Tag: politica

  • Lorica: impianti quasi pronti, ma si potrà sciare?

    Lorica: impianti quasi pronti, ma si potrà sciare?

    «Stiamo lavorando perché alla fine di ottobre i lavori relativi agli impianti di Lorica siano terminati», assicura Roberto Esposito, coadiutore giudiziario della Lorica Ski, tuttavia potrebbe accadere che non si possa lo stesso sciare e non per forza per mancanza di neve.

    Un progetto da 16 milioni

    La storia del progetto “Lorica Hamata in Sila Amena” è stata particolarmente tormentata. La Regione Calabria intendeva rilanciare il turismo invernale in un’area della Sila dove generalmente l’innevamento è più abbondante. E così aveva approvato il piano di rifacimento degli impianti di risalita, che erano parecchio vetusti. La somma stanziata, utilizzando i fondi comunitari, era cospicua: oltre 13 milioni di euro. Altri 3 milioni dovevano provenire dai privati che avrebbero successivamente gestito la struttura. Poi è giunta la tempesta giudiziaria.

    Interviene la Dda

    La Dda di Catanzaro a seguito di una indagine sequestra gli impianti. Poi, con l’operazione Lande desolate, procede agli arresti di Barbieri (lo stesso imprenditore che aveva realizzato piazza Bilotti a Cosenza) e di altri, ed indaga anche l’allora presidente della Regione, Oliverio. Il sogno di avere in Sila una struttura all’avanguardia, in grado forse di promuovere lo sviluppo di quell’area, svanisce.
    Il progetto riprende vita quando l’autorità giudiziaria autorizza la prosecuzione dei lavori, pur se il procedimento penale non è concluso. Di qui l’affidamento alla società Lorica Ski del completamento di quanto rimasto sospeso.

    Casali del Manco ha fretta

    A Casali del Manco, comune nel cui territorio ricade l’area interessata al progetto, sono fiduciosi. Sia il sindaco Stanislao Martire che l’ingegnere Ferruccio Celestino affermano di sperare di poter aprire al pubblico gli impianti, «perché manca poco». «E potremmo perfino partire – aggiungono – senza che siano pronti anche le attrezzature necessarie per produrre l’innevamento artificiale».

    In realtà a Casali del Manco si azzardano anche a guardare oltre. Sperano di poter presto avviare la realizzazione dell’altro grande progetto che vede la Sila protagonista, quello che consentirebbe il collegamento tra gli impianti di Lorica e quelli di Camigliatello. Ma sanno che per questo ci sono ancora mille difficoltà, visto che «mancano le autorizzazioni relative all’impatto ambientale e occorre verificare la copertura finanziaria».

    Ottimismo contro realismo

    A guardar bene, è probabile che sindaco e ingegnere pecchino di infondato ottimismo, la strada che conduce alla fine di questa storia pare ancora parecchio lunga. La Regione prevede che entro il 31 ottobre i lavori siano completati e per come si è pronunciato il coadiutore giudiziario, è possibile che questo avvenga. Si sta procedendo alla messa in sicurezza del rifugio a monte, alla revisione della sciovia e all’installazione dei cannoni spara neve, recuperando il ritardo imposto dall’emergenza Covid.

    Tuttavia sono ancora molte le cose da fare prima di consegnare ai turisti la nuova cabinovia e riguardano scelte amministrative e politiche. Intanto occorre procedere ai collaudi, ma soprattutto è necessario individuare il soggetto che gestirà la struttura. E i tempi sono molto stretti.

    Il nodo della gestione

    «I comuni non hanno alcuna competenza riguardo la gestione degli impianti – spiega ancora Esposito – quindi tocca alla Regione assumere una decisione a riguardo».
    Se i tempi relativi ai lavori saranno rispettati, la palla passerà alla Cittadella. Sarà lei a dover procedere ad un affidamento diretto della gestione della struttura, per esempio alle Ferrovie, oppure indire un avviso pubblico in grado di richiamare privati o, ancora, assumerne direttamente la conduzione.

    I tempi per tutto questo paiono ristretti, soprattutto perché la Lorica Ski ha presentato un protocollo in base al quale, una volta consegnati i lavori, si renderebbero immediatamente fruibili gli impianti, senza attendere i tempi infiniti della giustizia penale. Infatti la struttura è sul terreno demaniale e dunque del tutto estranea ai procedimenti giudiziari che ne hanno a lungo bloccato gli sviluppi.

    Questo protocollo è stato rapidamente recepito dal comune di Casali del Manco, mentre dalla Regione non è ancora arrivato nessun commento. Se da Catanzaro non dovesse giungere il consenso al protocollo, tutta l’urgenza impiegata per mettere in operatività gli impianti sarebbe vanificata. A riguardo oggi è intervenuto con una certa preoccupazione il consigliere leghista Pietro Molinaro, che in un comunicato sollecita la Giunta a prendere rapidamente posizione sulla vicenda e in generale ad attuare la Delibera “Santelli – progetto Sila”. Il leghista aveva già nel mese di giugno avanzato uguale richiesta, «ma senza ottenere alcun riscontro».

    L’annuncio dell’assessore

    Nel mese di marzo l’assessore Orsomarso era presente sul cantiere dei lavori. In quella occasione aveva assicurato che la Regione avrebbe chiesto il dissequestro della struttura e avviato quanto necessario per dare vita ad un bando per affidarne la gestione. E proprio ieri, sulla sua pagina Facebook, Orsomarso ha annunciato «che su Lorica forse abbiamo trovato la via d’uscita, lavorando proficuamente con amministratori giudiziari che hanno condiviso un percorso con i giudici, i comuni e la Regione». Una dichiarazione che, circa i destini di Lorica, sembra ancora piuttosto generica.

    Per gli impianti di Camigliatello anch’essi chiusi per motivi legati alla manutenzione dei cavi, sempre sui social Orsomarso ha annunciato novità. La Regione – si legge nel suo post – ha stanziato 3,8 milioni di euro, «perché l’Arsac aspettava da anni finanziamenti per la manutenzione ed autorizzazioni». La stagione invernale è in arrivo e occorre essere pronti. Altrimenti il paragone – piuttosto azzardato – con Cortina e Courmayeur, evocato dall’assessore regionale nel corso di una intervista rilasciata di recente proprio a Lorica, rischia di diventare meno di una barzelletta.

  • Lamezia, la maledizione del consigliere regionale

    Lamezia, la maledizione del consigliere regionale

    Oltre al “titolo” di terza città della Calabria, perso con la fusione di Corigliano Rossano, c’è una mancanza che pesa ancora di più a Lamezia Terme: la rappresentanza. Con un Comune da anni in predissesto finanziario e di nuovo commissariato – stavolta non per mafia ma per irregolarità in 4 sezioni (su 78) dove si rivoterà ad ottobre per far tornare sindaco Paolo Mascaro – è evidente che la caccia grossa è quella che punta alla Regione. Ma c’è un dato storico che fa pensare quasi a un sortilegio: in consiglio regionale da quasi un decennio i lametini non riescono a mettere piede.

    La maledizione di Palazzo Campanella

    L’unico – e ultimo – è stato Franco Talarico, che lo ha fatto da assessore al Bilancio prima di finire impigliato nell’inchiesta “Basso profilo”. Nessun consigliere regionale nelle ultime due legislature. Alle elezioni di gennaio 2020 si è schierata una truppa di una decina di candidati ma nessuno ha staccato il biglietto per Reggio. In Consiglio è entrato solo Pietro Raso, che è di Gizzeria e ci riproverà anche stavolta con il sostegno pesante del deputato leghista Domenico Furgiuele.

    Andando a ritroso, nell’era Oliverio (2014) non è stato eletto nessuno. In quella Scopelliti (2010), invece, sono entrati lo stesso Talarico, poi “salito” alla Presidenza del Consiglio regionale, e Mario Magno, poi subentrato solo per qualche mese del 2017 a Nazzareno Salerno. È stato eletto e rieletto Tonino Scalzo, che è di Conflenti, mentre nel 2014 non ce la fece Gianni Speranza.

    Profilo ingombrante

    Oltre a Furgiuele, leghista della prima ora che porta l’orgoglio sambiasino (Sambiase è uno dei tre ex Comuni, con Nicastro e Sant’Eufemia, accorpati nel 1968) in Parlamento, meritano certamente menzione altri “registi” che da dietro le quinte provano a dirigere aspiranti attori e inconsapevoli comparse nella tragicommedia delle Regionali.

    Uno, il più ingombrante, è senza dubbio lo stesso Talarico, già leader dell’Udc calabrese finito prima ai domiciliari e poi tornato in Giunta ma con l’obbligo di dimora. Agli atti di “Basso profilo” figurano diverse intercettazioni captate tra dicembre 2020 e gennaio 2021, quando le elezioni regionali erano state fissate per il 14 febbraio. Talarico era alle prese con le strategie per la composizione delle liste del suo partito e ne parlava spesso con un ex assessore comunale lametino non indagato ma considerato «vicino al clan Iannazzo».

    Nella fase monitorata l’interlocutore di Talarico si rivelava «determinante per la scelta dei candidati dell’Udc», dimostrando inoltre di essere «in stretta sintonia» con il leader nazionale dell’Udc Lorenzo Cesa «al quale non solo manda i saluti ma anche rassicurazioni sull’attività di ricerca e coordinamento in Calabria».

    Galati e il cavalluccio

    Il ruolo di regista spetta anche a un altro big più volte nel mirino degli inquirenti ma uscito pulito da tutto: Pino Galati. Deputato per cinque legislature, sottosegretario in due governi Berlusconi, coinvolto in “Poseidone” (finita per lui con l’archiviazione), “WhyNot” (assolto), “Alchemia” (archiviato), “Quinta bolgia” (arresto e poi archiviazione), restano in piedi le accuse ipotizzate nell’inchiesta sulla Fondazione Calabresi nel mondo di cui è stato presidente.

    Ida d’Ippolito con l’ex ministro Claudio Scajola e Pino Galati (foto lameziaweb.biz)

    Ha iniziato con la Dc, poi Ccd/Udc, quindi Forza Italia e Pdl, “Ala” di Denis Verdini e a marzo 2018 elezione mancata con “Noi con l’Italia”. Nella convention con cui a giugno è partita la campagna elettorale del centrodestra era presente e ha anche salutato Matteo Salvini. Nelle intercettazioni di “Basso profilo” spunta più volte il suo nome: «Lui (Galati, ndr) sta cercando candidati a Lamezia – dice Talarico – però ancora non ha detto con chi». L’ex assessore «vicino al clan Iannazzo» risponde ridendo: «Lo ha detto anche a me… dice che va cercando un cavalluccio».

    Peppino e Pasqualino

    Una delle candidature che Talarico voleva chiudere per l’Udc è quella di Peppino Zaffina. Ex esponente del Pd, già assessore nella giunta Speranza, successivamente è diventato uomo forte della coalizione di centrodestra guidata da Mascaro. In una conversazione Talarico racconta al suo interlocutore di aver sentito Zaffina: «Mi ha detto “Frà io sono orientato naturalmente a quello che decidiamo insieme a Tonino Scalzo…stiamo ragionando… volevo capire tu a chi candidavi”… gli ho detto – prosegue Talarico – Pino se ci sei tu puntiamo… tutti no».

    Zaffina ha infatti uno storico legame con Scalzo ma il suo percorso politico è lungo. Era già assessore comunale alla fine degli anni ’80 e oggi pare sia uno degli uomini su cui il centrodestra di Roberto Occhiuto vorrebbe puntare per il Lametino. Ma non è l’unico. È infatti tornato in ballo un altro volto noto: Pasqualino Scaramuzzino.

    La veste social della videorubrica quotidiana di Pasqualino Scaramuzzino

    Giovane sindaco di Lamezia nei primi anni 2000, all’epoca del secondo scioglimento per mafia, ai tempi della giunta Scopelliti-Stasi è stato messo a capo della Fondazione Terina. Avvocato, si dedica ogni mattina a una sorta di videorubrica sul suo profilo Facebook (“Secondo me, naturalmente”). Talarico lo menziona probabilmente per ingolosire Zaffina, a cui dice che ci sarebbe anche «l’alternativa di Pasqualino» ma lui (Zaffina) avrebbe «più consenso». Anche perché, ammette l’assessore regionale, «a me serve un candidato di Lamezia forte oh… per dire… i voti ce li abbiamo».

    Centrosinistra diviso tra lobby e parenti

    Il Pd lametino ha una storia tutta a sé. Dagli anni in cui teneva costantemente sulla graticola “Giannetto” Speranza, che è riuscito a portare a casa due sindacature senza mai avere una maggioranza numerica in consiglio comunale, alle tribolazioni degli ultimi mesi, i tormenti dei dem locali sono stati sempre legati alle elezioni regionali.

