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  • Depurazione, l’Ue boccia l’Italia: tanta Calabria nella condanna

    Depurazione, l’Ue boccia l’Italia: tanta Calabria nella condanna

    Passata l’estate delle copromorfe fioriture algali, la speranza era che dei problemi della depurazione non si dovesse parlare almeno per un po’. Dal Lussemburgo, invece, tre giorni fa è arrivata l’ennesima tirata d’orecchie per l’Italia, rea di non aver rispettato le norme comunitarie in materia di acque reflue. E nella sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea ha un peso notevole (in negativo) la Calabria.

    Multe vecchie e nuove

    Il Belpaese non è nuovo a verdetti di questo genere. Paga, infatti, già circa 55 milioni di euro all’anno come sanzione per il mancato adeguamento dei propri impianti di depurazione alle direttive europee. Stavolta doveva difendersi da una procedura d’infrazione avviata nel 2014 e conclusa pochi giorni fa con la conferma delle violazioni contestate alle autorità nazionali dalla Commissione europea.

    Oggetto del contenzioso erano raccolta, trattamento e scarico delle acque reflue urbane in centinaia di aree sensibili dal punto di vista ambientale, materia regolamentata dalla direttiva Ue sulle acque reflue (91/27/Cee). È la prima condanna per l’Italia su questo specifico dossier, ragion per cui al momento non si prevedono multe. Ma se la situazione delle fogne non dovesse mutare in meglio scatterebbero nuove sanzioni.

    La situazione in Italia

    E la situazione quale sarebbe? Che nel nostro Paese sono 159 i Comuni che ancora oggi non sono dotati di reti fognarie per le acque reflue urbane. Non solo: 609 agglomerati le reti le hanno, ma non a norma. Lo stesso numero di quelli in cui la pubblica amministrazione non ha predisposto le misure necessarie affinché «la progettazione, la costruzione, la gestione e la manutenzione degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane siano condotte in modo da garantire prestazioni sufficienti nelle normali condizioni climatiche locali, e tenendo conto delle variazioni stagionali di carico».

    La Calabria si distingue in negativo 

    Nel primo caso, solo la Campania, con i suoi 85 centri, fa peggio della Calabria. Che si ferma a 58 casi citati (oltre un terzo del totale nazionale) nella sentenza, ma può fregiarsi di un poco invidiabile primato. È l’unica Regione italiana, infatti, a vantare nella sua lista il capoluogo: Catanzaro. La città di Sergio Abramo è in buona – o, meglio, cattiva – e abbondante compagnia. Nella lista nera dell’Ue ci sono parecchi centri del Cosentino con problemi di depurazione, ma non mancano quelli delle altre province.

    L’elenco comprende, infatti, anche Acquaro, Aiello Calabro, Altomonte, Bocchigliero, Caccuri, Cardeto, Casabona, Celico, Cerisano, Cerzeto, Chiaravalle Centrale, Cirò, Cirò Marina, Conflenti, Delianuova, Fiumefreddo Bruzio, Gioiosa Ionica, Grotteria, Ioppolo, Lago, Laino Borgo, Lattarico, Lungro, Luzzi, Maierato, Melissa, Mongrassano, Monasterace, Mottafollone, Palizzi, Paludi, Paola, Parghelia, Petilia Policastro, Placanica, Plataci, Platì, Polia, Rocca di Neto, San Benedetto Ullano, San Demetrio Corone, San Giorgio Albanese, San Gregorio d’Ippona, San Marco Argentano, San Martino di Finita, San Sosti, Santa Agata d’Esaro, Santa Caterina Albanese, Santa Severina, Santa Sofia d’Epiro, Scandale, Scigliano, Scilla, Seminara, Spilinga, Tarsia, Zambrone.

    Nessun trattamento e impianti inadeguati

    Sono 128 invece i Comuni calabresi a non garantire che «le acque reflue urbane che confluiscono in reti fognarie siano sottoposte, prima dello scarico, ad un trattamento secondario o ad un trattamento equivalente». Gli stessi che quando si parla di impianti di trattamento non sono in grado di «garantire prestazioni sufficienti nelle normali condizioni climatiche locali, e tenendo conto delle variazioni stagionali di carico». Nessuna regione fa peggio quando si parla di depurazione.

    Anche in questo elenco non mancano nomi eccellenti, come Corigliano (non ancora unificata a Rossano all’apertura del procedimento) e Rende. Ai 58 Comuni già citati poche righe più su vanno infatti aggiunti: Aprigliano, Belvedere Marittimo, Bianchi, Bisignano, Bonifati, Borgia, Briatico, Cardinale, Cariati, Carlopoli, Cerva, Cessaniti, Civita, Corigliano Calabro, Crosia, Crucoli, Dinami, Drapia, Fabrizia, Fagnano Castello, Feroleto Antico, Ferruzzano, Filadelfia, Firmo, Francavilla Angitola, Francavilla Marittima, Frascineto, Gerocarne, Gimigliano, Grimaldi, Guardavalle, Guardia Piemontese, Limbadi, Maida, Malvito, Mammola, Mandatoriccio, Marcellinara, Maropati, Mormanno, Nardodipace, Oppido Mamertina, Oriolo, Orsomarso, Parenti, Paterno Calabro, Pedace, Pentone, Piane Crati, Rende, Riace, Roccella Ionica, Roggiano Gravina, San Calogero, San Giovanni in Fiore, San Lorenzo del Vallo, San Nicola da Crissa, San Pietro Apostolo, San Pietro di Caridà, San Roberto, San Vincenzo La Costa, Santo Stefano in Aspromonte, Serra San Bruno, Serrastretta, Sersale, Spezzano Albanese, Tiriolo, Torano Castello, Verbicaro, Varapodio e Zungri.

  • Pnrr e autonomia: Calabria ancora colonia di Roma?

    Pnrr e autonomia: Calabria ancora colonia di Roma?

    La litania va risuonando di nuovo in questi giorni. Canto e controcanto: ci state fregando, anzi scippando, ci toccano più soldi e dovete darceli; no, non credete alle bufale, vi daremo tutto il denaro che vi spetta, anzi se fate i bravi ve ne daremo anche di più, ma dovete saperlo spendere. Da una parte i Robin Hood del vittimismo pseudomeridionalista (che per la causa vendono un sacco di libri), dall’altra i campioni del governismo rassicurante (che offrono il loro prestigio istituzionale a salvaguardia dell’ignoranza del popolino).

    In mezzo ci sono presidenti di Regione, amministratori locali e cittadini a cui lo Stato italiano e l’Unione europea stanno facendo odorare qualcosa come 82 miliardi di euro senza ancora farglieli toccare. Sono queste le posizioni da cui muove l’eterno dibattito sul rapporto (evidentemente e ovviamente non paritario) tra la Calabria e Roma. La diatriba sulla distribuzione dei soldi del Recovery attraverso il Pnrr ne è l’esempio più recente.

    Sette miliardi in ballo

    Le vicende degli ultimi giorni. Repubblica, non esattamente un bollettino neoborbonico, venerdì sbatte in prima pagina un titolone di tre parole e una virgola: Recovery, allarme Sud. In estrema sintesi il quotidiano dice che la quota del 40% del Pnrr al Sud è solo «sulla carta» perché alcune Regioni stanno rifacendo i conti sui primi bandi e si sono accorte che la fatidica percentuale viene calcolata «non sul totale delle risorse» che arrivano dall’Europa «ma solo su una parte di queste».

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    Ballano 7 miliardi perché, alla luce del calcolo sui fondi complessivi (222 miliardi), dovrebbero essercene 89 e invece sono 82. Seguono alcuni calcoli sulle singole missioni – sono 6 in tutto – e «a scavare», dice Rep, «si scopre» che 2 missioni superano il 40% (53% su infrastrutture e 46% per istruzione), una lo «sfiora» (39% per lavoro e inclusione) e le altre 3 (rivoluzione digitale, verde e salute) sono al di sotto. Rispetto al Pnrr «la media delle 6 missioni fa però 40%». Ok.

    Carfagna, Nesci e gi amministratori locali

    Il giorno dopo scatta l’intervista riparatoria alla ministra del Sud Mara Carfagna. Che a domanda risponde quello che tutti si aspettano risponda – «i fondi ci sono, il Mezzogiorno dimostri di saperli spendere» – dicendosi «meravigliata da chi dà credito a una ricostruzione così grossolana senza verificarne la fondatezza». Le fa eco nel giro di poche ore la sua sottosegretaria calabrese, Dalila Nesci, che aggiunge che i nostri 82 miliardi sono «al sicuro» ma «è indispensabile l’apporto progettuale degli enti locali».

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    Sì, gli enti locali, quelle propaggini periferiche dello Stato in cui sindaci che piangono miseria, maneggiando dissesti con la destra e tracciamenti covid con la sinistra, devono sorbire lezioni di buone pratiche da rappresentanti di sottogoverno che non riuscirebbero a mettere insieme neanche una lista per le Comunali in un paesino dell’estremo Sud. Comunque, al di là della retorica dell’«opportunità storica», dell’«ultima spiaggia» e del «treno» che non ripassa, la dialettica Calabria-Roma non si materializza solo sul Pnrr.

    Coloni calabri e palazzi romani

    e Un ex governatore come Mario Oliverio, che durante i suoi 14 anni da deputato non si sognava nemmeno certi slogan, a fine carriera ha rispolverato una crociata contro la «deriva colonialista» che dalla capitale ha commissariato prima la sanità per cui non si è mai incatenato – tutti abbiamo immaginato tremare le colonne di Palazzo Chigi – e poi il suo (ormai ex) partito, il Pd. La crociata è finita alle Regionali con la misera percentuale che sappiamo, ben distante da quella di Roberto Occhiuto che del trovarsi a suo agio tra i palazzi romani ha fatto quello che lui chiamerebbe un brand.

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    Mario Oliverio aveva promesso di incatenarsi a Roma per porre fine al commissariamento della Sanità calabrese

    «Ho avuto a che fare per anni con ministri e leader nazionali, sono il capogruppo di Forza Italia alla Camera, pensate che ora non sappia far valere le ragioni della Calabria con il governo?». Per ora la sua vittoria è servita a Forza Italia a far valere se stessa sul tavolo romano del centrodestra, perché è grazie alla controtendenza calabra che Silvio Berlusconi si può mostrare ringalluzzito a livello 1994 e può ridimensionare Matteo Salvini e Giorgia Meloni.

    La ricetta sino-americana di Occhiuto

    La vittoria di Occhiuto servirà anche al contrario, avrà un ritorno concreto, da Roma, su quel territorio che lui ora è chiamato a governare? O dobbiamo aspettarci solo altre costosissime perle sul genere video-di-Muccino? Tutto da vedere. Intanto, mentre a Milano Beppe Sala fa la giunta in 5 giorni e si dice «pronto per il Pnrr», il neo governatore ha a che fare – per dire – con le pretese di Nino Spirlì e l’inappagamento di Ciccio Cannizzaro.

