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  • Mafia a Rende, Manna: ecco che c’è dietro lo scioglimento

    Mafia a Rende, Manna: ecco che c’è dietro lo scioglimento

    Scioglimento di Rende: «Sono passati circa venti giorni dalla nostra richiesta di accesso agli atti», spiega Marcello Manna, l’ex sindaco di Rende, nella sala convegni dell’Hotel Europa. Ma «finora senza alcun risultato», aggiunge Manna. La prefettura tace, forse perché da quell’orecchio non ci sente.
    A questo punto, è lecito chiedersi: c’era davvero bisogno di una conferenza stampa alle porte di Natale solo per lamentare il silenzio delle istituzioni che hanno commissariato, la scorsa estate, il Comune del Campagnano per mafia?

    Manna: Rende è Rende

    Evidentemente non è solo questo. Magari pesa anche il fatto che «Rende è Rende, con tutto il rispetto degli altri municipi sciolti per mafia», che in Calabria sono circa il 50 per cento del totale nazionale.
    «Che Rende è Rende non lo diciamo noi, ma la Camera di Commercio, secondo cui la nostra città ha il maggior numero di lavoratori, imprese e partite Iva». Già: ma allora perché la città universitaria si è trasformata, stando agli inquirenti, antimafia e non, da modello in sistema ed è passata dal mirino delle Procure a quello del ministero dell’Interno?

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    L’ex sindaco Marcello Manna durante la conferenza

    Scioglimento di Rende: tutto un complotto?

    Con la consueta abilità di consumato principe del foro, Manna evita le accuse dirette e, soprattutto, non evoca complotti. Non esplicitamente, almeno.
    Sebbene la tentazione sia forte, l’ex sindaco glissa alla grande le domande dei giornalisti che cercano di cavargli qualche nome, magari per farci un titolone.
    Manna non dice mai che un ipotetico manovratore occulto potrebbe essere Roberto Occhiuto. Tuttavia, allude in maniera piuttosto esplicita. Infatti: «Dal verbale del Comitato per la sicurezza risulta che il sindaco di Cosenza si è astenuto sulla proposta di scioglimento». Ma le cose starebbero altrimenti: «A me Franz Caruso ha detto di aver votato addirittura contro, perché non vedeva i presupposti di una decisione così drastica». Invece, il verbale tace sulla presidente della Provincia di Cosenza e di Anci-Calabria, che forse avrebbe votato a favore.
    Parliamo di Rosaria Succurro, organica al centrodestra a trazione Occhiuto
    Con la stessa abilità, Manna evita di fare l’altro nome, che pure potrebbe ispirare più di un titolista: quello dell’ex procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri.
    E tuttavia l’ex sindaco si sofferma a lungo sulla sudditanza della politica calabrese nei confronti delle toghe. E, già che c’è, si leva qualche sassolino dalle scarpe. Ad esempio, sull’inchiesta Reset, condotta, ricordiamo, dalla Dda di Catanzaro a guida Gratteri. Ebbene, l’indagine «ha subito forti ridimensionamenti proprio sulle misure cautelari, irrogate in prima battuta». Come a dire: gli indagati tornano a piede libero, ma Rende è sciolta. E ce n’è anche per Mala Arintha, l’inchiesta condotta dalla Procura di Cosenza: «Ricordo che gli inquirenti hanno prodotto alcune intercettazioni che mi scagionavano solo dopo che il gip si era pronunciato contro di me». Perciò di «certi inquirenti non mi fido».

    Scioglimento di Rende: un contesto da congiura

    Forse il complotto non c’è. O, come tutti i complotti, è indimostrabile. Tuttavia, fa capire Manna, il contesto sarebbe tipico di una congiura.
    E, come ogni congiura, anche questa avrebbe forti interessi alle spalle. Tra i principali, l’eliminazione di Rende per semplificare il percorso verso la città unica (e qui si tornerebbe al centrodestra di potere a guida Occhiuto).
    Inoltre, la vicenda di Rende avrebbe l’esito tipico di tutte le congiure: «Con lo scioglimento per mafia si resta isolati». Sarà, ma Manna, circondato dagli esponenti del suo Laboratorio Civico e dai suoi ex assessori, a partire da Marta Petrusewicz, che ha subito il commissariamento da sindaco facente funzione, ha voluto ribadire di non essere solo né isolato.

    Un momento della conferenza di Manna

    Scioglimento di Rende: Mattarella risponda

    L’ex sindaco rilancia: stiamo preparando un dossier che presenteremo al presidente della Repubblica.
    Come a dire che Rende, già modello e sistema, diventa un caso grazie al ricorso al capo dello Stato, che si aggiungerebbe all’attuale ricorso al Tar contro la decisione del ministro dell’Interno.
    Il giudice non può essere a Berlino e forse non è nemmeno a Catanzaro. Tanto vale mirare in alto.
    Tanto più che la città ha già subito i suoi danni: i commissari hanno fatto scadere i termini per la rottamazione dei debiti.
    Ma Manna sostiene di non aver nulla da rimproverarsi: «Anche se mi fossi dimesso, non sarebbe cambiato niente». Il bersaglio, insomma, non era tanto lui ma la città e la sua coalizione di maggioranza, «che forse ha avuto un torto: non essere organica ad alcun potentato». Il che significa essere alla mercé dei poteri forti, politici e giudiziari.

