Giunta nuova, nomi vecchi a Cosenza? In larga parte sì. Quattro assessori, che oggi sono al fianco di Franz Caruso, erano in maggioranza con Mario Occhiuto. Il più noto è Francesco De Cicco, l’unico ad essere in Giunta prima. Gli altri sono Pasquale Sconosciuto, Mariateresa De Marco e Massimiliano Battaglia. I tre erano consiglieri comunali.
Maria Teresa De Marco
Pasquale Sconosciuto
Francesco De Cicco
Massimo Battaglia
Il vice sindaco in quota Boccia
Il Partito democratico porta a casa, come da indiscrezioni, il vicesindaco con Maria Pia Funaro. Per lei anche le deleghe all’Ambiente e al Territorio. Capolista e seconda eletta nelle file del Pd, è stato Francesco Boccia in persona a indicare il suo nome a Franz Caruso e a spingere perché i tentativi di preferirle Damiano Covelli andassero a vuoto. Non è andata, comunque, male a Covelli. Porta a casa un super assessorato: Lavori Pubblici; Viabilità e Trasporti; Mobilità; Organizzazione, Innovazione e Risorse Umane. La vicenda Amaco, una questione spinosa per il prossimo esecutivo, sarà pure di sua competenza. Resta questo boccone amaro del vicesindaco e si percepisce. Stamane era praticamente attaccato al primo cittadino, quasi a voler comunicare che il suo ruolo va oltre la dimensione amministrativa.
Il sindaco di Cosenza, Franz Caruso e il vice sindaco Maria Pia Funaro
Gli altri assessori
Due posti in Giunta per la lista Franz Caruso sindaco. Massimiliano Battaglia ha le deleghe al Commercio, Artigianato e Attività produttive. Mentre Maria Teresa De Marco, ex consigliere delegato alla Sanità con Occhiuto, questa volta si occuperà della stessa materia ma da assessore.
Scontate le deleghe a Francesco De Cicco: Manutenzione e Polizia Municipale. Per il suo fedele compagno Pasquale Sconosciuto: Verde Pubblico, Servizi al Cittadino, Quartieri e Frazioni.
Urbanistica ed edilizia vanno a Pina Incarnato in quota PSI. Figlia di “Giggino”, consigliere politico più fidato del primo cittadino. Pare che lo segua ovunque e lo marchi stretto a Palazzo dei Bruzi, raccontano dalla stessa maggioranza di Franz.
Primo volta in Giunta a Cosenza per il Movimento 5 stelle, dopo il gran rifiuto di Bianca Rende. Veronica Buffone si occuperà di Attività istituzionali, Protezione Civile, Legalità e Puc.
Disastro finanziario ma non andrà in Procura
«Non è un dissesto ma un disastro finanziario» quello trovato dal sindaco Caruso nel Comune di Cosenza. Non a tal punto da recarsi in Procura e consegnare le carte ai magistrati. Franz Caruso ha detto esplicitamente che non lo farà. Terrà per sé la delega al Bilancio per poi affidarla a un tecnico di valore. La materia e le finanze di Palazzo dei Bruzi fanno tremare i polsi. Esiste una soluzione politica? L’attuale sindaco spera nello Stato centrale, perché possa farsi carico di questa situazione insostenibile. E cerca alleati importanti come il sindaco di Napoli. Governare sarà davvero impresa difficile senza una qualche misura salva-Cosenza.
Per ora testa bassa e lavorare. Franz lo ha detto con due parole: «È una Giunta operaia».
Sono in molti oggi a denunciare che gran parte della classe politica locale è poco colta ed egoista. Afflitta da quei mali indicati da Banfield, persegue solo gli interessi particolari e non quelli della comunità, con conseguenti effetti disastrosi nella gestione del bene pubblico e della vita politica. La difesa dell’interesse comune è attuata prevalentemente in caso di vantaggio personale e la trasgressione delle regole è prassi comune e garantita dall’immunità. Molti “politicanti” tendono alla migrazione nei partiti più forti del momento, determinando così l’instabilità delle forze politiche e delle amministrazioni; una volta eletti, cercano di assicurarsi vantaggi materiali a breve termine e sono portati a ricambiare con favori coloro che li hanno votati e a penalizzare gli avversari.
La 285 e un popolo di bibliotecari
Si dice che gli amministratori odierni sono incapaci e per questo motivo Cosenza ha perso l’importanza che aveva negli anni trascorsi, centralità determinata da parlamentari che le davano lustro e prestigio. Mancini e Misasi, i più noti politici cosentini, avevano svolto importanti incarichi di governo e coperto ruoli di dirigenza nazionale nei rispettivi partiti. I giudizi di alcuni storici locali su questi due leader sono stati lusinghieri dimenticando che anch’essi non erano estranei a una politica clientelare e familista, che le loro segreterie erano affollate da gente che chiedeva favori.
L’ex ministro e segretario del PSI, Giacomo Mancini
Erano tempi di «vacche grasse». Grazie alla legge 285, ad esempio, negli uffici della città si moltiplicarono impiegati e funzionari. La Soprintendenza per i Beni Culturali e l’Archivio di Stato furono arricchiti da un tale numero di dipendenti che non si riusciva a collocare negli uffici per mancanza di stanze, sedie e scrivanie. Presso la Biblioteca Nazionale oltre cento impiegati dovevano occuparsi di un patrimonio di appena seimila libri e su alcuni quotidiani come Repubblica si scriveva che i cosentini erano diventati un popolo di bibliotecari!
L’ex ministro democristiano Riccardo Misasi
Le responsabilità dimenticate
Molti rimpiangono i politici del passato dimenticando la loro responsabilità riguardo allo scempio edilizio. Le riflessioni degli addetti ai lavori sulle vicende urbanistiche della città sono state superficiali e addomesticate. In un volume curato dal Dipartimento di Pianificazione Territoriale dell’Università della Calabria, si leggono generiche considerazioni sui piani regolatori e solo in pochissimi scritti emergono critiche alla classe politica. Sabina Barresi ricordava che Cosenza viveva una profonda crisi di identità e che la crescita, senza alcun disegno urbanistico, aveva causato la perdita dei confini urbani e la creazione di «spazi muti contenitori del disagio».
L’inizio del ponte Pietro Bucci all’Università della Calabria
Tali trasformazioni, succedutesi nel tempo, non erano state indotte da pressioni economiche, ma da atti di volontà politica. Faeta aggiungeva che la città era stata abbandonata alla prepotenza della logica di mercato e che solo amministratori responsabili, dotati di idee chiare e capacità di progettazione, avrebbero potuto evitare una espansione edilizia tanto devastante.
Degrado nel popoloso quartiere di Via Popilia a Cosenza
Nel corso del tempo, l’incontrollato aumento delle costruzioni, ha annullato i confini e così il capoluogo si confonde con i paesi limitrofi e si assiste alla fuga dei cittadini dal centro. Al saccheggio della città hanno partecipato tutti. Quando si decise di smantellare la vecchia stazione ferroviaria e costruirne una nuova nella decentrata contrada Vaglio Lise nessuno ha protestato. Col senno di poi, si critica quella scelta sciagurata riconoscendo il danno irrimediabile arrecato a Cosenza. La vecchia stazione si trovava in pieno centro mentre la nuova non è che un ecomostro semi-abbandonato, dalle pareti scrostate e cadenti, da cui partono e arrivano solo pochi treni per Paola e Sibari.
Si tratta di una struttura in calcestruzzo armato, con ben sette binari per i viaggiatori e tre per il servizio merci, dotata di palazzine e di un enorme atrio adatti per una metropoli. Al viaggiatore appare come una spettrale cattedrale nel deserto, lontana dalla città e mal collegata, con parcheggi sotterranei bui e sporchi. Oggi si discute se abbattere questo inutile quanto orribile mausoleo.
La città degli avvocati
I politici di oggi non posseggono carisma, non ricoprono incarichi di rilievo nel governo centrale, non sono conosciuti sul panorama nazionale, ma il loro modo di intendere la politica non è molto diverso da quello dei loro predecessori. Del resto molti di loro sono figli o parenti di quei politici, altri sono cresciuti nelle segreterie o «correnti» di partito. Tutti appartengono a quella piccola e media borghesia impiegatiziae del lavoro autonomo che teneva saldamente il potere in città e che, come scriveva Gramsci, si rivelava incapace di svolgere un qualsiasi compito storico.
