Al contrario delle elezioni regionali, dove un “maggioritario spinto” permette di sbaragliare i concorrenti già dal primo turno incassando anche un solo voto in più di loro , alle Amministrative di Cosenza si prospetta un ballottaggio. Lo scenario del 2021 è molto diverso da quello del 2016, che permise all’uscente – sfiduciato a quattro mesi dal termine del mandato – Mario Occhiuto una cavalcata trionfale verso il bis.
Ne resterà soltanto uno, come in Highlander. Ma prima si sfideranno in otto e, molto probabilmente, seguirà un duello tra i meglio classificati. E lì bisognerà capire che fine faranno i voti presi dai sei esclusi. Gli sconfitti daranno indicazioni ai loro elettori su chi sostenere o lasceranno loro piena libertà di scelta? Ci saranno accordi politici o apparentamenti? De Cicco ha già dichiarato dalla sua pagina Facebook di non voler avere più nulla a che fare con il centrodestra di cui è assessore ormai da anni. Quindi, se al ballottaggio dovesse andare Francesco Caruso e non lui, il primo non dovrebbe poter contare sul suo appoggio. E gli altri sette candidati cosa intendono fare?
Ci sono quelli che fino a poche settimane fa – e per molte delle precedenti – sedevano allo stesso tavolo, alla vana ricerca di quella candidatura unitaria che la sinistra non trova mai. Poi quegli altri che provengono tutti dalla stessa (per quanto opposta a quella dei rivali appena citati) area politica. E, infine, gli alfieri dei quartieri popolari – entrambi provenienti dal medesimo). In epoche diverse, probabilmente, a sfidarsi in queste elezioni comunali di Cosenza ci sarebbero stati solo tre candidati a sindaco. Invece se ne contano otto, tutti sicuri – a parole – di poter sconfiggere gli altri sette.
Perché abbiano scelto di presentarsi ognuno per sé lo hanno già spiegato in un altro video. Ma se sulla scheda elettorale non ci fosse stato il loro nome, se fossero stati dei comuni cittadini chiamati alle urne, quale tra gli altri candidati che dovranno affrontare il 3 e 4 ottobre avrebbero sostenuto gli aspiranti sindaci di Cosenza?
Mafie 2.0. Anzi, forse già 4.0. Presenti in tutto il mondo. Capaci di evolversi, di sfruttare le nuove emergenze e le nuove tecnologie. Ma, allo stesso tempo, anche colpite dall’azione repressiva delle forze dell’ordine. Emerge questo dalla Relazione semestrale della Direzione Investigativa Antimafia. Il report si riferisce al secondo semestre del 2020 e analizza le emergenze giudiziarie, ma anche sociali sui fenomeni mafiosi.
Le tante facce delle mafie
Il tratto caratteristico sottolineato dalla DIA è la capacità delle mafie di cambiare il proprio volto all’occorrenza. Senza perdere la propria forza intimidatrice di banda armata, la criminalità organizzata mostra però sempre di più il proprio volto “gentile”. Aspetto e comportamenti presentabili, per dialogare con mondi con cui non dovrebbe esserci alcun tipo di collegamento. Vale per tutte le mafie: Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra. E la crescente Sacra Corona Unita, che, tra tutte, è quella che mantiene di più il proprio volto selvaggio e spietato. Ma il dato sottolineato dalla DIA è la tendenza a sostituire «l’uso della violenza, sempre più residuale, con linee d’azione di silente infiltrazione».
Il report della DIA riprende le indagini effettuate, lungo la Penisola, dalle Dda. E sempre con maggior forza le indagini rimarcano «l’attitudine delle ‘ndrine a relazionarsi agevolmente e con egual efficacia sia con le sanguinarie organizzazioni del narcotraffico sudamericano, sia con politici, amministratori, imprenditori e liberi professionisti».
Particolare spazio è dedicato alla realtà criminale della Capitale. “Roma città aperta”, davvero. Ma nel senso che lì riescono a penetrare sostanzialmente tutte le mafie. Che poi dialogano, proficuamente, con la criminalità locale e con le organizzazioni criminali straniere. «A un livello più strategico – si legge nel documento – condotte violente quali omicidi, tentati omicidi o gambizzazioni possono risultare funzionali a orientare o persino deviare significativamente il corso delle relazioni delinquenziali (anche datate) delle alleanze ovvero degli equilibri spesso labili e comunque sempre soggetti al business contingente».