    Inoltre Occhiuto per ora dispensa in diretta nazionale certe ricette per l’economia calabrese che sembrano un cocktail di turbocapitalismo cinese e liberismo reaganiano poco poco fuori tempo: «Abbiamo un costo del lavoro che è più basso del resto d’Italia. Abbiamo la possibilità – ha detto a Tg2 Post – di attrarre investitori che possano trovare in Calabria un costo del lavoro basso e anche il capitale cognitivo che serve per le loro imprese». Insomma: venite e sfruttateci tutti, vi aspettiamo.

    Autonomia differenziata

    Non parliamo poi dell’Autonomia differenziata. Se ne discute da anni a seguito delle «iniziative intraprese – riporta il sito della Camera – dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna». Ora il governo l’ha rispolverata inserendola, nottetempo, tra i collegati della Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza. Nel testo Nadef del 29 settembre non c’era, in quello del giorno dopo è comparsa.

    Apriti cielo: parlamentari del Sud giurano di non averla votata, politici del Sud si dicono pronti a una nuova battaglia contro il governo. È su questo disegno, che vuole dare più «autonomia» alle Regioni a statuto ordinario evidentemente a vantaggio di quelle che se la passano meglio, che si dovrebbe misurare – più che nel gioco al pallottoliere sui miliardi del Pnrr – la forza politica di chi rappresenta il Sud e la Calabria nelle istituzioni e nei rapporti tra Regioni e Stato centrale.

    Il caso Lamezia

    E anche su ciò che serve davvero per «spendere bene» i soldi, tutti i soldi che da decenni ormai mette a disposizione l’Ue: i tecnici. Abbiamo bisogno di professionisti che scrivano progetti di qualità e che sappiano gestirne le fasi successive fino alla realizzazione sui territori. Nei nostri enti locali non ce ne sono a sufficienza. Un esempio emblematico arriva da Lamezia Terme: la quarta città della Calabria è riuscita ad essere tra gli 8 progetti pilota in tutta Italia del PinQua (Programma Innovativo Nazionale per la Qualità dell’Abitare).

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    Un panorama di Lamezia

    C’è in ballo un interessantissimo progetto di rigenerazione urbana (riqualificazione di edifici pubblici e privati, spazi verdi, piste ciclabili) che ha ottenuto un finanziamento di quasi 100 milioni di euro. Dentro ci sono anche soldi del Recovery, però tutto va realizzato e reso fruibile entro il 31 marzo 2026, sennò si rischia di perdere capra e cavoli. Indovinate: sì, c’è il rischio di non farcela, perché il Comune di Lamezia ha una gravissima carenza di personale e ancora oggi, a 7 giorni da un “mini” turno elettorale che ha sanato alcune irregolarità in solo 4 sezioni su 78, non c’è stata ancora la proclamazione degli eletti. A causa di un black out tra istituzioni che parte da e arriva a Roma, nel centro della Calabria la democrazia è sospesa da quasi un anno.

  • «Saranno pure mogli o amanti, la destra elegge più donne»

    «Saranno pure mogli o amanti, la destra elegge più donne»

    È la prima volta che i calabresi eleggono sei donne in consiglio regionale. Amalia Bruni entra in qualità di candidato presidente della coalizione di centrosinistra, la più votata dopo quella di Roberto Occhiuto.
    Giuseppe Giudiceandrea, consigliere regionale con Mario Oliverio, esce fuori dai cardini del politicamente corretto: «Saranno pure mogli, amanti, fidanzate, ma il centrodestra ha 6 donne nella massima assise politica regionale». In realtà sbaglia i conteggi, perché sono cinque quelle di maggioranza. E il centrosinistra? «Soffre di misoginia politica».

    Talarico e Conia, i consoli perdenti di De Magistris

    A elezioni finite, Giuseppe Giudiceandrea, ha deciso di togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Nel corso della video-intervista con ICalabresi.it – che in basso troverete integralmente -, Giudiceandrea definisce «fallace» l’operato di Mimmo Talarico e Michele Conia, sindaco di Cinquefrondi. Le liste di DemA e dell’intera coalizione le hanno approntate loro. E Talarico ha mancato la sua elezione, pur essendo il più votato a Rende. Piccoli veleni nel fronte de Magistris erano già emersi prima. Adesso assumono forma e sostanza.

    Un film già iniziato con la mancata candidatura di Giudiceandrea. L’escluso ha rintracciato la causa in un suo eccesso di voti. Cosa mai vista, sentita, immaginata nel panorama politico forse dei 5 continenti.

     

    Non si vince con le riserve indiane

    Sarà pure bello presentarsi con tutti perfetti sconosciuti. Alla fine i risultati deludono un po’ le grandi aspettative della vigilia elettorale. Giuseppe Giudiceandrea fa degli esempi concreti: l’esclusione da DemA del genero di Santo Gioffré, Antonio Billari, che nelle scorse regionali aveva raccolto 8mila preferenze.
    Due parole pure sull’ex governatore Mario Oliverio: sbagliato allontanarlo dalla coalizione di De Magistris, non mi pare che abbia candidato delinquenti nelle sue liste.

    Ossessionato dal Pd pur essendone uscito

    Enrico Letta ha favorito la restaurazione in Calabria, Iacucci e Bevacqua rappresentano il vecchio. Sono due considerazioni di Giudiceandrea. Parla spesso del Pd come se fosse ancora il suo partito. Eppure ne era uscito anche in maniera polemica. Dopo avere sperato nel rinnovamento – mancato – di “piazza grande” dell’ex segretario Nicola Zingaretti.

    Ma in cuor suo, il figlio della sindaca comunista Rita Pisano – immortalata da Picasso in un famoso bozzetto e interpretata da Rocio Munoz Morales (già nel cast del corto di Muccino) in una docu-serie prodotta dalla CalabriaFilmCommission – continua ad avere un rapporto di amore e odio con i democrat. Al punto di suggerire a Luigi de Magistris di uscire fuori dal recinto e aprire un dialogo persino con il Pd. Un dialogo fra sordi, forse è possibile. Nulla più.

  • Scorie, ‘ndrine e Servizi Segreti: Calabria laboratorio criminale

    Scorie, ‘ndrine e Servizi Segreti: Calabria laboratorio criminale

    La discarica d’Italia. E forse non solo. Questa è stata la Calabria. Non solo sotto il profilo degli accordi, i patti, le connivenze, tra il mondo criminale e pezzi deviati dello Stato. Non solo come laboratorio criminale, quindi. Ma in senso stretto. Un territorio “a perdere”, dove poter sperimentare le peggiori alleanze. E dove poter occultare scorie di ogni tipo. Ben oltre la “Terra dei fuochi”. Qui non parliamo di “monnezza”. Ma di rifiuti tossici. Di scorie nucleari. Di materiale radioattivo.

    Il carteggio

    Qualcosa che sarebbe iniziato già tra gli anni ’70 e ’80. Lo dimostra il fitto scambio di comunicazioni, di cui I Calabresi vi hanno già dato conto qualche settimana fa. Comunicazioni tra pezzi dello Stato. Servizi segreti, forze dell’ordine, magistratura. Ma, forse, non tutti giocavano nella stessa squadra.

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    Matteo Renzi ai tempi in cui guidava il Governo

    Un carteggio iniziato almeno dal 1992. Fu la decisione dell’allora Governo presieduto da Matteo Renzi a far toccare con mano quanto fosse già nella conoscenza di diverse autorità investigative circa il traffico di rifiuti tossici e radioattivi che avrebbero avuto per teatro la Calabria. Tra gli atti desecretati sulle “navi dei veleni” e sull’omicidio dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin ci sono anche quelle note dei Servizi Segreti con cui viene segnalato l’interesse delle cosche di ‘ndrangheta nello smaltimento illecito di scorie nucleari sul suolo calabrese.

    Le note “riservate”

    Oggi è possibile documentare alla fine del 1992 la prima comunicazione ufficiale. Ma “riservata”. Come da DNA dei Servizi Segreti. È il 17 novembre 1992 quando gli 007 del Centro di Reggio Calabria segnalano come i fratelli Cesare e Marcello Cordì, all’epoca latitanti, avrebbero gestito lo smaltimento illegale di rifiuti tossici e radioattivi provenienti da depositi del Nord e Centro Italia. Rifiuti sotterrati lungo i canali scavati per la posa in opera di tubi per metanodotti nel Comune di Serrata, in provincia di Reggio Calabria.

    I rifiuti – è scritto nella nota dei Servizi – «verrebbero sotterrati, grazie alla copertura dei predetti fratelli, lungo canali scavati la posa dei tubi del metanodotto in via di costruzione presso il fiume Mesima e più precisamente nella contrada Vasi». Addirittura, la nota dei Servizi individua anche il mezzo utilizzato per effettuare la manovra. Un camion del Comitato Autotrasportatori CAARM.

    Contestualizziamo: Cosa Nostra ha appena ucciso i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in quel terribile 1992. Ovviamente, tutta l’attenzione è concentrata, quindi, sulla potenza e sulle connivenze della mafia siciliana. E così, la ‘ndrangheta imperversa. Con soggetti, la cui importanza ci è ormai chiara solo da qualche anno.

    Il “Tiradritto”

    Uno di loro è il boss Giuseppe Morabito, il “Tiradritto” di Africo. Catturato dal Ros dei Carabinieri il 18 febbraio 2004. In quel periodo, invece, il “Tiradritto” è latitante. E “attivamente ricercato”, come si dice in gergo. Di lui si occupano anche i Servizi Segreti. Gli 007 segnalano come in cambio di una partita di armi, Morabito avrebbe concesso l’autorizzazione a far scaricare, nella zona di Africo, un non meglio precisato quantitativo di scorie tossiche. E, presumibilmente, anche radioattive, trasportate tramite autotreni dalla Germania.

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    «Gli accertamenti e le indagini tuttora in corso – scriveranno dai Servizi – hanno consentito di acclarare che l’area interessata allo scarico del materiale radioattivo sarebbe compresa nel territorio sito alle spalle di Africo e segnatamente nella zona di Santo Stefano-Pardesca-Fiumara La Verde». Anni dopo, molti anni dopo, emergerà come in alcune zone di Africo vi sia un’incidenza tumorale e di malattie neoplastiche insensata per quel territorio. Privo di apparenti agenti inquinanti.

    Forse, a posteriori, quindi una spiegazione arriva proprio da quelle note “riservate” sul conto della ‘ndrangheta che conta. Perché quelle informative dei Servizi erano piuttosto circostanziate: «In contrada Pardesca è stato riscontrato un tratto di terreno argilloso rimosso di recente. Verosimilmente, per l’interramento di materiale di ingombro. Nello stesso tratto è stato rinvenuto, altresì, un bidone metallico di colore rosso adagiato sul terreno».

    Settemila fusti

    Gli atti desecretati alcuni anni fa dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, mostrano anche come alla fine del 1994 i Servizi Segreti segnalassero l’esistenza di numerose discariche abusive di rifiuti tossico-radioattivi, ubicate nella zona aspromontana e nel Vibonese. Lì esponenti della cosca Mammoliti avrebbero occultato sostanze pericolose provenienti dall’Est Europa. Via mare e via terra. Anche in questo caso, la segnalazione arriva al Ros.