Tra le categorie professionali che hanno condizionato maggiormente la vita cittadina, emerge quella degli avvocati. Piovene, alla metà del Novecento, si meravigliava dello «spettacoloso» numero di legali di Cosenza che condizionava perfino i ritmi della vita sociale: in città si faceva colazione tardi perché i legali comparivano in tribunale fra le undici e mezzogiorno. Oggi il numero degli avvocati è addirittura aumentato. Quasi ogni portone mostra la targa di uno studio legale, a volte si tratta di studi associati dove lavorano sino a dieci professionisti.
Presso l’Ordine degli Avvocati di Cosenza, qualche anno fa risultavano iscritti 1067 avvocati al settore civile ed affari giudiziari, 538 a quello penale e 188 a quello tributario-contabile-amministrativo, per un totale di 1793 professionisti. A questa cifra bisognava sommare le centinaia di dottori praticanti e i giovani laureati in giurisprudenza che, di fronte alla concorrenza spietata e all’impossibilità di avviare un proprio studio, sceglievano altre carriere.
L’ingresso del tribunale di Cosenza
Lo stupore degli stranieri
I viaggiatori stranieri che nel corso dei secoli visitarono Cosenza erano colpiti dall’ambiguità e dalla doppiezza dei loro «anfitrioni altolocati». Tavel agli inizi dell’Ottocento scriveva che quando avevano interesse a persuadere qualcuno, usavano astuzia e maniere striscianti e, se non si aveva esperienza della perfidia di cui erano capaci, si rimaneva puntualmente beffati; dotati di grande talento nel giudicare il carattere delle persone, estremamente furbi e adulatori, non risparmiavano alcun mezzo per raggiungere i propri fini.
De Custine affermava che erano allo stesso tempo gli uomini più falsi e più sinceri che aveva conosciuto: quando l’interesse lo esigeva mentivano con tanta finezza e abilità da far apparire vero il falso; mostravano un’ingenuità disarmante, che faceva paura quando si scopriva che era menzognera e lontana dall’innocenza. Ogni volta che conversava con i calabresi il francese era confuso non riuscendo ad afferrare il loro reale pensiero. Capitava che essi accusavano un uomo per infamarlo e contemporaneamente lo giustificavano, che ne criticavano le azioni aggiungendo che in fondo il suo scopo era lodevole: in sostanza, dopo aver dimostrato la meschinità del malcapitato, ne diventavano avvocati difensori. Per qualsiasi estraneo era praticamente impossibile riconoscere la verità in contraddizioni così artificiosamente combinate.
Chiacchiere e ricerca di visibilità
Padula definiva eruditi e politici cosentini «eloquenti chiaccheroni». Vantavano una formazione classica, dirigevano le Società Economiche preposte a promuovere lo sviluppo di agricoltura e industria, ma non distinguevano un’erba da un’altra, sprecavano tempo e parole perdendosi in astratte generalità senza che arti ed industrie se ne avvantaggiassero. Sempre Padula, il 9 marzo 1864 scriveva: «Far visite e ricevere visite dall’autorità, accompagnarle al teatro e al passeggio, correre ogni mattino ad informarsi della salute del loro signore e delle loro gatte è la massima delle sue felicità… Signor Intendente, signor Generale, signor Giudice, mi permetta che prenda un sigaro; e dice questo a voce alta, perché la gente che si trovasse sulla via sapesse ch’egli era amico del Giudice, del Generale e dell’Intendente».
I partiti si dividono perfino la toponomastica
I rappresentanti della piccola e media borghesia cittadina, militando in diversi partiti, si sono fronteggiati per governare la città e, tuttavia, sono stati sempre coesi come ceto sociale. Ciò è evidente anche nella scelta dei nomi con cui intitolare strade e piazze. A parte alcuni nomi «ad effetto», come quelli di Andy Warhol, Keith Haring o Jean-Michel Basquiat, sconosciuti alla maggior parte della popolazione e forse agli stessi amministratori, le altre scelte sono il frutto della spartizione tra i vari partiti politici.
Chi ha proposto la nuova toponomastica, ha sottolineato di avere selezionato nomi noti e meno noti di persone che hanno lasciato un segno nella vita della comunità a prescindere dall’appartenenza politica. Entrando nel merito, si trovano politici e professionisti responsabili del caotico sviluppo edilizio e della gestione clientelare e familistica della cosa pubblica.
La tendenza ad affermare il primato del proprio gruppo sociale nella storia è un processo iniziato molto tempo fa. Vie e piazze della città erano in passato dedicate ai mestieri e al commercio che vi si svolgeva. C’erano vie e piazze dei Cordari, dei Casciari, delle Concerie, degli Orefici, dei Mercanti, dei Sartori, dei Pignatari, dei Sellari, dei Forni, dei Pettini, della Neve, delle Uova e dei Follari. Nel settembre del 1898, la Commissione Municipale di Cosenza composta da legali, insegnanti e ingegneri, comunicava di aver cambiato la denominazione di alcune strade e piazze perché le intitolazioni «consigliate dal popolo» erano «volgari e poco simpatiche».
«Vuole risolvere il problema del traffico a Cosenza? Servono trenta vigili e dieci carroattrezzi», ride della propria idea draconiana Giuseppe Scaglione, docente di Urbanistica presso l’Università di Trento. Magari non basta, perché il problema è più complesso e il professore lo sa, però ha ragione visto che da «Trento a Cosenza, la tentazione dell’automobilista medio è quella di trasgredire». Insomma è anche una questione culturale e temere sanzioni può aiutare ad assumere comportamenti più civili e a non lasciare la macchina in doppia fila per andare al bar.
Sosta selvaggia genera caos
In realtà la questione esige uno sguardo più lungo, che per Scaglione è mancato e che deve partire dall’analisi dello stato delle cose. «Cosenza non è come Rende, che attraverso il piano regolatore dell’architetto Malara ha lunghe e larghe strade principali con altrettante ampie corsie trasversali» spiega Scaglione. Il capoluogo, aggiunge, è cresciuto in modo caotico, saltando ogni programmazione. Ed oggi si trova con i pochi assi viari direzione nord-sud e trasversali strettissime e inaccessibili per la sosta selvaggia. La città si è sviluppata in modo eccessivo rispetto le sue reali esigenze abitative, consumando suolo, ma senza poter adeguare alla crescita la sua rete viaria. La conseguenza è il caos.
Trasporti pubblici inaffidabili
A questa condizione di partenza va sommato il disastro del servizio pubblico. «A Cosenza il servizio di trasporto pubblico si può dire inesistente. Mancano o non sono rispettate le corsie riservate, la puntualità dei mezzi nei loro percorsi è del tutto inaffidabile, mentre a Trento, per esempio, ci si potrebbe regolare gli orologi per la loro precisione».
A Cosenza a governare la mobilità durante la giunta Occhiuto è stato Michelangelo Spataro. Se gli si domanda un parere sulla viabilità subito ci tiene a spiegare che sono due cose diverse. «C’è un equivoco, io mi sono occupato di trasporto pubblico, non di strade», dice mettendo le mani avanti. Ovviamente è stato uno dei protagonisti della stagione politica appena conclusa e difende la scelte compiute dalla giunta di cui era parte. Per esempio la decisione di chiudere via Roma, che oggi alimenta un acceso dibattito – con tanto di sit-in previsto per oggi pomeriggio – dopo l’ipotizzata volontà del sindaco Caruso di riaprirla al traffico.
Tutta colpa della Lorenzin?
«Noi rispondemmo a una lettera dell’allora ministro Lorenzin che chiedeva di chiudere al traffico gli spazi antistanti le scuole e quelle di via Roma erano le più esposte all’inquinamento dell’aria e acustico, con le sirene delle ambulanze che entravano nelle aule dei bambini». Di qui la decisione di chiudere quell’area, con un appalto che Spataro assicura fu pochissimo costoso, ma che chi ha buona memoria ricorda fosse di 300 mila euro. Oggi quel posto è uno dei punti di impazzimento del traffico.