A Roma, mafia, camorra e ‘ndrangheta fanno affari e riciclano denaro. Forti della maggiore capacità di occultamento e mimetizzazione. «La mancanza di un’organizzazione egemone con cui fare i conti e di contro l’elevato potenzialità del capitale sociale del territorio (in termini di presenze criminali, rete di professionisti, esponenti istituzionali, amministratori pubblici, politici locali e nazionali) sono fattori che uniti alle emergenze originate dall’emergenza sanitaria da Covid-19 sicuramente possono favorire il reinvestimento dei capitali illeciti», segnala il documento di oltre 500 pagine.
Le mafie e il Covid
Più e meglio di chiunque, le mafie riescono a interpretare in anticipo i cambiamenti della società. E a sfruttare le emergenze. Di qualsiasi tipo. Si pensi alle infiltrazioni negli appalti dopo una catastrofe (su tutte, il terremoto de L’Aquila). Non fa eccezione, evidentemente, anche la pandemia da Coronavirus, che ha investito l’Italia e il mondo tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020. Ancora dalla relazione della DIA: «Il rischio di inquinamento dell’economia che è stato ulteriormente accentuato dallacrisi pandemica, nella capitale potrà comportare un ulteriore espansione delle condotte usurarie che potrebbero andare a intaccare non solo le piccole e medie imprese ma anche i singoli».
Ancora una volta, viene presa Roma come esempio di quanto possa avvenire, però su tutto il territorio nazionale. «Non sono tuttavia da sottacere quelle condotte violente opera di soggetti criminali emergenti che si presentano alla lente degli analisti e degli investigatori come funzionali alla conquista di porzioni di territorio per la gestione delle piazze di spaccio degli stupefacenti il cui approvvigionamento resta tendenzialmente appannaggio di camorra, ‘ndrangheta e in misura minore di cosa nostra con gruppi di criminalità straniera, in particolare albanese, che si stanno sempre più affermando nel settore».
I Calabresi aveva già effettuato un’inchiesta sulla capacità della ‘ndrangheta di sfruttare il welfare. Dai bonus spesa Covid, al Reddito di Cittadinanza. Una tendenza che adesso viene sottolineata anche dalla DIA. «La spregiudicata avidità della ‘Ndrangheta non esita a sfruttare il reddito di cittadinanza nonostante la crisi economica che grava anche sul contesto sociale calabrese e benché l’organizzazione disponga di ingenti risorse finanziarie illecitamente accumulate». L’affermazione della DIA richiama diverse indagini che hanno visto personaggi affiliati o contigui ai clan calabresi quali indebiti percettori del reddito di cittadinanza: dalle famiglie Accorinti del Vibonese, a quelle crotonesi, come i Mannolo oppure i Pesce e i Bellocco di Rosarno. O alle famiglie di San Luca.
‘Ndrangheta regina del narcotraffico
Le analisi focalizzano la visione «globalista» della ‘ndrangheta. La relazione della DIA utilizza proprio questo termine per documentare come le ‘ndrine si siano stabilite in numerosi Paesi del mondo e siano capaci di dialogare da pari a pari con i produttori di droga dell’America Latina. La relazione censisce i gruppi affiliati in tutte le regioni italiane, in diversi Paesi europei (Spagna, Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda, Germania, Austria, Repubblica Slovacca, Romania e Malta), nonché in Australia, Stati Uniti e Canada.
San Giusto Canavese (Torino) e Lonate Palazzolo (Varese), Lona Lases (Trento) e Desio (Monza e Brianza), Lavagna (Genova) e Pioltello (Milano). Sono solo alcuni dei “locali” di ‘ndrangheta al nord. Luoghi lontani dalla “casa madre” calabrese, dove, comunque, le ‘ndrine avrebbero messo radici. La Direzione investigativa antimafia nella sua Relazione semestrale al Parlamento conta ben 46 “locali” nelle regioni settentrionali. Sono25 in Lombardia, 14 in Piemonte, 3 in Liguria, 1 in Veneto, 1 in Valle d’Aosta ed 1 in Trentino Alto Adige.
Ritorna quindi il concetto di holding, capace di ripulire gli enormi capitali illeciti, frutto dei traffici di droga. Proprio nel mercato della droga, la ‘ndrangheta continua a essere leader a livello internazionale. Una visione, quella della DIA, che va a cozzare con quanto messo nero su bianco pochi giorni fa dall’Europol. Che, invece, dava un ruolo in grande crescita alle organizzazioni criminali albanesi.