    Documento desecretato 2

    In quegli anni è molto attivo il ruolo del SISMI e del SISDE. Ciò che colpisce è che dietro questi affari, vi sia la “grande ‘ndrangheta”. Quella dei Cordì e quella dei Morabito per la Locride. I Mammoliti, da sempre clan importante a cavallo della provincia di Reggio Calabria e di quella di Vibo Valentia. Ma anche di cosche che appartengono al gotha della ‘ndrangheta. Le famiglie che più di tutti hanno contribuito al salto di qualità della criminalità organizzata calabrese. I Servizi Segreti segnalano infatti l’esistenza di un vasto traffico nazionale riguardante lo smaltimento illecito di sostanze tossiche e radioattive attraverso il conferimento in discariche abusive per conto di tre tra le famiglie storiche della ‘ndrangheta reggina: i De Stefano, i Tegano e i Piromalli.

    Le note dei Servizi parlano addirittura di circa settemila fusti sparsi nelle discariche del Nord Italia, a opera delle cosche. Gli 007 arrivano anche a fare una mappatura: «Nella provincia di Reggio Calabria, i luoghi dove si trovano le discariche, per la maggior parte grotte, sono: Grotteria, Limina, Gambarie, Canolo, Locri, Montebello Jonico (100 fusti), Motta San Giovanni, Serra San Bruno (Cz), Stilo, Gioiosa Jonica, Fabrizia (Cz)».

    Via mare e via terra

    Altri tempi. Luoghi come Serra San Bruno e Fabrizia ancora indicano la dicitura della provincia di Catanzaro. Fatti che riemergeranno solo molti anni dopo. Più di venti. Delle scorie, invece, neppure l’ombra. Eppure l’intelligence parla anche di un traffico di uranio rosso. E sottolineano, nero su bianco, i primi incoraggianti riscontri info-operativi. Attivando le proprie fonti, infatti, gli 007 acquisiranno ulteriori dati: «Le discariche presenti in Calabria sarebbero parecchie site, oltre che in zone aspromontane, nella cosiddetta zona delle Serre (Serra San Bruno, Mongiana, ecc.). Nonché nel Vibonese».

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    Il porto di Odessa

    In quella zona la famiglia Mammoliti, competente per territorio, avrebbe occultato rifiuti tossici-radioattivi lungo gli scavi effettuati per la realizzazione del metanodotto in quell’area. Rifiuti che – stando alle note dei Servizi – sarebbero arrivati dall’Est dell’Europa per mare e per terra: «Il canale via mare prenderebbe il via da porti del Mar Nero, dove le navi interessate oltre che scorie, imbarcherebbero droga, armi e clandestini provenienti dall’India e dintorni. Il trasporto gommato proverrebbe da paesi del Nord Europa su tir. Anch’essi utilizzati per il trasporto di droga e armi».

    Il ruolo dei Servizi

    Agli atti della Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti anche le dichiarazioni del magistrato Alberto Cisterna. Per un determinato periodo, lavorerà al caso delle “navi dei veleni” e dei traffici di scorie sul territorio calabrese: «Va detto che in quel processo comparivano tante carte e non erano ben chiare le fonti. Questo si collega a quella vicenda su cui ho mantenuto una posizione precisa, ossia quando il servizio segreto militare offrì, nel cambio di titolarità, di proseguire nell’attività di collaborazione. Ricordo a mente che fosse una prosecuzione».

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    Sì perché – lo abbiamo visto – i Servizi c’erano eccome di mezzo: «Questa lettera arrivò in una doppia busta chiusa, cosa per me ignota. Ero stato giudice fino allora e, quindi, avevo poca esperienza di contatti che, per carità, magari sono anche normali. Operativamente anche in quegli anni si è lavorato con i Servizi, nella misura in cui offrivano ausilio informativo. Fino alla circolare Frattini, che fece divieto di queste forme di contatto. Non era il dato in sé che preoccupava. Quanto il fatto che non fosse chiaro in che cosa si dovesse estrinsecare questa collaborazione. D’accordo con il procuratore, la lettera venne cestinata e messa da parte, decidendo di non rispondere e di andare avanti per conto nostro”.

    La versione del Sismi

    Abbastanza criptico (e inutile) il contributo del direttore del Sismi dell’epoca, il generale Sergio Siracusa: «Il Servizio è sempre stato molto interessato alle scorie radioattive e a che fine facessero queste scorie. Non solo le scorie delle centrali in funzione, ma era anche interessato alle centrali già dismesse, per lo stesso motivo, ed anche allo smantellamento delle armi nucleari dovute agli accordi successivi alla caduta del muro di Berlino (…). Nel sommario delle attività svolte nel 1994 e precedenti inviata al Presidente del Consiglio c’è un capitolo proprio dedicato allo stoccaggio di materiale radioattivo in cui si indicava con un certo dettaglio qual era stata l’attività svolta. Vale a dire il censimento delle centrali nucleari, tutte quelle di interesse, comprese quelle dell’Europa orientale, quindi della Russia, della Comunità di stati indipendenti intorno alla Russia» dirà Siracusa.

  • Cosenza, una poltrona per due: eletti, bocciati e strategie verso il ballottaggio

    Cosenza, una poltrona per due: eletti, bocciati e strategie verso il ballottaggio

    I dati grossolani si sapevano già, perché la sciatteria amministrativa di Cosenza non poteva arrivare al punto di “imboscare” i risultati dei candidati a sindaco.
    Il capoluogo bruzio, grazie a questo risultato, farà notizia: due candidati quasi omonimi (ma non parenti e, addirittura, diversissimi) che si contendono la poltrona di primo cittadino.

    Una poltrona per due

    Sulla carta resta confermata la previsione più facile, in base alla quale Francesco Caruso, il vicesindaco uscente, sarebbe arrivato al ballottaggio senza alcun problema: d’altronde la compilazione delle liste, effettuata col solo scopo di far incetta di voti e senza andar troppo per il sottile, non lasciava spazio al minimo dubbio.
    Veniamo alla previsione un po’ meno facile: l’arrivo al ballottaggio di Franz Caruso, principe del foro dalla smodata passione socialista, sopravvissuto alla divisione del centrosinistra.
    Il primo ha preso il 37,4% dei voti, il secondo si è attestato sul 23,8%.

    Votati, ma non abbastanza

    Non parliamo, va da sé, di una metropoli, ma di una cittadina in collasso demografico che ha un elettorato di circa 41mila abitanti su 67mila circa residenti. Cioè briciole. Che si rimpiccioliscono ancora, se si considera che ha votato il 68% virgola qualcosa degli aventi diritto.
    In mezzo a loro, si agitano, in ordine di preferenze, l’ultrapopulista e iperpopolare Francesco De Cicco, assessore uscente dell’amministrazione Occhiuto, che col suo 13,9% ha superato Bianca Rende, dissidente altoborghese del centrosinistra cittadino che si è fermata al 12,8%.

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    Bianca Rende
    Gli outsider

    Seguono l’outsider di sinistra-sinistra Valerio Formisani (4,8%) e l’evergreen Dc Franco Pichierri (3,5%).
    Questi ultimi quattro sono gli unici che possono vendere cara la pelle nel ballottaggio in corso (anche Pichierri a cui, tuttavia, non scatterebbe comunque il consigliere).
    Dopo di loro, l’altro populista biturbo Francesco Civitelli, praticamente ex aequo con il catto-civico Fabio Gallo: 2%.
    Fin qui, nessuna notizia degna di nota.

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    Fabio Gallo
    La grande mattanza

    Ciò che non ha fatto notizia a dovere è l’esagerato numero di candidati, quasi 900. Il che fa capire che alleanze e apparentamenti non sarebbero indolori comunque.
    Prendiamo l’esempio di Annalisa Apicella, consigliera uscente di Fratelli d’Italia che ha preso, nella medesima lista, 483 voti. In caso di sconfitta di Francesco Caruso, la Apicella resterebbe fuori.

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    Annalisa Apicella (FdI)

    Ma non è detto che sarebbe favorita da alleanze e apparentamenti: troppo forte la lista, in cui l’avvocata cosentina è schiacciata dai big delle preferenze e rischia di diventare “sacrificabile”.
    Lo stesso discorso per Franz Caruso, che è costretto ad apparentarsi e allearsi più del suo avversario. Comunque vada, sarà un massacro di consiglieri.

    I record

    Con 1.172 voti, Francesco Spadafora, poliziotto di lungo corso e donnicese doc candidato in Fratelli d’Italia, è il consigliere comunale più votato. In assoluto: stavolta ha aumentato il record del 2016 (902 preferenze) e ha superato la ex vicesindaca Katya Gentile, risultata la consigliera più votata nel 2011(911 preferenze).
    Spadafora ha fatto di più: ha trascinato in consiglio la esordiente Ivana Lucanto, che ha guadagnato, anche grazie a questo ticket, 845 voti.
    Certi risultati non si improvvisano, ma sono il frutto di un impegno sul territorio di lunghissimo corso.

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    Francesco Spadafora si conferma per la seconda volta consecutivo il consigliere comunale più votato in città

    Un discorso simile vale per Michelangelo Spataro, che coi suoi 527 voti è il secondo più votato di Forza Cosenza, e per Damiano Covelli, altro evergreen della politica cittadina che ha “salvato” il Pd con 532 voti, tallonato a breve distanza, nella stessa lista, da Maria Pia Funaro, che ne ha presi 498.

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    Maria Pia Funaro
    Menzione d’onore

    Ma il vero miracolo politico, per giunta di lungo corso, è Antonio Ruffolo, alias ’a Mmasciata, ’u Scienziatu e Lampadina.

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    Antonio Ruffolo

    Ruffolo, che si è segnalato per il suo silenzio continuo in circa vent’anni di consiliatura (le sue dichiarazioni di voto sono sempre consistite in fonemi e alzate di braccio), è stato il più eletto in Forza Cosenza con 732 voti, ottenuti tra l’altro senza ticket.

    E ci mancherebbe: questi consensi sono il frutto di pluriennali clientelismi di quartiere, tutti low cost, ma che richiedono un impegno 24h. Cioè, sostituire lampadine nei condomini, aiutare anziani a fare la spesa ecc. Se le cose stanno così, Ruffolo più che di una quota rosa, ha bisogno di un’assistente: certi voti si “lavorano”, eccome.

    I trombati

    La lista potrebbe essere lunga. Ma, in tanto casino, il primato spetta senz’altro a Carlo Tansi, che batte due record, anzi tre: è il neofita della politica più sconfitto in assoluto.
    Primo record: la sua Tesoro Calabria, in coalizione con Bianca Rende, ha preso “solo” l’1,8% dei consensi.
    Secondo record: nonostante la candidatura da capolista (imposta dal ruolo da leader e dall’ego) Tansi ha ottenuto 128 voti ed è stato superato dall’architetto urbanista Maurizio Lupinacci, che ne ha presi 190.