La sede dell’Amaco, la municipalizzata che si occupa del trasporto pubblico locale a Cosenza
Se il nodo più stretto da sciogliere che riguarda la mobilità cittadina è il trasporto pubblico, Spataro assicura che l’Amaco «tutto sommato sta bene, che molti dipendenti sono andati in pensione, sgravando l’azienda di costi e i nuovi assunti sanno di prendere solo mille euro». La strategia di rilancio pare dunque quella di pagare meno quelli che vi lavorano, mentre i debiti complessivi viaggiano più veloci dei mezzi dell’azienda: sui 12 milioni circa.
Un parcheggio in controtendenza
Senza un servizio pubblico vero, la città è destinata a restare assediata dalle auto, non solo dei residenti, ma anche dei moltissimi che arrivano nel capoluogo che mantiene una sua centralità in termini di uffici e commercio. La soluzione sarebbero anche più parcheggi, «ma non solo come quello di piazza Bilotti – spiega ancora il professor Scaglione – posto nel cuore di Cosenza. Ormai da tempo, in molte città, i parcheggi di grandi dimensioni vengono concepiti ai margini delle città, sono dei terminali della mobilità dai quali si raggiunge il centro con navette».
La città green che ancora viene raccontata da alcune graduatorie di cui l’ex sindaco si inorgoglisce in realtà non esiste. «Cosenza ha eroso spazi verdi, per esempio nell’area campione intorno alla sopraelevata di via Padre Giglio, che il nuovo sindaco dicono voglia abbattere: oggi sono 44 gli ettari di terreno edificato e solo 20 destinati al verde. Forse sarebbero da abbattere un po’ di edifici e non la sopraelevata» dice Scaglione. Legambiente dice cose diverse, ma i dati sui quali si costruiscono quelle classifiche sono in gran parte forniti dai comuni, come Legambiente stessa ammette. Insomma me la canto e me la suono.
O si programma o si muore
La strana vicenda di Viale Parco non poteva rimanere fuori da questo tema. Il mito della metro leggera si è perso strada facendo. Anche perché, come spiega il docente «quella idea è sorpassata rispetto alle aspettative di fruizione, esattamente come è accaduto altrove, per esempio a Messina, perché il flusso di passeggeri giornalieri non giustifica l’investimento». Resta il dilemma: riaprirlo al traffico? «Come per il tratto chiuso di via Roma, sarebbe solo un palliativo. La soluzione è la programmazione complessiva del sistema città-mobilità, con una visione unitaria, che non c’è stata. Si sono chiuse strade senza mai creare alternative vere». Però per Scaglione potremmo salvarci e non morire di traffico. Toccherà al nuovo sindaco programmare il futuro, grazie alle ingenti risorse del Pnrr e progettare una città diversa, basata su una mobilità intelligente capace di coniugare la vivibilità degli spazi con la necessità di spostarsi.
I dati Istat che registrano la popolazione residente in Calabria parlano chiaro: dopo una crescita pressoché costante sino al secondo dopoguerra e la stabilizzazione tra gli anni Cinquanta e Novanta, a partire dal 1991 l’andamento è decrescente. E dal 2010 nella nostra regione è cominciata una costante caduta, che pare inarrestabile.
La Calabria non cresce dal 1951
A confronto con le variazioni della popolazione italiana, quella calabrese registra in una sola occasione un divario positivo, nel censimento del 1951. Per il resto, il saldo ha assunto per ben tre volte valori negativi: nel 1971, nel 2001 e nel 2011. Il dato è, naturalmente, da mettere in relazione alla dinamica conseguente i fenomeni migratori che hanno interessato e continuano a interessare in particolare le regioni meridionali d’Italia.
Dove emigrano i calabresi
La destinazione prevalente per i calabresi è l’Europa (48,6%), seguita dall’America centro-settentrionale (33,7%). Se consideriamo il singolo paese, i calabresi sono presenti maggiormente in Argentina (24,1%). Il comune che presenta in Calabria il più alto numero di emigranti è Corigliano-Rossano (14.053). Se, invece, consideriamo il tasso di incidenza sulla popolazione residente quello di Paludi è il caso in cui gli emigranti superano la popolazione residente (1.972 rispetto a 1.007).
Dal 2006 la percentuale dei residenti all’estero è aumentata dell’82%: i connazionali all’estero sono ormai 5,6 milioni, di cui il 45,5% è ascrivibile alla fascia d’età tra i 18 ed i 49 anni.
La Calabria è una regione per over 65
E mentre coloro che sono nel pieno dell’età lavorativa e produttiva si allontanano dall’Italia e dalla regione, i dati sulla popolazione residente mostrano che la Calabria costantemente si sposta verso la prevalenza degli over 65: dal 17,1% (1961) al 22,6% nel 2021. L’indice di vecchiaia per la regione è oggi pari a 175, il che significa che ogni 175 anziani ci sono 100 giovani sino ai 14 anni. Il dato era pari a 102,6 circa un ventennio fa. Le implicazioni dal punto di vista sociale, istituzionale e politico che comporta questo slittamento verso la sempre più forte incidenza degli anziani sono evidenti.
L’indice di ricambio della popolazione attiva – che rappresenta il rapporto percentuale tra la fascia di popolazione che sta per andare in pensione (60-64 anni) e quella che sta per entrare nel mondo del lavoro (15-19 anni) – è pari, in Calabria, a 138,5. Dal momento che la popolazione attiva è tanto più giovane quanto più l’indicatore è minore di 100, se ne deduce che quando nel 2002 lo stesso indice era pari a 50,9, il futuro pareva più roseo.
Un’ulteriore frenata per la Calabria
Le previsioni che l’Istat ha elaborato sulla popolazione nazionale e sulle dinamiche regionali all’orizzonte del 2065 non sono rincuoranti: si prevede una Calabria in ulteriore e drastica frenata rispetto ai rallentamenti di questi anni, con una popolazione pari a 1,2 milioni di abitanti. Se non intervenissero fattori di discontinuità rispetto al trend evidenziato, si registrerebbe, quindi, un’accelerazione in un tempo relativamente breve per i cambiamenti di natura demografica.
La popolazione straniera
Per quanto riguarda la popolazione straniera, in Calabria (dati aggiornati al primo gennaio 2021) gli stranieri residenti sono 102.302 e rappresentano il 5,4% della popolazione. Si tratta di un valore che, evidentemente, non corrisponde alla percezione – molto più ingigantita – del fenomeno, in tutta Italia.
Nel Rapporto 2021 “Italiani nel Mondo”, curato dalla Fondazione Migrantes, si sottolinea che la popolazione immigrata non cresce più. Parallelamente, quella autoctona si trasferisce all’estero, come attestano le cancellazioni dall’anagrafe per emigrazioni.
Nel 2019 in Italia tali cancellazioni sono state complessivamente 180mila, con un aumento del 14,4% rispetto all’anno precedente. In Calabria, 3 cittadini per ogni 1.000 residenti si trasferisce all’estero (la media italiana è 2,4). Tra le province calabresi, si distingue Cosenza, dove il dato sale a 3,6.
Da tener da conto anche i dati relativi alla migrazione interna: oltre 9 residenti su 1.000 lasciano la regione per trasferirsi al Centro-Nord.
Pur prendendo in considerazione dati sino al 2019 con l’intento di neutralizzare la particolarità dell’emergenza pandemica, il quadro delineato mette in luce che i fenomeni demografici presi in considerazione sono oggetto di tendenze consolidate negli ultimi due decenni.
La pandemia ha inciso sulla struttura demografica
Il 2020 e il 2021 sono stati certamente segnati dalla pandemia, che in qualche modo ha inciso sulla struttura demografica, sia in termini di una maggiore mortalità sia in termini di trasferimenti in altri territori determinati dalla emergenza sanitaria. In ogni caso, è dal 2010 che il movimento naturale della popolazione – determinato dalla differenza fra le nascite e i decessi in un anno – risulta essere un dato in caduta libera. E da molti anni ormai si sente il solito ritornello: cosa fare per invertire la rotta e frenare lo spopolamento in Calabria?