    La riforma mancata

    Le anomalie dello scioglimento di Rende non finirebbero qui, sostiene ancora Manna: «Non vi sembra strano che la commissione d’accesso era composta da militari che avevano indagato su Rende per conto della magistratura»?
    E si potrebbe continuare. Peccato solo che lo scioglimento per presunte infiltrazioni mafiose sia un procedimento amministrativo che prescinde dai procedimenti penali (e dalle loro garanzie). Anche su tale aspetto, Manna ha qualcosa da dire: «Ricordo che di recente oltre duecento amministratori dell’Anci hanno proposto un progetto di riforma dell’articolo 142 del Tuel (che disciplina lo scioglimento dei Comuni per mafia)».
    E in questa corsa alla riforma, che mirerebbe a garantire di più gli amministratori locali dalla discrezionalità dei burocrati e dei prefetti, Rende è stata in prima fila: «Ricordo anche che la segretaria nazionale dell’Anci ha ribadito che siamo stati i primi amministratori a proporre una riforma della normativa».
    Prendersela con la normativa, elaborata in questo caso per gestire emergenze, può essere il minimo ma è comunque poco.
    Se questa riforma fosse passata almeno un anno fa, sarebbe stata davvero… manna dal cielo, per l’ex sindaco e la sua maggioranza.
    E non è solo un modo di dire…

  • Cosenza, torna la metro? Intanto il parco costa sempre di più

    Cosenza, torna la metro? Intanto il parco costa sempre di più

    Doveva essere tutto pronto prima delle Regionali che poi incoronarono Jole Santelli. Era, almeno nelle intenzioni, il simbolico biglietto da visita da consegnare ai potenziali elettori dell’allora sindaco ed aspirante governatore Mario Occhiuto.
    Oggi il Parco del Benessere su viale Gacomo Mancini a Cosenza porta il nome della governatrice forzista, scomparsa a pochi mesi dalla conquista della Cittadella, ma resta ancora lontano dal completamento. E la spesa, immancabilmente, continua a salire. Tutto mentre il fantasma dell’opera (pubblica) – la principale, ossia la metro leggera che dovrebbe attraversare il viale costeggiando il parco – continua ad aleggiare sull’area. E nessuno chiarisce se i tram da lì passeranno davvero prima o poi.

    A volte ritornano: la metro a viale Parco

    Della metro su viale Parco – come lo chiamano tanti cosentini in barba al pur amatissimo titolare del toponimo originale – infatti non si parla più da tempo. Eppure soltanto pochi giorni fa il Comune ha approvato una perizia di variante ai lavori nell’area che pare proprio tirare l’infrastruttura fuori dal polveroso cassetto in cui sembrava ormai marcire. Costa pochi spiccioli – 175mila euro – rispetto alle decine di milioni in ballo, ma non è detto che, seppur bassa, la somma sia insignificante.
    Dalla determina dirigenziale 2338/2023 si apprende, infatti, che ai piedi del centro commerciale Due Fiumi «[…] La variante prevede che venga ripristinata la forma della Piazza come da Progetto Metro Cs: la forma della piazza, che tra le due progettazioni era variata per forma e dimensioni, verrà realizzata in conformità al Progetto Metro […]». Che non significa eliminare soltanto quel che resta dei chioschetti per gli aperitivi estivi.

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    Coperti d’estate, copertoni d’inverno: uno dei chioschetti nella piazza

    Non solo: anche il tratto di strada tra via Lupinacci e via Serafini non verrà più chiuso al traffico. Sarà un caso, proprio «come peraltro era previsto dal progetto afferente all’opera principale “Sistema di collegamento metropolitano tra Cosenza – Rende e Università della Calabria”». Il progetto del Parco, invece, da tempo ufficialmente svincolato da quello della metro, prevedeva l’esatto opposto: l’interdizione di quel tratto del viale alle auto.

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    Uno dei tram che avrebbero dovuto percorrere viale Mancini

    Due indizi, secondo Agatha Christie, sono una coincidenza: ne arriverà un terzo? Troppo malizioso, forse, credere di trovarlo nel punto in cui la stessa determina ribadisce che a dicembre 2021 Comune e Regione hanno «concordemente stabilito di lasciare inalterata l’area di ingombro del parco per come configurata dal progetto esecutivo della Regione Calabria, così da evitare ogni possibile interferenza, anche di lieve entità, tra il realizzando Parco Urbano e l’opera principale». A pensar male si fa peccato, ma…

    Metro o non metro, gli interventi nel parco sul viale

    Nel frattempo, ecco alcuni degli altri interventi nella variante. I principali riguardano le aree verdi e quelle per lo sport. Ci sono ulteriori siepi e «percorsi pavimentati, lateralmente e tra i campi da gioco, con un grigliato salvaprato: un sistema di piastre modulari componibili che rendono calpestabile il prato, mantenendolo compatto e folto». Tutte cose che rendono necessari anche altri impianti di irrigazione per la vegetazione extra.
    Niente più campo da squash, poi, con alcuni degli altri campi a cambiare posizione rispetto alle origini per «un più efficiente ed equilibrato assetto distributivo tra gli spazi».
Quanto allo skatepark, «la Stazione Appaltante ha proposto di effettuare delle modifiche sulla progettazione dello stesso in modo da avere una pista che potrebbe essere utilizzata anche nelle competizioni agonistiche».

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    Operai al lavoro vicino ai campetti

    La demolizione è il destino che attende, ai piedi della Sopraelevata, «i 20 mt di pista ciclabile esistente, in quanto realizzati al di fuori sia del presente contratto d’appalto, sia del precedente contratto per la realizzazione della Metrotranvia e non integrati con il progetto esecutivo». Al loro posto ci sarà un prato. Invece «le aree cementate saranno demolite al fine di realizzare delle aree pavimentate ed una rampa pedonale per l’attraversamento della rotonda stradale».

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    Il laghetto artificiale su viale Mancini

    Si sposteranno alcuni lampioni e arriveranno panchine nella zona dei tavoli da ping pong. In previsione anche 60 metri di ringhiera a lato della cosiddetta “area bambini”. Meglio evitare che i piccoli possano cadere nel dislivello tra il parco e la via privata che lo costeggia, nessuno ci aveva pensato prima.
    Sempre per scongiurare cadute (con bagno annesso) si installerà pure un parapetto, assente dalle previsioni iniziali, in acciaio corten lungo 2/3 dei bordi del laghetto artificiale. Sul restante terzo, toccherà a una siepe proteggere gli utenti della ciclabile da tuffi indesiderati.

