Tag: politica

  • Vittimisti e “pagliettari”, quella Calabria che piange per autoassolversi

    Vittimisti e “pagliettari”, quella Calabria che piange per autoassolversi

    Nel corso dei secoli politici e letterati calabresi hanno spiegato i mali della regione individuando dei colpevoli esterni. Il meccanismo dei loro ragionamenti è semplice ed efficace: la Calabria è una terra ricca, ma impoverita per colpa degli altri. La sua popolazione è stata sempre descritta dagli stranieri come arretrata, chiusa in secolari abitudini, non disponibile al confronto civile e, quindi, autocondannata a fame, ignoranza, miseria e isolamento. Calunniati e privati di tutto, i calabresi sono stati costretti a vivere in condizioni misere e, nonostante d’animo buono e ospitale, spinti ad assumere comportamenti rudi e aggressivi.

    I vittimisti

    Queste figure si presentano come coloro che svolgono un servizio per la comunità. Prendono la parola in nome degli altri, interpretano e rappresentano i valori della gente a cui appartengono. Non esprimono sentimenti autentici, non appartengono a una scuola di pensiero e spesso polemizzano tra loro. Ma immancabilmente descrivono i calabresi come vittime e, per questo motivo, si potrebbe chiamarli «vittimisti».

    Vittimista è chi si atteggia a vittima senza esserlo, chi si convince di essere in balia delle circostanze, chi finge di aver patito una prepotenza. Se la vittima è il soggetto passivo di un’azione ingiusta, il vittimista è un attore perché lamenta guai che non ha. Interpreta il ruolo del perseguitato: è un artista della simulazione, pretende la scena e le sue rappresentazioni della realtà sono artefatte.

    L’attendibilità non conta

    I calabresi teorici del vittimismo ancora oggi non si propongono di liberare il popolo dalle rappresentazioni mentali che offuscano le cause della condizione in cui vive, né di combattere pregiudizi, superstizioni e ignoranza. Il fattore potente e unificante delle loro argomentazioni retoriche non è contenuto nelle cose che affermano. Sta nella pratica della lamentazione: indicare colpevoli che giustifichino l’essere vittima, elencare i mali della regione addossando le responsabilità ad «altri».

    Consapevoli della genericità di certe affermazioni, sanno bene che la loro efficacia emotiva è più importante dell’attendibilità. E per dare credibilità alle proprie opinioni, utilizzano in maniera disinvolta le fonti, modificano o inventano i fatti, affermano idee che, fatte circolare insistentemente, diventano in qualche modo plausibili ed accettate: il tempo avrebbe dato autorità e credibilità alle loro storie.

    Come i pagliettari

    Essi si comportano come quei loquaci uomini di toga, dottori in legge o procuratori chiamati volgarmente dal popolo paglietti o pagliettari i quali, come scriveva Rampoldi nel 1832, con artifici, sottigliezze, cabale, raggiri, trappolerie, frodi e falsi giuramenti erano capaci di mutare il bianco in nero per proprio tornaconto e il meno infelice dei clienti non era chi alla lunga vinceva la causa ma chi più presto la perdeva.

    Il vittimista calabrese, come il pagliettaro, è abile nell’uso della parola, un chiacchierone ostinato, capace di dire tutto e il contrario di tutto, di sostenere cose che non corrispondono a ciò che pensa. È incapace di legare i suoi discorsi a un principio di verità. Le sue affermazioni si basano su feticismo verbale e su conoscenze superficiali che lo portano a esprimere concetti sommari con cui catalizzano l’attenzione della gente, favoriscono convinzioni e consolidano credenze.

    Consenso e deresponsabilizzazione

    Le sue argomentazioni sono vaghe ma non per questo opache e senza forza di suggestione. Anzi, è proprio la genericità di affermazioni non suscettibili di verifica a funzionare efficacemente come strumento di consenso. Ripetute ossessivamente, alcune idee si rivelano talmente efficaci da contagiare la popolazione fino a diventarne un aspetto fondamentale di identità e imporsi come modo di vivere.

    Il vittimista attacca chi muove critiche alla sua terra non perché si sente ferito, ma per riaffermare le sue lamentele. Non è interessato tanto alla riparazione del danno subito, quanto alla possibilità di impiegarlo utilmente per difendere i suoi privilegi. Smonta ogni accusa che mette al centro le responsabilità dei calabresi e sottolinea in ogni occasione la loro posizione di perseguitati in modo da perpetuarla.
    Egli sa che la litania dei torti sofferti deve essere recitata costantemente, che bisogna tenere sempre alta la tensione in modo che le vittime non dimentichino mai chi sono.

    Una scusa per ogni problema

    Se la miseria economica e sociale è responsabilità degli altri e se le ingiustizie sono state compiute da altri, spetta ad altri eliminarle. Il vittimista difende una realtà verso cui non vuole o non sa porre rimedio: basta dichiararsi vittime per avere ragione, perché le vittime, per definizione, sono innocenti e non possono essere ritenute responsabili di quel che subiscono.

    Quando non vi sono colpevoli o potenziali carnefici utili a rafforzare la posizione degli oppressi, quando le responsabilità dei calabresi sono evidenti, il furbo vittimista giustifica i comportamenti e le azioni come conseguenza dei mali sofferti. Se la Calabria negli ultimi cinquant’anni è stata sommersa dal cemento che ha completamente distrutto il paesaggio, la responsabilità è dei calabresi. Ma tutto è frutto di necessità, voglia di riscattare l’ancestrale miseria e desiderio di vivere una vita più dignitosa.

    riace-cemento
    Non finito con vista sul mare a Riace (foto Angelo Maggio)

    Ogni problema che attanagli la regione trova per il vittimista una giustificazione. Riconosce il clientelismo come una pratica disonesta in cui un personaggio influente instaura un sistema di potere. Ma nello stesso tempo lo legittima sostenendo che in fondo funge da argine contro l’ingiustizia dello Stato che da sempre ignora le classi deboli. I potenti che fanno clientele sono considerati uomini particolarmente sensibili ai problemi della gente e, sia pure in cambio di qualche voto, offrono aiuto anche al di fuori della rete parentale.

    Il pessimismo diffuso

    L’atteggiamento dei vittimisti ha favorito un diffuso pessimismo, la convinzione che gli eventi negativi si sarebbero succeduti senza soluzione di continuità, che la regione fosse perseguitata da forze negative, sfuggenti ed ignote, impossibili da combattere. Pasquale Rossi, agli inizi del Novecento, scriveva che l’indole del popolo calabrese era pessimista e il pessimismo favoriva apatia, sfiducia, egoismo, invidia, maldicenza e individualismo.

    Il sentimento d’ineluttabilità e d’impotenza tanto diffuso nella popolazione ha dato linfa all’idea dell’esistenza di un destino sempre avverso. Ha fatto sì che generazioni di uomini si sentissero perseguitate da potenze oscure colpevoli del fallimento di tutte le loro azioni: nessuno può sfuggire al proprio destino, la realtà si subisce e si accetta.

    La convinzione che il corso della vita sia determinato a priori ha incoraggiato un atteggiamento fiacco e rassegnato, a dire e fare le stesse cose pensando che cambia qualcosa. Ha spinto all’autocommiserazione e alla mancata assunzione di responsabilità finendo per scoraggiare chi rivendicava la volontà di autodeterminarsi.

    La falsa coscienza

    Nelle loro asserzioni i vittimisti descrivono i mali che gravano da secoli sugli abitanti della Calabria ma, attribuendone agli altri la responsabilità, hanno finito per essere dei recriminatori, per dare importanza più ai problemi che alla loro soluzione.
    Non volendo o non riuscendo a comprendere il reale, si difendono producendo una falsa coscienza che, nel momento in cui acquista la forma di una coscienza completa trova una sistemazione teorica dei suoi contenuti in vere e proprie ideologie.

    La falsa coscienza elaborata nel corso dei secoli dai calabresi ha rappresentato un solido argine alla confusione della realtà, un mezzo più o meno consapevole per fornire una rappresentazione del mondo, un modo facile ed efficace per rimuovere i mali e proiettarli al di fuori dei propri confini.

    Considerare i calabresi come il bersaglio costante di ingiustizie terrene o ultraterrene è un modo per non ammettere i propri limiti e le proprie colpe e per giustificare tutto quello che di negativo esiste nella regione. Pur se mosso dall’amore verso la propria terra, il giustificazionismo dei vittimisti ha contribuito a radicare nella popolazione la concezione della propria debolezza e a rifuggire dalle responsabilità.

  • Rifiuti raddoppiati tra vigne e uliveti? Siderno sfida la Regione

    Rifiuti raddoppiati tra vigne e uliveti? Siderno sfida la Regione

    Case che diventano aziende agricole, nuovi capannoni che si nascondono dietro anglicismi tattici, limiti ambientali cancellati d’imperio, strade che non esistono e su cui dovrebbero passare decine di camion al giorno: è finito, inevitabilmente, a carte bollate il braccio di ferro tra la Regione e il comune di Siderno sul “rinnovo” dell’impianto di trattamento dei rifiuti di San Leo. Un ricorso al Tar, presentato sull’ultima curva disponibile dalla terna commissariale che regge la cittadina jonica dopo l’ennesimo commissariamento per mafia, che mira a una sentenza sospensiva per i previsti lavori di profonda ristrutturazione dell’impianto gestito da Ecologia Oggi, società del gruppo Guarascio che in provincia di Reggio già gestisce il termovalorizzatore di Gioia Tauro.

    Il ricorso ai giudici amministrativi che potrebbe avere sviluppi già nei prossimi giorni. Presto gli si affiancherà quello che i cittadini dell’associazione «Siderno ha già dato» stanno preparando a supporto e integrazione del primo. Una battaglia che tra riunioni infuocate, consigli comunali aperti e manifestazioni di protesta, covava da mesi. E che è esplosa quando dal dipartimento di Tutela ambientale della Regione, è arrivata l’autorizzazione all’ampliamento.