La teoria critica dell’inclusione sociale ha a lungo contrapposto il modello assimilazionista francese a quello multiculturale di matrice canadese. Del fallimento del paradigma transalpino è noto: lo dimostrarono al mondo le rivolte della banlieue nel 2005. Cittadini francesi da almeno due generazioni, ormai fondamentalmente slegati dalla terra d’origine dei loro avi, formalmente appartenenti all’ordinamento statale, denunciarono a gran voce il loro sentimento di radicale esclusione dalle sfere della decisione politica e della redistribuzione economica.
Il multiculturalismo canadese, però, funziona con numeri addomesticabili, con buone risorse dello Stato e ancora maggiore propensione dei soggetti privati, con gruppi (etnici, religiosi, politici, sociali, razziali, linguistici) o di molto tenue consistenza o portatori di una “diversità sostenibile” per il potere costituito. Se il multiculturalismo reagiva perciò all’indifferenza dell’assimilazionismo separatista, oggi è tempo di reagire al fallimento di una pratica di governo che ha giustapposto l’una sull’altra le culture per darsi l’impressione di governare un conflitto che non sapeva leggere. Non solo: ritenere tutti indistintamente sovrapponibili a tutti genera dei mostri (pensiamo, in proposito, alla risoluzione europea della memoria: una acritica e interscambiabile rilettura del nazifascismo e del comunismo).
L’approccio interculturale
Proprio per reagire al deficit di legittimazione e rappresentatività nell’organizzazione dei poteri, ha iniziato a prender piede la metodologia del diritto interculturale, che consiste nel tradurre la differenza insita nelle posizioni di ogni relazione intersoggettiva al fine di valorizzare contestualmente l’autonomia e l’eguaglianza di ciascuna e tra tutte. Appena una generazione addietro vedevamo con entusiasmo, dinnanzi alle prime migrazioni di massa del nuovo millennio, raffinati studiosi e attivisti del nostro passato parlare di “esodi” e “moltitudini”. Senonché, molti di quegli “esodati” li ha affogati il mare tra le terre, il mare nostrum di ogni retorica propagandistica balneare, e i diritti di quelle moltitudini non hanno trovato, forse nemmanco nelle lotte, la loro voce e la loro consistenza.
Cosenza riottosa
Ha un senso ricostruire la storia di Cosenza, allora, da un punto di vista interculturale, senza che ciò sia algebra e finzione? Sarebbe un’operazione scientificamente avveduta?
Esiste, ad esempio, ormai un’ampia bibliografia che tratta del fulgore cosentino nel periodo del popolo bruzio e quelle stesse letture pure trattano della caratteristica riottosità con la quale i locali accolsero i romani, venendone solo ad esito di un rabbioso conflitto conquistati. Se ne è fatta la base di una narrazione contropotere dell’indole cosentina. Non si vuole certo scontentare i campanilismi; effettivamente la storia della città è ricca di episodi di insorgenza spontanea allo stato di cose e ancor più di tentativi di mettere a valore una stabile autonomia collettiva e territoriale, quale che fosse l’effettiva entità politica unitaria al tempo dominante.
Il lato cortigiano di Cosenza
Proprio però perché questi episodi non sono storicamente pochi non è conveniente lasciarli all’oblio di una indistinta etichetta generale, senza prendersi il gusto di andarli a riguardare per come sono avvenuti. In primis perché la vocazione socio-culturale di Cosenza è forse più resistente delle stesse forme di opposizione politica che ha nei secoli ospitato. Tanto nel periodo federiciano quanto in quello angioino, Cosenza in fondo mostra anche un lato cortigiano, un profilo di desistenza profittevole più che di resistenza testimoniale. Una piccola sublimazione dell’attitudine di Cosenza a generare un dibattito pubblico più avanzato dei suoi tempi, anche in periodi di compiacenza governativa, può forse vedersi al tempo degli Aragonesi e alla nascita dell’Accademia.
Schierarsi contro
E, in senso opposto, non finirono certo coi tumulti dei Bretti i momenti di insurrezione e aperta contestazione. Saraceni e longobardi, alcuni secoli dopo, litigarono aspramente il primato cittadino, nonostante la transizione economica e politica avesse di fatto abbattuto molte delle antiche ricchezze. E non sempre le rivolte locali ebbero fortuna o alimentarono una letteratura apologetica: il tentativo di resistere ai normanni fu illusorio quanto fugace ed è una pagina di lotta di cui poco si parla.
La storia di Cosenza come archetipo interculturale della resistenza, per essere teoreticamente fondata, non può pensarsi scevra da un’analisi di vittorie e sconfitte, in quanto questa concatenazione di rivolgimenti positivi e negativi si conserva fino al vissuto storico degli ultimi tre secoli, dimostrando il forse dimenticato o non rivissuto coraggio degli intellettuali cittadini a saper anche schierarsi “contro”. Al fine di produrre un risultato “a favore” (del beneficio collettivo).
Il valore di fare cultura
Nel periodo borbonico, non mancavano voci apertamente antimonarchiche, come negli anni in cui soffiò il vento della restaurazione per tutta Europa in città rimase una vocazione libertaria e anticlericale (che poi si ritrova su fogli periodici clandestini e regolari fino alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX). Persino sotto il fascismo, che aveva facilmente imposto alle borghesie meridionali cittadine e alla miopia del latifondo rurale un rientro nei ranghi e un protettorato di comodo, a Cosenza ci sono circoli e iniziative di impronta liberale, repubblicana, socialista.
Ci sembra allora di potere concludere queste riflessioni invocando un dato storico forte. La città ha prosperato davvero solo facendo cultura, non quando si è limitata a difender la propria o, peggio, quando ha subito l’attacco altrui. L’animus foriero di incontri, di scoperta, di intersezione proficua tra i popoli e gli spazi, è vissuto attraverso i tempi anche e soprattutto contro la malversazione, la sconfitta militare, l’invasione, la dominazione, il senso comune ridotto a senso unico. E questo è forse quanto ci tocca adesso recuperare dal fango e dall’oblio… e pazienza se le camicie si inzaccherano di polvere e mota fino ai gomiti.
Domenico Bilotti Docente di “Diritto delle Religioni” e “Storia delle religioni”, Università Magna Graecia
Il dibattito sul rapporto tra le nostre università e il territorio, aperto da I Calabresi nei giorni scorsi con l’intervista all’ex rettore Bianchi e il video editoriale del nostro direttore Francesco Pellegrini, si arricchisce di un nuovo protagonista: Flavio Stasi. Il sindaco della terza città per abitanti della Calabria, ex studente Unical, ci ha inviato una nota che pubblichiamo integralmente, nella quale evidenzia la difficoltà dell’ateneo di Arcavacata a ricercare un dialogo fuori dalle sue mura.
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Il 12 novembre scadono i termini per uno degli avvisi più interessanti degli ultimi mesi, promosso dall’Agenzia per la Coesione Territoriale, sul tema degli Ecosistemi dell’Innovazione nel Mezzogiorno. Il bando finanzia progetti che uniscono la ricerca innovativa alla riqualificazione e rifunzionalizzazione di siti degradati o inutilizzati, per un ammontare da 10 a 90 milioni di euro a progetto: si tratta di cifre importanti finalizzate a coprire un periodo di 36 mesi.
I soggetti a dover candidare i progetti all’Agenzia per la Coesione Territoriale, i cosiddetti “proponenti”, sono gli organismi di ricerca, ma in partenariato obbligatorio (almeno tre soggetti) con enti locali e altri soggetti pubblici o privati. È evidente come tale forma di partenariato spinga gli organismi di ricerca, a partire dalle Università, a relazionarsi con il territorio per proporre idee progettuali integrate, utili, lungimiranti, che generino uno sviluppo reale.
Immagino che, per un bando del genere, molti siano stati gli stimoli e le proposte giunte sui tavoli di ogni ateneo, quindi anche della nostra università, l’Università della Calabria, da più soggetti ed in più ambiti.
Il sito Enel di Sant’Irene
Tra questi riteniamo debba essere tenuta in assoluta considerazione l’idea progettuale proposta anche dal nostro Comune sulla rifunzionalizzazione del sito Enel di Sant’Irene, e in particolare dell’area e della struttura occupata un tempo dai vecchi gruppi termoelettrici, attualmente in fase di coibentazione e smantellamento. Anche di questo si è discusso con Enel in queste settimane, e si è giunti alla condivisione di un’idea concreta sullo sviluppo di tecnologie per la filiera dell’idrogeno che non solo aprirebbe uno scenario innovativo, sostenibile e perfettamente integrato di riutilizzo del sito, ma valorizzerebbe anche alcuni tra i più avanzati segmenti di ricerca dell’Unical.