«Non più impermeabile»
Un aspetto molto importante sotto il profilo investigativo ma, forse, anche sociale è quello che la DIA rileva sul fenomeno delle collaborazioni con la giustizia. Il “pentitismo” da cui, per tantissimo tempo, la ‘ndrangheta è rimasta pressoché immune. Si legge nella Relazione Semestrale: «Non appare più così monolitica ed impermeabile alla collaborazione con la giustizia da parte di affiliati nonché di imprenditori e commercianti, sino a ieri costretti all’omertà per il timore di gravi ritorsioni da parte dell’organizzazione mafiosa».
Le indagini, evidenzia la Relazione, danno conto «dell’ampio e pressoché inedito squarcio determinato dall’avvento sulla scena giudiziaria di un numero sempre più elevato di ‘ndranghetisti che decidono di collaborare con la giustizia». E anche «esponenti di primo piano hanno scelto di rompere il silenzio».
‘Ndrangheta e “colletti bianchi”
Il timore è quello di sempre. La conquista di ampie fette di mercato da parte delle cosche. «Le ‘ndrine – si legge nel documento – potrebbero intercettare i vantaggi e approfittare delle opportunità offerte proprio dalle ripercussioni originate dall’emergenza sanitaria, diversificando gli investimenti secondo la logica della massimizzazione dei profitti e orientandoli verso contesti in forte sofferenza finanziaria”.
In particolare, «secondo un modello collaudato, la criminalità organizzata calabrese persisterebbe nel tentativo di accreditarsi presso imprenditori in crisi di liquidità ponendosi quale interlocutore di prossimità, imponendo forme di sostegno e prospettando la salvaguardia della continuità aziendale, nel verosimile intento di subentrare negli asset proprietari e nelle governance aziendali al duplice scopo di riciclare le proprie disponibilità di illecita provenienza e inquinare l’economia legale impadronendosi di campi produttivi sempre più ampi».
La relazione semestrale della Dia
Anche i settori commerciali di interesse sono quelli di sempre: dalle costruzioni agli autotrasporti, passando per la raccolta di materiali inerti. E poi, ancora, ristorazione, gestione di impianti sportivi e strutture alberghiere, commercio al dettaglio. E, ovviamente, il settore sanitario. «Si registrano nel settore del contrabbando di prodotti energetici (oli lubrificanti ed oli base) in virtù dei notevoli vantaggi economici derivanti dalla possibilità di immettere sul mercato prodotti a prezzi sensibilmente più bassi di quelli praticati dalle compagnie petrolifere», scrive ancora la DIA. Eccola la sinergia tra mafie e colletti bianchi: «Incaricati di curare le importazioni di carbo-lubrificanti dai Paesi dell’Est Europa, gestire la distribuzione dei prodotti sull’intero territorio nazionale attraverso società-filtro create ad hoc per attestare attraverso falsa documentazione il fittizio assolvimento degli adempimenti tributari e in tal modo riciclare i capitali di provenienza illecita messi a disposizione dai sodalizi mafiosi».
«La ‘Ndrangheta esprime un sempre più elevato livello di infiltrazione nel mondo politico-istituzionale, ricavandone indebiti vantaggi nella concessione di appalti e commesse pubbliche». Perché, oltre alla smisurata capacità economica, la vera forza della ‘ndrangheta, sono le relazioni. Quelle che le permettono di entrare nei palazzi del potere, di dialogare con mondi (anche occulti) con cui sarebbe dovuta entrare in contatto: «Grazie alla diffusa corruttela vengono condizionate le dinamiche relazionali con gli enti locali sino a controllarne le scelte, pertanto inquinando la gestione della cosa pubblica e talvolta alterando le competizioni elettorali».
Le criptovalute
Proprio grazie ai professionisti al proprio servizio, le cosche riescono anche a cogliere e interpretare le varie opportunità offerte della globalizzazione. «Avvalendosi sempre più delle possibilità offerte dalla tecnologia si orientano verso i settori del gioco d’azzardo (gaming) e delle scommesse (betting) nei quali imprenditori riconducili alla criminalità organizzata, e grazie alla costituzione di società sedenti nei paradisi fiscali, creano un circuito parallelo a quello legale che consente di ottenere notevoli guadagni e in particolare di riciclare in maniera anonima cospicue quantità di denaro».
Denari che poi si muovono in giro per l’Europa e per il mondo. Sia nel Vecchio Continente, con Svizzera, Lussemburgo e Malta. Sia in altre zone del pianeta, come Dubai, Seychelles, Hong Kong, sono disseminati paradisi fiscali o, comunque “zone franche”. Dove la ‘ndrangheta opera finanziariamente in maniera pressoché incontrollata. E nella gestione dei suoi business ricorre sempre più spesso «a pagamenti con criptovalute quali i Bitcoin e più recentemente il Monero, che non consentono tracciamento e sfuggono al monitoraggio bancario».