    Le tappe

    Quella del raddoppio dell’impianto di San Leo è una storia vecchia. Dal dicembre 2016 – quando il Consiglio regionale approvò il Piano regionale di gestione dei rifiuti – incombe su un pezzo di Calabria sottratto alla fiumara e piazzato a poche centinaia di metri dal mare, più o meno a metà tra i territori di Siderno e Locri, i centri più grandi dell’intero comprensorio. Nel piano originario approvato a Palazzo Campanella nel 2016, San Leo sarebbe dovuta diventare un eco-distretto attraverso la creazione di nuove linee di produzione per i rifiuti differenziati e l’adozione della tecnologia anaerobica per il trattamento della forsu e del “verde” per la produzione di biogas.

    Una trasformazione profonda a cui si misero di traverso cittadini e amministrazione comunale in un braccio di ferro durato fino all’aprile del 2018. All’epoca la struttura regionale fa parziale marcia indietro accogliendo le istanze del territorio e limitando i lavori previsti nel centro di San Leo ad un profondo restyling che passava attraverso la riqualificazione delle linee di trattamento dei rifiuti e il potenziamento delle sezioni di aspirazione e biofiltrazione.

    Un progetto differente

    Quando la pratica per i lavori al centro di San Leo sembrava essere finita stritolata negli elefantiaci ingranaggi burocratici della cittadella di Germaneto, nel 2020 c’è una decisa accelerazione dell’iter. A settembre, sull’onda dell’interminabile emergenza monnezza, sul sito del Dipartimento Ambiente spunta la pubblicazione del progetto: un progetto che però, sostengono gli uffici comunali della cittadina jonica, si differenzia in maniera sostanziale dalla bozza venuta fuori durante la conferenza di servizi e gli incontri con i cittadini e a cui la terna prefettizia risponde quindi con parere sfavorevole ai lavori.

    Quel parere non ferma però gli uffici regionali che, lo scorso 12 agosto «decretavano il provvedimento autorizzativo n° 8449» per la trasformazione dell’impianto di San Leo. Un muro contro muro che, inevitabilmente, è finito in tribunale con i giudici amministrativi chiamati a valutare il ricorso presentato dalla terna prefettizia lo scorso primo ottobre.

    La relazione tecnica

    Sono tanti i punti critici evidenziati dalla dettagliata relazione degli uffici comunali contro il piano regionale per San Leo. A cominciare dalle nuove strutture da realizzare: da una parte il progetto regionale, che parla di «modeste modifiche all’attuale assetto morfologico dell’area interessata… che possono determinare un ulteriore moderato impegno di territorio necessario per garantire le nuove e più complesse funzioni operativi dell’impianto», dall’altra gli uffici comunali che, nero su bianco, rispondono «alla bizzarra tesi» avanzata da Catanzaro quantificando le modeste modifiche in «62mila metri quadri di nuova superficie pesantemente trasformata ed edificata che produrrà più di un raddoppio delle dimensioni fisiche dell’attuale impianto».

    Nella sostanza, dicono da Siderno, tutto quello che non era entrato dalla porta, sta rientrando dalla finestra. Quello delle nuove costruzioni rappresenta però solo la punta di un iceberg che rischia di mandare a monte l’intero programma regionale sui rifiuti: nel ricorso presentato al Tar infatti sono evidenziate tutte le criticità avanzate in conferenza di servizi e “superate” di forza dalla Regione.

    La monnezza tra le eccellenze

    L’impianto di San Leo è stato costruito infatti «nelle immediate vicinanze di un nucleo abitato» che nel progetto diventa invece magicamente «azienda agricola non residenziale» e, «adiacente alla fiumara Novito e quindi estremamente vulnerabile alla pericolosità idraulica della stessa». Ricade quasi interamente «all’interno dei 150 metri dalla fiumara e quindi in zona sottoposta a vincolo paesaggistico». E poi l’impatto sulle produzioni agricole di pregio: la zona in cui sorge l’impianto di trasformazione dei rifiuti e che si troverebbe a dovere ospitare nuove strutture per 62mila metri quadri, ricade «in quella porzione di territorio comunale dove è più spiccata la presenza di produzioni di vino greco Doc, vino della Locride Igt e bergamotto, clementine e olio di oliva Dop».

    Fragomeni-MariaTeresa-Sindaco-di-Siderno-Ufficio-Stampa-17102021-web1
    Mariateresa Fragomeni si è imposta nel ballottaggio e guiderà il Comune di Siderno

    E ancora, la strada di collegamento – che sulle carte non esiste e che nella realtà è una mulattiera sterrata costruita su una lingua di terra strappata alla fiumara e divenuta nel tempo, discarica a sua volta – e il documento definitivo di impatto ambientale che non sarebbe mai stato presentato, per una rogna sociale prima ancora che legale, che rischia di esplodere nelle mani del nuovo sindaco di Siderno. Dal canto suo, la neo eletta Mariateresa Fragomeni prende tempo: «Sono sindaca da meno di 24 ore, nei prossimi giorni leggeremo tutte le relazioni e valuteremo come muoverci anche sentendo la Regione e la città metropolitana».

  • Si spengono le luci, l’addio di Mario Occhiuto

    Si spengono le luci, l’addio di Mario Occhiuto

    È probabile che non siano in tanti a ricordarselo, ma c’è stato un tempo (breve) in cui a Cosenza si poteva perfino sciare. Succedeva agli inizi di questi dieci anni targati Mario Occhiuto. Il sindaco aveva fatto innalzare nei dintorni dei “Due Fiumi” una struttura dalla quale si poteva scendere con gli sci ai piedi. La pista era lunga poche decine di metri ma era costata ai cittadini circa 80 mila euro e avrebbe rappresentato l’inizio di una lunga stagione caratterizzata dal “fare”.

    Dopo gli anni incolori dell’amministrazione Perugini, fu anche per questa frenesia del “fare” che Mario Occhiuto, il sindaco-architetto vide crescere il consenso attorno alla sua persona, imponendo la sua visione della città ludica ed effimera, molto costosa e alla lunga separata dai reali bisogni dei cittadini. Furono gli anni delle luminarie e prima ancora dei cerchi, noleggiati a caro prezzo e poi acquistati. Ma anche quelli delle determine di somma urgenza, tutte una virgola sotto i 40 mila euro, per lavori spesso assegnati alle stesse ditte.

    I cerchi luminosi, una delle costanti dei 10 anni di Occhiuto

    Un sistema che produsse un record difficilmente superabile: 61 determine firmate in una sola notte. Intanto la città cambiava volto. Dove prima c’erano strade nascevano piazze e slarghi pedonabili, sempre implacabilmente pavimentate con le stesse piastrelle. Il salotto cittadino si arricchiva di nuove statue, al fianco delle quali ogni tanto sorgevano pupazzi colorati a foggia di dinosauri o altri animali. In alcuni luoghi topici della città nascevano locali per giovani, animando spazi fin lì silenti: il sindaco poteva affermare con orgoglio di aver vivificato «una città che alle dieci di sera andava a letto».

    Il realismo magico

    È difficile comprendere la dinamica di fascinazione e consenso di cui Occhiuto è stato protagonista senza ricorrere a un riferimento culturale: il realismo magico, cioè la capacità di costruire trame narrative che mischiano e sovrappongono la realtà con l’immaginifico. Su questo piano l’ex sindaco è stato insuperabile. Ogni volta che faceva circolare sui social il rendering di un progetto, con le figure di abitanti gioiosi, i viali alberati, i palazzi bellissimi i cosentini cominciavano a sognare. Immaginavano loro stessi in quegli spazi idilliaci, trascurando di domandarsi come e quando quel sogno avrebbe trovato realizzazione.

    Particolare della statua di Alarico alla confluenza dei fiumi Crati e Busento

    Il sindaco architetto conduceva per mano i suoi cittadini nel mondo incantato della grafica digitale. E i cosentini, grati, lo premiavano con il loro diffuso consenso. Da qualche parte giacciono progetti di campi di calcio, tutti diversi e tutti buoni per catturare l’attenzione della città nei momenti del bisogno; ospedali che sembrano usciti da un film americano; perso in qualche cassetto c’è pure il progetto in cui la strada di viale della Repubblica sparisce in un sottopassaggio, mentre sopra c’è un rigoglioso viale alberato. Ma la scommessa più immaginifica resta quella della ricerca del tesoro di Alarico, per il ritrovamento del quale furono scomodati il politologo Luttwack e i droni israeliani. Questi ultimi per fortuna mai arrivati sulle rive del Busento.

    Le opere

    Le cose realizzate da Occhiuto nei dieci anni della sua amministrazione affondano le radici nell’epopea manciniana. È in quella fase storica che furono pensati i progetti di piazza Fera, del ponte di Calatrava, del Planetario. A Mario Occhiuto va il merito di averle realizzate, facendo sbiadire la figura del vecchio leone socialista e intestandosi le opere.
    Non senza qualche smagliatura nell’opera edificatoria. Il ponte di Calatrava è sorto (anche) grazie alle risorse destinate alla costruzione di case popolari. Lo hanno inaugurato – così ha denunciato l’ex assessore De Cicco – con il denaro che era stato stanziato per le periferie, mentre su piazza Fera pende come una scomunica l’indagine della Dda. Un capitolo a parte meritano le giravolte sulla metro e la realizzazione del viale del benessere, quello dove si registra il maggior tasso di maledizioni da parte degli automobilisti.