La scissione degli atomi a Corigliano-Rossano
Un’idea progettuale che prevede, dunque, investimenti per allestire nella centrale un importante centro di ricerca che si occupa di produzione energetica ad alto rendimento tramite l’utilizzo di nanomateriali bidimensionali, scissione degli atomi di idrogeno mediante l’utilizzo di grafene, efficientamento dei sistemi di immagazzinamento energetico mediante nanotubi di carbonio eccetera, e con un partenariato importante: la terza città della Calabria, Enel Produzione, Unical e Cnr.
L’Ateneo dei soliti noti
Il problema è che all’appello manca il soggetto principale: l’Università della Calabria. Sono stato uno studente Unical, ne sono sempre stato orgoglioso e sento che l’Ateneo può fare tanto per il territorio, ma solo se si apre, se non si avvita sul Ponte Bucci e le solite suole che lo calpestano (e non parlo degli studenti). La ratio di questa selezione credo sia proprio quella di individuare idee integrate col territorio nella sua complessità ed ampiezza, attraversandolo geograficamente ma anche socialmente, aprendosi quindi, come specificato nel bando, agli enti locali che più di altri enti conoscono luoghi (da riqualificare) e prospettive (da sviluppare).
L’Università della Calabria
La governance dell’Unical ha già deciso
Ed invece – ad un certo punto – ho appreso attraverso voci di corridoio universitarie che la governance di Ateneo aveva già deciso, praticamente fin dall’inizio, di partecipare al bando con una sola proposta avendo già stabilito anche con quale proposta, scoraggiando di fatto dipartimenti ed altri istituti legati all’Università nel perseguire altre strade. Peraltro, il bando non impone all’Università la partecipazione a una sola proposta progettuale. In altri termini, si possono presentare più proposte per dare la possibilità alla Commissione ministeriale di valutare quelle più rispondenti ai requisiti del bando e quelle più promettenti per lo sviluppo del territorio. Sempre le solite voci di corridoio rivelano che il timore sia proprio quello di mettere in competizione più proposte provenienti dallo stesso Ateneo, con il rischio di affossare quella su cui è già stata presa, di fatto, una decisione.
Unical, così non va bene per niente
Conoscendo chi governa l’Unical oggi, non ho dubbi sul fatto che, se effettivamente tali scelte sono state effettuate, queste siano le migliori possibili per l’Unical, ma lo dico con grande chiarezza da sindaco di una città importante, da cittadino e da ex studente: così non va bene per niente.
L’Unical deve dialogare con il territorio
L’era post-pandemica, nella sua drammaticità, sta aprendo possibilità di sviluppo inedite negli ultimi decenni, soprattutto nel Mezzogiorno, e sta imponendo a tutte le istituzioni (comprese quelle universitarie) approcci e modalità di pianificazione e progettazione inedite: questa è una delle sfide principali del Perr nel Mezzogiorno, e la nostra università non può sentirsi esentata dal dover rispondere a queste nuove esigenze, anche e soprattutto di relazione, integrazione e supporto del territorio.
L’approccio dell’Unical preclude la competizione tra idee
Un ecosistema dell’innovazione è un luogo di contaminazione tra Università, centri di ricerca, istituzioni e settore privato. Nel massimo rispetto dell’autonomia di ogni ente, relativamente ad una selezione del genere trovo francamente inadeguato e fuori dal tempo l’approccio della nostra università, che sembra abbia scelto – senza alcun confronto e senza neanche un minimo di selezione interna o esterna – una confezione, e non un’idea di ecosistema dell’innovazione. Una scelta del genere sta precludendo, di fatto, la competizione positiva tra idee progettuali e percorsi di sviluppo, una preclusione che se è ormai inaccettabile nei luoghi “tradizionali” delle istituzioni, figuriamoci nei luoghi della cultura, della ricerca e dell’alta formazione.
Bisogna aprire una riflessione sull’Unical
Sia chiaro, il mio non è un attacco: dopo la mia città, credo che la “mia” università sia il soggetto che più di tutti difenderei a spada tratta ad ogni latitudine, ma credo sia ormai improcrastinabile, anche alla luce della fase di “ripresa e resilienza” che il Mezzogiorno si appresta ad affrontare aprire una riflessione sul rapporto tra l’Ateneo ed il territorio complessivamente, partendo proprio dal rapporto con gli enti locali.
Ci appelliamo all’agenzia per la coesione territoriale
Per quanto riguarda il bando, credo che l’Agenzia per la Coesione Territoriale debba prendere atto della difficoltà da parte di potenziali proponenti di idee progettuali ad acquisire la disponibilità delle università, facendo venir meno – lo ribadisco – la sana concorrenza tra progetti utile ad individuare e finanziare i migliori, col rischio che anche questo percorso rappresenti un’occasione persa per il Mezzogiorno e la Calabria.
Così come l’assenza di risorse umane e del know-how necessari, per gli enti locali del Mezzogiorno, alla redazione di progettualità in grado di interpretare correttamente ed intercettare i fondi ed il principio di sviluppo del Pnrr, anche questa è una condizione di partenza nota che richiede, quindi, interventi tempestivi.
Il Tar Calabria mette il primo punto fermo su quel gran pasticcio delle Terme Luigiane accogliendo il ricorso presentato dalla società Sateca contro le Amministrazioni comunali di Guardia Piemontese e Acquappesa.
Dunque secondo il Tribunale amministrativo i Comuni «hanno impedito a Sateca l’esercizio del diritto previsto dalla clausola dell’accordo del 2019 e la prosecuzione dell’attività fino al subentro del nuovo sub-concessionario». Pertanto, «sono senz’altro illegittimi gli atti di esercizio del potere di autotutela pubblicistica posti in essere dai Comuni».
Fin qui l’avvocatesca interpretazione dell’arcinota vicenda che ha visto contrapposte la società Sateca e i Comuni di Guardia e Acquappesa. L’ennesimo scandalo calabrese su cui si è giocata la solita partita a perdere tra personaggi politici schierati su fronti opposti ma accomunati tutti dalla fallimentare gestione del dossier “Terme Luigiane”.
La stagione saltata
Ma mettiamo sul piatto qualche cifra, dal momento che questa vicenda ha avuto conseguenze ben più sostanziose di un chiacchiericcio politico. L’impasse generata dal mancato accordo ha fatto saltare la stagione termale ed ha lasciato sul lastrico i 250 lavoratori dello stabilimento termale. E non è possibile quantificare con precisione quante prestazioni socio-sanitarie e servizi termali sono stati cancellati, quanti turisti sono stati indotti a cambiare destinazione e a quanto ammonta il danno prodotto agli oltre mille lavoratori dell’indotto che ruota attorno alle Terme Luigiane. Altrimenti, dati alla mano, avremmo la fotografia di un collasso socio-economico di proporzioni gigantesche.
Le responsabilità di sindaci e Regione
Un dato certo è che, di questo pasticciaccio, la politica porta un pezzo importante di responsabilità. I sindaci dei comuni di Guardia Piemontese ed Acquappesa, anzitutto, per avere pervicacemente, di fatto, provocato uno stallo nella vertenza certificato dalla fallimentare gestione della gara indetta per individuare il nuovo gestore dello stabilimento che non a caso è andata deserta. Un fallimento politico-amministrativo certificato adesso dalla pronuncia del Tar.
Non meno grave è la responsabilità della Regione, proprietaria del solo sfruttamento delle acque termali (legge 40/2009) che non ha voluto – o non ha saputo – creare le condizioni affinché dal 2016, anno di scadenza della subconcessione, potesse essere messo a bando lo sfruttamento delle acque termali, eventualmente anche revocando la concessione ai Comuni alla luce delle continue inadempienze rispetto a scadenze e cronoprogrammi.
Un voto in controtendenza
Una disfatta su tutta la linea: le Terme Luigiane sono diventate l’emblema di una politica compiacente, inadeguata e irresponsabile che provoca danni, cancella posti di lavoro e non si preoccupa di rispondere del proprio operato.