    Il caso più recente riguarda le dimissioni prima annunciate e poi ritirate dal segretario provinciale Gianluca Cuda. Anche lui ha le radici nell’hinterland lametino (Pianopoli) e anche lui ha provato invano ad agguantare un seggio in consiglio regionale un anno e mezzo fa. Non è chiaro se sia in procinto di ritentarci – gli spazi sono stretti – ma di certo ha il suo peso nelle dinamiche interne al Pd di Lamezia in cui nei mesi scorsi si è consumata una nuova rottura. L’ex segretario cittadino Antonio Sirianni si è, infatti, dimesso parlando di «gruppi di pressione interni» e dicendodi non avere interesse a «costruire una carriera» tramite la politica, men che meno ad «appartenere a delle lobby».

    Aquila Villella (dietro di lei Antonio Viscomi ed Enzo Bruno) ai tempi delle Politiche del 2018

    Poco prima di lui si era dimessa con motivazioni più stringate – «la mia permanenza nell’organismo cittadino non si concilia più con altri impegni di partito» – Annita Vitale, che milita nel Pd ormai da anni e la cui madre (Ida d’Ippolito, nel 1997 perse al ballottaggio contro Doris Lo Moro e nel 2010 contro Speranza) è stata in Parlamento per cinque legislature con il centrodestra. Vitale, componente della segreteria Cuda, per un certo momento è stata data tra le papabili per un posto “rosa” nella prossima lista Pd, magari in “accoppiata” con lo stesso segretario provinciale.

    L’ipotesi di una sua candidatura è poi sfumata a vantaggio di quella di un’altra pasionaria del Pd lametino: Aquila Villella. In consiglio comunale siede tra i banchi dell’opposizione, ma si era già candidata al Senato nel 2018 e, ora, potrebbe provare con il consiglio regionale. Di certo non le difettano il curriculum (è docente universitaria) e la verve. Ma i maligni fanno notare che la sua candidatura potrebbe trarre vantaggio anche dal fatto che Villella è la cognata di Amalia Bruni.

    L’eterno delfino

    Villella condivide il ruolo di opposizione allo strapotere di Mascaro con un altro (stavolta sicuro) candidato al consiglio regionale: Rosario Piccioni, da anni frontman del movimento “Lamezia Bene Comune” nato sulla scia dell’esperienza amministrativa di Speranza, di cui è l’eterno delfino. Avvocato, classe 1974, dal 2007 al 2011 è stato segretario cittadino di Sinistra Ecologia e Libertà.

    Rosario Piccioni con Pippo Callipo: correrà nelle file di Luigi De Magistris

    Poi, per cinque anni, assessore proprio nella seconda amministrazione guidata da “Giannetto”. Quindi ha cercato la via della successione alla poltrona di primo cittadino: prima, nel 2015, ha avanzato la sua candidatura ma l’ha poi ritirata per appoggiare l’allora vincitore delle primarie, Tommaso Sonni, sconfitto alle elezioni “vere” da Mascaro, la cui prima amministrazione è stata sciolta per mafia nel 2017.

    Le oltre 500 preferenze dell’epoca lo hanno portato a riprovarci nel 2019, sempre contro Mascaro: Piccioni è arrivato quarto (su sei candidati), davanti a lui l’allora aspirante sindaco sostenuto dal Pd Eugenio Guarascio. Un anno e mezzo fa ha mostrato pubblico apprezzamento per Pippo Callipo ma non si è candidato in prima persona. Stavolta, dopo qualche tentennamento dovuto alla discesa in campo della concittadina Amalia Bruni, ha deciso di esserci: sarà nella lista “De Magistris presidente”.

  • Terme Luigiane, il sindaco spara a zero su Sateca: «Il 90% dei lavoratori d’accordo con me»

    Terme Luigiane, il sindaco spara a zero su Sateca: «Il 90% dei lavoratori d’accordo con me»

    Francesco Tripicchio è il sindaco di Acquappesa, uno dei due Comuni coinvolti nella querelle che ha portato alla chiusura delle Terme Luigiane. Di critiche in questi mesi ne ha subite parecchie, ma sulla strategia per respingerle la pensa come Gentil Cardoso: la miglior difesa è l’attacco. Secondo lui, tutta la polemica intorno alla vicenda sarebbe una montatura costruita ad arte dai gestori storici – sono lì dal 1936 ed era previsto ci rimanessero fino all’affidamento di una nuova concessione (attesa dal 2016, data di scadenza della precedente ottantennale) a chicchessia, loro compresi, da parte dei due enti pubblici – degli stabilimenti. Quanto alla responsabilità dello stallo venutosi a creare, con tutti i danni economici che ha comportato per l’economia del territorio, non sarebbe sua e del suo collega di Guardia Piemontese, Vincenzo Rocchetti. Né della Regione, apparsa ai più poco incisiva nella crisi che ha portato alla paralisi il compendio termale, abbattendo anche l’indotto che generava. A stabilire chi abbia ragione, come spesso accade da queste parti, finiranno per essere i tribunali.

    Tutti dicono che la politica ha fatto chiudere le Terme lasciando a casa 250 lavoratori, lei cosa risponde?

    «Che la politica non ha fatto chiudere proprio nulla: è stata fatta una proposta alla società che gestiva il compendio termale da 85 anni e quella l’ha rifiutata. Le è stato detto di proseguire le attività nel 2021 a un prezzo di 90mila euro, tenendo presente che fino all’anno scorso ne pagava 44mila».

    Il canone è più del doppio del precedente, non trova normale che abbiano rifiutato?

    «No, perché fino al 2020 spese come la manutenzione delle strade, l’illuminazione pubblica e i consumi elettrici erano a carico loro. Adesso sono passate ai Comuni, che per questo hanno chiesto soldi in più che corrispondono a questi nuovi costi. La società non ha accettato, la loro proposta era di darci 30mila euro all’anno per 40 litri al secondo di acqua calda. Le nostre sorgenti forniscono in totale 100 l/s, di cui proprio 40 di acqua calda.

    Guarda caso vogliono tutta quella calda loro: significherebbe che nel resto del compendio non si può lavorare. Capisco che chi ha avuto un monopolio lo difenda con le unghie e coi denti, ma non può averlo più. E poi chiedevano garanzie per il futuro che nessuno può dar loro perché parliamo di beni pubblici che vanno messi a bando. Quindi Sateca, come tutte le società del mondo, deve partecipare a un bando. E chi lo vince gestirà gli stabilimenti nel compendio».

    I Comuni però non hanno fatto un bando…

    «C’è una manifestazione d’interesse, è la stessa cosa perché l’articolo 79 del Codice degli appalti prevede le manifestazioni d’interesse con procedure negoziate. Hanno partecipato in sei. Compresa Sateca, che ha fatto pure ricorso».

    La procedura scelta non aumenta la discrezionalità degli enti nella scelta del nuovo gestore?

    «Non è così, nessuna discrezionalità. Anche così ci sono parametri e paletti che la pubblica amministrazione deve mettere a tutela dei beni comuni. Chi presenta e chi valuta le proposte si deve attenere a quelli, non c’è nessuna differenza».

    Perché allora nell’avviso parlate di 40 litri al secondo in cambio di 70mila euro annui e a Sateca ne chiedete 90mila per il 2021 e quasi 400mila per il futuro?

    «La base d’asta è di 70mila euro, aumentabili, più una percentuale sul fatturato pari all’1%. Sateca ha lasciato macerie, chi andrà a gestire dovrà investire almeno un milione per poter operare perché la società ha portato via perfino le vasche dallo stabilimento tornato in nostro possesso. Questo sarà oggetto di separata azione giudiziaria. Il canone, comunque, non si discosta di tanto dai 90mila euro chiesti a Sateca.

    Ma di parecchio dai 400mila euro futuri…

    Abbiamo fatto un calcolo sulla base di quanto stabilito nella Conferenza Stato-Regioni del 2006, considerando i valori medi. E i valori medi hanno dato un risultato di circa 370mila euro. Abbiamo dato la disponibilità per applicare il nuovo corrispettivo da dopo il 2022 per arrivare ai 370mila euro progressivamente nel giro di 5-6 anni. Perché Chianciano e Fuggi pagano un milione di euro e le Terme Luigiane, che hanno acque di qualità superiore, dovrebbero pagare cifre molto inferiori?».

    Forse perché lì si parla di acque minerali oltre che termali?

    «Questa, perdoni il termine, è una grande cazzata. Così come 85 anni di gestione indisturbata sono un caso unico al mondo».

    Nei rapporti del Mef degli anni scorsi sulle acque minerali e termali c’è scritto altro, però. Le acque termali e le minerali sono distinte, così come i loro prezzi, e la storia del termalismo italiano è zeppa di concessioni perpetue…

    «C’è differenza tra concessione e subconcessione: la prima la hanno i Comuni, che poi affidano a terzi il servizio».

    La vostra concessione dura fino al 2036, giusto?

    «Sì, perché qualcuno l’ha trasformata. Quanto alla subconcessione, gli enti pubblici possono stabilire, giustificandoli s’intende, i canoni. Addebitare a Comuni e Regione la chiusura del compendio termale è vergognoso: è l’azienda che ha chiuso, che non ha voluto proseguire, che dice di voler tutelare lavoratori ma non tutela nessuno.

    A proposito, i lavoratori non sono 250, secondo i bilanci sono 44. Questo pseudocomitato che scrive a nome dei lavoratori vorrei sapere da chi è composto: il 90% dei dipendenti sono incazzati con la società, mi arrivano tantissimi messaggi e telefonate in questo senso, posso dimostrarlo».

    Le manifestazioni di questi mesi mostrano parecchi lavoratori in protesta però, non le pare che questo contraddica la sua versione?

    «C’è chi si porta i parenti, chi gli amici, mica sono lavoratori delle Terme Luigiane! E in quelle manifestazioni non c’è nessuno di Guardia o Acquappesa, anche perché i posti di rilievo la Sateca li ha dati tutti a gente che non è di qui. I lavoratori veri che protestano sono 3 o 4, se fa un giro per strada e parla con la gente del posto le diranno quello che dico io, non quello che dicono l’azienda o quei 3-4 lavoratori».

    Lo abbiamo fatto e ci hanno detto cose diverse dalle sue. Compreso il parroco, che ci ha raccontato di minacce subite per aver criticato voi politici…

    «Al parroco porterò sostegno se davvero è stato minacciato. Ma io e il mio collega di Guardia stiamo pensando di denunciarlo perché in un video pubblicato dal Corriere della Calabria ha detto che io e Rocchetti siamo dei mafiosi».

    Nell’avviso parlate di 15 anni più altri 15, quindi di una (sub)concessione fino al 2051, ben oltre il 2036…

    «Parliamo di un’opzione per i successivi quindici anni. Nel momento in cui avremo dalla Regione il rinnovo della concessione – magari verrà fuori che è stato fatto un abuso e che è illegittimo non averla mantenuta perpetua (la Consulta ha stabilito nel gennaio 2010 che modifiche di questo genere sono a norma, nda) – ci potranno essere gli eventuali altri quindici. Certamente non ci potranno più essere altri 85 anni di monopolio assoluto».

    In altre terme, anche calabresi, la situazione sembra identica a quella che c’era da voi e lei contesta. Cosa ha da dire a riguardo?

    «Io mi occupo del mio Comune, non degli altri. E dopo 85 anni sto cercando di far rivivere le Terme Luigiane. Se responsabilità politica c’è nella situazione che si è creata, non è dei sindaci di Acquappesa e Guardia o di chi è ora alla Cittadella. Semmai è di qualche altro politico regionale precedente, che ha fatto ingerenze e interferenze degne dell’attenzione dell’autorità giudiziaria».

    L’assessore Orsomarso dalle colonne del Quotidiano del Sud ha parlato di «proroghe a ripetizione» prima del vostro avviso pubblico: quante sono state?

    «Due, nel 2016 e nel 2019. Qualcuno dice che i comuni non sono stati in grado di fare il bando negli ultimi cinque anni, ma non è così. I comuni hanno avuto la durata della concessione in loro favore il 18 dicembre 2019: prima cosa potevo mettere a bando se non sapevo per quanto avrei potuto affidare il servizio?. L’iter della trasformazione della concessione da perpetua a temporanea è iniziato in Regione nel 2015, sotto Oliverio».

    Che era stato appena eletto però, il tempo non lo avrà perso chi c’era prima ancora di lui? Si sapeva da 80 anni che la concessione sarebbe scaduta nel 2016

    «L’atto che reputo illegittimo lo ha fatto lui e per quasi cinque anni non ci ha dato la durata della concessione. Poi nel 2019 il sottoscritto si è messo ad andare quasi ogni giorno in Regione per ottenerla. Oliverio e i suoi hanno solo ostacolato i Comuni, l’ho detto anche all’autorità giudiziaria. Ho la coscienza pulita e non ho nulla da temere, faccio quello che la legge prevede di fare. Ora le Terme Luigiane devono rivivere, ma non a vantaggio di un privato che fattura 6 milioni di euro in 4-5 mesi e lascia nei Comuni 44mila euro, 25mila dei quali versiamo alla Regione. Per me i 370mila euro chiesti a Sateca sono pure pochi».