    Luci della città

    Col laghetto, però, ecco un ulteriore problema: non c’era modo di alimentare gli impianti di sollevamento dello stesso e delle fontane circostanti. Così come i 5 ulteriori pali della luce alti 12 metri da installare che dovrebbero supplire alla scarsa illuminazione della zona. O, ancora, l’impianto a LED per abbellire lo specchio d’acqua. Le ragioni? «Di natura tecnica, logistica ed amministrativa», che non hanno reso «possibile attivare una nuova fornitura».

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    Ancora il laghetto. A sinistra, la pista ciclabile. In fondo, gli uffici del Comune nel complesso Due Fiumi

    C’entreranno qualcosa i 5 milioni di euro di bollette elettriche non pagate da Palazzo dei Bruzi tra il 2020 e il 2022, che il Comune dovrà iniziare a saldare tra pochi giorni e finire di pagare a giugno 2026?
    L’atto non lo precisa, fatto sta che toccherà rifornirsi di elettricità altrove rispetto alle previsioni iniziali. Nello specifico, con un collegamento sotto la sede stradale di via Baccelli tra gli impianti nella piazza e «una fornitura già attiva dell’Amministrazione Comunale e localizzata all’interno dei locali tecnici del complesso commerciale “Due Fiumi”».

    Usa e getta

    Ulteriori spese le dobbiamo a due classici intramontabili per Cosenza e il viale: gli sprechi e i rifiuti. Pagheremo parte dei 175mila euro della variante, ad esempio, per «rimozione, trasporto e conferimento ad impianto di recupero autorizzato, di 150 griglie metalliche in ghisa alla base delle alberature». Le abbiamo comprate e installate. Magari qualche volta, senza esagerare troppo, pure manutenute. Oggi apprendiamo che «rappresentano una limitazione ed una strozzatura per la crescita della pianta e che potrebbe, addirittura comprometterne la crescita e sopravvivenza».

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    Un addetto alla pulizia del viale in pausa

    Sborseremo, infine, qualche altro quattrino per smaltire «macerie di calcestruzzo e bitume non imputabili alle lavorazioni del presente contratto d’appalto». Le hanno trovate gli operai scavando per realizzare il laghetto. Erano lì, forse, da quando si costruiva il viale, nella sua forma originaria, posando l’asfalto sulla spazzatura.
    Alle tradizioni non si rinuncia, alla metro non si sa.

  • Europa, quando per la pace si pensò di cedere Calabria e Sicilia alla Grecia

    Europa, quando per la pace si pensò di cedere Calabria e Sicilia alla Grecia

    «C’è qualcuno che crede davvero, seriamente, che le conseguenze dei negoziati di pace finora abbiano assicurato la pace eterna?».
    Appaiono incredibilmente attuali le domande che si poneva un anonimo commentatore subito dopo la fine della Prima guerra mondiale. Domande che probabilmente facevano parte di quel dibattito pubblico che, al tempo, tentava di individuare una sorta di cammino comune per ciò che già si chiamava Europa.

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    La Cornell University

    Oggi sappiamo che c’è voluta un’altra guerra mondiale – oltre ad innumerevoli conflitti interni e minori – prima di arrivare alla moderna concezione di Unione Europea, già immaginata in quel progetto di Paneuropa abbozzato nel 1922 per contrastare i totalitarismi militari e le “vendette” tra popoli vicini.
    Eppure, dopo la fine del primo conflitto mondiale (che provocò tra i 15 ed i 17 milioni di morti civili e militari) dovevano essere in molti ad avere una propria ricetta per la pace.
    Nel 2017 la Cornell Univesity di Ithaca ha digitalizzato e pubblicato un documento conservato per quasi un secolo tra i loro archivi. Si tratta di una mappa del 1920, nella quale si ipotizzava un articolato e bizzarro piano per la “pace duratura” in Europa, in cui l’Italia viene addirittura divisa in quattro parti.

    La mappa di Maas

    Il foglio, 60×80 centimetri, venne realizzato da un anonimo P. A. Maas (ipotizzato come Philippe André Maas, figlio del tipografo Otto Maas operante in Vienna). La mappa fa parte di un opuscolo di 24 pagine, intitolato The Central European Union! A guide to lasting peace nel quale l’autore ipotizza una nazione “divisa ma unita” che ha come fulcro il Duomo di Santo Stefano a Vienna.
    Nel testo del libretto (che purtroppo non è stato digitalizzato, ma solo parzialmente trascritto) viene dunque ipotizzata una primordiale unione (Einheitsstaates, ossia “stati uniti”) nella quale convivono pacificamente 4 popoli – romani, germani, slavi e magiari – suddivisi in 24 cantoni, che prendono il nome dalle rispettive capitali del tempo.

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    La nuova Europa suddivisa in 24 cantoni nella mappa custodita dalla Cornell University

    Un modello “federale” imperniato su una visione decisamente austro-ungarica del continente, che si differenzia da tante altre mappe del tempo per l’inusuale quanto insolita suddivisione conica (potremmo definirla a fette) difficilmente attuabile nella realtà. Ma di fondo, si tratta di un’utopia, che prevedeva – tra le altre cose – l’uso dell’esperanto come lingua principale.