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    Il geologo Carlo Tansi, leader del movimento “Tesoro di Calabria”

    Terzo record: nonostante tre candidature in Consiglio regionale da capolista, il geologo-ricercatore del Cnr non è riuscito a prendere consensi neppure a Cosenza, dove pure aveva sfondato alle Regionali solo un anno e mezzo fa. Segno che il “suo” messaggio “rivoluzionario” non ha funzionato. D’altronde è poco credibile infilarsi due volte nel centrosinistra, sostenendovi due leadership d’élite (oltre alla Rende, quella di Amalia Bruni) e pretendere di “cambiare le cose dal basso”.

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    Franco Pichierri, storico esponente democristiano

    Più sfumato il discorso per Franco Pichierri, la cui esclusione (salvi apparentamenti) sa di beffa, perché la sua mini-coalizione è riuscita a prendere il quorum senza ottenere un solo consigliere. Nessuno nega la sua bravura politica, maturata in una militanza quasi cinquantennale iniziata nella Dc (quella vera). Però è evidente che Pichierri è rimasto fregato dalla sua stessa abilità.

    L’ago della bilancia

    Per le sei liste dell’assessore uscente Francesco De Cicco vale il principio della mattanza: tantissimi candidati “immolati” alla elezione di un solo consigliere.
    Eppure i mille e rotti voti di De Cicco, ottenuti nei quartieri popolari – in particolare via Popilia – hanno il sapore di una rivoluzione: per la prima volta, i voti di determinate zone hanno un valore autonomo, capace di influenzare o, peggio, di determinare scelte politiche.

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    Francesco De Cicco

    L’ex assessore è diventato l’ago della bilancia a dispetto della sua inesistente cultura politica. E di sicuro in tanti “bussano” alla sua porta badando bene a non farsi scoprire o a non farsi scoprire troppo.

    Il quadro complessivo

    Difficile ipotizzare che Bianca Rende decida di appoggiare Francesco Caruso, perché in questo caso significherebbe andare con la Lega e Fdi. Un po’ troppo anche per il neocentrismo renziano a cui la Nostra sembra ispirarsi. Stesso discorso per Formisani e, in parte, Gallo.

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    Valerio Formisani

    Viceversa, con altrettanta difficoltà Pichierri potrebbe schierarsi con Franz Caruso, dato che Noi con l’Italia (la sua lista “principale”) si è schierata con Roberto Occhiuto alla Regione.
    Quindi, se non ci fosse De Cicco, i due schieramenti si equivarrebbero. Lui farà davvero la differenza e potrebbe trascinare con sé Civitelli che, da solo, è quasi ininfluente.

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    Francesco Civitelli
    Un’altra voglia di civismo

    Con troppa frettolosità si è detto che Fdi è il partito più votato, mentre “Franz Caruso sindaco” è la lista più votata.
    In realtà, Fdi è “solo” una lista, piena di candidati che in realtà hanno poco a che spartire con la storia politica di Giorgia Meloni e di Fausto Orsomarso. Ed è lista come quella di Franz Caruso, che mescola volti noti (Mimmo Frammartino, che ha ottenuto 200 preferenze) e volti nuovi (la criminologa Chiara Penna, che ha ottenuto 165 voti).

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    Domenico Frammartino, presenza fissa in Consiglio – tranne nell’ultimo quinquennio – dagli anni ’80 ad oggi

    Se l’avvocato Caruso la spuntasse, si ritroverebbe un seguito più personale che di partito, segno che a Cosenza i cittadini, specie a sinistra, hanno preferito l’impegno di persone senza tessera.
    Diverso il discorso per i meloniani: dopo i tentativi di condizionamento di agosto, Orsomarso & co. hanno tentato il tutto per tutto, cioè una lista civica con uno stemma di partito.

    Tra i litiganti Colla gode

    La lista Coraggio Cosenza, com’è noto, è nata da una crisi della Lega, “mollata” da Vincenzo Granata alla vigilia delle elezioni. È altrettanto noto che, per tamponare il vuoto, lo stato maggiore del Carroccio ha chiesto aiuto a Simona Loizzo, la quale ha investito su un altro evergreen: Roberto Bartolomeo, arrivato primo coi suoi 219 voti.

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    Vincenzo Granata, passato dalla Lega al movimento di Toti e Brugnaro (foto Alfonso Bombini)

    In Coraggio Cosenza, il record è toccato a Massimo Colla, che con 253 voti ha doppiato Granata. Secondo i maligni (e forse bene informati) Colla sarebbe stato aiutato a ottenere questo risultato anche dalla Loizzo, che gli avrebbe “spalmato” qualche consenso proprio per impedire che Granata esplodesse.

    Per finire

    Chi temeva di annoiarsi, può stare tranquillo: chiunque vinca, a Cosenza avremo un Consiglio comunale rissoso, chiacchierone (tranne Ruffolo) e a volte inconcludente.
    Proprio come in passato, sebbene sia difficile battere i primati dell’era Perugini.
    Comunque vada, sarà un casino.

  • IN FONDO A SUD | Calabria: l’audace colpo dei soliti voti

    IN FONDO A SUD | Calabria: l’audace colpo dei soliti voti

    C’è quel brano di Alvaro, divenuto col tempo un comodo luogo comune, che dice che la Calabria e i calabresi hanno bisogno di essere parlati: «il calabrese “vuole essere parlato”. Bisogna parlargli come a un uomo che ha sentimenti, doveri, bisogni, affetti: insomma, come a un uomo». Poi ce ne sarebbe un altro, in cui lo stesso Alvaro immagina che: «Di qui a cinquant’anni, se ai moti esteriori della civiltà risponderanno quelli interiori, la regione sarà una regione totalmente cambiata».

    A elezioni regionali 2021 chiuse si può dire che a distanza di quasi un secolo da queste osservazioni che identificavano l’idealtypus dell’escluso calabrese da romanzo verista, rovesciando lo stereotipo alvariano, oggi i calabresi per parlare parlano (e non poco). Ma di sicuro non hanno ancora imparato a cambiare, o non vogliono proprio che nulla cambi nella loro regione.

    Nulla è cambiato

    All’indomani del fatidico voto, presentato da più parti come una sorta di ultima spiaggia, un redde rationem per la politica della Calabria e dei calabresi per i prossimi cinque anni, rispetto a prima del voto, infatti nulla, ma proprio nulla, è cambiato. La Calabria ha scelto il proprio futuro. E ha scelto Occhiuto, con gli stessi consensi che andarono alla Santelli. Forza Italia, caso unico in Italia guida di nuovo la Calabria come trent’anni fa. La Bruni e il centro-sinistra a guida Pd è di nuovo l’alternativa principale, come da quando è nata la Regione.

    L’astensionismo cresce

    Il numero percentuale dei votanti in una Calabria che perde costantemente elettori interessati al voto con lo stesso ritmo con cui la gente emigra e abbandona paesi e città, è sceso persino più in basso di quello di gennaio 2020. Siamo al 43%. Molti dei calabresi residenti altrove e all’estero, ma anche in Calabria, sono rimasti a casa. Il non voto continua a crescere.

    Azzoppato Lucano dopo l’abnorme sentenza di condanna, bandiera delle opposizioni antisistema, neanche la consolazione di vederlo eletto. Lo straniero Luigi de Magistris, capo della coalizione civica, avversato dal centrosinistra ufficiale, pur respinto dal voto popolare, fa con le sue liste un 16% di voti. Che equivale a circa 127mila calabresi che hanno immaginato e creduto in uno strappo risolutivo alla continuità del sistema. Pochi, troppo pochi. Ma non una frazione insignificante.

    Segnali di resistenza

    A Cosenza, città che votava anche per il Comune, De Magistris ha superato il 30%, battendo la Bruni e limitando il distacco da Occhiuto a circa il 13%. Risultato, due consiglieri regionali eletti in Consiglio, e con l’introduzione della preferenza di genere, nello schieramento DeMa Anna Falcone tra le donne ottiene diversi consensi. A Rende, il comune dell’Università della Calabria, de Magistris sta al 33% dei voti. Segno che le aree urbane, con quel poco di opinione pubblica che la Calabria libera riesce ancora a mettere in campo, rappresentano forse le ultime sacche di resistenza alla politica del malgoverno e del malaffare, un argine residuo allo strapotere della corruzione e delle mafie. Non sono, credo, segnali da sottovalutare.

    La rivoluzione eternamente rimandata

    Ma il cambio di rotta, la discontinuità, la rinascita civica, i diritti di cittadinanza, la rottura del sistema, la “rivoluzione”? Sarà per la prossima volta. Per i calabresi il cambiamento vero non è cosa necessaria. Anzi, è un trauma, un salto nel vuoto da scongiurare. Accade nonostante il buco nero della sanità, l’occupazione azzerata, l’emorragia continua dei giovani, i paesi che si spopolano, lo strapotere dei gruppi criminali e l’inanità di una classe dirigente da terzo mondo e incapace di farne una buona. Tranquilli tutti. Per i calabresi va benissimo continuare così.

    Il sistema è salvo

    Il malcostume politico, l’impianto inveterato delle clientele, l’assistenzialismo, la dipendenza parassitaria, il consociativismo e lo scambio orizzontale “cazzi mei/cazzi tuoi”: il sistema è salvo ed è anzi più saldo che mai. Altro che opinione pubblica libera e fluida, altro che cittadini attivi e consapevoli come vorrebbe la moderna politica post-ideologica.
    Le vecchie clientele in Calabria sono ancora oggi il nucleo pesante del sistema di potere. Sono fortezze inespugnabili, formano una sorta di enclave etnica, in cui i bisogni fondamentali e la vita quotidiana dei gruppi sociali sono scanditi con metodo orwelliano, ottenendo per chi ci sa fare consensi duraturi e serene carriere da politico di lungo corso.

    Chiedere favori invece che reclamare diritti, inginocchiarsi per ottenere privilegi e grazie, è ancora oggi una cosa normale in una terra in cui la libertà è ritenuta un lusso per pochi. E la gente continua a sottomettersi a scelte, comportamenti e simboli che dilatano lo spazio del silenzio complice dell’obbedienza, con le prassi e i riti di un potere vetusto e prepolitico.

    Lontani anni luce

    Un recente sondaggio pre-elettorale aveva dimostrato che su un significativo campione di elettori, solo pochi cittadini calabresi avevano manifestato liberamente le loro intenzioni di voto. Insomma neanche davanti ai test impersonali di internet e dei social i calabresi si sbottonano, non si dichiarano, temono. Restiamo lontani anni luce dalla fluidità ideologica del mondo post-industriale e delle libertà del post moderno. Eterogenei al laicismo e alla mobilità che contraddistinguono altri campioni di popolazione italiana nei confronti delle risorse civili della politica e della partecipazione democratica.