Per una degna conclusione di questa brutta storia, torniamo alle ultime Amministrative di ottobre. Perché nonostante tutto quello che è accaduto e il ruolo svolto nell’affaire delle Terme, il sindaco uscente di Guardia Piemontese, Vincenzo Rocchetti, si ricandida e viene rieletto a pieni voti.
Tra qualche mese saranno passati cinquanta anni dalla decisione di istituire l’Unical, l’Università della Calabria. Mezzo secolo è un tempo più che congruo per fare il punto sulle modalità con le quali si è determinato il rapporto tra territorio e cultura accademica. Ne parliamo con Alessandro Bianchi, ministro dei Trasporti nel secondo governo Prodi e, dal 1999 al 2006, rettore dell’Università Mediterranea, istituzione con una storia di ormai quaranta anni.
Era il 1972, e qualcuno fece una scommessa: Beniamino Andreatta e Paolo Sylos-Labini crearono, ad Arcavacata di Rende (ai confini di Cosenza), l’Università della Calabria, che nel 2019 ha conquistato il secondo posto, dopo Perugia, nella graduatoria stilata dal Censis dei grandi atenei statali italiani (da 20 mila a 40 mila iscritti). La valutazione ha riguardato i servizi, le strutture, le borse di studio offerte agli studenti, la comunicazione e l’internalizzazione.
Da allora le università calabresi si sono ritagliate isole d’eccellenza nelle discipline del futuro, come l’Intelligenza Artificiale, ma non sono riuscite, almeno sinora, a generare una ricaduta positiva sul territorio. Nella società contemporanea, che è sempre poi guidata dalla conoscenza e dai saperi, i legami tra società locale ed istituzioni universitarie sarebbero preziosi per innescare processi di sviluppo: nell’economia per promuovere imprenditorialità ed innovazione, nella società per orientare la discussione culturale e la consapevolezza dei cittadini. Cerchiamo di capire perché non si è saldata la cultura accademica prodotta dalle Università con il territorio calabrese. L’opinione di Alessandro Bianchi è preziosa per la sua esperienza diretta alla direzione della Università Mediterranea.
Attraverso quali strumenti le Università calabresi hanno interagito con i diversi stakeholders del territorio (politica, industria, società civile, associazioni)?
«In generale direi che l’interazione è stata molto marginale sia con il mondo produttivo che con la società civile, e le ricadute sul funzionamento delle Università di modesta consistenza. Un caso a parte quanto riguarda il versante della politica, ma solo perché le interazioni sono state indispensabili con le amministrazioni locali, in particolare quelle comunali, perché legate alla realizzazione delle nuove sedi che per tutte e tre le Università hanno comportato lavori complessi e di lunga durata.
Un rapporto che poco a che fare con quello che dovrebbe essere un legame strutturale tra Università e Territorio che, a mio parere, non si è mai costruito per una duplice responsabilità: delle Università, che hanno teso a rinchiudersi nei loro confini culturali e disciplinari; e della Regione, che non ha mai considerato l’Università un interlocutore a tutto campo, un soggetto con il quale condividere le scelte di politica economica, sociale e territoriale».
Quali sono i punti di forza e di debolezza che l’Unical ha espresso nel corso della sua decennale esperienza?
«L’esperienza è stata molto più che decennale soprattutto per UNICAL e Università Mediterranea che nascono nei primi anni Settanta. Per UNICAL il punto di forza è sempre stato quello contrassegnato dal suo stesso atto di nascita: un’apposita legge istitutiva, il requisito statutario della residenzialità, una sede appositamente costruita, finanziamenti cospicui per le diverse attività, un corpo docente fondativo di alta qualità. Poi su questa solida condizione di partenza ha saputo costruito una ricerca e una didattica di alto livello, come viene riconosciuto ormai da molti anni a livello nazionale.
Il punto di maggiore debolezza è stato nell’atteggiamento di distacco tenuto nei confronti delle altre realtà universitarie che nel tempo sono nate, quasi che queste nascite rappresentassero un delitto di lesa maestà. Questa è una delle ragioni principali della mancata costruzione di un sistema universitario regionale.
E quelli della Mediterranea?
La Mediterranea ha vissuto una vicenda completamente diversa, molto controversa fin dalla nascita (la legge istitutiva della UNICAL diceva che doveva essere l’unica Università in Calabria): è stata avviata come semplice Istituto Universitario di Architettura ed ha avuto per lungo tempo sedi molto precarie e scarsi finanziamenti. Tuttavia ha saputo emergere progressivamente grazie all’azione esercitata da tre rettori che si sono susseguiti dai primi anni Settanta fino a metà degli anni Duemila.
Antonio Quistelli, che anche grazie al supporto di una personalità insigne come Ludovico Quaroni, ha saputo attrarre a Reggio Calabria una moltitudine di docenti di grande prestigio soprattutto nelle aree scientifiche dell’architettura, della storia e dell’urbanistica, che per molti anni hanno fatto acquisire una posizione di primo piano alla Facoltà di Architettura. Rosario Pietropaolo che ha svolto un lavoro analogo per la Facoltà di Ingegneria e che ha saputo portare a compimento, superando difficoltà di ogni genere, la realizzazione della nuova sede universitaria.
Il sottoscritto, che si è giovato del solido retroterra costruito dai suoi predecessori per proiettare l’Università in una dimensione nazionale e internazionale giocando sul rapporto con l’area mediterranea (a cominciare dalla denominazione Mediterranea da me introdotta). È stata una scelta vincente, testimoniata dalla rete di relazioni con molte delle principali università della Riva Sud oltre che della Spagna e della Francia, e dalla continua presenza nelle sue iniziative scientifiche e culturali di personalità del calibro di Asor Rosa, Umberto Eco, Gustavo Zagrebelski, Gil Aluja, Francesco Rosi, Bernardo Secchi, per citare quelli di maggiore spicco. Non a caso il punto di debolezza della Mediterranea è stato l’aver abbandonato quella dimensione e quella tensione culturale, il che l’ha riportata nel ristretto di una dimensione locale».
Perché le forze della cultura non sono state in grado di far maturare un capitale di legalità indispensabile per la modernizzazione della Calabria?
«Credo che le ragioni vadano trovate nel fatto che le forze della cultura esterne all’Università, pur potendo annoverare punte prestigiose, sono poche e molto fragili, mentre quelle presenti all’interno delle Università hanno preferito rimanere chiuse nei loro fortilizi al riparo dalla pervasività del mondo illegale che ha continuato ad essere dominante nella società calabrese.
La dimostrazione che un diverso comportamento avrebbe potuto cambiare le cose è rappresentato dal fenomeno Progetto Calabrie, una associazione nata dalla convergenza di un pugno di docenti dell’Unical e della Mediterranea, che puntò ad assumere la guida della Regione con una proposta innovativa sulla quale raccolse consensi vasti e diffusi. Ma la politica ufficiale avvertì il pericolo e oppose una resistenza intransigente, sicché il progetto naufragò».
Quali sono le azioni che devono essere poste in campo per rivitalizzare il patrimonio culturale delle Università calabresi in rapporto con il territorio?
«A questa domanda non so rispondere perché per farlo bisogna essere all’interno e al governo delle strutture universitarie per fare scelte comunque non facili anche perché il cosiddetto territorio non mostra grande attenzione per le Università. Certamente non lo mostra la Regione; in misura maggiore lo fanno singoli Comuni, ma sempre con rapporti episodici e di scarsa consistenza».
Avrebbe senso costruire una rete delle Università meridionali per rilanciare un pensiero e una cultura meridionalista?
«Avrebbe certamente un senso ma direi di più, direi che è una necessità stringente anzitutto per equilibrare i rapporti con le Università del Centro-Nord, oggi totalmente sbilanciati a favore di queste ultime. Da lì si potrebbe partire per affermare un pensiero e una cultura meridionalista.
Ma sul punto sono del tutto pessimista perché non vedo un solo segnale in quella direzione, mentre ne vedo molti in quella opposta della difesa dei propri localistici interessi».
Cosa potrebbero fare le Università calabresi per sostenere gli sforzi del PNRR?