    Eppure anche Orsomarso nell’intervista contestava la vostra scelta di applicare i presunti prezzi medi e non quelli minimi…

    «Ripeto, per quest’anno chiedevamo 90mila euro. Orsomarso si riferisce agli anni dal 2022 in poi. Non c’entra nulla che le acque siano termali o minerali, noi abbiamo calcolato le somme per analogia, sulla base della Conferenza Stato-Regioni di cui parlavo, con il metodo di interpolazione lineare. I 370mila euro sono un prezzo più basso di quello che sarebbe venuto fuori con la media aritmetica».

    Il minimo auspicato dall’assessore, invece, a quanto ammonterebbe più o meno?

    «Circa 250mila euro. Io avrei optato proprio per il massimo, che sfiorava il milione di euro».

    Lei ritiene sia compatibile col mercato un prezzo simile?

    «Assolutamente sì. Solo di budget regionale per le prestazioni sanitarie accreditate Sateca prende da anni 2,7 milioni di euro, senza contare il non convenzionato. Che saranno 370mila euro a confronto?».

    Ci sono pure i costi per l’azienda però, quelli non li considera?

    «I costi li hanno anche gli enti, che peraltro hanno la Corte dei Conti a controllarli. Io ho il dovere di mantenere determinati parametri per evitare che la magistratura contabile mi contesti scelte».

    Il dissesto del suo Comune ha avuto peso nei calcoli sui nuovi canoni?

    «Se lo avesse avuto, avrei dovuto applicare il massimo. Anche sulle concessioni, come per le aliquote, i Comuni in dissesto dovrebbero applicare le tariffe più alte, ma considerando le particolarità del caso e le ricadute occupazionali sul territorio abbiamo chiesto di meno».

    Perché allora nell’avviso che avete pubblicato non si parla del mantenimento dei livelli occupazionali?

    «Una manifestazione d’interesse dà indicazioni generali. Poi, nella lettera d’invito ai partecipanti che hanno i requisiti si mettono una serie di parametri e in base a quelli si assegnano i punteggi. La lettera non è ancora partita, ma lì ci sarà il mantenimento dei livelli occupazionali come criterio premiale. Spero che al massimo entro una decina di giorni venga inviata».

    Come mai si è arrivati a uno scontro e allo stallo totale di fronte a ripercussioni economiche enormi per il territorio, tanto più in pandemia?

    «Nei mesi estivi qui c’è stato il pienone negli alberghi. Probabile che a settembre ci sia un calo, come lamenta qualcuno, ma ad agosto c’è stato un aumento delle presenze».

    Le Terme Luigiane però non lavoravano solo ad agosto…

    «Lo facevano 4-5 mesi all’anno. In base al bando che stiamo preparando dovranno restare aperte per almeno 8-10 mesi e, giocoforza, i livelli occupazionali aumenteranno».

    Altro problema: si parla di condotte a rischio danneggiamento per colpa della chiusura e di pericoli di inquinamento perché l’acqua sulfurea destinata agli stabilimenti ora finisce in un torrente. Cosa ha da dire a riguardo?

    «Il nuovo subconcessionario non utilizzerà quella condotta, perché quella riguarda proprietà della Sateca. In ogni caso al suo interno ci può essere qualche incrostazione di zolfo che con un minimo di pulizia si elimina, le tecnologie moderne lo permettono. Nessun danneggiamento quindi, né condotte da rifare ex novo».

    Quindi servono comunque nuove condotte se quella utilizzata finora è di Sateca?

    «No, quelle comunali ci sono già nel compendio. Abbiamo “chiuso l’acqua” nell’altra condotta per non farla defluire in una struttura privata che non aveva più un contratto in essere. Le pubbliche amministrazioni devono tutelare i beni pubblici e possono procedere anche senza l’autorizzazione dei giudici, come abbiamo fatto riprendendoci gli stabilimenti all’interno del compendio».

    Avete fatto almeno un’ordinanza prima di riprenderveli?

    «Non ce n’era bisogno procedendo con l’apprensione coattiva, tant’è che nessuno ci ha detto nulla. Non avevano contratto, l’acqua non gli spettava».

    E l’inquinamento potenziale?

    «Non c’è. Lo scarico utilizzato è quello storico, non si può neanche parlare di sversamento: chiusa la condotta va tutto lì, ma non è un agente inquinante, è quello che fuoriesce naturalmente dal sottosuolo. Se ci fosse stato pericolo d’inquinamento sarebbero intervenuti i carabinieri, no?».

    Le indagini spesso sono lunghe e gli interventi della magistratura arrivano dopo…

    «Al momento nessuno ci ha contestato reati ambientali. Se fosse stato illegale quello che facciamo la prefettura non ci avrebbe mandato forze di polizia a supporto quando abbiamo ripreso lo stabilimento comunale da Sateca».

    Gran parte delle strutture legate al termalismo in zona sono di Sateca, c’è il rischio che le Terme Luigiane muoiano se loro chiudono i battenti?

    «Lo stabilimento San Francesco d’ora in poi sarà di chi si aggiudica il bando e non è detto che gli impianti termali siano più piccoli degli attuali. Lo stabilimento ha tre blocchi, dipenderà dai progetti presentati. E i clienti potranno comunque andare in alberghi esterni, di Sateca come di altri. Se ci sono o meno loro, le Terme Luigiane vanno avanti lo stesso. Tant’è che se quest’estate la Sateca li avesse aperti avrebbe incassato: la gente è andata nei paesi vicini a dormire, avrebbero avuto ospiti come altri».

    Torniamo al “bando”: se Sateca perde e fa ricorso rischia di saltare anche la stagione termale 2022?

    «Chiariamo: io non ho problemi se vince Sateca. Loro cercano di mostrare la loro indispensabilità, ma tutti sono sostituibili al mondo. E i ricorsi possono arrivare da qualsiasi partecipante, non solo da Sateca, a prescindere da chi vinca la gara. Poi dipenderà dal Tar, se darà sospensive, se farà procedere a consegne in via d’urgenza o altro. Io mi auguro che non ci siano ritardi e farò di tutto perché si riparta a regime da subito».

    Cos’ha da dire sulle voci che parlano di imprenditori locali “chiacchierati” che beneficerebbero dello scontro per prendersi le Terme Luigiane?

    «È un tentativo di diffamazione: se, tranne Sateca, alla manifestazione hanno partecipato solo aziende non calabresi quali dovrebbero essere gli imprenditori locali chiacchierati?».

    Chi ha risposto al vostro avviso però non si occupa di termalismo, non lo trova strano?

    «L’ho notato anche io, ma immagino che sia una strategia degli imprenditori. Esiste l’istituto dell’avvalimento: io partecipo a una manifestazione d’interesse, poi nella fase successiva posso dire con chi faccio l’avvalimento. Magari anche Sateca presenterà un progetto in avvalimento con qualcuno. Al momento, tra l’altro, sono loro quelli con i maggiori requisiti, dopo si vedrà».

    Quindi gli imprenditori discutibili potrebbero rientrare dalla porta di servizio, non va specificato dall’inizio che si opera con dei partner?

    «No, solo dopo aver ricevuto la lettera d’invito. E i progetti saranno valutati con la massima attenzione. Io penso che aggiudicheremo la subconcessione entro i primi di novembre. Quindi anche se ci saranno ricorsi in un paio di mesi sarà tutto pronto. La stagione 2022 alle Terme Luigiane si farà. Vogliamo aprirci al mercato e in futuro non escludo che a offrire cure termali possano essere i Comuni stessi, magari in società con qualche privato, con benefici per la comunità e non solo per dei monopolisti».

     

  • Afghani a Cosenza: adesso siamo salvi, familiari rimasti a Herat

    Afghani a Cosenza: adesso siamo salvi, familiari rimasti a Herat

    Dalla base italiana di Camp Arena ad Herat, fino a Cosenza, scappando dall’illusione di una vita di pace che minacciava di diventare un inferno. Gholam Hossain e Amir Ali, sono due interpreti del contingente italiano in Afghanistan che hanno dovuto lasciare il loro Paese con le loro famiglie, racchiudendo in pochi bagagli i frammenti di una vita che speravano fosse diversa e che invece l’arrivo tumultuoso dei talebani avrebbe cancellato del tutto.

    «Quando gli italiani si preparavano a smantellare la loro base, hanno chiesto a quanti in questi anni avevano collaborato con loro se volevano restare o andare via – racconta Amini – per noi non c’era scelta, dovevamo andare».

    Tre motivi per scappare

    I due sono hazari, sono sciiti e sono stati collaboratori degli occidentali, tre drammatiche ragioni per scappare, perché adesso esse corrispondono a tre condanne a morte. La loro esperienza con i militari italiani comincia 13 anni fa, quando il contingente di stanza ad Herat ha bisogno di interpreti e mediatori culturali. I due, che sono laureati in economia e in informatica, parlano bene l’inglese e hanno rapidamente imparato l’italiano, presentano il curriculum e vengono assunti.

    Munizioni ed armi per il militare italiano a destra, a sinistra l’interprete afghano
    Gli interpreti in giubbotto antiproiettile

    «Le nostre giornate di lavoro cominciavano alle otto di mattina e si concludevano alle sedici», dice Gholam Hossain andando indietro con la memoria e spiegando che il loro compito era di seguire l’addestramento delle forze afghane e trasferire informazioni e ordini dagli italiani ai loro connazionali. Si trattava di mediare tra due mondi diversi e lontani, di spiegare abitudini e culture e di farlo non solo stando al sicuro dentro i confini della base italiana, ma spesso seguendo le truppe in altre aree che erano pure affidate alla gestione dei nostri soldati, ma che erano ad alto rischio.

    Uno degli interpreti afghani che indossa un giubbotto antiproiettile, alle spalle militari con un cane specializzato nel ritrovamento di mine

    «Tra i caduti ci sono stati anche molti interpreti, perché lì la guerra non è mai davvero finita e non fa la differenza tra combattenti e non», dice con voce ferma Amini, che era abituato a passare disinvoltamente dalle pratiche d’ufficio all’ indossare un giubbotto antiproiettile seguendo a bordo dei gipponi i militari che quando arrivavano presso qualche sperduto villaggio avevano bisogno di una guida.

    Fratelli e genitori rimasti in Afghanistan

    Ora sono qui, a migliaia di chilometri da dove sono sempre stati, con mogli e figli, ma senza fratelli e genitori, per i quali sono assai preoccupati e con l’amara certezza che laggiù non torneranno più. Su questo i due si fanno poche illusioni, hanno conosciuto i talebani e sanno che questi in Afghanistan resteranno a lungo. Hanno il cuore lacerato come chiunque sia stato, per qualche ragione, costretto a lasciare le proprie radici, «perché per la nostra cultura la famiglia è tutto, noi passiamo tutta la vita assieme», ma a questo dolore si aggiunge il peso di un sogno svanito. Perché loro ci avevano creduto in un progetto di pace e democrazia, perfino forse di prosperità, «ma è stato come aver tentato di costruire una casa per venti lunghi anni e poi farla distruggere in pochi giorni».

    Restare in Afghanistan significava morire

    Quando è stata prospettata la necessità di scegliere, per i due non c’è stato molto a cui pensare, la decisone era nelle cose: restare significava morire, perché a noi occidentali sembra che tutto si sia consumato in una manciata di giorni, ma evidentemente tra chi invece era sul campo, era già forte la certezza dell’arrivo inarrestabile dei talebani. «E’ stato difficile decidere, ma non c’era alternativa», dicono quasi assieme, come per darsi reciprocamente una ragione ineluttabile per l’essere fuggiti da un destino crudele. E come sempre è la nostalgia a segnare il loro tempo, forse più ancora delle difficoltà materiali di chi vive da esule. La loro mente resta sempre ancorata ai luoghi e ancor di più alle persone lasciate indietro, che sono oggettivamente a rischio.

    Personale del contingente italiano e interpreti afghani in “missione” tra i banchi,
    La Kasbah a Cosenza provvede al loro sostentamento

    Il governo italiano ha scelto la loro destinazione, disperdendo in varie località il piccolo gruppo di collaboratori afghani che avevano affiancato i militari italiani. Ora sono affidati alle cure dell’associazione La Kasbah, che provvede al loro sostentamento e che, tra le altre cose, in questi giorni dovrà anche risolvere il problema dell’iscrizione delle loro bambine presso una scuola cittadina.