    Un momento della faraonica inaugurazione del ponte di Calatrava nel 2018
    Gli inciampi giudiziari

    Dieci anni da sindaco e una parte di essi da indagato. Le vicende personali e quelle legate al suo ruolo di sindaco si sovrappongono in una sequela impressionante di problemi sospesi con la giustizia: indagato per associazione a delinquere transnazionale; indagato per le spese personali con i fondi del comune; indagato per bancarotta fraudolenta, condannato in primo grado al pagamento di 262 mila euro per danno erariale. Con in più un marchio: essere il primo sindaco ad aver dovuto dichiarare il dissesto del Comune.

    L’assalto alla Regione

    Sono stati questi inciampi giudiziari a fermare la candidatura di Mario Occhiuto alla Regione, interrompendo una cavalcata sapientemente costruita e poi abbandonata per far spazio a Jole Santelli, verso cui aveva avuto parole da tragedia greca, prima di santificarla pubblicamente dopo la morte. Oggi la Regione l’ha conquistata per interposta persona, dal fratello Roberto. Non è la stessa cosa, ma ci si può accontentare.

    In questi dieci anni la frase più celebrativa del governo di Occhiuto è stata “Il bello è buono”, concetto con cui si il sindaco uscente spiegava che quello che a lui piaceva era certamente per ciò stesso anche giusto. Da oggi chi guiderà la città dovrà costruire un nuovo senso di bello. Quello che si lega col giusto.

  • Caruso vs Caruso, la spunta Franz: chi è il nuovo sindaco di Cosenza

    Caruso vs Caruso, la spunta Franz: chi è il nuovo sindaco di Cosenza

    Comunque sia, alla fine ha vinto un Caruso.
    Nelle Amministrative finalmente al termine, Cosenza ha vantato la particolarità di due contendenti a sindaco con lo stesso cognome. La prima poltrona di Palazzo dei Bruzi va a Franz Caruso.
    Una vittoria non facile per il campione di un centrosinistra a dir poco problematico, a cui si deve riconoscere il merito di aver saputo ricompattare il suo schieramento, che finora era diviso in due tronconi (quello che faceva capo a lui e quello che aveva scommesso su Bianca Rende) e di aver tirato dalla sua l’ex assessore occhiutiano Francesco De Cicco, a sua volta candidato sindaco nelle vesti di leader popolare e popolano.

    gallo_caruso_rende_decicco
    Franz Caruso sul palco del suo comizio finale insieme ad altri tre sfidanti del primo turno: Fabio Gallo, Bianca Rende e Francesco De Cicco
    Il vincitore: una vita da socialista

    Alzi la mano chi non ha trovato qualche riferimento a Franz Caruso nelle cronache cosentine e calabresi dell’ultimo ventennio almeno una volta alla settimana.
    Avvocato di lungo corso e big dei penalisti calabresi, Caruso è quel che la vecchia retorica definiva “principe del foro”. Appartiene alla generazione di legali successiva a quella “classica” e azzerata dall’anagrafe, di cui furono esponenti di primo piano Orlando Mazzotta, Ernesto d’Ippolito e Fausto Gullo.

    All’attività forense Caruso ha accoppiato sin da giovanissimo una passione politica viscerale, vissuta tutta sotto le insegne del garofano del vecchio Psi, poi della rosa di Nencini e di nuovo col garofano 2.0 dell’attuale Psi.
    Questa ambivalenza spiega gli spazi più che generosi accordati dai media all’avvocato cosentino, presenza fissa delle cronache giudiziarie e presenza frequente di quelle politiche, dove affiorava periodicamente in occasione delle elezioni.

    Da jolly ad asso da giocare

    Già: Franz Caruso è stato il jolly delle Amministrative cosentine, una carta sempre esibita da quell’asse del centrosinistra che fa capo a Nicola Adamo e Luigi Incarnato ma mai calata con convinzione. Accadde, ad esempio, nel 2011, quando la candidatura di Caruso spuntò nel caos politico che seguì la fine dell’amministrazione Perugini e rientrò nel giro di pochi giorni. Alla fine, il Pd dilaniato dalla lotta intestina tra Adamo e Mario Oliverio, confermò Salvatore Perugini.

    Mario-Oliverio-Nicola-Adamo
    Mario Oliverio e Nicola Adamo

    Anche nel 2016 emerse, più timidamente, la candidatura dell’avvocato. Ma durò secondi, perché quell’anno il centrosinistra riuscì a far peggio della tornata precedente. Addirittura, risparmiò a Mario Occhiuto la fatica del ballottaggio.
    Stavolta il jolly ha acquisito il valore di un asso, e da tale si è comportato. Con sole tre liste è riuscito ad arrivare al ballottaggio e ha dato un po’ di polvere agli altri avversari. Sia che avessero il suo stesso numero di liste (Rende) sia che, addirittura, avessero schierato interi quartieri (De Cicco e Civitelli).

    Dalla panchina al goal

    D’altronde non ci si improvvisa politici né avvocati. Chi lo ha visto in azione in Tribunale ne apprezza lo stile asciutto, tutto midollo e sostanza, con cui arringa i giudici e le corti senza averne quasi l’aria.
    Stesso discorso per la comunicazione politica: forte ma mai ridondante e con quel po’ di retorica che non guasta mai.

    Dopo anni di panchina politica, a volte sofferta a volte vissuta col sollievo di aver scansato il bagno di sangue, Franz Caruso è sceso seriamente in campo come centravanti di sfondamento. E ha segnato il goal decisivo, grazie anche a una strategia politica efficace.
    E a chi gli ha detto che rappresenta il vecchio ha fatto capire che neppure il suo avversario, l’altro Caruso, era nuovo: alle sue spalle ha altrettanti vecchi.

    Lo sconfitto

    Un volto giovane per una coalizione stagionata. Il vicesindaco uscente Francesco Caruso è un occhiutiano di lungo corso, che ha respirato politica sin da bambino attraverso i polmoni del papà, il compianto Roberto Caruso, che fu deputato di Alleanza nazionale nella seconda metà degli anni ’90.
    Mite, fine e garbatissimo, il giovane ingegnere è il classico bravo ragazzo di cui si innamorano le mamme con la speranza che i loro generi gli somiglino almeno un po’.

    Francesco Caruso è entrato a Palazzo dei Bruzi quasi in punta di piedi ed è rimasto tra i fedelissimi di Mario Occhiuto anche durante la fine prematura dell’amministrazione precedente, caduta per un golpe di corridoio sei mesi prima della scadenza naturale.
    Questa fedeltà politica gli è valsa prima la delega al decoro urbano (2017), poi l’ascesa a vicesindaco, dopo l’addio di Luciano Vigna, altra storica “spalla” di Occhiuto e, al pari di Caruso, proveniente dall’ex destra (quella vera).

    Le deleghe di questi anni

    I paragoni possono essere ingenerosi. Ma in politica si fanno e chi vuol azzardarne uno non può fare a meno di notare la differenza di stile tra i due “vice Mario”. Piuttosto forte e presenzialista Vigna, che ha gestito i conti di Cosenza per sette anni a botte di virtuosismi e rattoppi, molto pacato Caruso, a cui ora tocca la delega al Bilancio.
    E con altrettanta pacatezza Caruso gestisce altre due deleghe: Riqualificazione urbana e Agenda urbana, che sommate e tradotte significano Lavori pubblici.

    Francesco-Caruso-Mario-Occhiuto-Cosenza
    Francesco Caruso e Mario Occhiuto durante la campagna elettorale

    Difficile dire se Francesco Caruso sia una controfigura scelta dallo stato maggiore di Occhiuto per assicurare la continuità non solo dell’amministrazione ma anche del potere.
    Di sicuro, il giovane ingegnere ha dalla sua un’immagine neutrale, che gli è tornata preziosa durante le negoziazioni dell’estate. Non a caso, il nome e il volto di Francesco Caruso sono stati spesi con una certa sicurezza solo dopo che i mal di pancia (ad esempio, quello di Fdi, che aveva ventilato la candidatura Pietro Manna), i dubbi e i giochini erano cessati.

    Un vantaggio dilapidato

    Ed ecco che, grazie a sei liste agguerrite fino ai denti, il “vice Mario” è arrivato al ballottaggio in scioltezza, forte di 14 punti di vantaggio sul suo avversario diretto, il quasi omonimo Franz Caruso.
    Questo risultato prova per l’ennesima volta una regola non scritta della politica: le personalità non appariscenti (e quella di Francesco a volte sembra evanescente) piacciono agli addetti ai lavori e sono funzionali alle negoziazioni.

    Tuttavia, le personalità forti attirano di più gli elettori. E questo spiega come mai Francesco sia arrivato alla sfida finale soprattutto grazie al sostegno delle liste. Poi Franz, personalità più forte e per questo divisiva, è comunque riuscito a giocarsi meglio la partita.
    Essere vice paga. Ma non troppo.

  • BOTTEGHE OSCURE | Donne e lavoro, la rivoluzione dei gelsomini

    BOTTEGHE OSCURE | Donne e lavoro, la rivoluzione dei gelsomini

    “Riviera dei Gelsomini” è la denominazione a uso e consumo turistico che indica il tratto di costa della provincia di Reggio Calabria bagnato dal mar Ionio. Certo, il gelsomino è un bel fiore e il nome suona bene da abbinare a spiagge, località e attrazioni. Ma la motivazione della scelta è ben più profonda.

    Chi avrebbe mai detto, infatti, che un fiore piccolo come il gelsomino abbia dato vita a un’economia locale relativamente florida che, fino alla metà degli anni ’70 del ‘900, ha caratterizzato il paesaggio, la vita e la storia di intere comunità, iniziando da Villa San Giovanni ed espandendosi poi per tutta la costa ionica reggina fino a Monasterace.