Ecco la ‘ndrangheta 2.0. Che corre veloce, però. Quindi, forse, è già ‘ndrangheta 4.0.
«Quando gli oneri della presidenza sembrano insolitamente gravi, rammento sempre a me stesso che potrebbe essere peggio. Potrei essere un sindaco». La frase – attribuita a Lyndon B. Johnson, ex presidente degli Stati Uniti – fa comprendere come, al di là degli onori del caso, guidare un comune comporti anche parecchi aspetti meno gradevoli. Perché finché tutto fila liscio è facile prendersene i meriti, ma se qualcosa va male in città – e capita spesso ovunque – volente o nolente la colpa dovrà prendersela il sindaco.
Un compito più gravoso che mai
Non si sottrae certo a questa “regola” Cosenza, «conca d’oro e bocca di serpente» secondo la nota definizione di San Francesco di Paola. Lo sa bene Mario Occhiuto, sindaco ormai prossimo al congedo dopo dieci anni sulla poltrona più importante del municipio. Elogi ne ha ricevuti tanti, così come critiche feroci. E allora per quale motivo qualcuno dovrebbe desiderare così tanto prendere il suo posto? E farlo, oltretutto, in un Comune che per la prima volta nella sua storia è in dissesto e avrà margini di manovra amministrativi non particolarmente ampi per chi gli succederà?
Lo stipendio non è tutto
Lo stipendio, per quanto più che dignitoso, non pare allettante a sufficienza come nel caso di un consigliere regionale. Le ambizioni personali possono senza dubbio avere un peso non indifferente. Ma, almeno a giudicare dalle risposte che i sette candidati che abbiamo intervistato ci hanno dato, c’è, ci deve essere, anche altro dietro una decisione che potrebbe cambiare la vita del vincitore nei prossimi cinque anni. Nel video, i motivi che dichiara ognuno di loro.
Che elezioni sarebbero senza promesse? Non c’è chiamata alle urne che non si accompagni ad annunci su cosa farà l’eventuale vincitore una volta preso il potere e Cosenza non fa eccezione. È normale: in fondo si dovrebbe scegliere a chi dare il proprio voto in base a ciò che il candidato dichiara di voler fare rispetto ai suoi avversari. Si chiamano programmi e ognuno ne ha uno (tranne alle Regionali, in cui l’unico ad averne pubblicato uno al momento resta Luigi de Magistris). Libri dei sogni secondo qualcuno, un po’ come i piani triennali delle opere pubbliche che ogni anno approvano (senza portare a termine) i Comuni. Ma pur sempre libri che contengono le idee sulla città degli aspiranti sindaci. I
In ogni programma, però, ci sono punti più importanti e altri che lo sono meno. Sono quelli che rappresentano le priorità per l’aspirante sindaco. E che spesso si accompagnano ad espressioni come «nei primi 100 giorni del mio mandato faro X» o «appena eletto mi occuperò subito di Y». A volte quella X e quella Y dipendono dal colore politico del candidato. Altre da ciò che chi aspira a governare erediterà da chi era lì fino all’ingresso in municipio dei nuovi eletti, vuoi perché si tratta di cose già avviate, vuoi perché si considerano errate alcune scelte del passato. Le priorità cambiano, ma quali sono quelle dei candidati a sindaco di Cosenza? Abbiamo chiesto a tutti loro le prime tre cose di cui vogliono occuparsi in caso di vittoria.
Una volta lì era tutto Campagnano, poi lungo quegli spazi si sono sviluppati due comuni che da anni dicono di volersi fondere in una città unica. Ma, come spesso accade a queste latitudini, di fatti alle parole ne sono seguiti ben pochi. E così Cosenza e Rende restano separate, tra beghe di campanile ormai anacronistiche. In una coppia, d’altra parte, per sposarsi devono essere d’accordo entrambi. Non scontato, tanto più quando in mezzo si mette il terzo incomodo. In questo caso è Castrolibero, ma in fondo potrebbe essere pure Montalto Uffugo dove i discorsi – rimasti tali, alle tradizioni non si rinuncia – su un’area metropolitana unificata non sono mancati in questi anni.
Annessioni e referendum
Come sempre in questi casi, non mancano gli scaricabarile. Ognuna delle parti in causa sostiene di aver già fatto il suo ed essere in attesa che gli altri facciano altrettanto. A Cosenza, per esempio, il consiglio comunale si è espresso in favore della nascita della città unica, con un documento che però a Rende hanno preso come una sottospecie di Anschluss ed è rimasto perciò lettera morta. A giugno dello scorso anno i sindaci Mario Occhiuto e Marcello Manna hanno pure annunciato di aver avviato l’inter burocratico per il referendum con cui i cittadini delle due sponde del Campagnano potranno dire sì o no alla fusione. Quindici mesi dopo non si sa a che punto sia.
