente, finito in dissesto finanziario e al centro di inchieste e polemiche, è tristemente nota.
Ancora tutta da scrivere, almeno in sede giudiziaria, è invece quella che potrebbe scaturire dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, Giovanni Angotti, che nel corso di diversi interrogatori, parlando del clan Anello-Fruci, ha riferito «che la cosca in occasione di alcune competizioni elettorali aveva appoggiato Francesco De Nisi procacciandogli dei voti». De Nisi non è indagato e ha respinto le accuse del pentito: «Sono rimasto basito dalla diffusione di tali notizie del tutto prive di qualsiasi possibile indizio di fondamento e che contrastano con il mio impegno pubblico».
Il pianista
La sua strada si è recentemente incrociata con quella di un ex senatore di lungo corso tornato al centro del dibattito politico e anche delle schermaglie mediatico-giudiziarie. De Nisi, di scuola Dc, è infatti vicecoordinatore del movimento di Toti che, a livello regionale, è guidato da Franco Bevilacqua. Tutt’altra scuola: nato a Vibo nel ’44, insegnante, Bevilacqua viene dal Msi ed è entrato in Senato nel 1994 con Alleanza nazionale.
A Palazzo Madama ha fatto quattro legislature: da An-Msi è passato nel Popolo della Libertà e ci è rimasto dal 2008 al 2013. Poi è transitato in Fratelli d’Italia ed è approdato alla corte dei sovranisti di Gianni Alemanno. Nel frattempo ha maturato il diritto a un vitalizio che oggi dovrebbe aggirarsi attorno ai 5mila euro al mese e, negli anni, le cronache parlamentari lo segnalano per un paio di episodi non proprio da curriculum.
Franco Bevilacqua in versione pianista
Una volta fu beccato a fare il “pianista”: si votava (ottobre 2002) la “legge Cirami” (legittimo sospetto e rimessione del processo) e Bevilacqua fu ripreso mentre assieme ad altri schiacciava il pulsante anche per un collega assente. Un’altra volta risultò tra i cofirmatari di un disegno di riforma costituzionale per abolire la XII norma della Costituzione italiana, quella che vieta «la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto Partito fascista».
Votato da tutti
Oggi le sue posizioni devono essere diventate più moderate visto che è il coordinatore regionale di un partito/persona che guarda al centro e che parla, per la Calabria, di «modello Genova». Il suo rinnovato impegno è stato però “sporcato” dalle dichiarazioni di un altro pentito, Bartolomeo Arena, secondo cui i Pardea, storica famiglia mafiosa di Vibo, avrebbero sostenuto Bevilacqua.
«È stato votato praticamente da tutti – ha detto Arena deponendo in Rinascita-Scott – perché ce lo disse Enzo Barba. È fratello di uno ’ndranghetista, Ferruccio (deceduto nel 2018, ndr), affiliato ai Pardea fin dagli anni ’70, avendo attivato la Locale insieme a mio padre, per poi avvicinarsi al ramo di Giuseppe Mancuso detto ’Mbrogghjia».
«Ma era anche un massone perché Salvatore Tulosai, negli anni ’90 stava cercando di entrare in quegli ambienti proprio per il tramite di Ferruccio, legato a Carmelo Lo Bianco alias “Piccinni” ed Enzo Barba detto “Il musichiere”. Ma già il padre di Franco Bevilacqua aveva rapporti strettissimi con i Lo Bianco perché abitava nello stesso quartiere. Quando vinse le elezioni entrando in Senato ci ritrovammo tutti nella sua sede che era al centro della città».
Così fan tutti
Ovviamente le dichiarazioni dei pentiti sono ancora tutte da riscontrare e i politici tirati in ballo sono innocenti fino a prova contraria. Fanno però riflettere i vizi privati e le pubbliche virtù di una politica che a Vibo sembra sempre uguale a se stessa e sempre pronta a riciclarsi alleandosi e scambiando favori con chiunque, in barba a ideologie, partiti e schieramenti. Per dire: è emblematica un’intercettazione – sempre Rinascita-Scott – in cui uno dei Nostri, Censore, chiama Giancarlo Pittelli, avvocato-politico oggi ai domiciliari perché coinvolto nello stesso maxiprocesso, per dirgli che lo aveva sostenuto in passato, anche se i due appartenevano a partiti “nemici”, e che era venuto il momento di ricambiare il favore.
Quella telefonata avveniva alla presenza di un imprenditore che secondo gli inquirenti sarebbe colluso proprio con la cosca di Filadelfia, il paese di De Nisi. Ed è capitato pure in un determinato momento storico non troppo lontano (febbraio 2019) che l’ex missino Bevilacqua e l’ex comunista Censore appoggiassero lo stesso candidato a sindaco (Stefano Luciano, oggi capogruppo del Pd in consiglio comunale). Così fan tutti, a Vibo.
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