    Gli italiani avevano costruito scuole e ospedali

    Ma i problemi dell’oggi, per quanto assillanti e urgenti, ancora non riescono a prevalere sui ricordi e sui rimpianti. «Gli italiani avevano fatto molto, scuole, ospedali, ora è tutto perduto», dice scuotendo la testa Amir Ali  e pensando a quanti hanno perso la vita per quel progetto, «mentre i politici hanno rovinato tutto»

    Nati e cresciuti in guerra

    Il presente reclama un nuovo impegno e rinnovato coraggio, ripartire da zero, cercando presto, quando i documenti saranno a posto, un lavoro. «Vorremmo fare qualcosa legato alla nostra formazione, ma non ci facciamo illusioni», spiegano consapevoli della difficoltà della situazione, ma probabilmente per chi è venuto via da un luogo che non conosce la pace da oltre vent’anni, questo per adesso non è il problema più grande. I loro sforzi sono finalizzati alle loro famiglie, alle bambine in particolare, «perché noi siamo nati in guerra, siamo cresciuti in guerra e moriremo esuli», ma per i figli dovrà essere tutto diverso.

  • Transfughi, parenti, evergreen: Caruso fa la squadra

    Transfughi, parenti, evergreen: Caruso fa la squadra

    La seconda partita della Calabria si gioca a Cosenza, dove si deciderà la successione di Mario Occhiuto. Per quanto piccolo e declinante, il capoluogo bruzio è di nuovo l’ago della bilancia degli equilibri regionali.
    Ecco perché il centrodestra si gioca il tutto per tutto e mira alla conquista di Palazzo dei Bruzi senza lesinare mezzi e con un bel po’ di pelo sullo stomaco.

    I numeri dell’armata

    Sulle liste delle Regionali tutto tace o quasi, visto che si attende il verdetto della Commissione antimafia, a cui si è rivolto il solo Roberto Occhiuto.
    Tra il Busento e il Campagnano, invece, è tutto un fermento di numeri, sigle e nomi.
    Magari non sarà “invincibile” (e, anzi, rischia di prendere qualche botta qui e lì), ma l’“armata” comunque c’è. Ed è temibile. Nelle sue file si mescolano veterani “pluridecorati” da tutti gli schieramenti della città e giovani rampanti, attratti dal miraggio della vittoria non improbabile, grazie soprattutto alle divisioni altrui.

    Iniziamo dalle liste, che al momento risultano sette, per il semplice motivo che Francesco Caruso, campione del centrodestra e unto dei fratelli Occhiuto, non ha ancora deciso di compilare la lista del sindaco.
    Ma non disperiamo: Cosenza è una delle città che produce più candidati in rapporto alla propria popolazione in assoluto. Quindi potrebbe essere solo questione di tempo perché si avverta la necessità dell’ottava lista e il mite Caruso si dia da fare per stoccarvi i potenziali candidati in eccesso.

    L’elenco delle liste

    Al momento risultano schierate e prossime al completamento le seguenti liste:

    • Forza Italia, che con tutta probabilità sarà rinominata Forza Cosenza, come nel 2016;
    • Fratelli d’Italia, che come vedremo è oggetto di negoziazioni e tentativi di colonizzazione;
    • Lega, che dopo la defezione di Vincenzo Granata, si presta a operazioni simili, forse addirittura più ardite, a quelle in corso sul partito di Giorgia Meloni;
    • Udc, un rampicante sempreverde della politica calabrese, che a Cosenza risulta più attrattivo che altrove;
    • Coraggio Cosenza, cioè la versione cosentina di Coraggio Italia, il partito di Giovanni Toti e Luigi Brugnaro, diventato il rifugio di Granata e di buona parte dei dissidenti che hanno deciso di mollare Salvini;
    • Azzurri (o Lista Azzurri), un troncone di Forza Italia, in cui si candideranno i fedelissimi di Gianluca Gallo;
    • Continuità, un altro troncone azzurro costituito dagli ultrà del sindaco uscente.

    Tra gli organizzatori dello schieramento, secondo i bene informati, un ruolo di primo piano ce l’ha Carmine Potestio, il superconsulente uscente, che sarebbe intento a spalmare i suoi fedeli, tra consiglieri e aspiranti tali, nelle sette liste.

    L’enigma Ruffolo

    Ma prima di proseguire è doverosa una domanda: che fine ha fatto Antonio Ruffolo?
    Su di lui, al momento, è uscito pochissimo dal delicatissimo gioco di incastri escogitato dallo stato maggiore degli Occhiuto.
    Infatti, non è dato sapere dove si collocherà il consigliere uscente dell’Udc, tanto silenzioso quanto votato. Di Ruffolo non si ricorda un intervento in Consiglio né una polemica. Ma, forte di una media di oltre cinquecento voti a tornata elettorale, il Nostro ha sempre dato il traino alle liste dell’Udc.

    Il motivo di tanto insospettabile successo è piuttosto chiaro: Ruffolo, noto in città col soprannome di ‘A ‘mmasciata, sempre pronto ad aiutare gli anziani a portare la spesa e a sbrigare le faccende condominiali e di quartiere, è il lobbista di chi in una lobby non può mettere piede e il faccendiere di chi non può permettersene uno.
    La sua microclientela di quartiere risulta sostanzialmente innocua per le casse comunali ma paga bene in consensi. Difficile immaginare una coalizione cosentina senza di lui. Di sicuro c’è che Ruffolo è vivo e lotta (con gli Occhiuto). Ma non è dato sapere dove.

    Forza Occhiuto

    La lista di Forza Italia è la croce e delizia dello schieramento di Francesco Caruso. Essendo l’ammiraglia della coalizione, sarà composta da candidati di provata fede su cui i big del centrodestra spenderanno le proprie fiches.
    Tra i candidati berlusconiani si annoverano, sempre per ora, Luca Gervasi, Alessandra De Rosa e Fabio Falcone. Della partita dovrebbe essere anche Michelangelo Spataro, altro uscente di peso, che sarà candidato in ticket con la figlia dell’imprenditore Giampiero Casciaro, per motivi personalissimi: i due sono amicissimi e soci in affari, perché titolari di una casa di riposo a Mendicino, alle porte della città.

    michelangelo-spataro
    L’assessore uscente Michelangelo Spataro era in maggioranza anche con Salvatore Perugini sindaco

    L’amicizia prima di tutto. Ed ecco perché Casciaro, dopo aver candidato nel 2016 la moglie in ticket con Giovanni Cipparrone nella coalizione di Enzo Paolini, ha deciso di candidare la figlia in ticket con un occhiutiano di provata fede.

    Udc: democristiani fuori, cosentini dentro

    L’ex partito di Roberto Occhiuto si rivela un ottimo contenitore politico per cosentini di tutti gli orientamenti in libera uscita. Tra i candidati si annovera Salvatore Dionesalvi, ex assessore della giunta di Salvatore Perugini, l’ultima esperienza di governo del centro sinistra.
    C’è, inoltre, Giovanni Cipparrone, ex presidente di circoscrizione in quota Ds, poi oppositore al fianco di Paolini, quindi transitato al centrodestra, dopo un avvicinamento progressivo a Mario Occhiuto.

    gervasi_spadafora_cipparrone
    Da sinistra verso destra: Luca Gervasi, Francesco Spadafora e Giovanni Cipparrone

    E figura Emanuele Sacchetti, altro ex presidente di circoscrizione, molto attivo sul territorio ma passato in secondo piano in seguito all’abolizione di questi enti subcomunali. Sacchetti, secondo i bene informati, dovrebbe correre in ticket con la figlia di Giacomo Fuoco, già consigliere e altro fedelissimo di Occhiuto. Il motivo del ticket starebbe nella comune vicinanza di Sacchetti e Fuoco papà a Luigi Novello, medico di San Lucido con una consistente base elettorale e candidato alle scorse Regionali con la Lega.
    Tra i papabili dell’Udc ci sarebbe inoltre Roberto Bartolomeo, un altro mattatore di Palazzo dei Bruzi. Ma sul suo nome non c’è ancora certezza perché potrebbe trovare un’altra collocazione, sempre nel centrodestra.

    La Lega dopo Granata

    La missione di compilare le liste della Lega dopo gli ammutinamenti di Granata e di altri dissidenti passa allo staff di Occhiuto.
    Anche in questo caso la missione è semplice: fare voti, il più possibile e senza andare per il sottile. Che lo scopo sia questo, lo conferma uno dei nomi su cui si chiacchiera di più: Roberto Sacco, un intramontabile della politica cosentina che, dopo aver cambiato più volte vasi e aiuole, diventa anche finalmente verde.

    roberto-sacco
    Roberto Sacco
    Coraggio Cosenza

    È la lista di più difficile compilazione, perché in essa dovrebbero convivere Vincenzo Granata, i transfughi della Lega e altri fedeli di Occhiuto che non troveranno posto altrove.

    Fratelli d’Italia

    Nel partito della Meloni la parola d’ordine è: colonizzare. A riprova, va da sé, della debolezza strutturale di un partito più forte negli slogan che nell’organizzazione.
    Tra i neomeloniani spicca Francesco Spadafora, il consigliere più votato nelle precedenti Amministrative. Già vicino a Ennio Morrone, il giovane poliziotto di Donnici ha dato prova a più riprese di carattere e indipendenza politica. E c’è chi dice che sarà capace di avvicinare le mani alla fiamma sbiadita di Fdi senza scottarsi.

    occhiuto-morrone
    Mario Occhiuto e Luca Morrone quando il secondo, prima di sfiduciare il primo, era presidente del consiglio comunale bruzio

    A proposito di Morrone: Luca, il vicepresidente uscente del Consiglio regionale, conferma anche a Cosenza di voler stare fermo un giro e di agire, semmai, per interposta persona anche nella conquista di Palazzo dei Bruzi. Non si candiderà neppure nella sua città ma pescherà nella sua rete parentale: candiderà una sorella della moglie, che a sua volta è già candidata alle Regionali.

    Uno slogan dei leghisti calabresi è: mai i Gentile con noi. Ma forse i seguaci di Salvini intendono i fratelli Gentile e i loro familiari. Infatti, il divieto è escluso per i fedeli dei due fratelli terribili, visto che Massimo Lo Gullo, sodale da sempre della famiglia più potente di Cosenza, si candiderà coi meloniani.
    Sempre con la fiamma, è prevista inoltre la candidatura del figlio dell’assessore Lino Di Nardo, altro destrorso di lungo corso legato al sindaco uscente, seppure con autonomia lucida e critica.

    apicella-quintieri
    Giovanni Quintieri e Annalisa Apicella

    Tra i fiammisti uscenti, si segnala Annalisa Apicella, che correrà in ticket con Giovanni Quintieri. Occorre ricordare, al riguardo, che già nel 2016 la Apicella fu di fatto in ticket con l’avvocato, che si dimise consentendole di entrare in Consiglio.
    Ultimo ma non da ultimo, Michele Arnoni, ex esponente de La Destra di Storace passato poi con Orlandino Greco. Per lui è il classico ritorno di fiamma.

    Lista Azzurri, dallo Jonio con furore

    La lista di Gianluca Gallo ha la stessa impronta centrista di Forza Italia. È un esperimento politico non ancora definito, con cui l’assessore regionale all’Agricoltura ed ex rivale interno di Roberto Occhiuto tenta di mettere qualche pedina a Cosenza.
    I nomi che spuntano sono quelli di Marisa Arsì – altra consigliera uscente, moglie dell’imprenditore Pino Carotenuto, ex seguace della famiglia Morrone ed ex superconsulente di Palazzo dei Bruzi – e Giovanni Gentile, segretario nella struttura regionale di Gianluca Gallo e già seguace di Saverio Zavettieri.

    Il quadro e le variabili

    Per avere un quadro completo e rispondere ad altre curiosità tipicamente cosentine (ad esempio: che farà Katya Gentile?) occorrerà attendere la compilazione definitiva delle liste regionali del centrodestra. Al momento è tutto e, come si vede, è un gran casino.