    Europa in pace: l’Italia (e la Calabria)

    Già a vista d’occhio, la mappa presenta dei dettagli anomali. Ad esempio, non fanno parte dell’unione la Spagna ed il Portogallo, né la Bulgaria, la Grecia o la “Serbia-Albania”. Escluse anche Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia, Gran Bretagna ed Irlanda, così come tutta la Russia. Indicato anche l’Hebraisches Reich in corrispondenza dell’odierna Israele, oltre a numerose zone neutrali.
    Anche l’Italia è sostanzialmente esclusa dall’unione: presente solo il cantone di Milano (che comprende grossolanamente l’area dell’odierna Lombardia, del Piemonte e della Valle d’Aosta). Il resto della penisola coinvolta (comprendente Liguria, Emilia-Romagna, Veneto, parte di Toscana) rientra nel cantone di Marsiglia.

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    Le quattro Italie nella mappa di Maas

    Tutto il resto del bel paese, fino ai confini del Pollino in Calabria, è identificato come Kirchenstaat, e dunque lo Stato della Chiesa o dei papi. La Sardegna invece è associata alla Spagna, e dunque al di fuori dell’unione a differenza della Corsica.
    Che succede invece oltre il Pollino? Nella nuova Europa finalmente in pace l’enigmatico autore ha riunito la Calabria e la Sicilia alla Grecia, territorio che comprende anche l’isola di Creta (all’epoca ancora nota con il nome della sua antica capitale, Candia) ma non l’isola di Malta.

    Rivalse cartografiche?

    Una visione audace, in un certo senso, dettata da un accomunamento storico o mossa da differenti ambizioni? L’Italia era unita già da 59 anni, ma nell’idea dell’autore è stata “scomposta” riproponendo una divisione simile, seppur differente, a quella preunitaria. Parte dell’ex regno borbonico dunque non venne neppure inclusa nello stato ecclesiastico, ma addirittura associata alla Grecia.
    Bisogna notare infatti che nella mappa realizzata da Maas vi sono alcuni “stati cuscinetto” che proteggevano il confine a sud dell’ipotizzata unione. Mentre sul fronte spagnolo e sul fronte russo si disegnano delle linee militari, a separare la Grecia (ma anche la Turchia) sono tre stati autonomi, che di fatto rappresentano un’ulteriore barriera: un modo per limitare nuove invasioni da sud?

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    Soldati italiani con la divisa asburgica durante la Grande Guerra: decine di migliaia di altoatesini combatterono per il Kaiser durante la Grande Guerra

    Per quanto riguarda il Sud Italia, invece, si può ipotizzare una sorta di “rivalsa” a seguito del comportamento ambiguo ed ambivalente che i Borbone tennero proprio nei confronti del regno austriaco: sebbene Francesco II trascorse i suoi ultimi anni anche a Vienna, era ancora vivo il ricordo della guerra mossa da Ferdinando II, per volere del primo governo costituzionale del Regno delle Due Sicilie.
    Ciò avvenne nonostante gli storici legami di parentela con la corona austriaca, e dopo secoli di avvicendamenti e conquiste reciproche. Ma parliamo di una mera ipotesi: non è da escludere infatti che l’autore abbia voluto semplicemente accomunare un territorio già noto al tempo come Magna Græcia con quella che riteneva essere la sua vera patria.

    La Mitteleuropas

    Ad ogni modo, non bisogna guardare questa mappa con sospetto, né ipotizzare moderne concezioni di razzismo. L’originale disegno di Maas infatti rientra a pieno titolo nella logica del tempo, quando l’idea di Europa centrale era differente rispetto ad oggi.
    La “mitteleuropas” infatti comprendeva originariamente le regioni tra i fiumi Reno e Vistola, ed oggi si estende tra Germania, Svizzera, Polonia, Austria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Ungheria e Liechtenstein. La Francia ed il Regno Unito fanno parte dell’Europa occidentale, mentre Portogallo, Spagna ed Italia di quella meridionale.
    Il concetto di Mitteleuropa era molto importante anche prima della guerra, in quanto – di fatto – riguardava due regni: quello tedesco e quello austro-ungarico, che volevano porsi entrambi come baricentro dell’unione e dei suoi equilibri. Equilibri non solo umani e sociali, ma anche (se non sopratutto) economici.

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    1916, il generale Toshev e Hilmi Pasha osservano la battaglia nei dintorni di Medgidia (archivio Toshev)

    In tal senso, si tendeva dunque a disegnare un’area di influenza (o di egemonia) proprio in base alle etnie, che al tempo si usava dividere sommariamente per lingua, costumi, religioni ed usanze. Nel corso degli anni l’Europa centrale si è poi ingrandita fino a comprendere altre regioni storiche, arrivando alla massima espansione ipotizzata dallo stesso Maas nella sua mappa.
    Quella che ci troviamo di fronte, dunque, è la raffigurazione di un’idea probabilmente molto diffusa al tempo: l’idea di un’unione necessaria per la pace. Ma è pur sempre un’idea parziale, nata e sviluppata in quello che al tempo era il centro di un’Europa oggi molto più grande.

    La Calabria nella nuova Europa in pace

    Fa comunque riflettere il fatto che, per arrivare alla tanto agognata pace in Europa, fosse necessario addirittura escludere interi paesi e che in questo intricato scacchiere internazionale abbiano trovato un posto addirittura singole regioni, come la Calabria. Come se già al tempo fosse percepita come una realtà distante e addirittura distaccata dalla nascente unione.
    Almeno nelle intenzioni di un anonimo mappatore viennese.

    Francesco Placco

  • Il domani di Paola Cortellesi ci sarà ancora per Sangiuliano e Valditara?

    Il domani di Paola Cortellesi ci sarà ancora per Sangiuliano e Valditara?