Scavalcati da Corigliano-Rossano
E così nell’area urbana si continuano ad attraversare strade che da un punto all’altro cambiano comune di appartenenza e a gestire i servizi separatamente. Nel frattempo sullo Jonio, proprio grazie a una fusione, è nata la terza città della Calabria: Corigliano-Rossano. Che ora ha più abitanti del capoluogo, tant’è che tocca al suo primo cittadino guidare la Conferenza dei sindaci della provincia. Unirsi anche in riva al Campagnano permetterebbe di riprendersi quello scettro. Ma i candidati di queste amministrative 2021 bruzie vogliono davvero farlo? Ecco la loro risposta.
Insieme alla metropolitana leggera, quello dell’ubicazione del nuovo ospedale di Cosenza era stato il tema principale della campagna elettorale del 2016. Tutti d’accordo sulla necessità di costruirlo, ma quando si è iniziato a discutere su dove farlo le cose hanno iniziato a complicarsi. E a nulla era servito lo studio di fattibilità commissionato (e pagato) dalla Regione per valutare la migliore ubicazione possibile. L’analisi dei tecnici, anzi, era finita nel calderone di Passepartout, l’inchiesta di Nicola Gratteri e i suoi che mira soprattutto a far luce sull’assegnazione e l’andamento di alcuni appalti nel Cosentino.
Un’esigenza cresciuta con il Covid
Cinque anni dopo, la pandemia ha reso ancora più evidente, se possibile, che il vecchio ospedale dell’Annunziata non è più in grado di erogare al meglio i servizi ai cittadini. Anacronostico nella sua conformazione, con una pianta organica insufficiente, semplicemente inadeguato ale sfide che la Sanità deve e dovrà affrontare. Nulla però si è ancora mosso, nonostante i soldi per realizzare una struttura moderna che lo sostituisca non manchino.
I soldi non mancano
Al contrario, ci sono circa 410 milioni di euro a disposizione da tempo: 365 per il nuovo ospedale, più altri 45 da spendere per un restyling dell’Annunziata. Serve solo capire dove debba sorgere il nuovo nosocomio e per quale motivo proprio in quella zona. L’ultima parola a riguardo spetta al consiglio comunale. Ergo, al sindaco e alla maggioranza che succederanno agli attuali inquilini di Palazzo dei Bruzi dopo le elezioni. Questi ultimi puntavano sui dintorni dell’ospedale che c’è già, i loro avversari sul sito individuato nello studio di fattibilità, ossia Vagliolise. Adesso c’è anche chi punta a realizzarlo fuori dai confini cittadini. E chi pensa che addirittura un nuovo ospedale non sia affatto la priorità per la Sanità cittadina. Nel video, tutte le posizioni dei candidati a sindaco di Cosenza sulla questione.
Un abbandono fulmineo e una presa d’atto altrettanto rapida. Troppo, per i tempi medi della Chiesa e, soprattutto, delle Curie calabresi.
E non è un caso che le dimissioni di monsignor Vincenzo Bertolone, fino al 15 settembre arcivescovo di Catanzaro-Squillacee presidente dellaConferenza episcopale calabra, siano state al centro di un’attenzione particolare.
Ciò che fa notizia, in questa faccenda, non è la decisione in sé, quasi obbligata per un alto prelato che ha raggiunto i limiti di età (compirà 75 anni il prossimo 17 novembre), ma la tempestività con cui il papa l’ha accolta.
Chiamiamo le cose coi loro nomi: la Congregazione non è altro che l’erede del Sant’Uffizio. Certo, non commina più pene corporali o roghi. Ma la sua funzione è la stessa: dire se una determinata posizione è “canonica”, quindi sta nella Chiesa, o “eretica”, quindi ne è fuori.
La vicinanza tra i due eventi, lo scioglimento della Congregazione e la super tempestiva accettazione delle dimissioni dell’arcivescovo, è troppo palese perché non dia nell’occhio.
Tant’è che ambienti e persone vicine alle alte sfere vaticane hanno messo in relazione i due fatti. In altre parole, monsignor Bertolone si sarebbe dimesso anche per evitare coinvolgimenti pubblici nelle vicende del Movimento Apostolico.