  • Terme Luigiane, minacce al prete e impianti a rischio

    Terme Luigiane, minacce al prete e impianti a rischio

    Tra Guardia Piemontese e Acquappesa aleggia ancora l’effluvio di zolfo, simile all’odore di uovo sodo. Spenti gli stabilimenti termali, ristagna l’acqua sulfurea che sgorga dalla sorgente. Prima di tuffarsi dritto in mare, il prezioso rigagnolo bollente scolpisce tra le rocce una caldissima vasca di color verde smeraldo, dove pochi freak turisti s’immergono e se la godono. Anche a Lamezia, nelle terme di Caronte, o in altre località italiane come nella toscana Saturnia, oltre agli impianti a pagamento, da sempre esistono pozze di deflusso accessibili a tutti. Tra questi boschi però il fenomeno è recente. E al di là di qualche amatore e di pochi curiosi, si sono esauriti gli ultimi barlumi di vita sociale.

    terme-luigiane-pozza
    Una pozza d’acqua sulfurea nei pressi delle Terme Luigiane

    È confinato nella nostalgia dei boomers il ricordo delle Terme Luigiane che richiamavano giovani moltitudini al tempo della mitica discoteca Onda Verde. Sbarrate porte e finestre degli alberghi, deserte le strade, gracidanti ranocchie sguazzano nella piscina termale, fino all’anno scorso stracolma di bagnanti. Resistono solo un’eccellente pizzeria napoletana e uno dei pochi cinema superstiti sulla costa tirrenica cosentina, “La Sirenetta”. Non si vedono più in giro i 32mila turisti, gran parte dei quali russi, che nel 2019 riempirono hotel e B&B. Desolante appare la piazzetta dove un tempo si ballava, cani randagi latranti minacciano i pochi runner che s’avventurano quassù, in un ex luogo che riverbera le solitudini di altri centri abbandonati nei recessi delle Calabrie.

    Nutrito sarebbe l’elenco dei paesini fantasma. Mentre in altre aree della regione, come Roghudi e Cavallerizzo di Cerzeto, alluvioni, emigrazioni, frane e smottamenti hanno colpito duro, nella zona termale di Guardia Piemontese, madre natura e sorella povertà non sono imputabili dello sfacelo. Se le Terme Luigiane restano chiuse, la colpa non è delle calamità. Nel momento più critico di un’estenuante vertenza, sono stati i sindaci di Guardia Piemontese e Acquappesa ad assumersi la responsabilità di serrare i rubinetti dell’acqua che generava fanghi e vapori sulfurei.

    terme-luigiane-vacche
    Vacche pascolano liberamente intorno agli stabilimenti chiusi delle Terme Luigiane

    Dallo scontro feroce tra le due amministrazioni comunali e Sa.te.ca, la società subconcessionaria che da tempo immemore gestiva gli impianti, sono emerse soltanto macerie. E nemmeno la pandemia era riuscita a desertificare le corsie di questi stabilimenti. Persino nel 2020, sebbene l’utenza delle cure termali si fosse ridotta dell’80 per cento, gli impianti avevano continuato a funzionare. Ma quest’anno il duello s’è fatto più aspro e ha finito per azzerare tutto. Dove neanche il coronavirus ha potuto sortire effetti devastanti, è riuscita a provocare danni irreparabili l’umana cupidigia.

    Un bene (poco) comune

    Il getto d’acqua sulfurea da 100 litri al secondo, di cui s’alimentavano le Terme Luigiane, è di proprietà della regione Calabria che lo concede ai comuni siamesi di Acquappesa e Guardia Piemontese. Questi a loro volta ne affidano la gestione alla società privata Sa.te.ca. Così è stato per 80 anni, dal 1936 al 2016. Alla scadenza della concessione, è iniziata una partita che al momento non registra vincitori. L’attuale situazione di stallo infatti lascia sconfitto un territorio dalle potenzialità turistiche immense, consegna 250 lavoratori e lavoratrici alla disoccupazione e priva migliaia di pazienti delle cure necessarie ad affrontare fastidiosissime patologie.

    dipendenti-terme-luigiane-protesta
    Una protesta dei lavoratori delle Terme Luigiane rimasti a spasso a causa della chiusura degli stabilimenti

    Tra i contendenti è in atto da sempre una partita a briscola. Nessuno di loro vuole cedere il mazzo. Uno dei partecipanti, la Regione, gioca in modo distratto. Dal 2016, quando sono cambiate le regole, tutti hanno iniziato a lanciare le carte in aria. E per capire se qualcuno abbia barato, bisognerà attendere gli esiti delle inchieste aperte dalla Procura di Paola e i responsi dei giudici amministrativi, subissati da ricorsi.

    Forse neanche il compianto drammaturgo Vincenzo Ziccarelli, che per anni nel complesso termale diresse la rassegna culturale Zolfo e malie, sarebbe stato in grado di ideare le scenette tragicomiche, degne del miglior Charlie Chaplin, avvenute alla fine dello scorso inverno, quando le amministrazioni comunali si sono riappropriate dei beni detenuti dalla Sa.te.ca. S’è registrata tensione altissima tra i rappresentanti dei due enti e dell’azienda, con le forze dell’ordine a fare da cuscinetto in un derby disputato intorno a un pallone liquido e gassoso.

    La pantomima tra i sindaci e i legali della Sa.te.ca al momento della restituzione di parte degli immobili del complesso termale in un video pubblicato dal Quotidiano del Sud a febbraio

    Lo scontro si è rivelato inevitabile nel gennaio 2021, quando a distanza di due settimane dal nuovo protocollo d’intesa, che avrebbe previsto un’ulteriore proroga della concessione alla Sa.te.ca fino al subentro del nuovo gestore, l’accordo firmato in Prefettura è stato di fatto ribaltato dalla determinazione delle due amministrazioni comunali a concedere tale concessione fino al novembre 2021, non oltre.

    Missione impossibile

    I pochi viandanti, perlopiù calabresi ormai trapiantati altrove, che si avventurano nell’area desertificata delle terme, sbigottiti chiedono come mai qui sia tutto chiuso, quali siano le responsabilità di cotanto degrado. Centoquarantasei metri più in basso, sul livello del mare, qualche turista più curioso interroga il titolare di uno dei bar di Guardia marina: «Come si è arrivati allo scontro?». Il barista stringe le spalle e risponde sottovoce: «Interessi politici». Gli avventori incalzano e rilanciano l’amara considerazione che ormai ha un tono proverbiale: «Che peccato! Guardia è un posto meraviglioso. Una risorsa termale come questa, al nord creerebbe migliaia di posti di lavoro per tutto l’anno. Ma come si fa a tenerla chiusa?».

    Già, come si fa? Se in tutta questa vicenda c’è stato un peccato originale, è nella mancata indizione di un regolare bando pubblico per affidare la gestione dello stabilimento a un nuovo gestore. È opinione diffusa che i Comuni avrebbero potuto e dovuto farlo nel 2016, magari preparando i termini della gara almeno un anno prima, all’approssimarsi della scadenza della concessione quasi secolare. Invece, in questi cinque anni non ci sono riusciti. Secondo la controparte, in realtà Guardia e Acquappesa non hanno mai avuto la volontà politica di bandire l’asta pubblica.

    piscine-deserte-terme-luigiane
    Le piscine ormai deserte delle Terme Luigiane

    Dal canto loro, i Comuni sostengono che sarebbe «alquanto difficile avviare una procedura di gara di un compendio abbandonato (perché inutilizzati ed inutilizzabili sono la gran parte degli edifici) e devastato». Strano però che fino all’autunno 2020 queste strutture fossero attive e funzionanti. Di fatto, comunque, le due amministrazioni comunali si sono limitate a produrre avvisi esplorativi che di solito preludono ad affidamenti diretti, benché nel novembre 2017 precisassero che «I soggetti che avranno manifestato l’interesse ad effettuare tale progettazione, potranno presentare la propria proposta progettuale che, nel caso di migliore proposta, sarà fatta propria dagli Enti ed assunta come base di gara successiva per la gestione della realtà termale Terme Luigiane».

    Niente bando e prezzi alle stelle per le Terme Luigiane

    All’epoca, un interessamento informale sarebbe pervenuto da potenti gruppi imprenditoriali locali, già impegnati nella sanità e in edilizia. Alcune vicissitudini avrebbero però impedito che dai primi contatti si passasse a un’assunzione di responsabilità. Non sono calabresi, bensì campane, e si occupano di asfalto, edilizia, movimento terra, progettazione e studi di fattibilità (attività non proprio legatissime al termalismo), le ditte che all’inizio di questa estate hanno presentato altre manifestazioni di interesse. Intanto, dopo le proroghe della concessione, che nell’ultimo lustro hanno permesso il funzionamento della stazione termale, nell’ultima annata tra le amministrazioni comunali e l’azienda privata Sa.te.ca si è imposta una cortina di ferro, carta bollata e reciproche accuse.

    «Ci troviamo di fronte ad una società che ai Comuni paga 43mila euro annui, mentre, soltanto dalle prestazioni convenzionate con l’Asp ricava oltre 2milioni e 700mila euro (sempre annui). E non vogliamo inserire, nel calcolo, la somma delle prestazioni effettuate a pagamento», strillano i sindaci di Guardia e Acquappesa. Alla fine del maggio scorso, la Sa.te.ca ha formulato una proposta che avrebbe previsto lo sfruttamento di 40 litri al secondo di acqua calda al prezzo di un canone annuo di 30mila euro per il 40 per cento dell’acqua termale, considerato che i Comuni versano alla Regione 22mila euro per il 100 per cento della risorsa.

    Davvero difficile pervenire a un accordo, perché pochi giorni dopo, i Comuni hanno chiesto a Sa.te.ca 93mila euro. E per gli anni successivi 373mila euro, riducendo però la disponibilità a 10 litri al secondo. Qualora invece l’azienda avesse voluto impegnare nei propri impianti 40 litri, i Comuni hanno fatto sapere che avrebbero alzato il prezzo a 1.000.742,40 euro. Qualcuno fa notare che ammonta a questa cifra il 66 per cento del totale annuo versato agli enti titolari da tutte le società private che gestiscono gli stabilimenti termali italiani.

    Il grande assente

    Prima che l’avvento dell’homo cellularis virtualizzasse i giochi adolescenziali e le relazioni umane, quando ancora si disputavano agguerrite partitelle a calcio negli improvvisati campetti realizzati tra un condominio e l’altro, accadeva spesso che in assenza di un arbitro, le azioni di gioco contestate sfociassero in risse verbali e fisiche. A volte, il proprietario del pallone lo afferrava e, indispettito, pronunciava la frase più temuta: «Ah sì? Allora me lo porto a casa e non si gioca più!». Sembra evocare quei romantici scenari l’atteggiamento assunto dai due sindaci che hanno chiuso il rubinetto dell’acqua calda, un tempo incanalata negli impianti gestiti dalla Sa.te.ca. Ma è soprattutto la mancanza di una giacchetta nera a consolidare la metafora. In tutta questa vicenda, grande assente è infatti la Regione.

    «Siamo rimasti profondamente delusi dal comportamento del presidente Nino Spirlì – racconta un dipendente di Sa.te.ca, che preferisce restare nell’anonimato -. Nella primavera scorsa, ha convocato le parti e ci è sembrato coraggioso, preparato, disponibile. Ha diffidato i Comuni, minacciando la revoca della concessione. Poi, però, si è chiuso in un silenzio assoluto. È chiaro che sarà stato richiamato all’ordine dai suoi alleati politici. Non avrà voluto ostacolare i loro interessi».

    Le parole dei lavoratori

    Gli fa eco un collega, anch’egli dipendente per tanti anni della struttura termale: «I sindaci si rifiutano di riceverci. Dicono che non ci riconoscono come interlocutori. E neanche l’ex prefetto di Cosenza, Cinzia Guercio, si è mai degnata di ascoltarci. Ma il comportamento più inqualificabile lo ha avuto l’assessore regionale al Turismo, Fausto Orsomarso. A parte scendere in polemica, nulla di concreto ha fatto per evitare il blocco degli stabilimenti. Qualche mese fa, è venuto addirittura a promettere lo stanziamento di 230mila euro per la realizzazione di un parcheggio. Cosa ce ne facciamo di un parcheggio, se le terme sono chiuse? E poi si è rifiutato di salvaguardare il funzionamento della miniera. Il suo ufficio, attraverso il dirigente Cosentino, si è categoricamente rifiutato di applicare la norma della legge regionale 40/2009 che prevede la sospensione/revoca in caso di morosità da parte dei Comuni concessionari, superati i 240 giorni. Eppure sono trascorsi due anni e mezzo».

    striscione-orsomarso
    Uno striscione contr l’assessore Orsomarso durante le proteste dei lavoratori delle Terme

    Un’altra lavoratrice si schiera con l’azienda: «I sindaci parlano di ricavi per 2 milioni e 500 mila euro, in realtà si tratta dell’incasso per le prestazioni sanitarie, non del ricavo. Nel 2019 la Sa.te.ca ha speso 2.400.000 solo per gli stipendi. Abbiamo paura di perderla, perché ci ha sempre garantito la massima legalità. Temiamo di finire come altre strutture sanitarie calabresi, che stanno passando di mano sempre secondo lo stesso schema degli avvoltoi che si lanciano sulla preda quando è ormai agonizzante. È vero che solo una minoranza tra di noi ha in tasca un contratto a tempo indeterminato. Gli altri sono stagionali, ma più di 1000 lavoratori fanno parte dell’indotto termale».