    Il trailer del documentario dell’UDI Reggio Calabria sulle gelsominaie “La Rugiada e il Sole”, realizzato dalle giornaliste Paola Suraci e Anna Foti
    Fiori ricercati

    In questo territorio era possibile ammirare le distese di piantagioni in cui veniva coltivato il gelsomino. Dal fiore si ricavavano essenze ricercate per la realizzazione dei profumi ed altri prodotti. La maggior parte del raccolto di gelsomini, dopo la trasformazione in una pasta chiamata “concreta”, prendeva la strada della Francia, dove le tecnologie permettevano la sua lavorazione. I fiori più ricercati giungevano dalla Calabria e dalla Sicilia: nel 1945, il 50% del fabbisogno mondiale di gelsomini, con 600 mila kilogrammi prodotti, proveniva dalle province di Reggio Calabria, Messina e Siracusa.

    brancaleone-cartolina-gelsomini
    La raccolta del gelsomino a Brancaleone in una cartolina d’epoca

    Le zone costiere erano quelle che meglio ne favorivano la coltivazione. Ciò contribuì a svuotare diversi paesini dell’entroterra favorendo lo sviluppo della marina. È emblematico il caso di Brancaleone. Come evidenzia l’antropologo Vito Teti, era diventata «un’isola quasi felice soprattutto per la produzione del gelsomini, che consente alle famiglie un vivere più dignitoso rispetto alla miseria, alla povertà degli anni precedenti». Grazie alla “valvola di sfogo” del gelsomino e di altre produzioni come quella del bergamotto e del baco da seta, infatti, a Brancaleone l’emigrazione fu un fenomeno più lieve rispetto ad altri centri della zona.

    A capo chino

    A raccogliere i fiori erano le donne, in gran parte ragazze, le gelsominaie. La ragione era semplice: per raccogliere i fiori senza danneggiarli servivano mani attente e delicate. A dispetto della delicatezza necessaria alla raccolta, il lavoro delle gelsominaie era tutt’altro che leggero. Le testimonianze raccontano di alzatacce in piena notte per avviarsi a piedi, in gruppi di venti o trenta persone, e giungere nei campi per iniziare la raccolta quando ancora era buio, nel momento in cui il fiore era aperto. E la raccolta proseguiva per ore, sempre con il capo chino e la schiena curva, per un salario da fame che però era necessario per portare a casa il pane per una stagione.

    Il salario delle gelsominaie rappresentò per decenni un motivo di lotta e rivendicazioni. Le poche lire vennero man mano aumentate anche grazie alle significative lotte sindacali di cui le raccoglitrici di gelsomino si fecero portatrici dal secondo dopoguerra in poi. Giunsero anche ad un «Contratto collettivo 13 agosto 1959 per le lavoratrici addette alla raccolta del gelsomino della Provincia di Reggio Calabria». Il contratto collettivo, insieme ad alcune prescrizioni sulla retribuzione tra cui il pagamento dell’indennità di caropane e di un’altra piccola indennità per il trasporto fino al luogo di lavoro, prevedeva che «ad ogni raccoglitrice sarà corrisposta la somma di lire 195 per ogni chilogrammo di gelsomino raccolto in normali condizioni di umidità».

    2_Gelsominaie a lavoro_Collezione Iriti-Venanzio
    Gelsominaie al lavoro (Collezione Iriti-Venanzio)
    Dai centomila chili al collasso

    Quella del gelsomino calabrese era una produzione relativamente “recente”, risalente a circa un secolo fa. Nel 1933, ad esempio, il periodico L’Italia vinicola ed agraria annunciava con enfasi che la Calabria si apprestava «a diventare uno dei più grandi centri del mondo per la coltura di piante da profumeria». L’autarchica Italia mirava probabilmente a minare il “monopolio” francese della coltivazione del fiore. Dal 1930 al 1933 in Calabria vi erano ancora soltanto «25 ettari coltivati in via sperimentale con gelsomini, rose e gaggie», che avevano prodotto però centomila chili di fiori «eccellenti per ricchezza di profumo».

    A Reggio Calabria operava anche una «Stazione essenze» e la «Cooperativa fiori del sud», che riuniva i coltivatori dei fiori. Già allora si sottolineava la questione del bisogno di manodopera, visto che solo in alcuni mesi in 20 ettari avevano lavorato 250 raccoglitrici. Un numero destinato a crescere con l’aumento delle piantagioni fino a giungere, secondo le testimonianze, a circa 10mila addette. Col tempo sarebbe sorta una distilleria per l’estrazione dell’essenza del gelsomino anche a Brancaleone. Ma, a parte sparute esperienze, la produzione continuava ad essere legata soprattutto alla domanda estera. Quando fu possibile riprodurre sinteticamente alcune fragranze, l’economia del gelsomino collassò.

    In Parlamento

    La prolungata assenza da casa delle madri costringeva i bimbi delle gelsominaie a una vita di stenti. In tal senso l’assistenza istituzionale all’infanzia e alla maternità era cosa pressoché sconosciuta nei piccoli paesi della fascia ionica calabrese. Nel 1968 le dinamiche della vita grama delle raccoglitrici di gelsomini reggine vennero udite tra gli scanni di Palazzo Madama. Il 26 settembre in Senato si discusse la proposta di una «Concessione di un contributo straordinario di lire 13 miliardi a favore dell’Opera nazionale maternità e infanzia».

    argiroffi-web
    Emilio Argiroffi

    È il senatore comunista Emilio Argiroffi (1922-1998) – che di lì a qualche anno sarebbe stato relatore della legge sull’istituzione degli asili nido – a tirare in ballo le gelsominaie, le loro problematiche e quelle dei loro figliuoli. Secondo quello che sarà il futuro sindaco di Taurianova «gli infelici ragazzi spastici di Girifalco», «il figlio della raccoglitrice di olive di Oppido» come quelli delle gelsominaie del Reggino erano portatori di una serie di una serie di «marchi illiberali» che facevano di loro dei «minorati», condannati prima dalla natura e poi dalla società, e le vittime privilegiate «dello sfruttamento dell’uomo sull’altro uomo».

    In molti casi le gelsominaie erano costrette a portare le proprie creature «a lavorare nei campi di raccolta alle 2 di notte, e sono latori di specifiche sindromi di malattia da lavoro, come le convulsioni e le lesioni neuro psichiche provocate dall’aroma dei gelsomini». Solo alcune potevano contare sulla presenza di figlie più grandicelle cui affidare i propri lattanti.

    I primi servizi sociali

    Si usava “affardellare” e deporre la creatura incustodita ai margini del campo o ai piedi di un albero, nel caso delle raccoglitrici di olive. Ma in alcuni paesi, prosegue Argiroffi, erano le «vecchie invalide» – le cosiddette «maestre di lavoro» – a badare ai loro figli in condizioni pietose: «Trattenuti in un tugurio, seduti in terra o su una fila di panchetti, freddolosamente avvolti nei loro stracci. Durante tutto il giorno costretti a snocciolare litanie incomprensibili, si nutrono con un tozzo di pane o qualche patata».

    È grazie all’intensa attività di Rita Maglio (1899-1994) – antifascista, comunista, femminista impegnata per tutta la vita al sostegno delle classi sociali più umili e disagiate e tra le fondatrici dell’UDI (Unione Donne Italiane) calabrese – che si arrivò alla creazione dei primi servizi sociali a sostegno dell’occupazione femminile e della qualità di vita delle donne: asili, consultori familiari e servizi. A raccogliere la sua eredità fu la figlia Silvana Croce, che dalla fine degli anni ’60 s’impegnò per le donne braccianti. Croce evidenziò come il loro sfruttamento non riguardava solo le discriminazioni salariali, ma anche la mancata tutela della salute e della maternità.

    Damnatio memoriae

    Le donne dedite alla raccolta dei gelsomini in quelle lingue di terra da Bova a Monasterace e le raccoglitrici di olive della Piana condivisero le medesime problematiche e lotte per un salario più giusto e per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Ma a un certo punto, nel bel mezzo degli anni ’70, le loro strade si divisero.

    raccoglitrici_olive_calabria
    Raccoglitrici di olive in Calabria negli anni che precedettero la meccanizzazione

    Il passaggio alla meccanizzazione garantì alle raccoglitrici di olive la sopravvivenza. Mentre nel caso delle gelsominaie, le commesse cessarono e la vecchia fabbrica della “concreta” chiuse i battenti. Abbandonati i campi, con lo scorrere dei decenni anche la memoria di quell’attività gravosa e delle relative lotte s’infragilì fino a diventare labile, soggetta a dimenticanza. Su questo giocò pure il fatto che essendo un’attività praticata unicamente da lavoratrici donne, quella delle gelsominaie s’inserì nel solco dell’assenza o dell’esclusione quasi sistematica dalla narrazione dei fatti storici mainstream.

    Come scrisse la storica Angela Groppi «che le donne abbiano sempre lavorato, tanto all’interno quanto all’esterno della sfera domestica, è oggi un dato storiograficamente acquisito». Ma non è stato sempre così. Il recupero del cosiddetto “lavoro delle donne” soggetto a incertezze, tagli, omissioni è stato possibile grazie alla storia sociale, di genere, alla microstoria, all’oralità, alla trasmissione dei saperi da una generazione di donne all’altra.

    La Rugiada e il Sole

    In questa linea di pensiero e azione va a situarsi il prezioso lavoro dell’UDI di Reggio che, come spiega Titti Federico, ha portato alla realizzazione del documentario La Rugiada e il Sole: «È finalmente venuto a termine un lavoro, nato dall’idea di Lucia Cara e avviato diversi anni fa dal percorso di recupero della nostra identità: raccogliere, conservare e narrare direttamente dalle loro voci la vita e il lavoro delle gelsominaie. Da tempo seguiamo il nostro desiderio di colmare e trasmettere alle nuove generazioni quanto è accaduto e fa parte appieno del percorso di una comunità. Oggi ne consegniamo un tassello restituendo valore e memoria alle tante storie delle donne. Questo lavoro sarà parte integrante dell’archivio dell’UDI e apparterrà alla storia della Calabria».