    Ma nonostante l’abbarbicamento al passato, anche in questo perdurante panorama di conservazione, alcuni profili cambiano. Non solo nell’elettorato. Anche la politica politicante si mostra capace di stare al passo con le tendenze, e a modo suo in sintonia coi tempi. Si profila anche in Calabria una figura ibrida di politico (aspirante o in carriera, il modello è il medesimo): una sorta di populista iper-presenzialista, ruzzante e rampante. Personaggi che si pongono tra l’olocrate arruffapopolo e l’influencer della porta accanto. Sempre presenti sui social e nelle piazze virtuali, come “uno di noi”.

    Lamentele e azioni

    È l’olocrazia della governance alla plebea, la fenomenologia del politico pop che si fa vedere allo stadio con la sciarpa della squadra di casa, che addenta un panino nella calca di una sagra di paese, quello che incontri per strada e a cui si dà populisticamente del tu. È l’olocrazia dei Cicc’ dei Nanà, dei Pinuzz’, dei Maruzz’, dei Carlett’, dei Totonn’. Mestieranti, ingegni modesti, macchiette da strapaese. Che però una volta sbalzati oltre il proscenio social mettono le mani sul potere vero, quello della politica che decide, e che poi pesa per anni sul groppone di una Calabria che soffre e si lamenta. Si lamenta sì, ma non agisce.

    Un casting sui generis

    In Calabria il casting senza fine che approvvigiona il ceto della politica dice che oltre ai soliti inossidabili mestieranti che hanno fatto il giro delle sette chiese (e sono sempre lì incollati alle poltrone e agli ambiti scranni con annesse prebende garantite da un posto nel parlamentino regionale), a fare la fortuna di un carneade debuttante non può bastare un profilo da influencer politico di mediocrissimo calibro strapaesano. L’empireo degli ottimati tra i politici regionali non può essere raggiunto senza certe requisiti di qualità che fanno potere e consenso. Come aver amministrato un comune, diretto un’ASP, o avere alle spalle una professione di quelle che la politica trasforma in fonti di clientele e di varie utilità.

    La politica come risorsa

    Vale però tanto per debuttanti che per i politici di lungo corso, prima che per i loro elettori, un principio di ferro: che la politica è e resta per loro una risorsa. Un ascensore sociale. Per arricchimenti, carriere, vite comode. Un’occasione quindi da non perdere. Perciò si battano i territori con i vecchi strumenti del galoppinaggio di buona tradizione calabra: il clientelismo, le promesse di lavoro, i voti contati casa per casa, con la spesa fatta nel supermarket di riferimento. Perché in Calabria c’è chi, tra gli elettori, il voto lo esce solo all’ultimo momento. C’è chi lo mette all’asta, chi lo promette a tutti. Mentre, invece, molti altri elettori neanche ci vanno più a votare. Come dimostra la massa crescente di indecisi e di restii del voto. Sono coloro che vivono in una condizione assicurata, che nulla o quasi hanno da chiedere alla politica.

    Crisi d’identità

    Il voto fotografa quindi in Calabria un panorama di fenomeni assai complessi. Conseguenze della regnante confusione sociale (c’entra qualcosa anche l’impoverimento e l’ulteriore fragilità inflitta dal Covid), con la crescente opacità che avvolge la realtà di questa regione-laboratorio. Da un lato la democrazia rappresentativa, sempre più esposta a forze demagogiche che si consolidano e riorganizzano, sfruttando anche la potenza digitale dei nuovi mezzi di comunicazione. Dall’altro, le emergenze e il caos di una regione in profonda crisi di identità collettiva, dove vecchi gruppi di potere e nuova poliarchia politica cozzano senza sintesi, ma volentieri si associano e stressano i limiti da valicare per giungere a conquiste democratiche moderne, a soluzioni laiche, rapide e incisive.

    Dicevamo anche degli indifferenti: quel 57% che resta a casa, che da anni si disinteressa e non vota. È la maggioranza silente. Il nocciolo di un’opinione pubblica potenzialmente libera, più consapevole, mobile e laica. Che invece finora accondiscende e legittima i piani di coloro che, a turno, comandano. Questi ceti, dalla fisonomia sociale e dai confini ancora incerti e indecifrati, che fanno a meno della risorsa politica, sono forse gli unici in Calabria in grado di cambiare il gioco, di aprire ad un altro futuro. Ma per ora restano fuori e privi di rappresentanza.

    Aspettando il cambiamento

    Stando così le cose, la Calabria cambierà mai? C’è ancora qualche speranza? Esiste la possibilità reale che accada? Per chi proponeva il cambiamento, dopo l’ennesima delusione, dopo la cocente sconfitta, è d’obbligo chiedersi come andare avanti, che fare in questa regione. Di strade ne restano solo due. Andare via: molti continueranno a farlo. L’altra è continuare a resistere e a combattere, con ostinazione, civilmente e per il bene di tutti. E in parecchi continueranno a farlo ancora.

    Sarà però impossibile se non spazziamo via, una volta per tutte, la retorica e la prassi vittimistica della resa al peggio, della lamentazione rituale, della subalternità autoinflitta dal nostro cattivo agire, individuale e collettivo. Se ai nostri comportamenti e al nostro orizzonte sociale asfittico, in cui il privato vale sempre più del pubblico, non ridiamo lungimiranza e dignità di cittadini. Per davvero, o così o non avremo speranze.

    Sessant’anni dopo

    La Calabria è il cuore malato della Questione Meridionale. È una condizione cronica, che va affrontata con coraggio, assumendosi nuove responsabilità culturali, civili, umane, respingendo le solite scorciatoie dell’assoluzione collettiva per giustificare tutti i nostri mali. Si smetta di fuggire. Si resti davvero, per il bene di tutti. E «senza dramma, senza rancore», con tutte le sue forze migliori, finalmente la Calabria trovi il coraggio di reagire «ad una condizione inferiore o servile» che dura da troppo tempo. Cerchi di meritare finalmente «una condizione in cui l’uomo sia padrone di sé e del suo destino». Anche questo lo diceva Alvaro. Più di sessanta anni fa.

  • Regionali Calabria: Gallo superstar, volti nuovi e trombati

    Regionali Calabria: Gallo superstar, volti nuovi e trombati

    Un cambiamento cruento in queste elezioni regionali in Calabria, con i vecchi big superstiti che si mescolano, anche per interposta persona, ai volti nuovi, alcuni dei quali tali solo per modo di dire.
    Giusto a voler anticipare qualcosa, non è un volto nuovo Franco Iacucci, che ha iniziato la sua carriera nel vecchio Pci (quello vero…), è sindaco uscente di Aiello Calabro, che ha amministrato praticamente a vita e presidente della Provincia di Cosenza.

    Nuovismo in salsa PCI

    Eppure Iacucci è uno dei “nuovi” consiglieri regionali più votati: coi suoi 6.705 voti ha stracciato, nella lista cosentina del Pd, il decano Mimmo Bevacqua, fermo sui 6.300, ed è entrato a Palazzo Campanella con la tutta la freschezza di un veterano, che ha speso la sua vita in politica e, in fin dei conti ha una sola novità: essersi smarcato in tempo utile dall’ex governatore Mario Oliverio.

    Chi non ha fatto altrettanto, cioè Giuseppe Aieta, ha pagato dazio. L’ex sindaco di Cetraro, candidatosi coi dem all’ultimo minuto utile, è rimasto fuori, nonostante una campagna elettorale dura e impegnativa. Così va la vita. Soprattutto in Calabria.

    Le conferme dirette

    In certi casi i numeri parlano da soli. È così per l’azzurro Gianluca Gallo, l’assessore uscente all’Agricoltura.
    Coi suoi 21.631 voti, Gallo è, probabilmente, il consigliere regionale calabrese di tutti i tempi. Per capirci, ha preso di più di Pino Gentile quando era all’apice nella Forza Italia e nel Pdl degli anni d’oro, e di Carlo Guccione, che fece urlare al miracolo nel 2014 per aver preso di più di Pino Gentile (che era già in fase calante…).

    Comunicazione e stile morbidi, come si conviene a un ex Dc, Gallo è riuscito in un altro miracolo politico: aver fatto a lungo il sindaco di Cassano Jonio, una delle realtà regionali più flagellate dalla mafia, senza essersi attirato neppure l’ombra di un sospetto.
    Anche il fatto che abbia gestito l’Agricoltura, una delle poche gettoniere efficienti della Regione, potrebbe voler dire poco: Giovanni Dima, per fare un esempio, fece il diavolo a quattro durante l’amministrazione Chiaravalloti, spese fondi alla grande e trasformò il suo assessorato in una fabbrica di dop. Tuttavia, riuscì a farsi rieleggere e basta.
    Solo la storia futura ci dirà se questa di Gallo sia “vera gloria”. Di sicuro il successo è indiscutibile.

    Le riconferme del collegio Sud

    Un altro confermato, nel collegio Sud, è Giuseppe Neri di Fratelli d’Italia. La sua performance, stavolta, è stata un po’ più bassa rispetto al 2020: poco più di 5mila voti rispetto ai precedenti 7mila e rotti. Ma l’importante è esserci. O no?
    Una superconferma arriva sempre da Reggio: è data dagli oltre 10mila voti di Nicola Irto, che prende un po’ meno rispetto al 2020 ma resta il consigliere più votato del Pd.
    I bene informati intravedono dietro questo successone una strategia politica ben precisa, che potrebbe prendere due direzioni: un ruolo nella dirigenza romana, quindi in Parlamento, o la segreteria regionale.

    Orsomarso ha giocato bene le sue carte

    A rigore non sarebbe un confermato Fausto Orsomarso, che nella precedente legislatura non era stato eletto. Tuttavia, l’assessore uscente al Turismo ha saputo giocare bene le carte offertegli dal suo dicastero e la fiducia di Giorgia Meloni, al punto di diventare, con 9.020 voti, il più votato in Fdi, anche a dispetto di qualche figuraccia rimediata nel corso dell’estate.
    Un’altra confermona è quella di Giuseppe Graziano, che inaugura la sua terza legislatura regionale con oltre 7mila voti, che ne fanno l’unico eletto nell’Udc. Segno che mollare Forza Italia, di cui era stato dirigente su indicazione della scomparsa Jole Santelli, a volte porta bene.
    A volte fa benissimo addirittura cambiare schieramento. Come per Francesco De Nisi, entrato a Palazzo Campanella grazie a Coraggio Italia, dopo vari, inutili tentativi col Pd.

    Conferme indirette

    Quando si stravince, come ha fatto Roberto Occhiuto, c’è chi vince per interposta persona.
    È il caso della famiglia Gentile, che ricorda un po’ il mito dell’Idra: se ne fai fuori uno, ne spuntano due. Infatti, lo spauracchio del giudizio preventivo della Commissione antimafia ha indotto Pino Gentile a miti consigli, quindi a non candidarsi. Al suo posto, si è candidata la figlia Katya, ex vicesindaca di Cosenza, che ha preso 8.077 voti in Forza Italia ed è la consigliera più votata della prossima legislatura regionale.

    Simona Loizzo, politicamente vicina a Tonino Gentile, fratello minore di Pino ed ex senatore azzurro, è riuscita ad affermarsi invece nella Lega, con 5.360 voti.
    Ma la vittoria che sa più di “vendetta” è quella di Luciana De Francesco, la moglie di Luca Morrone, altro grande escluso dalla competizione per via delle fregole legalitarie di Roberto Occhiuto. Con le sue 4.654 preferenze la De Francesco si è presa la rivincita di suo marito.