    La delusione dei clienti

    Analogo e bipartisan è il risentimento tra gli utenti abituali delle terme. Giuliano ha 48 anni ed è un insegnante che conosce bene questo scorcio di Tirreno: «Quest’anno, niente aerosol e inalazioni! Già prevedo guai per le mie tonsille. Grazie alle cure estive – spiega –, in inverno evitavo intere settimane a letto. Mi dispiace pure per il personale sanitario. Sono persone molto gentili e preparate. Però i loro guai dipendono proprio dai politici che dicono di volerle difendere. Non ho niente contro Giuseppe Aieta. E mi sembra strana la faccenda del voto di scambio. Da queste parti ha racimolato poche decine di voti. Ma lui e Carletto Guccione, con quale faccia si siedono a un tavolo di mediazione? Il gruppo dirigente del loro partito è formato da gente che ha mangiato l’inverosimile e ha costruito piccoli imperi sfruttando le clientele in settori importanti come la telematica e le fonti di energia alternativa».

    «Chiuditi la bocca, prete!»

    Il più indignato di tutti è don Massimo Aloia, parroco di Guardia marina e delle Terme. «In questa storia – spiega il sacerdote – latitante è la verità. Per ovvie ragioni legali, quella che gli operai gridano, non può essere tutta la verità. L’anomalia è il comportamento delle istituzioni. All’inizio, ci siamo sforzati di non pensar male, ma la chiusura delle acque è stata la prova della loro malafede. I sindaci dicono che è un atto dovuto, ma allora perché non l’hanno fatto negli anni precedenti?».

    Don Massimo parla con tono pacato e severo. «Le amministrazioni comunali – prosegue – hanno dichiarato illegittimo l’accordo che loro stesse avevano da poco sottoscritto in Prefettura. Ci sono tanti aspetti oscuri in questa vicenda. Non capisco come mai il presidente Spirlì, che pure fa riferimento a un partito sedicente portatore dell’ordine e della legalità, non abbia avuto il coraggio di revocare la concessione ai Comuni, dopo 240 giorni di inadempienza, come la legge prevedrebbe».

    Sono diverse le famiglie dei dipendenti rimasti senza lavoro ad aver chiesto aiuto economico alla parrocchia. Il vescovo ha inviato appositi fondi a don Massimo. Poche settimane fa, però, alla sua porta hanno iniziato a bussare anche le minacce: «Telefonate intimidatorie, bigliettini anonimi, i soliti messaggini che pervengono a chi parla troppo», denuncia il sacerdote, senza esitazione.

    Le Terme Luigiane in coma. Irreversibile?

    Le ferite sociali stanno per tramutarsi in piaghe che a breve rischierebbero di portare alla morte del paziente. Tra gli oneri pattuiti nel vecchio accordo di concessione, l’illuminazione intorno agli impianti, la pulizia e la manutenzione stradale spettavano al gestore, quindi a Sa.te.ca. In uno dei tanti passaggi della vertenza, i Comuni hanno revocato persino l’assegnazione di queste competenze. È presumibile che se tali settori non saranno assegnati in tempi brevi a un nuovo soggetto privato, il già visibile degrado si alimenterà dei disservizi.

    Il danno peggiore, comunque, potrebbe scaturire proprio dalla chiusura del rubinetto principale. L’adduzione delle acquee sulfuree avveniva mediante un tubo sotterraneo, prodotto a suo tempo dalla Dalmine. Secondo il parere di alcuni manutentori, se la condotta non è piena, con tempo lo zolfo forma dei residui che nel medio periodo si accumulerebbero e, tappandolo, lo renderebbero inservibile. La tragedia avrebbe così un epilogo già andato in scena innumerevoli volte, nelle Calabrie saccheggiate dalla malapolitica e dai profitti dei privati.

    Ma la politica che ne pensa?

    Ormai quasi nulla di quel che resta dell’immenso patrimonio naturale di un’intera regione appartiene ai calabresi. Una multinazionale detiene i laghi della Sila e decide quanta acqua distribuire agli agricoltori; le spiagge sono cementificate o recintate; l’acqua è nelle mani di una società a prevalente capitale pubblico, i cui fili sono retti dalla politica; il vento che muove le pale eoliche è accaparrato dai privati; il legname dei boschi finisce negli impianti a biomasse; il ciclo dei rifiuti non è per niente virtuoso e continua a imbottire i territori di velenifere discariche.

    Sono temi che dovrebbero riempire le agende delle forze politiche impegnate nelle prossime elezioni amministrative, sia regionali che comunali. Ma quanti sono i candidati che hanno a cuore le risorse naturali? La maggior parte di loro si trastulla con le chiacchiere tracimanti da quelli che ci ostiniamo a chiamare “social”, ma che di sociale non hanno un bel niente, essendo piattaforme private. Anzi, privatistiche, dunque disinteressate alla difesa e all’esercizio dei beni comuni. Come tutti i soggetti responsabili, a vario titolo, della chiusura delle Terme Luigiane.

  • Porto di Paola, la soap opera calabrese di “Bonaventura” Orsomarso

    Porto di Paola, la soap opera calabrese di “Bonaventura” Orsomarso

    Un assegnone di venti milioni, sorrisoni delle grandi occasioni nella sala del Consiglio comunale di Paola, e via: Fausto Orsomarso, a fine luglio, è passato dal metacinema (chi ricorda il celebre “Ci nni vu bene ara Calabria”?) al fumetto.
    Forse in maniera inconsapevole (o forse no) l’assessore regionale uscente al Turismo ha rinverdito le strisce di Bonaventura, il mitico eroe del Corriere dei Piccoli, che alla fine di ogni avventura, raccontata in rime, sventolava soddisfatto l’assegno da un milione.

    L’assessore regionale Fausto Orsomarso consegna l’assegnone al sindaco di Paola, Roberto Perrotta
    Qui comincia l’avventura

    Il signor Bonaventura diventa 4.0. Anche questa nuova storia, che meriterebbe il racconto in rime baciate, è da fumetto: riguarda il fantastico (e fantasmatico) porto turistico di Paola.
    I venti milioni sarebbero il contributo della Regione alla maxi opera, che dovrebbe costarne cinquanta in tutto. E gli altri trenta? A carico dell’impresa che si assumerà gli oneri e gli onori della gestione in project financing (in parole povere: che finanzierà parte dell’opera e poi la gestirà come se ne fosse proprietaria).
    L’iniziativa, fin qui, non è nuova, visto che molte infrastrutture e opere pubbliche (si pensi alla problematica e cosentinissima piazza Bilotti) sono state ideate e lanciate in project financing.

    Perrotta si è commosso

    La storia del porto turistico non è nuova neppure per Roberto Perrotta, ritornato sindaco di Paola nel 2017, dopo il quinquennio di Basilio Ferrari.
    Di più: Perrotta, che si è commosso davanti al lenzuolo da venti milioni, è stato il sindaco che ha vissuto (e subito) di più la vicenda di questa infrastruttura marittima, che, almeno sulla carta, dovrebbe lanciare alle stelle l’economia della cittadina tirrenica.

    Infatti, l’avvocato paolano fu primo cittadino dal 2003 al 2012 e ha visto tutte le vicissitudini, gli alti e bassi, gli stop and go di questo porto, annunciato a più riprese e altrettante volte arenatosi, grazie anche all’immancabile intervento della Procura, che sembrava aver dato il colpo di grazia con un’inchiesta.
    Perché quest’opera è considerata tanto importante da essere diventata un oggetto del desiderio per tutte le forze politiche della città, esclusi alcuni gruppi di sinistra? E come mai la sua storia, finora, è stata tanto controversa?
    Lo vediamo subito.

    Il porto infinito

    Il progettone è da libro dei sogni: 658 posti barca, più infrastrutture ausiliarie importanti come parcheggi per auto, servizi taxi, ristorante, pizzeria e supermercato marittimo con prodotti tipici.
    L’impatto di un’opera così ambiziosa su una cittadina di ventimila abitanti, che vive essenzialmente di servizi e commercio e basa la propria economia sulla presenza del Tribunale e dell’Ospedale, sarebbe in effetti rivoluzionario.
    Ecco perché l’idea del porto è carezzata da anni e risorge a orologeria a ogni tornata elettorale.
    Quest’idea fu concepita in lire alla fine della Prima repubblica e si è evoluta in euro durante la seconda. È sopravvissuta a quattro amministrazioni, a due interrogazioni parlamentari e, un’inchiesta giudiziaria e al dissesto del Comune.

    La Ganeri lanciò l’idea

    La lanciò per prima Antonella Bruno Ganeri, che divenne sindaca nel lontanissimo ’93 a capo di una coalizione civica. La Bruno, c’è da dire, aveva gli agganci giusti per drenare i fondi e realizzarla: grazie al centrosinistra ulivista divenne senatrice nel ’94, restò a palazzo Madama fino al 2001 e, nel frattempo, fu confermata prima cittadina, direttamente dal Pds, nel ’97.
    Questo popò di ruoli non bastò a far decollare il porto, che divenne una patata bollente per tutte le amministrazioni.

    L’azzurro Gravina ci ha provato

    Alla Bruno e al suo centrosinistra seguì l’amministrazione azzurra di Giovanni Gravina, che durò appena due anni, durante i quali fece di tutto per realizzare il progetto, partito proprio a ridosso delle elezioni, con la costituzione di Porto dei Normanni Spa, una società mista, partecipata dal Comune e da due società private, Sider Almagià Spa e Sider gestione porti srl, entrambe espressioni dell’impresa romana Almagià, big di livello europeo del settore.

    Quanto costa?

    Il costo iniziale dell’opera ammontava a venticinque milioni, di cui 450mila erogate dal Cipe al Comune, che deteneva il 30% della società mista. La Almagià partecipava all’opera perché vincitrice del bando europeo lanciato dall’amministrazione.
    I presupposti per la realizzazione c’erano tutti. Tranne l’idrogeologia.
    Infatti, l’area individuata per creare il porto era la parte centrale del lungomare di Paola. Ma nelle sue vicinanze scorreva il torrente Fiumarella, che doveva essere deviato. Ma per spostare il letto di questo fiume occorreva il nulla osta definitivo dell’Autorità di Bacino e della Sovrintendenza dei Beni culturali.
    Inutile dire che il doppio ostacolo, naturale e burocratico, arenò l’opera.

    Il porto bonsai

    Ma intanto i primi danni erano fatti: l’area del cantiere aveva tagliato in due il lungomare, creando non pochi danni agli esercenti dei lidi, costretti a spostarsi a nord.
    Che fare? Chiudere la partita non si poteva, perché il guasto ambientale e urbanistico c’era già.
    L’architetto Renato Sorrentino, personalità di spicco della cittadina, aveva proposto una soluzione di compromesso: una darsena. Il classico “uovo” da mangiare subito anziché attendere la gallina.
    Quest’idea, il porticciolo bonsai, non incontrò grandi consensi nella classe dirigente paolana, che invece voleva tutto il pennuto. Sorrentino non riuscì a sostenerla a dovere, perché morì nel 2004 e l’unico che la rilanciò fu il giornalista Alessandro Pagliaro, candidatosi a sindaco nel 2007 a capo di una coalizione indipendente di sinistra.
    Ma i problemi tecnici e burocratici non erano i principali: come per ogni opera pubblica calabrese che si rispetti, non poteva mancare l’aspetto giudiziario.

    Il giallo della società fantasma

    Una vecchia interrogazione di Angela Napoli, pasionaria della legalità e rara stakanovista in un Parlamento pieno di assenteisti e vagabondi, chiarisce non poche ombre della vicenda, nel frattempo diventata un po’ inquietante.
    Nel 2005 la Sider Almagià decide di sganciarsi e di mollare le sue quote di maggioranza nella società Porto dei Normanni a una società spagnola.
    L’anno successivo la giunta guidata da Perrotta dà il via libera all’operazione. Tuttavia, i consiglieri di minoranza scatenano il caos e la vicenda finisce al vaglio della Procura. Tra una polemica e l’altra, emerge che la società spagnola sarebbe una scatola cinese e che le procedure di costituzione della società mista non sarebbero state il massimo della chiarezza.

    La delibera di Giunta

    Ma lo sganciamento di Sider Almagià era solo rinviato. Riesce l’11 dicembre 2007, pochi mesi dopo l’inizio della seconda amministrazione Parrotta, grazie a una delibera di Giunta approvata a maggioranza che autorizza la cessione delle quote a Cinabro Spa.
    Cinabro non è un fantasma, ma non è neppure in carne: possiede poca attrezzatura, per un valore di 2.500 euro. Neppure la sua liquidità è robusta: 19.500 euro depositati su un conto del Banco di Sardegna.

    Che fine hanno fatto i quattrini del Cipe?