A sostegno di quest’ipotesi, suggestiva e autorevolmente sostenuta, spunta ora un nome: quello di monsignor Paul Tscherrig, l’attuale Nunzio apostolico in Italia e a San Marino.
Una cattedra che scotta
Monsignor Tscherrig, che tra l’altro è arcivescovo, non avrebbe imposto nulla a nessuno, tantomeno a Bertolone. Tuttavia, riferiscono i bene informati, avrebbe esercitato quella che i britannici definiscono una suasion, una persuasione autorevole, sul collega di Catanzaro.
L’ipotetico retroscena è facilmente intuibile: dopo il “pasticciaccio brutto” del Movimento Apostolico, la cattedra arcivescovile di Catanzaro-Squillace scotta.
E non per responsabilità del solo monsignor Bertolone, perché il Movimento della signora Marino è stato accettato, a volte forse tollerato e spesso benvoluto dai suoi predecessori, incluso (per fare un nome illustre) il compianto Antonio Cantisani, che come Bertolone era un vescovo animato dalla passione per l’antimafia.
Antonio Cantisani, l’ex arcivescovo di Catanzaro scomparso nel luglio di quest’anno
L’ipotetica accusa che si potrebbe rivolgere al presule calabrese sarebbe di culpa in vigilando. Che, tradotto dal latino dei preti e dei giuristi, significa controllo quantomeno insufficiente.
È doverosa, a questo punto un’altra domanda: come mai il Movimento Apostolico, accusato di cose piuttosto pesanti, è stato sciolto 42 anni dopo la sua fondazione? Una risposta può stare proprio nelle accuse.
Il Movimento Apostolico
I devoti catanzaresi conoscono bene il Movimento Apostolico, almeno per averlo sentito nominare, oppure per averne fatto parte. O, secondo quanto trapela dai bene informati, per averne subito la politica “aggressiva”, cioè le polemiche contro le altre confraternite. Secondo quanto riporta il compassato Avvenire, l’organo della Conferenza episcopale italiana, il Movimento sarebbe stato sciolto per un grave vizio: le “rivelazioni mistiche” che avrebbero ispirato la signora Marino non avevano un’origine divina. In altre parole, sarebbero state visioni di “altro tipo”, per tacere d’altro.
Non solo: sotto le lenti degli “inquisitori” sono finite la gestione patrimoniale e la tendenza a creare una élite di sacerdoti. È la fine ingloriosa di un’associazione “mista”, di laici e religiosi, che era arrivata a contare nelle sue file circa cinquanta prelati. E che aveva creato una rete molto forte, al punto di collegarsi con un’altra associazione: Maria Madre della Redenzione.
Una foto di gruppo tratta dal sito web del Movimento Apostolico
Questo collegamento può non essere casuale. Le associazioni private di fedeli, come il Movimento Apostolico, hanno una caratteristica: sono di solito legate a un territorio specifico e non hanno grandi poteri di gestione, se non per quel che riguarda il patrimonio conferito dai soci. Con Maria Madre della Redenzione le cose cambiano. È un’associazione pubblica di fedeli, simile all’Opus Dei, ai Focolarini e via discorrendo. E ricorda non poco la Compagnia delle Opere, il braccio economico di Comunione e Liberazione.
Arriva l’Inquisizione
In questi casi, le associazioni gestiscono un proprio patrimonio con una certa autonomia e possono gestire anchebeni affidati dalla Chiesa. Hanno ramificazioni spesso internazionali e, quindi, sfuggono al controllo delle diocesi locali per finire sotto il diretto controllo vaticano.
Su questo aspetto c’è un dettaglio che dà da pensare: l’ex Sant’Uffizio ha sciolto, con lo stesso decreto, anche l’associazione pubblica. Il che potrebbe far ipotizzare che gli intrecci tra Movimento Apostolico e Maria Madre fossero così profondi da rendere l’associazione pubblica un’interfaccia di quella privata.
La risposta sta nelle carte vaticane, non facilmente accessibili.
Certo è che questa decisione è stata sofferta e non facile. Per prepararla ci sono voluti sei mesi di lavoro della commissione che ha gestito la visita apostolica (che, tradotto dal vaticanese, significa ispezione) durata da ottobre 2020 ad aprile 2021.
In questi mesi, i visitatori apostolici hanno spulciato tutte le carte dell’associazione e tutte quelle della diocesi legate all’associazione. A questo punto un’altra domanda è spontanea: come mai solo ora sono emerse queste cose?
Lo tsunami
È semplicemente l’effetto di uno tsunami che arriva dal Vaticano ed è iniziato con un giro di vite inaugurato da papa Benedetto XVI e proseguito, a dispetto della differenza di stile, da papa Francesco.