    Il grande successo del film con cui Paola Cortellesi firma il suo esordio alla regia fa ancora parlare di sé anche per il record d’incassi. Si stimano oltre 27 milioni di euro e il concetto dietro C’e ancora domani certamente apparirà molto più chiaro anche al Ministero della Cultura. Lo stesso che al film, giudicandolo come “opera di scarso valore artistico e di qualità non straordinaria”, ha negato finanziamenti pubblici collocandolo addirittura come ultimo nella graduatoria del bando. Poco importa che alla data del 12 ottobre 2022, il Ministro che nominò la Commissione colpevole della bocciatura non era Sangiuliano, ma Franceschini. Il danno d’immagine è fatto. E ora Sangiuliano, oltre che elargire consigli di letture come il libro di Alessandro Sallusti, La versione di Giorgia, dovrebbe preoccuparsi, in concerto con il ministro Valditara, di portare questo film in ogni scuola italiana e di promuoverlo anche a livello internazionale.

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    I ministri Valditara e Sangiuliano

    Paola Cortellesi batte Ridley Scott

    C’è ancora domani ha avuto il suo meraviglioso domani, unico film di produzione italiana ad entrare nella Top 10 annuale, vincendo il Biglietto d’oro 2023. Dopo la presentazione in anteprima alla Festa del cinema di Roma, ha già portato a casa il Premio del pubblico, la Menzione Speciale Miglior Opera Prima e il Premio Speciale della Giuria.
    Dal 26 ottobre il lungometraggio riempie le sale cinematografiche, occupa le prime pagine dell’informazione, battendo anche Napoleon di Ridley Scott. Una prova insomma, qualora ce ne fosse bisogno, che il cinema italiano gode di ottima salute, anche quando racconta la storia di una donna di borgata a confronto con il più grande imperatore della storia contemporanea.

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    Joaquin Phoenix interpreta Bonaparte nel film di Scott

    Per questa volta la fascinazione del grande condottiero nulla può contro il femminismo in bianco e nero di Paola Cortellesi. E mentre tutti ne parlano, le interviste ai protagonisti si moltiplicano. Nessuno sembra intenzionato a rimanere fuori dal dibattito su di un film che fa molto ridere e, ancor di più, riflettere. Certo, il rischio è quello di non aggiungere nulla alla discussione su un’opera che, nonostante qualche vano tentativo di critica, semplicemente è bello da vedere e, possibilmente, anche da rivedere.

    Il 1946 di Paola Cortellesi

    La Cortellesi per la realizzazione del film ha seguito un percorso che può definirsi teatrale: tre mesi di prove prima di iniziare le riprese, cosa che nel cinema raramente avviene. Il cinema è fatto di scene tra attori che, molto spesso, si incontrano sul set giusto il tempo di un ciak, nulla a che vedere con il lungo lavoro di condivisione di una compagnia teatrale.
    La scena iniziale, vale a dire lo schiaffo di Ivano (Valerio Mastrandrea) alla moglie Delia (Paola Cortellesi), sembra una sorta di presentazione di ciò che accadrà, un prologo che ironicamente fa pensare «iniziamo bene!».

    Sarà Delia ad aprire il sipario sulla narrazione, spalancando la piccola finestra del seminterrato in cui abita con la famiglia. Delia guarda fuori dal basso della sua casa e dalla sua condizione di donna, non diversa da quella di tante donne degli anni ‘40. Ma aprire le finestre al nuovo sole è necessario per far entrare i nuovi sogni. La primavera del giugno 1946 è arrivata: le donne non saranno più le stesse di prima.

    I protagonisti di C’è ancora domani

    La guerra è finita da poco, l’Italia è stata liberata, la miseria è ancora tanta e la famiglia dei protagonisti vive la condizione del proletariato romano. Delia è moglie, madre di tre figli, vive anche con l’anziano suocero, il Sor Ottorino (Giorgio Colangeli), alla quale la donna è costretta a fare anche da badante. La figlia primogenita Marcella (Romana Maggiora Vergano) spera di sposarsi in fretta con Giulio (Francesco Centorame), un ragazzo del ceto borghese, e liberarsi così da una famiglia per molti versi disagiata.
    Le giornate di Delia si svolgono tra la pulizia della casa, i lavoretti che svolge correndo da una parte all’altra della città per aiutare la famiglia, ma anche le botte e le umiliazioni del marito, quasi fossero uno dei compiti da assolvere quotidianamente.
    C’è Marisa (Emanuela Fanelli), la sua amica del cuore, con cui condivide confidenze e momenti di leggerezza. Ma c’è anche Vinicio Marchioni nella parte di Nino, il primo amore di Delia, capace di suscitare sentimenti di tenerezza che non possono essere ignorati.

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    Ritratto di famiglia

    Ricordi in bianco e nero

    Un giorno a Delia, che non aveva mai scritto nessuno, arriva una misteriosa lettera. E in quel momento comprende di avere una propria identità.
    Una storia semplice, un racconto come tanti. Non è una storia di donne, quanto il racconto di un momento storico in cui le donne sono protagoniste. Paola Cortellesi porta sullo schermo delle storie di quelle che raccontavano le nonne, di quelle che si ascoltavano nei cortili dei palazzi, dove tutti sapevano tutto degli altri e dove anche le botte erano una consuetudine.

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    André Bazin

    Il film è girato in bianco e nero, perché questo è il colore dei ricordi, di storie di cui abbiamo immagini grazie a quel neorealismo che, se da una parte non c’entra niente con la cifra stilistica della Cortellesi, dall’altra portava sullo schermo le storie della gente povera, frustrata, ma anche desiderosa di riscatto all’indomani del secondo conflitto mondiale.
    Il bianco e nero, come affermava André Bazin, trasfigura la realtà stilizzandola e rendendola evidente per sottrazione. E poi, proprio perché è il colore del ricordo, la soglia della coscienza rimane proiettata in quel tempo anche quando la colonna sonora ci riporta in un presente pop-punk-jazz.