  • Portaborse “portavoti”: la Regione e il ritorno degli amici

    Portaborse “portavoti”: la Regione e il ritorno degli amici

    Con l’insediamento del nuovo consiglio regionale uscito dalle urne il 4 e 5 ottobre si manda in soffitta l’undicesima legislatura della Calabria. Un’esperienza da record sotto molti punti di vista. La prima che ha visto una donna sedere sullo scranno più alto dell’Assemblea, Jole Santelli, scomparsa dopo neanche un anno dall’elezione. La prima legislatura nata e cresciuta in piena pandemia e durata appena 18 mesi (anche questa è una prima assoluta).
    Una esperienza da record anche per ciò che riguarda portaborse e co.co.co. Nell’ultimo anno e mezzo l’Ufficio di presidenza e le strutture del consiglio regionale sono costati la bellezza di 5 milioni 172mila euro.

    Gli incarichi lampo

    Facciamo due conti. Solo i lavoratori con contratti di collaborazione che nel 2020 si sono succeduti alle dipendenze dei gruppi consiliari sono stati 233 e sono costati 597mila euro. Nel 2021 qualcuno si è perso per strada e ne sono rimasti 179, per un spesa complessiva di 253mila euro. Tradotto in soldoni: 850mila euro in appena 18 mesi.
    La tipologia e la durata degli incarichi lasciano qualche dubbio: i più impegnativi durano 5 mesi, quelli più sbrigativi appena 17 giorni.

    Anche i compensi in questi 18 mesi oscillano parecchio. L’ultimo in classifica intasca 296€ contro i 17mila del primo arrivato che, ovviamente, è una vecchia conoscenza della tecnocrazia calabrese. Si chiama Flavio Cedolia, rendese, nel 2012 direttore generale di Fincalabra e commissario liquidatore dell’Arssa nel 2013.
    Fortuna che non ci sono malelingue e oppositori politici a commentare questi dati. Altrimenti avrebbero potuto interpretarli come una sorta di ricompensa post-elettorale per ripagare gli amici.

    Portaborse o portavoti?

    Nei corridoi di Palazzo Campanella c’è sempre stato un gran via vai di segretari, autisti, portaborse, collaboratori più o meno esperti. Gli ultimi 18 mesi non fanno eccezione. La legge consente agli eletti di assumere personale esterno pagato dalle casse pubbliche e i consiglieri non fanno altro che usare uno strumento del tutto legittimo. Chiarito questo punto, andiamo a vedere chi sono i collaboratori che hanno sostenuto un Consiglio convocato in poco più di quindici occasioni, quasi solo per gestire l’ordinaria amministrazione. E come in un elenco che dovrebbe comprendere tecnici o chauffeur la politica faccia spesso capolino.

    Mogli, mariti e possibili ripescaggi

    Non essendo stato riconfermato non potrà più accontentare i suoi grandi elettori, il consigliere uscente di opposizione, Graziano di Natale, che ci aveva mostrato come fosse possibile infilare nella sua struttura fino ad otto componenti con un compenso mensile variabile tra i 1400 e i 1700 euro.

    Tra segretari particolari, responsabili amministrativi, collaboratori esperti e autisti, in un anno e mezzo si sono succeduti Ilaria De Pascale, vicesindaco di Lago, Chiara Donato, consigliere comunale di Paola, Francesco Città, ex segretario del Pd di Paola, Vanessa Franco, presidente del consiglio comunale di Roseto Capo Spulico, Sonia Forte, ex assessore di Morano Calabro. Per tutti un lungo curriculum da esperti in campagne elettorali.

    graziano_di_natale
    Il consigliere regionale uscente Graziano Di Natale

    Resterà a casa anche il consigliere di minoranza Giuseppe Aieta e, come lui, anche il suo segretario particolare Matteo Viggiano. Quest’ultimo, consigliere comunale di Bonifati, dovrà rinunciare ad un mensile di 3.300 euro. Lascerà sul piatto 1.400 euro, invece, il sindaco di Acri, Pino Capalbo, prima autista poi promosso da Aieta collaboratore esperto. In passato per pochi mesi nella stessa posizione lo aveva preceduto sua moglie.

    Fuori dal risiko delle nomine a chiamata anche il consigliere uscente Dem, Carlo Guccione che lascia a casa l’assessore di Aiello Calabro, Luca Lepore. Niente di più facile, però, che Lepore venga ripescato dal neo-eletto Pd, Franco Iacucci, che di Aiello Calabro è sindaco.

    Si resta in famiglia?

    Chissà se la moglie dell’uscente Luca Morrone, Luciana De Francesco, appena eletta in quota Fdi, rinnoverà il contratto di collaborazione a miss Cotonella Calabria 2015, Annalisa Torbilio. Annovera nel cv anche una partecipazione a Temptation Island nel 2019. O se deciderà di mantenere l’ingegnere Santo Serra, già candidato alle amministrative di Cosenza del 2011 con i socialisti dell’avvocato Paolini. Poi deve essere rimasto deluso ed è passato dall’altra parte.

    De Francesco potrebbe inoltre contare su Paolo Cavaliere (vicesindaco di Fuscaldo), Pietro Lucisano (ex consigliere comunale di Rossano e consigliere alla Provincia di Cosenza) già “testati” dal marito come responsabili amministrativi al 50% e su due autisti d’eccellenza come Franco Piazza, che in Consiglio c’era già con papà Ennio, e Williams Verta, che si è fatto le ossa alla guida dei giovani di Forza Italia a Cosenza.

    Chi fa tris

    Nicola Irto si appresta ad inaugurare la sua terza legislatura consecutiva sotto le insegne del Pd. Se lo farà nel segno della continuità dovrebbe riconfermare per la terza volta consecutiva il suo autista Francesco Foti e l’ex coordinatore del Pd reggino, Girolamo Demaria, segretario particolare al 50%.

    Terzo ingresso a Palazzo Campanella anche per Mimmo Bevacqua, sempre Pd, che dovrà decidere se confermare i suoi storici collaboratori: l’autista Raffaele Morrone, (già consigliere comunale di Acri) e i segretari particolari al 50% Gianpaolo Grillo e Gianmaria Molinari, questo ultimo figlio del potente direttore generale della Provincia di Cosenza ai tempi di Oliverio, Tonino Molinari, poi sbarcato alla corte del sindaco Occhiuto fino alla dichiarazione di dissesto del Comune bruzio.

    domenico-bevacqua
    Mimmo Bevacqua

    Un giro nella struttura di Bevacqua in qualità di autista se lo è fatto pure Mario Aragona, segretario del movimento civico “Insieme Libera-Mente Insieme” di Montalto Uffugo vicino alla corrente Zonadem. Quella di Bevacqua, ovviamente. Come responsabile amministrativa spazio a Maria Luisa Cennamo, figlia del sindaco di Cetraro, Ermanno Cennamo. Per l’assessore del comune di Aprigliano, Giulio Le Pera, invece, il ruolo di segretario particolare al 50%, fresco di assoluzione dall’accusa di abuso d’ufficio nell’attribuzione di incarichi pubblici.

    I figli so’ piezz’e core

    Incetta di “parenti” per l’uscente Sinibaldo Esposito (Casa delle libertà) che ha ospitato Marco Polimeni, già consigliere comunale di Catanzaro e figlio del conduttore televisivo Lino, e Alessio Mirarchi, figlio del consigliere comunale di Catanzaro Antonio Mirarchi coinvolto nell’inchiesta Gettonopoli. Senza dimenticare Francesco Lobello, padre di Alessandra Lobello, assessore al Turismo sempre del comune capoluogo di Regione.

    Tra i collaboratori esperti fa capolino l’avvocato Nunzio Sigillo, parte del collegio difensivo nei processi Stige e Timpone Rosso. Di questi tempi, un buon penalista può fare comodo. Per tutti, una paga intorno ai 1.700 euro mensili.

    Giù dal Carroccio

    Non siederà più tra i banchi del Consiglio, Pietro Molinaro e così toccherà trovare nuova collocazione ai suoi ex collaboratori Antonio Mondeta, (presidente regionale di Lega Consumatori), al consigliere comunale di Acri in quota Lega, Marco Abruzzese, all’ex consigliere provinciale Lucantonio Nicoletti e a Carmine Bisignano, figlio dello storico sindaco di Bisignano, Umile, nonché fratello di Stefania Bisignano, candidata del Carroccio uscita sconfitta alla ultime comunali.

    Ha sfatato il vecchio luogo comune “donne al volate pericolo costante” il consigliere Giuseppe Graziano scegliendo come autista prima Giusi De Luca e poi la moglie di Diego Tommasi (ex assessore regionale all’Ambiente) Ester Bernabò. Alla corte di Graziano anche il collaboratore esperto recordman di “incassi” Flavio Francesco Cedolia.

    Il futuro

    Per la legge regionale 13 del 2002, (“le spese organizzative, di rappresentanza, di aggiornamento e documentazione, riconducibili esclusivamente agli scopi istituzionali riferiti all’attività del Consiglio regionale), ad ogni singolo consigliere spettano 8.159,76 Euro annui. In totale fa 1 milione e 264 mila euro in cinque anni.
    Con decorrenza 27 marzo 2020, l’ufficio di presidenza del Consiglio Regionale, inoltre, ha rideterminato il tetto massimo di spesa per il personale dei gruppi consiliari in 1.328.671,78 euro annui (42.860,38 euro a consigliere).