Che sia così lo conferma il “Discorso del Santo Padre Francesco ai partecipanti all’incontro delle associazioni di fedeli, dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità”, pronunciato, forse non a caso, il 16 settembre, poche ore dopo le dimissioni lampo di monsignor Bertolone.
Jorge Mario Bergoglio e Joseph Aloisius Ratzinger in preghiera
Sono sette cartelle, cariche di esortazioni evangeliche, ma anche di sottintesi eleganti (in cui i gesuiti sono abilissimi) nelle quali il pontefice lancia messaggi sfumati ma inequivocabili: le associazioni e i movimenti ecclesiali sono preziosi, tuttavia la loro vita deve essere regolata in maniera stringente, perché gli abusi non sono mancati: presidenti di gruppi eletti praticamente a vita, forme di selezione degne delle peggiori logge coperte, pratiche – religiose, amministrative ed economiche – non esattamente trasparenti o accettabili.
Pulizie
Queste nuove regole sono contenute nel decreto “Le associazioni internazionali di fedeli”, promulgato dal papa lo scorso 11 giugno, in concomitanza inequivocabile con lo scioglimento del Movimento Apostolico.
Ovviamente, visto che Catanzaro non è il centro del mondo, tutto lascia pensare che lo scioglimento del Movimento Apostolico faccia parte di una strategia a più ampio respiro, rivolta a tutte le associazioni del mondo cattolico. Nel mirino del Vaticano, ad esempio, ci sarebbe Araldi del Vangelo, un’associazione privata di fedeli brasiliana, in cui viene venerata come una santa la madre del fondatore.
E c’è Rinnovamento dello Spirito, associazione pubblica neocatecumenale, in cui sono emersi elementi dubbi: messe “riservate” agli aderenti e aspetti dottrinari discutibili. Una specie di obbedienza massonica nella Chiesa, insomma.
E non finisce qui, visto che anche i big italiani sarebbero nel mirino…
Ma, al netto delle divagazioni, resta un fatto: monsignor Bertolone si sarebbe “sacrificato”, magari non proprio spontaneamente ma dietro autorevole “consiglio”, per agevolare questo “rinnovamento”, che ha tutta l’aria di essere una pulizia.
Il “sacrificio”
Lo confermano tre fatti, di cui due certi. Il primo consiste nelle parole usate dall’ex arcivescovo, che ha parlato del suo caso come di un «martirio a secco». Forse un modo come un altro per dire che si è accollato anche colpe non sue.
Il secondo è dato dalle misure draconiane usate dal Vaticano: l’interregno tra Bertolone e il suo successore sarà gestito non dallo stesso Bertolone, come di solito si usa nella Chiesa, né dal suo vicario, bensì dal vescovo di Crotone. In pratica è un commissariamento in piena regola.
Monsignor Panzetta, arcivescovo di Crotone
Il terzo fatto, da verificare, è dato da alcune visite nella Santa Sede che sarebbero state fatte dall’ex arcivescovo in estate, per chiarire gli aspetti oscuri della faccenda e, va da sé, per chiedere consiglio. Che è arrivato, ma non è stato favorevole. A dispetto della militanza antimafia di Bertolone, di cui sono noti l’amicizia con Gratteri e il ruolo di postulatore nella causa di beatificazione di don Pino Puglisi, il prete antimafia vittima delle coppole. E a dispetto della stima goduta da esponenti politici, tra cui spicca il deputato Pd Antonio Viscomi, un altro che ha fatto dell’antimafia una bandiera.
Ultimi dettagli
L’eccezionalità della misura catanzarese emerge anche per alcuni dettagli.
Il primo: di solito le dimissioni, obbligatorie al raggiungimento del settantacinquesimo anno d’età, vengono rifiutate e il pastore dimissionario resta in carica a volte anche per anni, in media fino al raggiungimento dell’ottantesimo anno.
Secondo dettaglio: stando ad alcune indiscrezioni, monsignor Bertolone sarebbe dovuto tornare nella sua Sicilia, almeno secondo i desiderata di alcuni vertici della Conferenza episcopale italiana. Invece sarebbe riuscito a ottenere la residenza in un monastero alle porte di Roma. Che quest’esito faccia parte della dolorosa negoziazione tenuta dall’ex arcivescovo?
Terzo dettaglio: la Santa Sede sta preparando una nuova politica, che punta alla nomina di vescovi legati più a Roma che ai territori. In pratica, una centralizzazione sotto mentite spoglie, che mira a impedire la degenerazione dei movimenti locali.