«Nella situazione attuale assolutamente nulla. Si sarebbero dovute fare avanti già da molto tempo, ora i giochi sono in fase avanzata e non ci sono spazi per azioni significative. Né, bisogna dirlo, qualcuno dal centro ha chiesto un qualche coinvolgimento delle Università calabresi. Possiamo solo auspicare un loro coinvolgimento nella fase attuativa dei progetti, ma anche questo dipende dai comportamenti che assumerà la Regione».
Quanto ha pesato e pesa il deficit infrastrutturale anche per lo sviluppo della cultura e delle Università in Calabria?
«Ha pesato moltissimo nel periodo a partire dal dopoguerra e fino alla prima metà degli anni Duemila, durante il quale la carenza di infrastrutture e dei connessi servizi ha reso difficoltosa la mobilità verso l’esterno e all’interno dell’intero territorio calabrese, che per questo aspetto ha rappresentato un caso estremo anche rispetto al resto del Mezzogiorno. Di questo le Università hanno certamente risentito in modo negativo. Negli anni più vicini la situazione è in qualche misura migliorata (penso al completamento della infinita Salerno-Reggio Calabria) ma le carenze restano enormi.
Che dire dei cinquanta anni trascorsi senza dare soluzione adeguate al porto di Gioia Tauro? O al collegamento ferroviario Lamezia-Catanzaro? O all’aeroporto di Crotone? O all’attraversamento (non al Ponte) dello Stretto? O alle autostrade del mare? O, più di recente, alle reti di connessione telematica? Il punto è che una attenzione e una progettualità per il territorio calabrese non esiste a livello centrale a motivo della prevalenza della questione settentrionale, né a livello regionale per la inadeguatezza della classe politica».
Cristo si era già fermato a Cavallerizzo, una piccola Vajont senza morti. La provocazione è di Fabio Ietto, geologo e professore dell’Università della Calabria. Era il 2005 quando una frana ha colpito una parte del piccolo centro arbëresh nel comune di Cerzeto.
Da allora il paese è stato sfollato, la comunità sradicata e delocalizzata nella New town costruita in località Pianette, senza Valutazione di impatto ambientale. «Abusiva», così hanno sempre gridato gli attivisti di Cavallerizzo Vive. Erano i tempi della Protezione civile targata Guido Bertolaso. A dicembre questo non-luogo compie 10 anni.
Cavallerizzo non è scivolato a valle
Le case sventrate non mostrano segni di cambiamento, di scivolamento. Tutto come prima. Troppo come prima. Il centro storico è stato quasi ignorato dallo smottamento. Il paese ha resistito, diventando uno dei set di Arbëria, audiovisivo finanziato dalla Calabria Film Commission. Di altri crolli nessuna traccia in vista. Di porte chiuse e imposte abbassate sì, tra le strade dove l’erba ha preso il sopravvento. Nella piazza principale senti solo cani abbaiare e il vento in sottofondo. L’insegna del bar “San Giorgio” appesa al muro e sotto una saracinesca arrugginita. Un classico dei luoghi abbandonati, a tratti pensi a Prypyat, la città fantasma vicina a Chernobyl.
La piccola Vajont
Il professore Fabio Ietto non è solo il consulente di Cavallerizzo Vive (Kajverici Rron nella lingua arbëreshë), associazione che si batte per la rinascita del paese. Viene spesso quaggiù, «a mangiare con chi resiste». La condivisione del cibo per ricostruire un pezzo di storia della comunità ormai frantumato. Spiega perché parlare di piccola Vajont ha un senso: «Una condotta interrata dell’acquedotto Abatemarco passava da qui, 400 litri di acqua al secondo all’interno di un corpo di frana dichiarato attivo». In giro non è difficile ascoltare la stessa versione dei fatti: i contatori correvano molto di più e troppo rispetto alle altre frazioni. Un consumo anomalo.
Casa sventrata dalla frana a Cavallerizzo di Cerzeto (foto Alfonso Bombini)
Non è possibile stabilire adesso se la frana abbia provocato la rottura o viceversa. L’ennesima stranezza calabrese è una condotta non costruita all’esterno in modo da verificarne eventuali perdite in una zona ad alto rischio idrogeologico.
In entrambi i casi, e vista la natura del sottosuolo, l’acqua ha giocato un ruolo importante. Il professore ne è certo. «Una piccola Vajont, un disastro annunciato». Per fortuna senza morti in questo pezzo di Calabria.
Gli effetti della frana del 2015 a Cavallerizzo (foto 2021 Alfonso Bombini)
Non solo a Cavallerizzo si muove la terra
C’è il rischio che la terra si muova persino vicino alla New Town. E il professore Ietto si chiede: «Perché hanno puntato sul nuovo sito invece di recuperare quell’11,5 % circa franato a Cavallerizzo?». I soldi spesi dal Governo Berlusconi di allora non sono stati pochi: 72 milioni di euro. Potevano essere destinati al paese poi abbandonato. Serviva pazienza e rispetto per chi da un giorno all’altro è stato sbattuto fuori casa. Invece, ancora una volta ha vinto la strategia dell’emergenza poi messa in atto compiutamente a L’Aquila.
Una parte della New town costruita in località Pianette a Cerzeto (foto Alfonso Bombini)
Quella di Kajverici è una lunga storia finita pure a carte bollate grazie alla voglia di non mollare dell’associazione Cavallerizzo Vive. Che aveva ragione. Mancava la Valutazione di impatto ambientale della New town. Era abusiva. Una vicenda formalmente chiusa nel 2019 quando è arrivata la assoggettabilità a Via da parte della Regione Calabria. Con una serie di indicazioni per mitigare il rischio attraverso interventi mirati. Altri soldi pubblici spesi. I lavori sono stati già consegnati alla ditta – precisa il sindaco Rizzo – e si concluderanno in poco tempo.
Fabio Ietto insegna Geologia, geomorfologia applicata e idrogeologia all’Università della Calabria (foto Alfonso Bombini)
Agenzia immobiliare New town
Il vecchio cede il passo al nuovo. C’è voglia di lasciarsi alle spalle questo capitolo. Il primo cittadino di Cerzeto, Giuseppe Rizzo, in quelle abitazioni tutte uguali non trova alienazione. Ma un posto che ha mercato. A buon mercato: «Dove la trovi una casa di tre piani a 50mila euro con metano, aria pulita e km 0?».
Nei panni di agente immobiliare cerca di convincerci sul perché delle giovani coppie scelgono di abitare nella New town. Sono venti circa e alcune hanno scelto di trasferirsi dai paesi limitrofi.
Rizzo non era primo cittadino quando costruirono il nuovo paese. Oggi cerca di cambiare la narrazione, sostenendo addirittura: «C’è poesia nelle New Town». Il resto della conversazione è un continuo tentativo di guardare oltre Cavallerizzo che, invece, diventerà sede nazionale delle esercitazioni dei vigili del fuoco. Magra consolazione per chi vorrebbe tornare ad abitare in quel posto.
Crolli e abbandono nella parte superiore di Cavallerizzo (foto Alfonso Bombini)
Liliana non lascerà mai Cavallerizzo
Qualche centinaia di metri in linea d’aria più in alto restano segnali di vita nella vecchia Cavallerizzo. Quando tutti gli abitanti hanno obbedito allo sgombero, una cosentina di via Panebianco non ha abbandonato la sua casa. Liliana Bianco ha passato una vita laggiù con il marito morto da poco. La corrente elettrica arriva grazie a due generatori – dice -. Non è sola, c’è un figlio a cui donare il resto dei suoi anni. A proteggerla un piccolo esercito di cani. È diventata un simbolo di resistenza.
Liliana Greco, unica abitante di Cavallerizzo (foto Alfonso Bombini)
Le lacrime di Silvio
Non lontano Silvio Modotto, come ogni giorno, arriva da Cerzeto e coltiva il suo orto, apre la sua casa, beve il suo vino. Malvasia e Aglianico animano questo blend aspro, come lo sono i rossi fatti in casa. Discute con il cugino tornato dall’Inghilterra dopo la pensione. Storie di ritorno e radici alternando bicchieri undici al litro. E lacrime. Perché Silvio, vigile urbano in pensione, piange. Senza la sua piccola patria e senza più ragazzi con la voglia di cambiare lo stato delle cose. Quantomeno provarci. È pure un fatto anagrafico. Nella maggior parte dei casi non erano nemmeno nati nel 2005 e oggi sono troppo giovani per sentire nostalgia.