    E non finisce qui: Cinabro risulta costituita il 21 ottobre 2006 ed è entrata in attività il 31 ottobre 2007. Oltre che magrolina, la società è giovanissima, anche in maniera sospetta: sembra nata proprio per rilevare le quote.
    La chiusa dell’interrogazione della Napoli lascia aperti interrogativi ancor oggi sinistri. Ad esempio: che fine hanno fatto i quattrini del Cipe? E quali sono i motivi reali dell’abbandono di Sider Almagia?
    Difficile sapere cosa risposero i titolari delle Infrastrutture e dei Trasporti. Certo è che Porto dei Normanni Spa collassò e, con essa, il porto.

    La ripresa?

    Nel 2011 entra in scena un nuovo soggetto: la società Marina di San Francesco, che dovrebbe finalmente realizzare il porto dei desideri. Ma i problemi idrogeologici e gli ostacoli burocratici sono persistenti e invalicabili.
    Neppure Basilio Ferrari, eletto sindaco nel 2012, riesce a venirne a capo.
    Parrotta, riportano le cronache, ha celebrato l’assegnone di Orsomarso con una metafora calcistica: la possibilità di realizzare, finalmente, il porto equivale, per lui juventino, a quella di vedere la Signora mentre vince la Champions League, il trofeo tabù della regina del calcio.
    Ma lo stanziamento milionario rischia di risolversi nell’ennesimo polverone elettorale bipartisan, con una variante ancor più pericolosa: stavolta i soldi promessi non sono spiccioli e sono tutti a carico di un ente, la Regione, le cui casse vacillano non poco.
    Di sicuro Almagià è fuori e non è intenzionata a tornare. Chissà che non arrivi qualche altro Paperone dalla Spagna.
    E, per citare l’eroe del Corrierino: qui finisce l’avventura del signor Bonaventura.
    Al momento.

  • Ucciso dai clan, il Comune vuol spostare la scultura in sua memoria

    Ucciso dai clan, il Comune vuol spostare la scultura in sua memoria

    La malavita ha tolto la vita a Luigi Gravina trentanove anni fa, ora il Comune di Paola potrebbe ucciderne il ricordo rimuovendo la scultura in sua memoria dal luogo dell’omicidio per spostarla chissà dove. A denunciarlo sono Luigina Violetta, la vedova di Gravina, e i suoi figli con una lettera indirizzata al sindaco Roberto Perrotta e al segretario generale della cittadina tirrenica.

    Dal luogo del delitto a chissà dove

    La signora racconta che a contattarla in questi giorni sarebbe stato un dirigente comunale, Fabio Iaccino, informandola della volontà dell’amministrazione di spostare la statua da via Nazionale – lì dove uccisero Gravina – e sollecitandola a collaborare «al fine di individuare con urgenza altra zona della città idonea ove spostare la scultura». Una proposta, questa, che non poteva che cogliere di sorpresa i familiari della vittima, che vorrebbero comprenderne le ragioni.

    Stesso sindaco, idee diverse

    L’aspetto più singolare della vicenda è che a volere quella scultura, la cui inaugurazione risale al 2004, in quel punto era stato proprio lo stesso Perrotta, all’epoca come oggi sindaco di Paola. A quei tempi l’amministrazione comunale scrisse di avvertire «in maniera molto forte, l’esigenza di onorare il ricordo del compianto Luigi Gravina, figlio di questa terra, deceduto tragicamente a Paola il 25.3.1982, per mano mafiosa, essendosi rifiutato, reiteratamente e con forte determinazione, di cedere alle insistenti e minacciose richieste estorsive della criminalità organizzata locale».

    La cerimonia inaugurale

    Il movente del delitto, infatti, era stato il coraggio di Gravina, allora 33enne, di denunciare i malavitosi che si erano presentati per estorcergli denaro in cambio di protezione. L’artigiano pagò quel rifiuto col sangue. E la sua città, seppur con grande ritardo, decise di omaggiarlo preservando la memoria di quella scelta letale. Era il 25 aprile del 2004 e all’inaugurazione, oltre ai familiari parteciparono in tanti oltre ai familiari. C’era Perrotta ovviamente e con lui Jole Santelli, all’epoca sottosegretario alla Giustizia, l’ex presidente della Camera Luciano Violante, l’allora procuratore capo Luciano d’Emmanuele, l’Avvocato generale dello Stato f.f. Francesco Italo Acri, gli ex sindaci Antonella Bruno Ganeri e Giovanni Gravina. Ma anche un’altra donna del Tirreno cosentino che aveva perso il marito per mano della ‘ndrangheta, la vedova di Giannino Losardo.

    Le ultime parole famose

    In quell’occasione Perrotta pronunciò parole che la signora Violetta ancora ricorda: «Con tutto il dolore che può esistere – disse il sindaco quel pomeriggio – io vorrei essere sempre il figlio di chi è stato ucciso e non di chi ha ucciso. A Luigi va il nostro ricordo, il nostro pensiero e la nostra gratitudine per aver trovato il coraggio della denuncia. Era una persona affettuosa e un artigiano onesto; la sua morte violenta e crudele ci fa sentire ancor più vicini alla sua famiglia, a cui va tutto il nostro calore. Quanto accaduto non deve succedere più soprattutto nella città di san Francesco, dove un fatto di questi è mille volte più scandaloso. Paola vuole essere una città civile che vive così come il suo grande primo cittadino ci ha insegnato».

    Un passo indietro delle istituzioni

    Non è dato sapere cosa penserebbe il santo paolano del trasferimento della scultura a distanza di 17 anni fa. Né si può conoscere il suo giudizio sulla profanazione, era il 2012, di due targhe dedicate allo stesso Gravina in ricordo della sua morte. In quel caso i colpevoli erano dei vandali, stavolta è il Comune e alla famiglia della vittima la scelta del municipio è andata di traverso: «Spostare quel simbolo antimafia in altro luogo, significherebbe, a nostro avviso, svilire la figura di Luigi Gravina e indebolire la lotta alla mafia. È come se la Istituzione si fosse in un certo senso tirata indietro, togliendo lustro all’iniziativa di allora».

  • Chi è più civico di me? A Cosenza è fuga dai partiti

    Chi è più civico di me? A Cosenza è fuga dai partiti

    D’accordo che siamo la patria di Cetto, ma qualche occhiatina al dizionario, anche distratta, non fa male. Ci aiuterebbe a capire, per esempio, che “civico” è sinonimo di “civile” o “urbano” e che il contrario di civico non è “partitico”, ma cafone, villico, in definitiva tamarro.
    A questo c’erano arrivati già i picciotti di Stefano Bontate, che prima di farsi sterminare come le mosche, chiamavano viddani, cioè villici, i corleonesi di Luciano Liggio e Totò ’u Curtu. Ma questa è un’altra storia, grande e tragica, che riguarda ben altre classi dirigenti.
    Quella cosentina, a partire dai problemi col vocabolario, è decisamente peggio.

    Faccio danni quindi rivinco

    Squadra vincente non si cambia, recita l’adagio. A Cosenza si va oltre e si mantiene quella perdente, con la quasi certezza di vincere.
    Prendiamo il caso dell’amministrazione uscente. Forse non è del tutto colpa di Mario Occhiuto se il Comune è finito in default: lui aveva solo “ereditato” una situazione disastrosa, il famigerato debito mascherato di cui si era favoleggiato a lungo nei bar “che contano”. Tuttavia, la Corte dei Conti la pensa altrimenti. E ha pure condannato in primo grado Mario l’Archistar e una buona fetta del suo Stato Maggiore a risarcire danni erariali ai cosentini per altre vicende.

    sentenza-danno-erariale
    Un estratto della sentenza di primo grado con cui la Corte dei Conti nel 2020 ha condannato per danno erariale Mario Occhiuto, parte della sua Giunta e alcuni ex dirigenti per spese relative allo staff del sindaco

    Normalmente, l’esperienza di Occhiuto finirebbe archiviata perché i cittadini, stanchi delle tasse a palla, girerebbero i propri consensi altrove. Anche a dispetto del fatto che il fratello Roberto Occhiuto sia l’aspirante governatore regionale in predicato di vincere.
    Invece no: a Cosenza manca l’“altrove” a cui rivolgere consensi e su cui sfogare dissensi e mal di pancia più o meno motivati. Per le deficienze dell’attuale centrosinistra la città rischia di assistere allo spettacolo non bellissimo del 2016, quando Mario l’Archistar vinse in maniera bulgara a dispetto della sfiducia del Consiglio comunale, a cui si associarono elementi importanti della sua stessa maggioranza.

    Solo che allora qualche scusa per la disfatta c’era. Ad esempio, c’era la prepotenza di Renzi, che aveva imposto Lucio Presta in un sussulto di fighetteria. E ci fu la candidatura tardiva di Carlo Guccione, già logorato dai suoi alti e bassi nell’amministrazione regionale Oliverio, che non riuscì ad assicurare nemmeno l’onore della bandiera.
    Ora non c’è alcuna pezza. Ci sono solo gli appetiti dei big che mirano a ritagliarsi spazi e ruoli, col metodo più facile (e vecchio): sputano veleno sui partiti, che nei loro confronti hanno solo la colpa di non elargire abbastanza. In termini di potere, si capisce.

    La quadra dei partiti

    Una cosa va detta: gli Occhiuto non sono fessi, quindi non faranno a meno delle sigle di partito, che utilizzeranno forse con le solite accortezze un po’ tamarre: Forza Cosenza per far capire che è Forza Italia, Fratelli di Cosenza, Lega Cosenza ecc.
    D’altronde, non potrebbero eliminarle neppure se volessero: la legittimazione civica per loro è difficile, dopo lo sfascio del Comune, e in questo settore c’è chi è più “bravo” di loro. Ad esempio, Francesco De Cicco, la cui candidatura è civica perché non riesce a essere politica neppure sotto sforzo; lui è il punto zero della politicità.
    A chi storce il naso è possibile obiettare che De Cicco è il civismo su misura di una città invecchiata, in decrescita demografica e in arretramento culturale, in cui il ceto medio si è assottigliato paurosamente.

    Il problema vero per chi aspira a riprendersi il territorio dopo un decennio di lamentele improduttive e di opposizione più urlata che fattiva, è la mancanza di fisionomia politica.
    Già: perché i cosentini dovrebbero votare chi non è carne né pesce, e magari deve tutto al sistema da cui prende le distanze?
    L’interrogativo non riguarda, ovviamente, Franz Caruso, che è contentissimo di essere candidato a sindaco dal Pd e dal Psi, dopo anni di tentativi elettorali e di presenze nelle istituzioni coi marchietti socialisti e post socialisti.
    Il problema è che dietro Caruso ci sono (e, se non cambia qualcosa, ci saranno) Nicola Adamo, Carlo Guccione e Luigi Incarnato. Ovvero, tre spezzoni della sinistra che ha gestito potere. Il che, in parole povere, si traduce in poche briciole per tutti gli altri.

    Una post democristiana civica

    Bianca Rende ha attribuito la sua candidatura a Palazzo dei Bruzi alle esortazioni del gruppo What Women Want, di cui lei fa parte. Una roba civica e neofemminista, insomma.
    Eppure, la Rende ha legami più che solidi con la politica, che datano alla Prima Repubblica più “profonda”. Suo padre Piero è stato un big di lungo corso della Dc, quando la Dc dettava le regole e dava le carte a tutti i tavoli, anche quelli comunisti.
    Lei stessa ha aderito al Pd, nella sua cosiddetta “area popolare”, il centro di stoccaggio per orfani e cuccioli della Balena Bianca.

    bianca-rende
    Eletta nella lista del Pd alle elezioni del 2016, Bianca Rende punta a succedere a Occhiuto come rappresentante del civismo

    E c’è stata in buona compagnia: quella di Stefania Covello, figlia del superbig democristiano Franco Covello e anch’essa protagonista di una carriera non proprio piccola, vissuta a cavallo tra centrodestra e centrosinistra. Un’esperienza in consiglio comunale tra i banchi di Forza Italia, eletta parlamentare nel Pd, Stefania ha saltato il fosso e ha aderito a Italia viva, trascinando con sé Bianca.
    Peccato solo che quello di Renzi sia un gruppo parlamentare molto coeso che, tuttavia, pesa poco nella società civile. Detto altrimenti: difficile negoziare qualcosa di serio se il proprio referente romano è l’ex premier. Meglio giocarsi la carta del civismo, magari con l’aiuto della famiglia Covello.

    Con lei ci sarebbero, per quel che pesano, anche i Cinquestelle cosentini. In realtà ci sarebbe pure Carlo Tansi, che pesa altrettanto, ma ingombra di più.
    Giusto una curiosità: non era proprio Bianca Rende quella che tuonava dalle colonne del Quotidiano del Sud nel 2018 contro i finti civici, responsabili a suo dire di generare indisciplina e mettere a repentaglio la governabilità?