Una specie di tornado silenzioso ma implacabile. Un bagno di sangue con il minor numero di ferite possibili. Ogni rivoluzione ha le sue vittime eccellenti. Che monsignor Bertolone sia una di queste?
Se si dovessero individuare due parole che ricorrono più delle altre in questa campagna elettorale il risultato più probabile sarebbe “traffico” e “periferie”. Il perché della prima è lapalissiano: le scelte dell’amministrazione uscente hanno rivoluzionato la viabilità di Cosenza in nome di una mobilità dolce che, a dispetto dell’aggettivo, ha scatenato più che altro aspre polemiche e un bel po’ di amarezza tra gli automobilisti. E non è un caso che tra gli aspiranti sindaci ci sia finanche qualcuno intenzionato a sventrare un parco che è già costato quasi un milione e mezzo di euro – e altri 2,8 ne dovrebbe costare prima che sia completo – pur di rivedere un po’ di traffico scorrevole lungo l’asse Nord-Sud dell’area urbana.
Corso Mazzini superstar
Diverso è il discorso per le periferie. Le avete presenti, no? Sono quei quartieri della città in cui ogni cinque anni spuntano torme di candidati a promettere mirabilie ai residenti, per poi dileguarsi quasi sempre fino alle successive elezioni. O quelle contrade i cui abitanti raramente godono delle attenzioni dedicate ai loro concittadini. Tranne quando si vota, s’intende. E mai come quest’anno. A giudizio unanime o quasi dei cosentini, infatti, negli ultimi dieci si è pensato parecchio al centro e non altrettanto al resto della città. E questo nonostante i vincitori del 2016 avessero assicurato l’esatto opposto per il quinquennio a venire.
Test di geografia
Questa volta le cose andranno diversamente? Impossibile saperlo. Ma se ci sono candidati a sindaco espressione dei quartieri rimasti fuori dai riflettori che possono giocarsi le loro carte al primo turno è evidente che il problema sia sentito a Cosenza. E poi resta da capire se anche loro, così come i rivali, conoscono tutte le zone della città che vorrebbero governare. Così abbiamo fatto un piccolo test, chiedendo ai candidati di dirci dove si trovano un luogo storico, ma periferico, della città o una contrada abbastanza nota, ma che non tutti i cosentini saprebbero localizzare. E voi sapete dove sono U Tanninu e Ciomma?
Chiunque passi davanti a Palazzo dei Bruzi li vede. Sono lì, in bella mostra, che campeggiano sul gonfalone comunale. E non potrebbe essere altrimenti: la città è sorta e si è sviluppata su di loro e per questo li ha scelti per il proprio stemma. Eppure tra i candidati a sindaco che si sfidano in queste elezioni amministrative del 2021 non ce n’è uno che conosca i nomi dei sette colli di Cosenza.
Non sappiamo se lo stesso accada a Roma, altra città che si appresta a votare e ne conta altrettanti. I sette colli capitolini, d’altra parte, sono decisamente più famosi di quelli della città di Telesio. Anche la grandeur dei cosentini, spesso oggetto di sfottò nel resto della Calabria, uscirebbe con le ossa rotte da un eventuale confronto con la Città eterna.
La memoria gioca brutti scherzi
In teoria, ogni cosentino che tenga a definirsi tale dovrebbe riuscire a elencarli in sequenza, un po’ come si fa con le formazioni dei Lupi rimaste nella storia calcistica cittadina. In fondo sono anche meno di undici. Eppure, mentre è facile trovare persone capaci di sciorinare i nomi della rosa del Cosenza di Giorgi da Simoni a Padovano senza troppi problemi, le cose si complicano quando si tratta di elencare i fatidici colli.
Niente di particolarmente grave, per carità. Probabile che tra i quasi 900 aspiranti consiglieri comunali in molti non supererebbero questo mini esame sulla storia di Cosenza. Ma da chi si propone come guida del municipio per i prossimi cinque anni ci si aspetterebbe che conosca almeno i nomi dei sette colli raffigurati sullo stemma del Comune che vorrebbe amministrare.
Speranza vana: qualcuno ha rinunciato in partenza, altri non sono andati oltre quattro-cinque nomi. Altri ancora hanno dato sfogo alla fantasia nel tentativo di tagliare un traguardo rimasto invece lontano. Per i lettori meno preparati i nomi giusti li forniamo noi: Triglio, Pancrazio, Gramazio, Mussano, Guarassano, Venneri, Torrevetere. Ma lasciamo il piacere di ascoltare l’elenco fatto dagli aspiranti primi cittadini.
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