Mani ruvide e voglia di continuare come se non fosse successo nulla, Silvio indica la chiesa rimasta intatta e senza fedeli. Ricorda la festa di San Giorgio: «Venivano da tutte le parti».
Adesso l’unico a raggiungere Cavallerizzo è l’autore del murales sulla linea della frana. Quel Cristo in cima al Golgota della memoria di una comunità presa a calci e dimenticata.
I segnali del dopo voto calabrese, non sono rassicuranti, con una campagna elettorale, da poco chiusa, durante la quale si sono manifestate poche nuove esperienze, scarsissime azioni elettorali innovative, al contrario abbiamo visto i soliti volti, soliti slogan, soliti simboli.
Qualche guizzo, ma nessuna avventura collettiva
Pochissimi quindi i segni di una di rinnovata passione politica, così che il dopo voto consegna allo scenario calabrese lo schema consolidato destra-sinistra con i due blocchi storici che alternano alla guida del territorio volti già noti.
Qualche guizzo, ma nessuna nuova avventura collettiva da vivere come cambio di rotta, nella Calabria da cui fuggiamo e alla quale ritorniamo, che ogni volta ci abbraccia con affetto, oppure ci soffoca con forza, in cui, insieme, cerchiamo di intravedere un futuro-presente che spalanchi la via di un sogno, non già di altri incubi.
Serve fantasia per immaginarsi presidente dei calabresi
Seguendo con attenzione i segni delle prime elezioni post Covid, ciò che da subito ho pensato è che essere eletti presidente della giunta regionale della Calabria, o sindaco di Cosenza, con percentuali di votanti così scarse, deve essere sconsolante e deve porre molte domande. Insomma, ci vorrà un bel po’ di fantasia per immaginarsi presidente di tutti i calabresi -o il sindaco di tutti i cosentini-. Così come lo è assumere queste cariche dopo quasi due anni di pandemia, alle porte di una stagione di risorse che dovrebbero (ripeto dovrebbero!) cambiare gli equilibri tra Sud e Nord.
Una Calabria peggiore dopo la pandemia
Il Covid ha prodotto, nei fatti, una severa discontinuità, ancora poco visibile, ma che già lascia intravedere, in modo più che palese anche nell’aumento dell’astensionismo, un dover ripartire con una più incisiva azione politica dal basso, il ridare fiducia ai tanti delusi, azzerando schemi consolidati e rimettendo ancora di più in discussione i partiti e le loro decotte organizzazioni, approcciando la quotidianità delle azioni di “ricostruzione” del dopo Covid, attraverso un nuovo equilibrio di relazioni tra potere e cittadini.
Non mi pare quindi che la vittoria consegni, oltre il giusto entusiasmo dei vincitori, la solita Calabria di due anni fa, ma una terra addirittura peggiore, incattivita, deteriorata ad ogni livello perché la debolezza strutturale cronica è stata vieppiù minata dalla pandemia.
Ristabilire il rapporto di fiducia con i cittadini
Una terra, in triste sintonia con tutto il Sud, che ha perso ormai milioni di giovani in fuga, e prosegue una desertificazione demografica di centri e città che pone seri dubbi sulle politiche nazionali e regionali, tutte -nessuna esclusa- fallimentari. Perciò mi chiedo se sia stato colto che, oltre i normali compiti istituzionali, e, tra le varie promesse, come quella più grande di rimettere in piedi la sanità, sarà invece importante, prima di ogni cosa, sforzarsi di ricostruire il frantumato rapporto di fiducia con i cittadini, mettendo in atto tentativi poderosi di ricostruire una coesione sociale, che soprattutto in Calabria, al Sud, è il male più grande per un riequilibrio demografico ed economico-sociale.
A lezione di educazione civica
Non basterà quindi ben governare, ammesso ve ne siano le capacità, ma sarà determinante rimettere in sesto le basi democratiche e strategiche della regione. Tutto questo anche con un nuovo percorso di “educazione civica”, assente del tutto, stante la necessità di ricucire i conflitti sociali generati della mancanza di lavoro e risorse. Altresì per prepararsi alle prossime imponenti sfide della riduzione dell’inquinamento, alla risoluzione del cronico degrado ambientale causa dei rifiuti urbani, del traffico e dell’inquinamento. È un regione dove ovunque, città o piccolo centro, per andare a prendere un caffè e percorrere pochi metri, si usa l’automobile e in cui il trasporto pubblico è fatto di meteore e pianeti disconnessi per territori satelliti, fuori da ogni logica di rete.
Preparare con serietà un contributo calabrese alla transizione ecologica, e avviare azioni di rinnovamento profondo dei territori, non sarà pertanto cosa facile e spero di ciò ci si renda conto.
L’utopia dell’ascolto contro i burocrati
Scendere dal piedistallo, dunque, uscire dagli stantii uffici dei burocrati regionali e locali, per stare tra la gente di Calabria, sentire i bisogni veri della regione, dei comuni, condividere le nuove scelte con i cittadini, farli partecipare tutti all’azione di governo e crescere su un progetto comune di sviluppo sostenibile. E poi il pianificar facendo, ovvero tracciando una necessaria visione dei territori al futuro, non più fintamente moderna, ma contemporanea, con tutte le sue potenzialità latenti: costruendo il nuovo e guardando al futuro con significative, diffuse, azioni mirate al cuore dei problemi principali, con tempi certi.
Preparare gli amministratori
Occorre infine preparare i sindaci, tra tutti, poi i cittadini e le imprese, alla stagione di attrazione di nuovi finanziamenti del Pnrr e dei Fondi nazionali e comunitari, senza seguire nell’improvvisare, bensì con un percorso che dia spazio ad un’adeguata, necessaria progettazione di alto profilo, non solo di impronta tecnica, ma di originalità, qualità, inventiva, capace di rispondere alla soluzione delle vere esigenze delle comunità locali così come nel disegnare una nuova Calabria.
Basta logiche da ex Cassa del Mezzogiorno
Solo in tal modo potremmo risparmiare la solita pioggia di denaro stile ex “Cassa del Mezzogiorno” e regalie per consolidare potentati, al contrario mirare ad una adeguata elaborazione per il territorio, l’insieme dei centri e delle città, per riprendere un più grande e annoso tema calabrese, quello del decoro urbano, capace di opporsi al degrado inarrestabile che ha assunto dimensioni imbarazzanti per chi, con occhi attenti, attraversa la regione in lungo e largo.
Stop ai vecchi progetti nei cassetti
Bisogna dismettere il solito metodo di recuperare dai cassetti progetti già fatti e mai stati buoni per nessuna delle stagioni, ma adeguando le proposte ai traguardi comunitari: l’abbattimento degli inquinanti nel 2050, non con qualche incentivo per auto elettriche, né con i pochi bonus energetici per edifici che ben altro richiedono in Calabria, gli adeguamenti sismici, di decoro, sanitari, ambientali, non potendo seguire vivendo ad alta intensità energetica, cambiando le nostre pessime abitudini di consumatori. E ancora avviare una lunga stagione di riciclo dei rifiuti, tornare al cibo di prossimità, ripensare il bello al posto del brutto (a partire dalle case che sempre più saranno il “guscio” accogliente), definire un’intelligente mobilità che si faccia carico di definire una rete sostenibile di collegamenti, e al contempo abbattere la vasta impronta ecologica dei calabresi, tra rifiuti e traffico veicolare, elevatissima e per nulla percepita come problema.
Sarebbe bello, nei prossimi mesi, essere stupiti, smentiti, sorprendersi per una stagione di qualità, un manifesto di diffusa bellezza, una ripresa di cultura dei luoghi e nei luoghi. O ancora sorprendersi per una riaffermazione del sapere sull’arroganza e ignoranza, una diffusione capillare nella regione della ricerca e dell’innovazione con vere reti internazionali. E poi dimenticare vuoti slogan, promesse, illusioni attraverso concrete azioni di una politica visionaria e al contempo vicina alla soluzione dei problemi, che ridia fiducia ad un popolo stanco e senza speranze.
G. Pino Scaglione professore di Progettazione Urbana (Università di Trento)
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