    Sergio Nucci, l’irriducibile centrista

    A Sergio Nucci molti giornalisti devono dire grazie, perché con il suo sito ha letteralmente rimpiazzato l’albo pretorio del Comune e rimpinzato i cronisti di tutti i documenti relativi agli strafalcioni dell’amministrazione Occhiuto.
    Anche il dentista cosentino è civico. S’intende: nella misura in cui possono essere civici gli esponenti del notabilato politico che non trovano spazio adeguato nei partiti.
    Nucci, infatti, respira politica da sempre, grazie alla Dc in cui aveva militato e in cui vanta una parentela illustre: quella con Annamaria Nucci, la compianta ex deputata Dc e poi Ppi e donna forte dell’esecutivo Perugini.

    Crollata la Prima repubblica, il Nostro si è posizionato prima nell’area manciniana e poi si è messo in proprio in nome del civismo: nel 2011 si è candidato a sindaco alla guida di una minicoalizione, in cui, oltre alla sua associazione Buongiorno Cosenza, c’erano due liste partitiche: i finiani di Fli e i rutelliani di Api.
    Forte di un buon consenso, il Nostro ha appoggiato Mario Occhiuto al ballottaggio e poi, a causa di una negoziazione finita male, è passato all’opposizione. Ora ci riproverebbe, più civico che mai. Non si sa mai che uno dei due Caruso (Franz o l’occhiutiano Francesco) risulti più malleabile…

    Marco Ambrogio, dal postcomunismo all’infinito

    Anche Marco Ambrogio è un altro civico per autoproclamazione. Il giovane avvocato cosentino vanta, tuttavia, una gavetta forte e radici familiari importanti negli ambienti postcomunisti. È parente di Franco Ambrogio, già eminenza grigia del Pci e poi regista delle successive trasformazioni dei compagni (anche di merende…) fino al Pci.
    Forte di un certo radicamento nella sua Donnici, a cui vorrebbe restituire la circoscrizione, Ambrogio Jr è stato assessore con Salvatore Perugini e capogruppo del Pd. Poi ha tentato il colpaccio nel 2014, schierandosi con Gianluca Callipo in occasione delle primarie per la scelta del governatore.

    Di fatto, si è tarpato le ali da solo. Ma, tra una cosa e l’altra, è riuscito a impalmare Rosaria Succurro, assessora di Occhiuto (e condannata assieme a lui per danno erariale) nonché attuale sindaca di San Giovanni in Fiore.
    L’avvocato cosentino è riuscito a rientrare in Consiglio comunale candidandosi con Carlo Guccione in una lista civica. Civico per civico, ora balla da solo. Non si sa mai che la vicinanza indiretta con Occhiuto, propiziata dal talamo nuziale, non torni utile…

    Giacomo Mancini, l’evergreen postsocialista

    Giacomo Mancini riscuote ancora simpatia, affetto e qualche consenso nella sua roccaforte del centro storico. Ovviamente, tutto questo non basta per motivare una sua candidatura a sindaco al di fuori dei partiti, nei quali, invece, si è mosso alla grande e con forti risultati.
    È stato consigliere comunale nel gruppo socialista quando ancora era forte la nostalgia per suo nonno, il vecchio Giacomo, ed è diventato deputato con la Rosa nel pugno, il partitino radicalsocialista messo in piedi da Daniele Capezzone.

    Al pari del suo leader, ha saltato il fosso nel 2008, quando l’agibilità del centrosinistra era agli sgoccioli. Giusto in tempo per diventare assessore con Peppe Scopelliti. Il ritorno a sinistra non gli ha portato molto bene, visto che non è riuscito a tornare a Montecitorio nel 2018. Peccato, perché rispetto ad altri Giacomo è almeno presentabile. Il suo tentativo di candidarsi a sindaco sarebbe motivato, secondo i bene informati, da alcune proposte arrivategli da una parte del Pd. Ma dopo che Guccione e Adamo hanno fatto pace, nel partito di Letta lo spazio è esaurito.
    Il suo civismo è quello di chi non ha più partiti: li ha finiti tutti.

    Formisani: a volte i compagni ritornano

    Come tutti i neocomunisti, anche Valerio Formisani ha una tendenza a spaccare l’atomo.
    Lo prova il comunicato con cui i vertici cosentini di Sinistra Italiana hanno lanciato la candidatura in solitaria del “medico del popolo”, che ha contribuito a far saltare il tavolo del centrosinistra.

    A Formisani, già vicino a Rifondazione e poi a Vendola, si può rimproverare tutto fuorché l’opportunismo: fa il “civico” il minimo indispensabile per evitare di dar fastidio ai compagni e cercare di prendere qualche decimale in più per arrivare almeno in Consiglio comunale. È poco. Ma quando si spaccano gli atomi, ciò che conta è sopravvivere alle esplosioni e alle radiazioni. E l’amministrazione? Un’altra volta.

    Occhiuto è vivo

    Se il centrosinistra continua così, Mario Occhiuto rischia di fare il suo terzo mandato come sindaco ombra del suo attuale vice.
    Ma tutto si può rimproverare all’Archistar fuorché l’incoerenza: perseguire un progetto di potere non è un reato. E conseguire una vittoria perché il campo avversario gliela propizia non è un crimine.

    E allora: il contrario di “partitico” non è “civico”. Ma il contrario di “civico” è senz’altro “incivile”, in tutti i significati possibili. E si è incivili anche quando ci si traveste, per infiltrarsi nei partiti e, appunto, spacciarsi per “civici”.
    Già: incivile è anche chi vuol male alla propria città.

  • Catanzaro e politica, l’eterno ritorno dei soliti noti

    Catanzaro e politica, l’eterno ritorno dei soliti noti

    Se a Vibo i trasversalismi potrebbero essere oggetto di studi antropologici, Catanzaro è certamente la capitale dell’eterno ritorno. Il passato che non passa, nel capoluogo di regione, lo incarna uno come Sergio Abramo che sembra sia sindaco, oltre che presidente della Provincia, da sempre e per sempre. È però convinzione comune che il bottino grosso sia alla Regione. Dunque, in vista delle elezioni del 3-4 ottobre, sono in tanti, tutti arcinoti, a sgomitare per piazzare la propria bandierina nell’Astronave di Palazzo Campanella. Ecco alcuni profili di chi fuori dai giochi non riesce proprio a stare ed è già a caccia di una riconferma o (appunto) di un ritorno nella politica che conta.

    Sergio Abramo, sindaco di Catanzaro
    Due big ingombranti

    Tra i più ingombranti, nel centrodestra, ci sono due big che già nel 2020 hanno giocato un ruolo di primo piano. E che anche a distanza di un anno e mezzo, magari a ruoli invertiti, sono pronti a dare spettacolo. Si tratta di Mimmo Tallini e Claudio Parente, eminenze azzurre del capoluogo che hanno attraversato alterne fortune mantenendo, sempre e comunque, ampi pacchetti di voti. Di Tallini si sa: è stato “incandidabile” secondo l’Antimafia e, nonostante l’Antimafia, è stato candidato, eletto e pure incoronato – con un aiutino dal centrosinistra – presidente del consiglio regionale.

    Poi la bufera giudiziaria lo ha investito con “Farmabusiness”, ma il Riesame e la Cassazione hanno detto che non doveva andare ai domiciliari. È tornato a Palazzo Campanella da consigliere semplice, ha battagliato spesso col facente funzioni Nino Spirlì ma, nel frattempo, si è indebolito sul fronte interno. Politicamente è certo che venderà cara la pelle. Ma se vorrà essere candidato oppure puntare su qualcun altro o su un patto di ferro proprio con Parente è difficile dirlo. Perché a Catanzaro ognuno si impegna a far apparire sempre il contrario di quello che realmente è.

    Un Parente alla Regione

    In molti danno lo stesso Parente come già dentro la lista ufficiale di Forza Italia. «Nel 1997 – si legge in una sua biografia sul sito del consiglio regionale – ha rinunciato alla carriera universitaria per intraprendere la libera professione di medico specialista ed avviare e dirigere diverse iniziative imprenditoriali di successo nel settore sanitario. Dall’anno 2016 presiede il Movimento Politico Sociale “Officine del Sud”».

    Claudio Parente, presidente Officine del Sud

    Dei suoi interessi diretti o indiretti nella sanità privata si è parlato molto a proposito del boom di contagi a Villa Torano, ma anche il suo movimento gli dà un po’ da pensare: il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri vuole mandarlo a processo per peculato assieme a due “suoi” consiglieri comunali. Al centro dell’inchiesta c’è una convenzione firmata tra l’amministrazione comunale e la “Vivere Insieme”, società che ha fondato proprio Parente e di cui il politico, nonostante le dimissioni, avrebbe mantenuto secondo l’accusa la gestione e il controllo.

    L’Udc piglia tutti

    Il sito istituzionale del Comune di Catanzaro lo dà ancora come capogruppo di «minoranza» ma per le Regionali è già ufficialmente passato dall’altra parte. Se mai si dovesse indicare un corrispondente politico maschile di Flora Sculco (ancora all’opposizione in consiglio regionale ma già candidata col centrodestra) si chiamerebbe Sergio Costanzo. Con lei condivide la caratteristica di stare sia da una parte che dall’altra ma anche l’essere una new entry di un partito che dei “due forni” ha fatto un tratto identitario: l’Udc.

    Sergio Costanzo, new entry nelle file dell’Udc

    Nel 2014 si presentò a sostegno di Mario Oliverio con “Calabria in rete” e proprio la Sculco, nonostante le sue 6687 preferenze, gli soffiò il posto in Consiglio. Nel 2020 provò a bazzicare ancora dalle parti del centrosinistra ma non trovò sponda nella coalizione guidata allora da Pippo Callipo. Gli fu preferito Libero Notarangelo (Pd) che lo ha poi nominato suo segretario particolare.

    C’è anche un’ombra che lo insegue da tempo, ma va detto che non è indagato per niente che abbia a che fare con reati di mafia: è cugino di Girolamo Costanzo, noto come “compare Gino”, storico capoclan dei Gaglianesi. In alcune intercettazioni contenute in “Farmabusiness” si parla di una presunta “ambasciata” partita dal carcere di Opera, ancora tutta da verificare in sede di indagine, per farlo votare.

    Bruno, un delfino tra le correnti

    Si riaffaccia sul fronte del centrosinistra un volto non proprio nuovo come quello di Enzo Bruno. Partito da Vallefiorita, bazzicava la Provincia di Catanzaro già alla fine degli anni ’90, quando guidava anche la Comunità montana “Fossa del lupo”. È stato poi eletto presidente dell’ente intermedio per il Pd nel 2014 e saltella tra le correnti dem con la naturalezza di un delfino che attraversa lo Stretto: è passato da Nicola Adamo ad Agazio Loiero, è stato con e contro Oliverio, quindi vicino a Ernesto Magorno quando era segretario regionale del Pd e, ora, è pronto per la candidatura al consiglio regionale.

    Enzo Bruno, presidente della Provincia di Catanzaro

    Nel suo curriculum la parola «funzionario» ricorre continuamente in riferimento all’Asp di Catanzaro e alla Regione Calabria, ma altrettanto frequentemente vi è affiancato anche il termine «comando», ovvero il distacco di un dipendente pubblico della stessa amministrazione nella struttura di qualche componente della Giunta o del Consiglio. Adesso proverà ad essere lui quello che “comanda”. Sotto i vessilli della nuova/vecchia corrente zingarettiana “Prossima”, si appresta a lottare per un posto al sole di Reggio.

    L’iperattivo Pitaro

    Nel collegio di Enzo Bruno potrebbe creare un certo fastidio elettorale Francesco Pitaro, eletto per il rotto della cuffia con la creatura callipiana “Io resto in Calabria” nel 2020. Non ci ha pensato un attimo, quando gli hanno negato la nomina nell’Ufficio di Presidenza del Consiglio, a “tradire” l’imprenditore del tonno e a mettersi in proprio nel gruppo Misto.

    Francesco Pitaro, consigliere regionale del Gruppo misto. I retroscena politici lo danno vicino al Pd

    Ora pare sia entrato, accolto da parecchi mugugni, nel Pd, e il suo attivismo – non solo nel capoluogo e nell’hinterland, ma da Crotone fino a Lamezia e Vibo – potrebbe tradursi in una crescita di consenso. Un lavorio incessante, il suo, che poi, magari, potrebbe tornare utile anche al fratello Pino, avvocato amministrativista ed ex sindaco di Torre di Ruggiero coinvolto nell’inchiesta “Orthrus“ – rispetto alla quale professa da tempo la sua «assoluta estraneità» –, per un’eventuale corsa a primo cittadino di Catanzaro.