    Cattivi che non seducono

    La linea dell’umorismo attraversa il film, soprattutto quella che ritrae i personaggi cattivi. Come ha affermato la stessa regista, solitamente la cattiveria rende i protagonisti affascinanti, quasi seduttivi. Cortellesi, invece, vuole sminuirli facendoli apparire ridicoli, quasi stupidi.
    La violenza tra le mura domestiche è resa come una sorta di rituale, un balletto grottesco che normalizza una situazione cancellandone immediatamente i lividi, incapaci di lasciare segni. Cortellesi voleva proprio evitare l’effetto volgare di un voyeurismo che osserva dal buco della chiave le botte in casa altrui. Trasforma così, con maestria, la brutalità in un effetto kafkiano, rendendo alcune scene ancora più intollerabili anche grazie ad un effetto di straniamento.

    E oggi c’è ancora un domani?

    Forse è proprio la capacità di straniamento che consente a Delia di guardare in faccia la propria vita, liberare la figlia da un destino già segnato, di indossare il rossetto e andare avanti in una rivoluzione che, anche se a bocca chiusa, le ha consentito di autodeterminarsi.
    Alla certezza di Delia di avere ancora un domani per portare avanti la sua rivoluzione aggiungerei un punto interrogativo: oggi c’è o potrà esserci ancora un domani per tante altre donne che, in altri paesi, nel nome dell’estremismo religioso, rischiano di trovare la morte ancor prima di aver realizzato la loro personale rivoluzione?

  • Pietro De Roberto, il massone che sdegnava il potere

    Pietro De Roberto, il massone che sdegnava il potere

    Pietro De Roberto: un nome che a Cosenza dice poco a molti, ma pure qualcosa a tanti. Una via a suo nome, lì dove per anni ha avuto sede una delle principali e più longeve case massoniche in uso alla compagine locale del Grande Oriente d’Italia.
    Una loggia a suo nome, e una delle più prestigiose e datate: più esattamente la “Bruzia – Pietro De Roberto 1874 n. 269”, che tra pochi mesi festeggerà i 150 anni di lavori. Conteggio ovviamente approssimativo, che non conta cioè il ventennio di inattività dovuto alle leggi fasciste. Fu infatti soltanto nel dicembre del 1943 che la loggia si poté risvegliare, grazie alla determinazione del Venerabile Samuele Tocci e di Alessandro Adriano, del pediatra mazziniano Mario Misasi, del medico antifascista Giuseppe Santoro, di Vittorio Tocci nonché di Emilio e Giovanni Loizzo.

    La Loggia Bruzia – Pietro De Roberto

    La Loggia Bruzia–Pietro De Roberto ne aveva passate, insomma, di cotte e di crude, e senza contare i trasferimenti fisici da Casa Tocci ai locali – ormai non più esistenti – di proprietà dei fratelli Loizzo in via Cesare Marini e poi in quelli di via Guglielmo Tocci. Proprio durante la prima convocazione straordinaria, dopo 18 anni di imbavagliamento fascista, il Venerabile Tocci diede lettura dell’ultimo verbale, quello del 18 settembre 1925, e aggiunse una raccomandazione nuova di zecca: «È necessario intanto combattere ogni attività estremistica ed impedire il dilagarsi del Partito democratico cristiano, che vorrebbe ripetere la nefasta attività del Partito popolare». Buona intenzione disattesa, alla luce dell’ormai documentato equilibrio catto-massonico che resse Cosenza nel secondo dopoguerra.

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    Sigillo della prima Loggia Pietro De Roberto n. 269

    Un rivoluzionario al governo

    Ma torniamo a Pietro De Roberto, che alla loggia – e alla via – dà il nome. Non un Carneade qualsiasi: nacque a Cosenza, il 1° giugno 1815, in una casa di Strada Santa Lucia, dal Consigliere d’Intendenza Francesco (poi magistrato) e da Nicoletta Guarasci.
    Trasferitosi a Napoli, dove conseguì la laurea in Medicina, aderì lì alla Giovine Italia, alla Carboneria locale. Lo perseguitò, pertanto, la polizia borbonica. Dopo un tentativo di sommossa a Cosenza, partecipò ai moti del ’48, che gli costarono quattro anni di carcere «per attentati volti a distruggere e cambiare il Governo ed eccitare gli abitanti del Regno ad armarsi contro l’autorità» nonché «per aver senza diritto o motivo legittimo preso il comando delle Guardie Nazionali». Per tutta risposta, quando Garibaldi nominò Governatore della Provincia Donato Morelli, quest’ultimo chiamò proprio De Roberto a prendere parte al Governo Provvisorio.

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    L’atto di nascita di Pietro De Roberto

    Pietro De Roberto «sindaco perenne»

    Fu così consigliere provinciale per il mandamento di Cosenza: in occasione delle elezioni suppletive comunali di Cosenza del 1886 – dovute alle dimissioni del sindaco Clausi – il giornale La Sinistra auspicò la creazione di una lista guidata proprio dal medico, candidandolo contrariamente al suo stesso parere a «sindaco perenne», per «l’onorabilità  della vita e la fermezza del carattere».
    Pietro De Roberto tuttavia rifiutò poiché non concepiva il cumulo delle cariche, così come in passato aveva rifiutato la candidatura al Parlamento dichiarando di non possedere le virtù indispensabili a un legislatore e di non avere i mezzi per vivere nella capitale.

    Il medico e il 33

    Nello stesso 1886 si trovò però assieme ad altri massoni – compreso il futuro senatore Nicola Spada – tra i fondatori della neonata succursale della Banca Agricola in Piazza piccola. Pietro De Roberto era appartenuto infatti alla loggia cosentina Pitagorici Cratensi Risorti e, il 7 ottobre 1874, aveva fondato, assieme ad altri fratelli della stessa, la loggia Bruzia, laddove si sarebbero affrontati con impegno i problemi dell’educazione elementare e di quella domenicale per le donne, dell’educandato femminile, della polizia urbana, dell’annona, delle società  e scuole operaie, di un dispensario gratuito per i poveri e finanche della fondazione di un Gabinetto di lettura come mezzo di lavoro e propaganda.
    Nel biennio 1888-1889 risulta Venerabile, e di grado 33°, della stessa loggia.