    Nuovissimi e nuovi ma non troppo

    La vera novità di queste elezioni è il paradosso del Movimento 5 Stelle, che prendono per la prima volta consiglieri regionali in Calabria mentre perdono pezzi in tutto il resto d’Italia.
    Uno dei due volti nuovi dei grillini appartiene al cariatese Davide Tavernise, che è riuscito a capitalizzare bene le alchimie politiche grazie alle quali M5s ha preso il quorum, anche a danno del suo compagno di lista Domenico Miceli, grillino della prima ora ed ex capogruppo al Consiglio comunale di Rende.

    Un altro volto nuovo è quello del notaio Antonio Lo Schiavo, uno dei due sopravvissuti alla sconfitta della coalizione di Luigi de Magistris. Lo Schiavo, tuttavia, è nuovo solo in Consiglio, perché ha all’attivo una candidatura a sindaco nella sua Tropea col centrosinistra.
    Stesso discorso per il medico castrovillarese Ferdinando Laghi, conosciuto ai più per le sue battaglie ambientaliste molto accese.

    Gli esclusi

    Tra i perdenti “eccellenti” figurano la reggina Tilde Minasi, salviniana di ferro esclusa dal consiglio perché i suoi non pochi voti sono risultati insufficienti nella stravittoria del centrodestra.
    Discorso diverso per il consigliere uscente Pietro Molinari, che invece ha perso voti, a dispetto della presidenza di una Commissione consiliare che secondo i maligni gli sarebbe stata cucita “su misura” per compensarlo della mancata attribuzione dell’assessorato, andato a Gallo Superstar.
    Flora Sculco, invece, ha scontato sulla sua pelle la batosta elettorale del centosinistra e il fatto di non essere riuscita a salire per tempo sul carro del probabile vincitore.

    Un evergreen

    Non è nuovo, tuttavia è come se fosse un consigliere regionale “onorario”: ci si riferisce all’eccentrico ed esplosivo Leo Battaglia, titolare dei manifesti elettorali più kitsch (in cui sembra una specie di Zio Sam in camicia nera…) e autore della bravata ferragostana che lo ha reso celebre in tutt’Italia: il lancio delle mascherine chirurgiche con spot elettorale.
    I suoi 1.500 voti sono un premio simpatia, che dovrebbe incoraggiarlo a insistere. In fondo, molte pareti pubbliche del collegio nord sono piene di sue scritte elettorali: gli torneranno utili, in maniera totalmente gratuita, per le prossime volte…

    Per concludere

    Con venti eletti su trenta, Roberto Occhiuto è anche il dominus indiscusso della consiliatura che sta per iniziare. E forse questo potrebbe essere un bene per la Calabria, visto che i dieci esponenti di minoranza saranno comunque costretti a fare opposizione: dati i numeri, non ci sarebbe troppo spazio per trasversalismi.
    La vittoria del leader azzurro non è bulgara, ma polacca. Cioè ricorda un po’ l’unico sistema dell’ex impero sovietico dove era tollerata una specie di minoranza politica.
    L’augurio è che la minoranza attuale sia rumorosa e faccia sul serio.
    Già: è facile, specie per i supertrombati come Carlo Tansi, dire che con la vittoria di Occhiuto ha perso la Calabria. Ma diventerebbe vero se il nuovo presidente fosse lasciato libero di fare e disfare senza polemiche e contrasti.

  • La FI di Occhiuto umilia tutti, il Pd riesce a salvarsi

    La FI di Occhiuto umilia tutti, il Pd riesce a salvarsi

    Diciamola tutta, amministrare la Calabria è un’ambizione che Roberto Occhiuto coltivava da sempre. Alla fine, c’è arrivato con un percorso piuttosto lineare, iniziato dieci anni fa con la vittoria di suo fratello Mario a Cosenza. Nulla di trascendentale: Occhiuto ha applicato alla lettera una regola non scritta ma ineludibile della politica calabrese, secondo cui si vince e si perde a Cosenza. Eroso il fortino “rosso”, per decenni appannaggio dei reduci della sinistra, il resto è stato una passeggiata.

    Roberto Occhiuto è il terzo presidente di regione consecutivo espresso da Cosenza. Ha preso di meno rispetto a Mario Oliverio (che nel 2014 conquistò la Regione col 61% calcolato su un’affluenza al voto prossima al 45%) e ha fatto quasi pari e patta con Jole Santelli, che ha preso nel 2020 il 55% dei consensi su una base elettorale del 45% circa.

    Su tutto dominano due dati. Il primo: Occhiuto ha fatto cappotto con una campagna elettorale piuttosto semplice e dai toni composti. Il secondo: mentre il centrodestra arranca in tutti gli altri contesti elettorali, in Calabria stravince. Scendiamo un po’ più nel dettaglio.

    Moderazione e furbizia

    Toni morbidi e rassicuranti. Soprattutto uno slogan banale e piacione: “La Calabria che l’Italia non si aspetta”. E poi un profluvio di foto e video, con cui il candidato azzurro ha invaso ogni spazio pubblico, a partire dai social.
    Niente urla né pose da giustiziere, ma solo una grossa furbata: la modifica al regolamento della Commissione antimafia, con cui l’allora aspirante governatore è riuscito a sterilizzare l’ombra ostile dell’ex grillino Nicola Morra e a togliersi di torno alcune candidature ingombranti.

    E poi una campagna elettorale tutta in discesa, in cui il deputato forzista ha avuto una sola difficoltà, tra l’altro interna: gestire i mal di pancia di Fratelli d’Italia, che minacciava fuoco e fiamme ma è stato smentito dai numeri. Col suo 17,3% Forza Italia stacca di nove punti il partito della sora Giorgia, inchiodato all’8,7%. Una cifra sulla base della quale è praticamente impossibile alzare la voce.
    Tantopiù che Fdi è tallonato a vista dalla Lega, che tiene la barra sul 8,34%, e da Forza Azzurri, di fatto la lista del presidente, che si attesta all’8,1%. Ma il cappotto riguarda tutte le liste occhiutiane, che, tranne Noi con l’Italia, hanno superato il quorum.

    Fin qui i dati grezzi, gli unici su cui è possibile ragionare, restituiscono una leadership forte, che probabilmente è l’esito di una gestione autoritaria della fase più delicata di ogni campagna elettorale: la compilazione delle liste.
    Tutto il resto è retorica della vittoria: l’accenno forte sul “fare”, il ripudio rituale della ’ndrangheta e dell’illegalità, la promessa di impegno per risollevare le sorti della Calabria, ecc.
    Ma i numeri azzurri non possono essere fraintesi né interpretati: dato per spacciato nel resto d’Italia, il movimento di Berlusconi tiene alla grande in Calabria e umilia gli alleati recalcitranti.

    Perde la Bruni, salvo il Pd

    I risultati complessivi ribadiscono l’inconsistenza degli avversari, tutti vittime del collasso del centrosinistra. È senz’altro vittima Amalia Bruni, col suo poco più del 27,6%.
    Questo dato conferma come la candidatura della scienziata lametina sia stata più il frutto di un’improvvisazione disperata che di una scelta. E fa capire come, dietro tutto, potrebbe esserci stato un ragionamento piuttosto cinico di alcuni vertici romani: suicidare il centrosinistra per “salvare” il Pd.

    Il segretario del Pd, Enrico Letta, a Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Infatti, il partito di Letta, col suo 13,1%, conferma, seppure in parte, anche in Calabria l’attuale trend nazionale. E pazienza se questo risultato è stato ottenuto grazie al bagno di sangue più classico e truce, cioè costringendo tutti i big a candidarsi sotto il simbolo di partito, con la consapevolezza che solo uno per collegio ce l’avrebbe fatta.

    Uno zoom sul collegio cosentino può aiutare a chiarire: nella lista dem hanno gareggiato Mimmo Bevacqua, Giuseppe Aieta, Graziano Di Natale e Franco Iacucci.
    I primi tre hanno ottenuto risultati lusinghieri alle scorse Regionali, Iacucci, attuale presidente della Provincia di Cosenza, potrebbe contare su un buon risultato.
    Ma, data la performance della coalizione, solo uno entrerà in Consiglio. In pratica, si sono sacrificati per mantenere il partito sopra la linea di galleggiamento.

    Non finisce qui: l’asse del Pd potrebbe spostarsi verso lo Stretto se Nicola Irto confermasse i circa 12mila voti del 2020. In questo contesto fanno notizia due fatti: il raggiungimento del quorum dei Cinquestelle, che in Calabria prenderanno un consigliere (il mite Domenico Miceli?) e l’evaporazione di Carlo Tansi, la cui Tesoro Calabria è al 2,2%, a dispetto dei toni barricaderi del leader.

     

    Un flop per de Magistris?

    A Luigi de Magistris spetta la gloria degli sconfitti: è riuscito a staccare le sue liste, una sola delle quali de Magistris presidente (5,5%), ha superato il fatidico 4%. Tutto il resto, a partire da Dema (che sulla carta sembrava la lista più forte) è stato deludente.

    Luigi de Magistris (foto Alfonso Bombini)

    Il quasi ex sindaco di Napoli, in realtà, ha poco da rimproverarsi: si è mosso tanto e con molta abilità, è riuscito a smarcarsi bene da alcuni compagni di strada non proprio affidabili (Tansi, per capirci) ed è, infine, riuscito comunque a inserirsi in un territorio non proprio facilissimo, come quello calabrese.

    Tuttavia, il 16,15% non è un risultato lusinghiero per un candidato che prometteva rivoluzioni. Al contrario, significa che de Magistris non è riuscito a portare alle urne gli astensionisti e i delusi, gli unici che per lui avrebbero potuto fare la differenza.
    E non occorre essere politologi scafati per capire che in questo risultato hanno pesato non poco alcuni errori nella compilazione delle liste, in cui si sono schierati alcuni evergreen della sinistra, radicale e non (ad esempio, il cosentino Mimmo Talarico, già consigliere regionale in Idv con un passato turbolento in Sd e nella Sinistra arcobaleno).

    La fine di Oliverio

    L’ultima raffica per l’ex governatore. Mario Oliverio è stato letteralmente azzerato. Col suo 1,7% non è riuscito neppure a scalfire il Pd, che intendeva demolire per riprenderselo, né a fare una battaglia di testimonianza.
    Lui e i suoi fedelissimi hanno cercato la “bella morte”, come i repubblichini a Salò. Ma sono morti e basta, per loro fortuna solo a livello politico.

    Solo la Calabria è di destra

    Per capirci di più, occorre aspettare i risultati delle amministrative, in particolare quelli di Cosenza.
    Tuttavia, se si proietta il dato calabrese sullo scenario nazionale, emerge con prepotenza un altro dato: il centrodestra non ha bucato dove aveva i numeri per farlo (Roma) e ha subito degli stop un po’ ovunque, a volte non lusinghieri (è il caso di Milano e Napoli). E un po’ ovunque va al ballottaggio col rischio di essere stritolato dalla somma dei propri avversari.