    Ancora non è dato sapere come si determinerà il prossimo consiglio regionale a riguardo. Ma, viste le sfide che ci attendono e le risorse del PNRR che dovrebbero arrivare, sarebbe forse utile, spendere più soldi per aggiornare il personale interno. Acquistare dotazioni tecnologiche magari, investire in formazione. Stabilire che nelle strutture dei consiglieri lavorino dipendenti regionali. E non ricompensare più i mestieranti delle campagne elettorali, siano essi grandi o piccoli elettori.
    Se il nuovo presidente eletto Roberto Occhiuto vuole che la Calabria sia davvero la regione “che l’Italia non si aspetta” potrebbe partire da qui.

  • Il racconto del supertestimone: «Così smaltivano i rifiuti radioattivi»

    Il racconto del supertestimone: «Così smaltivano i rifiuti radioattivi»

    Cosa resta di tutte quelle trame [LEGGI QUI LA PRIMA PARTE DELL’INCHIESTA]? Poco o nulla sotto il profilo processuale e giudiziario. Molto, sotto il profilo storico. Un contesto nebuloso, perché i protagonisti di quelle trame si muovono a livelli altissimi. Potenti multinazionali, Stati stranieri, faccendieri e centri di potere. E, ovviamente, la criminalità organizzata.

    Le indagini di due distinte autorità giudiziarie hanno potuto solo in parte delineare quel contesto, anche per la vastità dei territori toccati. Dalla Calabria alla Basilicata, passando per il Piemonte, se ci riferiamo solo al territorio nazionale. Ma con il coinvolgimento di uno Stato straniero, perennemente in guerra: l’Iraq.

    Il supertestimone

    Percorsi e intrecci pericolosi ricostruiti anche, qualche anno fa, dalla relazione della Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti, firmata da Gaetano Pecorella e Alessandro Bratti. Fili difficili da riannodare. Anche perché è difficile ricostruire il contesto affaristico-criminale di quel periodo a distanza di alcuni lustri.

    pecorella_rifiuti_radioattivi

    Nel caso dell’Iraq, i passaggi sulla presunta gestione dei centri Enea di Rotondella (Matera) e Saluggia (Vercelli) verranno tratteggiati da un funzionario dell’ente, Carlo Giglio. Questi chiederà espressamente alla polizia giudiziaria di essere sentito. Dopo aver appreso dalla stampa che la Procura di Reggio Calabria si stava occupando di traffici illegali di rifiuti radioattivi in Calabria.

    Il centro Enea di Rotondella

    L’impianto ITREC (acronimo di Impianto di Trattamento e Rifabbricazione Elementi di Combustibile) è un impianto nucleare italiano costruito tra il 1965 e il 1970 dal CNEN, Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare. Un centro che da sempre è gravitato anche nell’orbita statunitense.

    rotondella_rifiuti_radioattivi

    Il racconto di Giglio è inquietante. Secondo il funzionario, la registrazione degli scarti nucleari era truccata. Per rendere incontrollabile il movimento in entrata e in uscita di tutto il materiale radioattivo che doveva essere gestito presso tutti gli impianti nucleari. Agli atti della Commissione Ecomafie rimane anche la grande paura dell’ingegner Giglio. Con la sua opera ispettiva si attirerà anche le ire della proprietà dei centri Enea di Rotondella e Saluggia. Denunce per diffamazione e calunnia.

    Iraq e Calabria: una storia di armi e rifiuti

    Giglio parla poi di una presunta attività clandestina dell’Enea finalizzata a fornire tecnologia e materiale nucleare all’Iraq (12.000 kg di uranio), delle reazioni del governo americano e dei servizi segreti israeliani. Le dichiarazioni di Giglio agli atti della Commissione riguardano una presunta attività di fornitura da parte dell’Italia all’Iraq di armi da guerra (comprese navi) e di tecnologie nucleari.

    In quel periodo, peraltro, giunge anche la notizia che la nave Koraby, battente bandiera albanese e salpata dal porto di Durazzo con destinazione Palermo, era stata perquisita nella rada antistante Pentimele, a Reggio Calabria. il sospetto era che trasportasse materiale radioattivo. Scorie di rame di altoforno, in particolare.

    durazzo_porto
    Il porto di Durazzo

    La nave, giunta a Palermo, era stata respinta per radioattività del carico. Tuttavia, al successivo controllo presso il porto di Reggio Calabria, ove si era ormeggiata, la radioattività scompare dai rilevamenti. La nave aveva, perciò, ripreso la sua navigazione con destinazione Durazzo. L’inquietante ipotesi è che la nave si sia disfatta del carico radioattivo nel percorso tra Palermo e Reggio Calabria.

    Una joint venture internazionale, in cui, però, l’avamposto italiano sarebbe stato rappresentato dalle due principali organizzazioni criminaliCosa Nostra e ‘Ndrangheta. La scelta di Palermo come punto di riferimento per il traffico clandestino di materiale nucleare non è occasionale, ma mirata. Solo la mafia o le altre organizzazioni criminali operanti al Sud potevano garantire quella attività di copertura necessaria per tali traffici.

    pizzimenti

    «Altro aspetto inquietante del traffico illecito di materiale radioattivo concerne lo smaltimento effettuato, con la supervisione dell’Enea, da parte dell’Enel di rifiuti radioattivi la cui destinazione è a tutt’oggi ignota. Mentre la conferma che la Calabria è stata utilizzata come deposito illecito di materiale radioattivo è data dalla scoperta di una discarica abusiva di un tale Pizzimenti», si legge agli atti della Commissione Ecomafie.

    L’ingegnere Carlo Giglio

    Affermazioni riservate. Gravissime. Che tirano in ballo colossi industriali, Stati stranieri e centri di potere internazionali. Per questo, negli anni, si prova a proteggere Giglio, cui gli investigatori assegnano lo pseudonimo “Bill”. Un luogo chiave, quindi, sarebbe il centro Enea di Rotondella. Nelle sue affermazioni, Giglio-Bill sostiene la non corretta tenuta della contabilità all’interno del centro Enea di Rotondella tale da consentire l’uscita di rifiuti radioattivi erroneamente definiti “scarti”.

    siria_rifiuti_radioattivi
    Una nave carica di sostanze chimiche partita dall’Italia con destinazione ufficiale il Venezuela, ma approdata in Siria

    L’ipotesi investigativa paventa l’esistenza di un traffico illecito di rifiuti radioattivi (negli anni ’80/’90) destinati ai paesi del Terzo Mondo, in particolare Iraq, Pakistan e Libia, per la produzione di ordigni atomici. Tutto anche grazie all’insussistenza di un’effettiva ed efficace attività di controllo tra Enea ed Enel. Nonché la totale inefficienza della Nucleco, società costituita tra Enea ed Agip, per il trattamento dei rifiuti radioattivi.

    Iraq e massoneria deviata

    A detta di Giglio, infatti, anche l’Italia avrebbe disperso in mare le scorie radioattive: «L’Ente (Enea) è in grado di riferire dove, come e quando», afferma l’ingegnere-ispettore. Giglio diventa un testimone prezioso per le indagini congiunte delle Procure di Reggio Calabria e Matera. I risvolti investigativi delle inchieste sulle “navi dei veleni” e delle presunte trame attorno al centro Enea, infatti, vanno a intrecciarsi.

    Un ente, l’Enea, che, sempre secondo le dichiarazioni rilasciate da Giglio ai magistrati Francesco Neri e Nicola Maria Pace, sarebbe stato infiltrato dalla massoneria: «Proprio per il tramite della massoneria deviata i traffici illeciti del materiale nucleare e strategico o quelli relativi allo smaltimento in mare possono essere attuati nell’ambito dell’Ente ai massimi livelli e con la copertura più ferrea compresa quella con i servizi deviati, da sempre e notoriamente coinvolti in detti traffici».

    iraq_rifiuti_radioattivi
    Un passaggio della relazione firmata da Pecorella e Bratti

    Proprio partendo dalle dichiarazioni di Giglio, il procuratore di Matera, Nicola Maria Pace, farà acquisire una serie di documenti. Da cui risulterà che l’Italia, nel 1978, aveva ceduto all’Iraq due reattori plutonigeni Cirene. Accertando, poi, che presso la centrale Enea di Rotondella vi era la presenza continuativa di personale iracheno. Le accuse di Giglio, comunque, non saranno mai provate dal punto di vista processuale.

  • Nero di Calabria: Forza Nuova e vecchi fantasmi

    Nero di Calabria: Forza Nuova e vecchi fantasmi

    A Roma hanno fatto notizia, in Calabria ci riescono molto meno. Anche perché i numeri, al di là di tatuaggi e pose, sono quelli che sono. Il microcosmo delle formazioni di estrema destra ha comunque i suoi sparuti rappresentanti anche tra Praia a Mare e Melito Porto Salvo. Dopo i disordini della manifestazione no Green pass e l’assalto alla Cgil si fa un gran parlare di Forza Nuova. E, forse, a queste latitudini non è noto a tutti che nella Capitale, in alcuni casi con ruoli di primo piano, ci fosse in piazza anche qualche seguace calabrese di Roberto Fiore.

    I leader calabresi

    Fondato nel 1997, votato all’integralismo cattolico e ispirato alla Guardia di ferro rumena, il movimento di cui ora da più parti si invoca lo scioglimento è guidato in Calabria da un catanzarese dal nome evocativo e dal cognome ancor di più: Jack Di Maio. È il successore di Davide Pirillo, crotonese che è salito di grado come coordinatore Fn del Sud e che figura tra i firmatari del comunicato emanato dopo gli arresti dei leader nazionali e nel quale si avverte che «nemmeno lo scioglimento di Fn potrebbe invertire la rotta di quanto sta avvenendo e avverrà nelle prossime settimane».

    davide_pirillo_forza_nuova
    Davide Pirillo, tatuatore crotonese e coordinatore per il Sud Italia di Forza Nuova

    Di Maio il 9 ottobre scorso ha fatto sapere, davanti a un furgoncino in un anonimo autogrill, di essere pronto all’«ennesimo giorno di lotta» con i suoi «fratelli». Qualche ora dopo Pirillo ha postato un video da Piazza del Popolo commentando con un «NO GREEN PASS… DRAGHI BOIA!». Nei giorni immediatamente successivi alle Regionali ha esultato per il 62% di astensionismo crotonese dicendo che «ha vinto il popolo» e provando magari a intestarsi pure il (non) voto dei residenti all’estero.