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    Brevetto di Maestro rilasciato dalla Loggia Bruzia e firmato dal venerabile De Roberto

    Pietro De Roberto morì il 2 aprile 1890. Lo commemorarono nella sala dell’Istituto Tecnico cittadino mentre le sue esequie si svolsero in forma civile: «Aprivano il corteo le società  operaie, seguivano i Fratelli delle due logge cittadine con i labari, le Scuole, i Consiglieri Comunali e Provinciali, le autorità  militari e civili. La bara fu portata dai Maestri Venerabili della Bruzia e della Telesio, e dal Presidente del Consiglio Provinciale. Il corteo, dopo aver attraversato la città fra la più profonda commozione, si fermò presso il Palazzo dei Tribunali, dove il De Roberto fu commemorato dal Sindaco e dal Presidente della Provincia».

    Il monumento a Pietro De Roberto

    L’inaugurazione del busto in memoria di Pietro De Roberto, opera di Giuseppe Scerbo, scultore massone reggino, dell’ingegnere Marino e del geometra Prato, fu inaugurato nel cimitero di Cosenza il 3 novembre 1890, con un discorso di Giacomo Manocchi, tesoriere della loggia Bruzia  (e, in quel biennio, di grado 18°) nonché pastore valdese impegnato nell’evangelizzazione nelle cittadine di Corigliano, Altomonte, Lungro, S. Sofia d’Epiro, S. Demetrio Corone, e Vaccarizzo Albanese.

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    Simboli massonici sul basamento del busto funebre di Pietro De Roberto (foto L.I. Fragale)

    Sul monumento spiccano piccole figure esoteriche sui quattro lati del basamento: le insegne del Rito Scozzese Antico e Accettato, poste frontalmente; una squadra assieme ad un serpente accollato al maglietto e a un piccolo destrocherio di scalpellino; le insegne del 33° grado; infine, squadra e compasso in grado di Compagno (e non, come sarebbe stato più corretto, in grado di Maestro) accompagnate da un teschio accollato a una tibia e trafitto da un pugnale.
    Il basamento riporta la seguente epigrafe di mano del cavaliere Zanci: «Pietro De Roberto 33 / nei moti / pel civile riscatto / uno de’ primi / cariche ed onori / sdegnando / menò vita povera / esempio ai posteri / di antica virtù».

  • Mancinismi: Giacomo e la legge dei sindaci

    Mancinismi: Giacomo e la legge dei sindaci

    Trent’anni dall’elezione diretta dei sindaci e di Giacomo Mancini vittorioso a Cosenza. Il leone socialista cambiò in meglio la sua città, vinse anche con i voti della destra, fu avversato e subìto apertamente o meno nel corso degli anni da una larga parte degli eredi locali del Pci in un rapporto di reciproca diffidenza. Al di là dei distinguo, dei però, dei forse, questo elemento è difficile da mettere in discussione. Argia Morcavallo, dirigente del Pds di allora – ha ricordato quel periodo con estrema lucidità: «Ho fatto la guerra a Giacomo». Poi arrivò la cosa 2 di Dalema sancendo l’alleanza delle sinistre. Le cose cambiarono, ma fino a che punto?
    La guerra all’ex ministro e segretario del Psi secondo Saverio Greco – giovane socialista nell’agone di Palazzo dei bruzi – non è mai finita. Con gli ex comunisti «sempre pronti a farlo fuori».

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    Giacomo Mancini

    Il ruolo di Martorelli

    L’iniziativa del Club Telesio ha riannodato i fili di quella stagione politica e umana. A dirigere le danze il giornalista Antolivio Perfetti che di quella candidatura manciniana fu uno dei più attivi promotori e sostenitori. Perfetti ha svelato il ruolo di una figura storica del Pci come Martorelli nel countdown che portò alla presentazione della candidatura di Giacomo.
    Mancini ebbe il fiuto di cavalcare la nuova legge che sanciva l’elezione diretta dei sindaci. Enzo Paolini – allora giovane protagonista di quella avventura amministrativa e politica – ha messo in guardia da facili entusiasmi sulla semplificazione come unico strumento per arginare la poca governabilità: «L’elezione di Mancini fu straordinaria, ma quella legge non ha mai funzionato».

    E oggi con l’accelerazione della maggioranza parlamentare sul premierato si insinua nuovamente il fantasma della semplificazione a tutti i costi e del decisionismo senza contrappesi. Paolini lo ha evidenziato cogliendo lo spirito e i rischi di certa ingegneria istituzionale all’italiana. Di parere contrario è stato Mario Oliverio, ex presidente della Regione Calabria: «L’elezione diretta del sindaco è stata una scelta importante e giusta, rompendo l’instabilità politica di prassi prima del 1993». Su Mancini ha aggiunto un aneddoto personale. Il primo giorno da parlamentare telefonò all’ex segretario del Psi, dicendo: «Quanto si sente la tua assenza qui alla Camera». Ha aggiunto: «Mancini si commosse».

    Mancini e l’importanza del contesto

    Serviva uno storico rappresentante della Democrazia Cristiana come Pierino Rende per uscire un po’ fuori dal coro della laudatio totalizzante, in questo caso manciniana, di certe ricorrenze: «Non amo queste celebrazioni, si scade sempre nella retorica». Come dargli torto. L’ex parlamentare riporta il discorso sull’attualità della città unica, sull’eredità manciniane che ne hanno aperto la discussione. Ha ricordato «Il contributo del piano Vittorini con la trasformazione di via Popilia» e gli sforzi per abbattere il muro centro-periferia. Un muro che è esistito davvero. Di mattoni e cemento.