    Il 15% circa ottenuto da Fratelli d’Italia a livello nazionale è una crescita inutile, che rischia di collassare tra gli scandali e, probabilmente, tra le inchieste giudiziarie che ne seguiranno o sono già in corso. Solo la Calabria, a dispetto dell’astensionismo, segna una controtendenza rispetto a un contesto generale in cui il centrosinistra ha ripreso a fiatare.
    Occhiuto ha stravinto senza alzare la voce e senza sbagliare una mossa. Tant’è che potrà gestire gli equilibri della sua coalizione col classico manuale Cencelli: dando a ognuno sulla base del suo peso.

    Ma i problemi per lui iniziano ora: la “Calabria che l’Italia non si aspetta” è ridotta al lumicino per responsabilità pesanti anche del centrodestra, che ha rivinto con pochi cambiamenti. Riuscirà a fare la rivoluzione assieme alla coalizione meno attrezzata per realizzarne una?

  • PNRR, per ogni miliardo speso al Sud quasi la metà rimbalzerà al Nord

    PNRR, per ogni miliardo speso al Sud quasi la metà rimbalzerà al Nord

    L’impatto del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), non solo per quanto riguarda gli aspetti territoriali, dipenderà moltissimo dalla sua attuazione. Questo percorso di implementazione sarà condizionato dalle regole di semplificazione e dalla capacità amministrativa. Nella esecuzione degli interventi saranno compiute scelte politiche rilevanti, attraverso i criteri di riparto e allocazione e i bandi, che ne determineranno gli effetti. Sarà certamente indispensabile battersi per meccanismi di trasparenza di tutti i passaggi decisionali, e di monitoraggio di tutti gli interventi, che consentano di conoscere e per quanto possibile influenzare queste scelte.

    Mancano quasi 70 miliardi

    Insomma, chi pensa che il Governo abbia deciso di fare investimenti pubblici al Sud per un valore di oltre 80 miliardi è fuori strada. Sarà il percorso di attuazione che determinerà il montante delle risorse effettivamente indirizzate verso il Mezzogiorno.
    E molto dipenderà dalla capacità delle amministrazioni meridionali di progettare e realizzare coerentemente gli interventi che sono nella agenda del PNRR. Va poi valutato il meccanismo delle ricadute delle risorse destinate al Mezzogiorno sugli operatori economici. Per ogni miliardo speso al Sud, poco meno della metà, comunque, rimbalzerà al Nord, per l’acquisto di semilavorati, attrezzature, dispositivi vari.

    Il differenziale che abbiamo sin qui misurato tra le risorse teoricamente destinate al Mezzogiorno e quello che poi effettivamente finiranno nella contabilità degli investimenti, apre un altro ragionamento differenziale, che pure è opportuno tenere presente.
    Mancano infatti, calcolatrice alla mano, circa 70 miliardi per il Sud, anche rispetto agli 80 miliardi teoricamente assegnati dal Governo nel PNRR.

    Stessa formula, risultati differenti

    Il metodo applicato dal Governo italiano è lo stesso che utilizza l’Unione Europea, ossia una formula matematica che compara Pil, popolazione, reddito nazionale, regionale e tasso di disoccupazione di ogni Paese, per determinare l’ammontare delle risorse da assegnare a ogni Paese Ue. Proprio con questa formula sono state calcolate le distribuzioni delle risorse spettanti all’Italia.

    Applicando la stessa formula alla suddivisione territoriale delle risorse destinate all’Italia e sostituendo i parametri europei con quelli su base regionale, si otterrebbe che al Sud spetterebbero circa 150 miliardi, 68 miliardi di euro in più rispetto a quelli attualmente stanziati in teoria dal PNRR.
    Insomma, ci troviamo di fronte ad un duplice differenziale: da un lato quello che si genera tra l’applicazione della formula comunitaria di ripartizione delle risorse e l’ammontare dei finanziamenti teoricamente assegnati dal Governo al Mezzogiorno, e dall’altro quello che si determina se andiamo a misurare le teoriche assegnazioni con le effettive titolarità territoriali formulate nel PNRR.

    Più lenti a spendere e realizzare

    Ma la questione non si ferma qui. I dubbi, forse anche più radicali, si generano se andiamo a valutare l’effettiva capacità di spesa delle istituzioni territoriali del Mezzogiorno.
    A fronte di questa mole di risorse, comunque la si voglia misurare o determinare, la domanda chiave da farsi è se vi sarà la capacità di spendere e di realizzare le opere.

    Secondo un’analisi della Banca d’Italia, basata sui dati dell’Agenzia di Coesione, la realizzazione delle opere richiede in media quasi un anno in più rispetto al Centro-Nord. Le regioni meridionali presentano inoltre i tassi più elevati di inutilizzo dei fondi europei assegnati e di opere incompiute. Ci troviamo di fronte ad un programma estremamente articolato, che richiede elevata capacità di programmazione e controllo, con un governo ferreo delle scadenze temporali.

    Servirebbe una Cassa del Mezzogiorno

    Il nostro PNRR comprende infatti 135 “investimenti” e 51 “riforme”, un totale di 186 interventi. Ed al Sud manca una piattaforma di attuazione, come è stata la Cassa del Mezzogiorno, capace di gestire un complesso ed articolato programma di interventi.
    L’esperienza dei passati decenni in tema di spesa da parte delle amministrazioni meridionali delle risorse comunitarie derivanti dai fondi europei di coesione sta a dimostrare che non si sono generati effetti particolarmente virtuosi. Né dal punto di vista della qualità degli interventi, né dal punto di vista della tempestività nella attuazione.

    Esiste infine un’altra questione decisiva, che riguarda il tessuto economico e sociale del Mezzogiorno, inserito nel sistema produttivo nazionale ed internazionale. Nessun investimento nelle infrastrutture e nelle tecnologie digitali è destinato a generare effetto duraturo se non si determina una trasformazione dell’ambiente economico.

    Il gap con l’Europa si allarga

    L’Italia, ed il Mezzogiorno ancor di più, viene da due decenni di crescita sterile: dopo gli anni ‘90, dai primi anni Duemila l’andamento della produttività totale dei fattori ha iniziato prima a piegarsi verso il basso per poi mostrare una sostanziale stagnazione. Nelle altre principali economie avanzate (come Germania, Francia e Stati Uniti) – crisi 2009 a parte – ha seguito, invece, un percorso di crescita. La perdita di competitività del nostro Paese su un orizzonte temporale di lungo periodo evidenzia l’esistenza di una serie di nodi strutturali che non hanno permesso al tessuto produttivo di cogliere a pieno le opportunità legate alla rivoluzione digitale.

    Tra i fattori che fino ad oggi hanno contribuito ad allargare il gap di competitività con gli altri Paesi va sottolineata in particolare la ridotta dimensione aziendale (addetti nelle micro-imprese: Italia 42,6% vs UE 29,1%; anno 2018); il rallentamento degli investimenti (variazione % media annua 2010-19 in termini reali: Italia -0,8% vs UE +2,5%), compresi quelli ICT (Italia +1,9% vs Germania +2,5% e Francia +7,8%); la bassa spesa in ricerca e sviluppo (% su Pil: Italia 1,5% vs UE 2,2%, anno 2019); la carenza di competenze digitali (imprese che fanno formazione su ICT skills: Italia 15% vs UE 20%; anno 2020)4; l’elevata percentuale di imprese con governance familiare.

    Affari di famiglia

    In merito a quest’ultimo punto, mentre in termini di proprietà familiare l’Italia è in linea con gli altri Paesi europei con l’85,6% di imprese di proprietà familiare, vicino all’80,0% della Francia, all’83,0% della Spagna e al 90% della Germania, è in termini di management familiare che l’Italia si differenzia notevolmente per una bassa propensione a ricorrere a manager esterni alla famiglia. Infatti, le imprese familiari in cui il management è nelle mani della stessa famiglia proprietaria sono ben due terzi in Italia (66,3%), a fronte di un terzo in Spagna (35,5%) e circa un quarto in Francia (25,8%) e in Germania (28,0%).

    Le caratteristiche del nostro sistema produttivo unite alle recenti esperienze di incentivazione agli investimenti in digitalizzazione mettono in luce una serie di rischi rispetto all’obiettivo della piena transizione digitale.

    Le disparità tra Nord e Sud

    Il primo rischio riguarda le disparità territoriali: l’esperienza dell’iper-ammortamento ha mostrato uno sbilanciamento delle risorse assorbite, rispetto alla consistenza imprenditoriale dei territori, al Nord (con particolare riferimento a Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna). E non sembra che le cose vadano meglio neanche nell’ultimo anno. Un’indagine 2020 Centro Studi Tagliacarne-Unioncamere sulle imprese manifatturiere 5-499 addetti evidenzia come la quota di imprese che al 2020 hanno adottato o stanno pianificando di adottare Industria 4.0 è superiore proprio al Nord rispetto al Mezzogiorno (19% vs 14%).

    Questo potrebbe seriamente contribuire ad ampliare i divari di crescita territoriali alla luce di una certa relazione positiva tra ripresa delle attività post-lockdown e decisione dell’impresa di accelerare verso la transizione digitale.
    Forse sarebbero proprie le determinanti del divario in termini di produttività dei fattori e di competitività industriale gli elementi sui quali fare leva maggiormente nel PNRR per imprimere un recupero di efficienza manifatturiera del territorio meridionale, inserendolo finalmente nel tessuto delle catene globali del valore dalle quali deriva lo sviluppo industriale dei nostri tempi.

  • BOTTEGHE OSCURE | Piombo e libertà nelle mani dei tipografi

    BOTTEGHE OSCURE | Piombo e libertà nelle mani dei tipografi

    La maggior parte dei lettori non avrà quasi idea di cosa siano i caratteri mobili per comporre un testo da imprimere sul foglio. I tipografi non sono più quelli di una volta, la professione è cambiata moltissimo negli ultimi decenni. Le innovazioni sono state tantissime e hanno mutato radicalmente il modo di lavorare, fino alla rivoluzione introdotta dalle tecnologie digitali. Le piccole tipografie locali hanno subito duri contraccolpi e l’introduzione di diversi macchinari ha reso molte figure non più necessarie.

    Basti pensare al compositore, che si occupava di comporre la pagina da stampare unendo pazientemente i pezzetti di piombo con lettere, spazi e segni di punteggiatura. Nei periodi elettorali, invece, si utilizzavano dei grandi caratteri in legno, utili a stampare inviti di voto su carta colorata di diverse dimensioni. Anche questo sistema è tramontato, e l’innovazione ha semplificato notevolmente i passaggi.

    Stampatori da primato

    Il primo libro stampato a Reggio Calabria risale al 1475 ed è la più antica opera in caratteri ebraici stampata al mondo. A Cosenza già nel 1478 Ottaviano Salomonio, anche lui probabilmente di origine ebraica, imprimeva con i suoi torchi alcuni opuscoli che recano impressi data e luogo di stampa. A dispetto di questo rapido arrivo, le tracce delle tipografie calabresi scomparvero per quasi un secolo, per ricomparire negli ultimi anni del ‘500.