    Contro i vaccini, covid o non covid

    Ad agosto di quest’anno, invece, l’attuale coordinatore regionale di Fn si era fatto già sentire sulla stampa locale, con non eccessivo clamore ma parlando addirittura di «resistenza», quando alcuni sanitari no vax furono sospesi dall’ospedale Pugliese-Ciaccio: «Nel caso di operatori della sanità, la resistenza al vaccino ogm obbligatorio dovrebbe quanto meno far riflettere tutti. Avviene, invece, che medici e infermieri siano considerati come i primi untori irresponsabili, quando, come è logico, si tratta invece di lavoratori consapevoli – e certamente non infetti – a cui si nega il diritto al lavoro per un particolare vaccino, il meno conosciuto in assoluto, cosa che non avviene, ad esempio, per altri sieri obbligatori».

    jack_di_maio
    Jack Di Maio, terzo da sinistra, con altri militanti di Forza Nuova

    Nell’estate del 2020, quando ancora non circolava il vaccino anticovid e lui non aveva ancora raccolto il testimone passatogli da Pirillo alla luce delle «sue qualità umane e di organizzatore», Di Maio se l’era però presa con l’allora governatrice Jole Santelli – si può immaginare con quali effetti – per un’ordinanza sul vaccino antinfluenzale rivolta a operatori sanitari e over 65. «Cavalcando l’ormai esigua psicosi generale da coronavirus – ammoniva – e sulla scia del capogruppo alla Camera di Forza Italia Maria Stella Gelmini, la destra calabrese, capitanata dal presidente di Regione Jole Santelli, persiste nel diramare inutili e allarmistiche ordinanze». Qualche mese dopo i forzanovisti del capoluogo avrebbero regalato un’altra prodezza in una strada nel quartiere Stadio a Catanzaro con lo striscione «Gino (cambia) Strada».

    gino_cambia_strada_forza_nuova

    Una sfida tra percentuali da prefisso telefonico

    Oltre ai seguaci di Fiore sull’asse Crotone-Catanzaro – e oltre alle varie sezioni territoriali di Casa Pound, con cui marcano spesso reciproche distanze all’ombra dello zero-virgola –  a Lamezia è attivo l’ex portavoce regionale di Fn Igor Colombo che è poi passato alla guida di Azione Identitaria Calabria. In queste ore sferza così l’informazione nazionale: «Dunque per il Tg Uno Roberto Fiore sarebbe un ex terrorista dei Nar. Ma lo sanno da quelle parti che i Nar negli anni che furono volevano uccidere Roberto Fiore? Ma che informazione si fa?».

    ciro_salvini
    Il reggino Vincenzo Ciro in uno scatto di qualche mese fa insieme a Matteo Salvini

    A Reggio è invece presente il “Fronte Nazionale” di Adriano Tilgher, guidato sul territorio da Vincenzo Ciro, ingegnere-segretario regionale che pur dichiarandosi fascista, ma «laico» e lontano dall’integralismo cattolico, in queste ore condivide le posizioni di Marco Rizzo e parla di «strategia della tensione». E lancia anche diverse frecciate ai camerati di Forza Nuova: «Se non lo avete capito… non sono i fascisti il problema, ma chi paga quelli che vi fanno credere di esserlo per delegittimare e ridurre i diritti». E ancora: «Perché colpire un sindacato morto e finito come la Cgil? Cui prodest? Non era il caso di azioni ed obiettivi più seri? Comunque complimenti, ora la Cgil è diventata vittima ed il popolo carnefice».

    Mappe in nero

    Per chi fosse amante del genere, da una mappa interattiva pubblicata da Patria Indipendente, il periodico online dell’Anpi che ha realizzato un’analisi arrivata a comprendere 2700 pagine Facebook, ci si può fare un’idea di quante e quali altre sigle della galassia dell’estrema destra italiana siano presenti in Calabria. E visitando le rispettive pagine social ci si può fare magari anche un’idea del seguito che hanno. Un’altra mappa interattiva l’ha realizzata il collettivo bolognese Infoantifa ECN che raccoglie e cataloga, dal 2014, tutte le segnalazioni facenti riferimento ad atti di violenza di matrice neofascista.

    Include un solo episodio calabrese risalente al 2016: l’incendio del portone d’ingresso della sede di un circolo Pd a Lamezia che però, almeno secondo la Polizia, sarebbe addebitabile a due ubriachi che all’epoca dissero di non far parte di movimenti politici. Un capitolo a parte, ben più ampio e meno folkloristico, lo meriterebbero gli intrecci più o meno noti tra eversione nera e massomafia che hanno attraversato la storia della Calabria. Ma è davvero un’altra storia.

  • Medicina all’Unical, una storia di baroni e campanili

    Medicina all’Unical, una storia di baroni e campanili

    Tutti applaudono, o quasi. Ora che il nuovo corso di laurea in Medicina e tecnologie digitali è una realtà, c’è la classica corsa a salire sul carro dei vincitori.
    Ha applaudito Mario Occhiuto, che sta per concludere il suo decennio alla guida di Cosenza. Hanno applaudito, sul versante rendese, il sindaco Marcello Manna e la sua assessora Lisa Sorrentino.

    Non applaudono i gruppi dirigenti e, soprattutto, le associazioni catanzaresi, alcune delle quali si sono spinte a chiedere la testa del rettore Giovambattista De Sarro per quello che percepiscono come uno “scippo” della classe dirigente cosentina, considerata “predatoria”.

    Applaude in maniera tiepida Sandro Principe, che già lo scorso febbraio aveva ammonito: «La strada è ancora lunga», per la creazione di una facoltà vera e propria. E aveva rimesso sul tappeto il problema del nuovo Ospedale di Cosenza e, soprattutto, della sede in cui realizzarlo. Che secondo lui non può che ricadere il più vicino possibile all’Unical. Cioè nella sua Rende. Ma accusare Principe di campanilismo, a questo punto, può risultare gratuito. Nella vicenda travagliata della scuola medica cosentina, infatti, i campanilismi che hanno pesato di più sono quelli tra Cosenza e Catanzaro.

    Un goal accademico

    I politici applaudono. Ma quella che si è patteggiata a febbraio col nulla osta ministeriale e si è conclusa a giugno con l’istituzione del nuovo Corso di laurea è una tregua in una “guerra” ultratrentennale tra le baronie universitarie di Catanzaro e Arcavacata, in cui l’Unical si è ritrovata in una posizione di vantaggio perché decisamente più attrezzata a livello hi tech rispetto alla Magna Graecia.
    Detto altrimenti, se Medicina e tecnologie digitali doveva essere, non poteva che essere all’Unical. Specie ora che il blocco ingegneristico-informatico ha preso il sopravvento con l’amministrazione del rettore Nicola Leone, luminare dell’Intelligenza artificiale.

    leone_unical
    Il rettore Leone durante l’inaugurazione del nuovo corso di laurea

    Questo risultato – senz’altro ragguardevole ma che non autorizza a cantare vittoria – è il frutto dell’impegno di Sebastiano Andò, fondatore e storico preside della Facoltà di Farmacia.
    Un impegno non facilissimo, vissuto tra gli umori cangianti della politica, soprattutto cosentina, e tra i contrasti d’interesse tra le baronie universitarie.
    Perché l’Università della Calabria colmasse in maniera seria la sua lacuna nel settore sanitario sono stati necessari altri due fattori. Il primo è l’indebolimento della vecchia classe politica che, tranne poche eccezioni, ha cincischiato. Il secondo, il cambio della guardia nelle strutture accademiche di vertice.

    L’inizio dei dissidi

    La prima a non credere troppo (e, in buona sostanza a non volerla) nell’istituzione di una Facoltà di Medicina all’Unical è stata proprio una parte della classe dirigente dell’Ateneo di Arcavacata, che temeva di perdere spazi e potere.
    Questo timore, in non pochi casi, era giustificato con una motivazione ideologica in parte vera: la diffidenza, di matrice un po’ salveminiana e un po’ gramsciana, verso le “pagliette bianche”, cioè i medici e gli avvocati, considerati non del tutto a torto una causa dell’arretratezza meridionale.
    In altre parole, si credeva che Medicina e Giurisprudenza avrebbero snaturato la vocazione progressista dell’Università della Calabria.

    Questo pregiudizio agevolò non poco la nascita del polo universitario catanzarese, che approfittò delle lacune dell’Unical per dotarsi, a fine anni ’70, di queste due facoltà. Che furono istituite come sedi staccate della Federico II di Napoli (Medicina) e dell’Università di Messina (Giurisprudenza).
    Questa intelligente autocolonizzazione fu il nucleo da cui sorse la Magna Graecia.

    La lunga marcia

    L’inversione di rotta è iniziata negli anni ’90 con l’istituzione di Farmacia ed è proseguita attraverso step difficili e combattuti.
    Il primo risultato consistente è stata l’istituzione della facoltà di Scienze dell’Alimentazione (2008). Fu il frutto delle pressioni accademiche di Andò ma anche dell’interlocuzione intelligente tra Sandro Principe, all’epoca assessore regionale alla Cultura dell’amministrazione Loiero, e Salvatore Venuta, fondatore e primo rettore della Magna Graecia.

    sebastiano_andò_unical
    Il professor Sebastiano Andò

    Tuttavia, il passo in avanti più forte lo ha fatto il preside di Farmacia, sceso in campo in prima persona nel 2011.
    Andò dapprima propose un Ordine del giorno al Consiglio provinciale di Cosenza sull’istituzione di Medicina all’Unical. L’assemblea provinciale votò all’unanimità l’iniziativa e Mario Oliverio, all’epoca al suo secondo mandato di presidente della Provincia, la sposò appieno.
    In seconda battuta, il prof di Arcavacata contattò direttamente i sindaci del Cosentino, da cui ottenne 143 delibere favorevoli all’istituzione della nuova Facoltà. Praticamente un tripudio.