    Agli inizi dell’800 l’istituzione delle Intendenze da parte dei dominatori francesi portò all’impianto di una nuova tipografia a Cosenza. Era quella di Francesco Migliaccio, stampatore appartenente ad una famiglia napoletana già operante nel settore che attraverso i propri torchi darà luce a moltissime opere di autori locali noti. A cominciare da “Il Bruzio” di Vincenzo Padula, pubblicato nel 1865, ma anche opere e operette di autori meno noti che altrimenti avrebbero difficilmente lasciato una traccia nella storiografia.

    Gutenberg calabresi

    Nell’ultimo quarto dell’800 il boom. Il monopolio di Migliaccio venne pian piano eroso da altre piccole tipografie, spesso legate alla diffusione di giornali e periodici espressione di particolari categorie o correnti culturali. Nel 1884 a Cosenza si contavano Giovanni Alessio, della tipografia dell’Indipendenza, Domenico Bianchi, Davide Migliaccio e Francesco Principe, della tipografia Municipale. Questi, con tutta probabilità titolari degli stabilimenti, avevano a loro volta diversi operai. Anche in provincia erano presenti attività tipografiche, tra cui quelle di Leonardo Condari e di Francesco Patetucci a Castrovillari, di Giuseppe Giuliani a Cerchiara, la tipografia del Ginnasio a Corigliano, a Lungro quella di Gaetano Guzzi e a Paola la tipografia della Concordia di Salvatore Stancati Vasquez.

    Nel Catanzarese la situazione era altrettanto vivace. Nel capoluogo c’erano le tipografie degli editori Vitaliano Asturi e Luigi Mazzocca, la tipografia della Prefettura di Giuseppe Dastoli, la tipografia Municipale e quella di Francesco Veltri e C. A Nicastro la tipografia Colavita, a Filadelfia la tipografia della Società operaia. Monteleone contava le tipografie di Fedele Gentili, Francesco Rubo, Giovanni Troise e la Tipografia Cordopatri, mentre a Crotone operava Tomaso Pirozzi. A Reggio Calabria operavano Luigi Ceruso della tipografia “all’insegna del Petrarca”, Domenico Corigliano, Adamo D’Andrea, Marianna Pananti Lipari e l’editore Paolo Siclari. A Palmi stampavano Giuseppe Lo Presti e Domenico Lipari.

    Stampa e politica

    Era il periodo della diffusione dei periodici locali, soprattutto cittadini, spesso semplici fogli in concorrenza tra loro e schierati su fronti diversi. Molti di questi si erano dotati di una propria tipografia per ridurre i costi dalla stampa del giornale. Queste piccole officine della parola scritta passavano non di rado dalla stampa del giornale alla pubblicazione di opere a tiratura più o meno elevata. Pasquale Rossi, antesignano della psicologia sociale, si serviva spesso per le sue opere dalla tipografia del giornale cosentino “La Lotta”. E allo stesso modo facevano oscuri intellettuali locali con scritti di cui non resta quasi memoria.

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    La tipografia Riccio durante l’alluvione del 1959 (Foto dal gruppo fb “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza.”)

    Tra fine ‘800 e inizi ‘900 nasce così anche in Calabria, e nel Cosentino in particolare, una piccola classe di operai-tipografi. Il lavoro dei tipografi iniziava ad essere “politico” e si svolgeva in modo sparso nella città. Nella prima metà del ‘900 il quartiere cosentino di Rivocati ne accoglieva più di una, mentre la tipografia Riccio occupava uno stabile sul Lungo Crati soggetto a inondazioni. Una foto dell’alluvione del 1959 mostra l’edificio con ancora l’insegna della tipografia dipinta a grandi lettere sull’intonaco sopra l’ingresso principale.

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    L’onorevole Aldo Moro visita i locali dove veniva stampato Parola di Vita (Foto in Salvatore Fumo, Il giornalismo cattolico e lo sviluppo della Calabria Editoriale, Progetto 2000-2004)

    La parte alta di corso Telesio ospitava nei locali del palazzo vescovile, poco lontano da quelli dove ancora campeggia l’insegna del giornale “Cronaca di Calabria”, la tipografia che sarebbe diventata “La Provvidenza”, i cui torchi diedero alle stampe molto materiale di ambito cattolico. In tal senso è da segnalare la presenza in città negli anni ’40 di una tipografia della Pia Società S. Paolo, le note Edizioni Paoline, che tra l’altro diede alle stampe nel 1948 un’edizione dell’opera del sacerdote antifascista don Luigi Nicoletti, Meditazioni Manzoniane, che sarebbe finita sui banchi di molte scuole d’Italia.

    Un leghismo d’altri tempi

    All’alba del Novecento il termine “leghismo” aveva un senso e un colore politico opposti a quello odierni. Muratori, sarti, falegnami, panettieri, calzolai, facchini e tipografi cosentini diedero vita nel 1906 ad altrettante “leghe di resistenza”. Si trattava di movimenti di fratellanza operaia, veri e propri cordoni solidaristici capaci di proteggere e orientare menti non eccelse e braccia toste come il legno silano, che unendosi avrebbero potuto porre un freno alla forza padronale e un argine ai rischi connessi a lavori duri e pericolosi.

    La lega dei tipografi cosentini era presieduta da Federigo Adami, uno dei fondatori del circolo repubblicano intitolato ai Fratelli Bandiera, destinato a diventare nel 1913 il primo segretario della Camera del Lavoro di Cosenza.
    «Dovete fidare soprattutto in voi stessi, se volete davvero incamminarvi per la luminosa via de la rivendicazione» ripeteva Adami ai giovani apprendisti tipografi. Negli annali della Camera del Lavoro e del socialismo cosentino, Adami è descritto come organizzatore degno di stima, sempre pronto alla battaglia. Esercitava un certo influsso sui giovani apprendisti, che vi si affidavano per ogni cosa.

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    Il tipografo d’idee repubblicane Federigo Adami, primo segretario della Camera del Lavoro di Cosenza

    All’epoca i tipografi come i muratori, i falegnami o i fornai si dividevano in due macro-categorie: i “mastri” – custodi dell’arte e proprietari di un’attività – che speravano nel buon andamento e magari in un ampliamento della stessa, e i “garzoni” che stavano a bottega dal mastro artigiano con la prospettiva di diventare anch’essi capi d’arte e chiedevano semplicemente condizioni di trattamento migliori. La Cosenza d’inizio Novecento andava estendendosi verso le campagne ca minanu a Renne: si aprivano ovunque cantieri, e nei piccoli opifici di contrada Castagna il lavoro abbondava.

    Primo maggio 1906

    Insieme ai muratori del rione Massa, i giovani tipografi che facevano capo ad Adami furono i protagonisti della prima celebrazione del 1° maggio, datato 1906, che si svolse a Pianette di Rovito perché la pubblica sicurezza vietò il comizio in una piazza cosentina. Nei giorni precedenti tipografi e muratori avevano cercato di convincere sarti e calzolai delle migliori boutique di corso Telesio ad astenersi dal lavoro. Il favore di questi “artigiani privilegiati” sarebbe servito a far udire le lagnanze salariali ai ceti agiati della città che vi si servivano. Così fu.

    Durante la celebrazione del 1° Maggio 1906 fece la propria comparsa tra gli applausi l’anziano tipografo Rosalbino Serpa, dalle mani solcate da decenni di fatica. Era il “proto”, coordinava cioè il reparto di composizione e controllava l’esecuzione tecnica della stampa del giornale “La Lotta”, che al tempo fomentava la battaglia politica cittadina. Come ricorda Pietro Mancini: «Egli [Serpa] ci comunicò subito che era rimasto solo nella tipografia e quindi era stato mandato via a festeggiare il primo maggio dal direttore del giornale».

    La tipografia degli orfanelli

    A Cosenza l’infanzia abbandonata, i cosiddetti “trovatelli”, e insieme a loro ladruncoli e perdigiorno trovavano posto nell’orfanotrofio “Vittorio Emanuele II”. L’ospizio nacque nel periodo preunitario con l’obiettivo di garantire un futuro e avviare al lavoro i figli della miseria provenienti dai quartieri e rioni popolari di Massa, Spirito Santo e Santa Lucia. Nella seconda metà dell’Ottocento fu installata nell’orfanotrofio un’officina tipografica, destinata a diventare nei decenni una vera e propria scuola.

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    Il reparto di composizione della scuola poligrafica dell’Orfanotrofio Vittorio Emanuele II di Cosenza

    Con entusiasmo il deputato provinciale Francesco Vetere nel 1882 la presentò come una gloria nell’insegnamento delle «arti meccaniche, di cui l’Ospizio può attingere un incremento di forza, e gl’infelici orfani e trovatelli, raccolti dalla pubblica carità, potere apprendere un’arte colla quale possano campar la vita, acquistare un posto nella società». Fino ai 18 anni i giovani aspiranti tipografi venivano suddivisi in squadre di sette elementi alle dipendenze di un capo d’arte. Il frutto del loro lavoro – libri, opuscoli ecc. – sarebbe stato venduto e 1/5 dell’utile (al netto delle spese) sarebbe stato diviso in parti uguali tra i giovani lavoranti.

    Sfruttamento e futurismo

    Ma le cose non andarono sempre per il verso giusto. Già sei anni dopo, il commissario governativo Tancredi ravvisò che i capi d’arte sfruttavano il lavoro degli apprendisti per proprio tornaconto, che nessuno degli alunni aveva appreso le prime nozioni e tutti lavoravano senza compenso. La tipografia dell’orfanotrofio conoscerà una stagione ben più florida negli anni ’50 del Novecento. L’ospizio era presieduto da Ruggero Dionesalvi e nel consiglio d’amministrazione figurava l’avvocato e giornalista sampietrese Giuseppe Carrieri (1886-1968) definito dal suo compaesano Alfredo Sprovieri «primafila dell’ultima avanguardia futurista italiana in grado di sedurre il mondo».pIO

    La “poesia silenziosa” di Carrieri venne scandagliata attraverso le opere di Pietro De Seta e Gaetano Gallo pubblicate proprio nel “Baraccone”, com’era chiamata l’officina annessa all’orfanotrofio e trasformata il 10 giugno 1950 in una vera e propria scuola poligrafica allo scopo «di tenere il piccolo drappello di fanciulli lontano dai rumori e vizi della città […] educare alla scuola del lavoro le tenere e frequenti vittime dei pregiudizi e dei disordini sociali».

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    La vecchia tipografia dell’orfanotrofio, oggi cadente e in preda al degrado, fu tagliata fuori dal progetto di ristrutturazione, adeguamento antisismico e riconversione dell’ex convento dei Carmelitani, e che fu sede dell’orfanotrofio, nel moderno Istituto Alberghiero “Mancini”, una delle opere di edilizia scolastica del primo mandato di Mario Oliverio quale presidente della Provincia.