    Lo stop di Scopelliti

    Purtroppo, territori e istituzioni seguono tempi e logiche diverse. Ne è un esempio il tentennamento di Peppe Scopelliti, all’epoca presidente di Regione, di fronte all’istituzione di un’altra facoltà medico-sanitaria presso l’Università della Calabria, cioè Scienze sanitarie, che si sarebbe dovuta realizzare attraverso un accordo tra l’Unical e la Sapienza di Roma.

    peppe_scopelliti
    L’ex presidente della Regione, Giuseppe Scopelliti, stoppò l’istituzione della facoltà di Scienze sanitarie all’Unical

    Catanzaro, in questa occasione, mise il bastone tra le ruote, con un’impugnazione al Tar sostenuta da Aldo Quattrone, all’epoca rettore della Magna Graecia. Vinse l’Unical, che poteva contare anche sul classico asso nella manica: lo sponsor “romano” dell’accordo con la Sapienza era allora il cosentino Eugenio Gaudio (per capirci, il quasi commissario alla Sanità calabrese), prossimo a diventare rettore.

    Le condizioni c’erano tutte. Mancò solo la firma di Scopelliti, che all’ultimo si tirò indietro. Campanilismo reggino? Forse. Ma tutto lascia pensare che nella retromarcia dell’ex governatore e commissario regionale della Sanità abbia avuto un ruolo non leggero il timore di inimicarsi la classe dirigente catanzarese, che tiene tuttora i cordoni della borsa in Regione.

    Il timore di Oliverio

    E probabilmente questo timore lo ha provato anche Oliverio, che durante la sua amministrazione regionale si è dimostrato piuttosto tiepido sull’ipotesi Medicina all’Unical.
    In pratica, ha funzionato sin troppo la regola non scritta del regionalismo calabrese, secondo cui si vince e si perde a Cosenza, ma si comanda sempre a Catanzaro.
    Scopelliti vinse grazie ai voti del Cosentino, anche di quei sindaci che firmarono entusiasti l’appello di Andò ma si frenò davanti alla classe dirigente catanzarese.
    Oliverio, primo governatore cosentino eletto direttamente dai calabresi, titubò di fronte al Pd del capoluogo regionale.

    Se le cose stanno così, non si va lontani dal vero a pensare che la situazione si sia sbloccata grazie al declino della classe politica calabrese.
    Non è un caso che, proprio nel 2018, il Dipartimento di Farmacia dell’Unical abbia avuto il riconoscimento del Miur per l’Area medica. E che, nello stesso periodo, la specialità delle Professioni sanitarie sia entrata nel bottino dello stesso dipartimento.
    Quindi il Corso di laurea in Medicina e tecnologie digitali è il primo punto d’arrivo di un percorso piuttosto lungo e ancora da finire.

    I campanilismi tra Cosenza e Rende

    Una seconda contesa campanilista si è messa di mezzo nel percorso verso il Dipartimento di Medicina: quello tra Cosenza e Rende. Questa contesa ha per oggetto il nuovo Ospedale Hub di Cosenza, più precisamente la sua collocazione.
    Le classi dirigenti rendesi vorrebbero realizzare in nuovo nosocomio nei terreni vicino all’Istituto agrario d’oltre Campagnano, che sono di proprietà della Provincia e quindi non dovrebbero neppure essere espropriati.
    Questo progetto risale al 2006, ai tempi dell’amministrazione di Umberto Bernaudo. E si basa sulla integrazione totale tra Ospedale e Unical.

    nuovo_ospedale_cosenza
    Il progetto per il nuovo ospedale presentato nel 2016 da Mario Occhiuto in campagna elettorale

    Le risposte cosentine sono state più articolate. La prima è stata avanzata durante la sindacatura di Salvatore Perugini e prevede la costruzione del nuovo Ospedale a Donnici. Le altre proposte, corroborate da studi di fattibilità approfonditi (e costosi), hanno corretto il tiro verso il centro città. Cioè Vaglio Lise (tra l’altro zona della Stazione ferroviaria), Colle Mussano e comunque un’area a metà strada tra l’Ospedale dell’Annunziata e il Mariano Santo di Mendicino.
    Ma il legame tra nuovo Ospedale, inteso come struttura fisica, e Dipartimento di Medicina è considerato imprescindibile solo dalla classe politica.

    Un problema politico, ma anche medico

    Infatti, secondo Andò, il problema è piuttosto di scuola medica: «L’Ospedale, prima che una struttura edile, è una comunità di professionisti. Cosenza, in cui non mancano dei grandi medici, sconta un problema serio: la classe sanitaria più anziana d’Italia». Un modo elegante di dire che occorre un turn over e, soprattutto, una classe medica più giovane, capace di conciliare la ricerca e la professione.
    Se questo turn over ci sarà, si potranno realizzare le cliniche. Altrimenti, per il momento va bene il modello “cogestito” tra Magna Graecia e Unical: i primi tre anni ad Arcavacata per la teoria e gli altri tre a Catanzaro per le cliniche.

    Ad ogni buon conto, il primo passo è stato fatto. Ed è un passo importante, al netto di ogni campanilismo: per soddisfare i fabbisogni della Sanità calabrese servirebbero trecento medici in più. E l’Ateneo di Germaneto ne produce sì e no cento all’anno.
    Una formazione sanitaria diffusa potrebbe aiutare non poco tutto il territorio regionale. Quindi, non Arcavacata “contro” Germaneto ma Unical e Magna Graecia. Quando lo si capirà a dovere, si passerà dalla tregua alla pace.

  • Il valzer del ballottaggio a Cosenza

    Il valzer del ballottaggio a Cosenza

    Eccoci, iniziato il valzer del ballottaggio a Cosenza. Scaduti i termini per gli apparentamenti. Nessuno ha raggiunto un accordo ufficiale.
    La sfida a due ha ringalluzzito il candidato del centrodestra, Francesco Caruso. Che ha attaccato frontalmente il candidato del centrosinistra Franz Caruso.
    Ma la domanda che tutti si pongono è: Cosa farà Francesco De Cicco?

     

    De Cicco fa gola a tutti

    I voti non sono pacchi postali. Una di quelle frasi retoriche che si sentono a tutte le latitudini. Un po’ tutti pensano che Francesco De Cicco abbia la possibilità di incidere molto sul suo elettorato. Forte anche dei molti voti in più presi rispetto alle liste. Sta ancora giocando ad alzare il tiro e il prezzo politico. Ha rotto ufficialmente con Occhiuto pur restandone assessore in Giunta. Però le sirene del centrodestra sono convincenti, soprattutto quando hai il presidente della Regione dalla tua parte. Su una cosa non dovrebbero esserci dubbi: tra le deleghe che chiederà De Cicco per militare da una parte o dall’altra non mancheranno – pur desiderando di essere vicesindaco – la solita Manutenzione, pure Welfare, centro storico e quartieri. Una nuova versione di Popilian Texas Ranger, come amava definirsi su Facebook qualche anno fa.

    Tra democristiani ci si capisce

    Sulla collocazione di Franco Pichierri non dovrebbero esserci dubbi. Tifoso del proporzionale e della alleanze a geometria variabile. In questa sfida per Palazzo dei Bruzi dovrebbe essere al fianco di Francesco Caruso. Le lodi a Roberto Occhiuto e le parole di apprezzamento per la vittoria alla Regione del capogruppo di Forza Italia alla Camera, non lasciano troppi dubbi.

     

    Civitelli non ha scelto

    Francesco Civitelli non è ancora pervenuto. Da qui a poco dovrebbe comunicare le sue intenzioni, al termine di una consultazione con i suoi candidati al consiglio comunale. Per sua stessa ammissione è stato il più manciniano dei candidati a sindaco in lizza. Un manifesto che ha agitato anche tante polemiche lo conferma. Se due più due fa quattro dovrebbe sostenere l’avvocato socialista Franz Caruso. Siamo sul terreno del condizionale. Ancora.

     

    Sì, no, ancora sì. Formisani confuso

    L’appoggio o non l’appoggio? Ma sì. La posizione di Valerio Formisani, il candidato a sindaco più a sinistra, è cambiata nel giro di pochi giorni. Dopo un iniziale possibilità di sostenere Franz Caruso, si era espresso polemicamente contro. Alla fine ha scelto di non favorire il candidato del centrodestra.

     

    Rende e grillini con Franz

    Finite le acredini del primo turno, il fronte del centrosinistra prova a compattarsi. Bianca Rende non parla di posti in giunta ma solo di programmi e progetti in comune con Franz Caruso. Si allinea pure il Movimento 5 stelle. Sul punto è intervenuto il deputato Massimo Misiti, che ha coordinato le campagne elettorali dei grillini in Calabria.

     

    Franz convince l’ultracattolico Gallo

    Senza esitazioni. Fabio Gallo, a capo del Movimento Noi, ha espresso un chiaro endorsement per Franz Caruso. Pur essendo un cattolico di orientamento centro-destra, ha deciso di sostenere il penalista.
    La Lega dirama un comunicato stampa. Solo per dire: stiamo con Francesco Caruso al ballottaggio. Ma perché ribadirlo pur essendo già insieme al primo turno? Misteri del Carroccio.