    La conquista di Palazzo dei Bruzi da parte di Mancini è preceduta da un «contesto caotico», sullo sfondo di un’Italia travolta dal ciclone Tangentopoli. La questione giudiziaria, di altra natura rispetto ai garofani al Nord, lambì anche Giacomo che fu poi assolto. Paride Leporace, giornalista che in quel 1993 capeggiava la lista Ciroma, l’ha citata e poi ha spiegato in poche battute il meltin’g pot elettorale messo in piedi dal leone socialista: «Un civismo spinto al massimo, dentro c’erano preti, periferie e la destra estrema». Ne avrebbe parlato Arnaldo Golletti di quella destra, ma ieri non era al tavolo dei relatori seppur presente tra i nomi del manifesto.

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    Nipote e nonno: Giacomo Mancini fa un selfie con la statua dello statista socialista (foto A. Bombini)

    «La destra non fu determinante»

    Giacomo Mancini (il nipote del leone socialista), ex parlamentare e assessore regionale, ha contestato questa versione dei fatti: «Uno degli animatori di quella lista era Pino Tursi Prato e poi c’era qualcuno collocato a destra». Non furono così determinanti come in tanti nella sua città continuano a ripetere, appunto, da 30 anni? A suo parere no. Nel suo intervento non poteva mancare un accenno alla vicenda giudiziaria che investì suo nonno in una serata in cui sul contesto politico e sociale di quegli anni si sono spese tante parole. Mancavano all’appello le parole di un altro socialista che ha recitato un ruolo importante nello scacchiere politico: Sandro Principe. Peccato. Il suo punto di vista avrebbe ampliato il racconto dei vari mancinismi evocati a piazza Parrasio.

  • Joe Zangara, il calabrese che sparò a Roosevelt

    Joe Zangara, il calabrese che sparò a Roosevelt

    Il cinema, fin dalle sue origini, ha portato sul grande schermo le storie del sogno americano inseguito anche da milioni di italiani. Il teatro, invece, sembra essersi interessato poco a queste vicende, ma trova nell’attore e regista teatrale cosentino Ernesto Orrico un divulgatore di storie di migrazioni.
    Già con la regia di Malamerica, su una drammaturgia di Vincenza Costantino, aveva dato voce alle tribolazioni degli emigrati che non ce l’hanno fatta e i cui nomi si perdono nell’oblio della storia. Tra di loro, anche un anarchico, come i più noti Sacco e Vanzetti, finito sulla sedia elettrica nel 1933 dopo dieci giorni nel braccio della morte della Florida State Prinson di Raiford.
    Joe Zangara, protagonista dello spettacolo La mia idea. Memoria di Joe Zangara, era partito da Ferruzzano, in provincia di Reggio Calabria, nel 1923.
    L’opera trae spunto dal libro del 2020 La mia idea. Memoria di Joe Zangara, pubblicato nell’edizione italiana e inglese da Erranti nella collana La scena di Ildegarda e scritto da Ernesto Orrico, Massimo Garritano, tradotto da Emilia Brandi.

    Joe Zangara e l’attentato

    Giuseppe Zangara nasce nel 1900 in una terra che le logiche del latifondo costringono ad arretratezza e marginalità. Un’infanzia difficile la sua: perde troppo presto l’affetto materno e si ritrova a vivere tra la fame, la violenza di un padre padrone e una malattia cronica che gli procura forti dolori addominali, specchio del suo male di vivere.
    Dopo aver combattuto gli ultimi mesi del primo conflitto mondiale anche lui, come tanti, si lascia sedurre dal sogno americano e lascia per sempre l’Italia.

    È proprio su questa figura di perdente, nel suo aspetto più intimo, che Orrico si concentra. Un uomo condannato per aver attentato alla vita dell’allora Presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, procurando la morte del sindaco di Chicago, Anton J. Cermak.
    Zangara è realmente colpevole di un tentato omicidio e dell’assassinio di un uomo, una condizione che non gli consente riabilitazioni come per Sacco e Vanzetti.

    Due lingue e un flusso di coscienza in musica

    La mia idea Memoria di Joe Zangara prende spunto dal memoriale che lo stesso Zangara scrive pochi giorni prima che lo giustizino. Orrico e Garritano lo presentano come uno spettacolo/concerto.
    Il racconto in prima persona procede attraverso un linguaggio capace di fondere termini dialettali calabresi con un inglese/americano  forzato, ma mai stentato. Ed è proprio questo bilinguismo a sottolineare l’incapacità di adeguarsi completamente ad una nuova realtà sociale.

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    Orrico e Garritano sul palco (foto noteverticali.it)

    La mescolanza di termini evidenzia il voler rimanere ai margini di Joe Zangara, estraneo alla nuova vita che aveva scelto di seguire, così come lo era nella sua terra.
    Il piccolo emigrante calabrese è insoddisfatto della sua vita e lo racconta attraverso un flusso di coscienza che si intreccia con la sonorità degli strumenti a corda. Allora il bouzouki e il dobro non sottolineano pensieri, diventano essi stessi riflessioni, rabbia e dolore.

    Il sogno americano infranto

    In scena vanno i sentimenti di un uomo dal destino segnato. E, attraverso questi, l’umanità e lo sdegno di chi, lasciando la propria terra per scelta o perché costretto, si accorge che il Nuovo Mondo è solo il luogo della perdita del valore umano, minacciato dalla logica dei consumi o barattato con la promessa di una effimera ricchezza.

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    Franklin D. Roosevelt pochi istanti prima che Joe Zangara gli sparasse

    L’attentato di Joe Zangara a Roosevelt, il 15 febbraio 1933, rappresenta l’incapacità di adeguarsi a vivere in un sistema che ha bisogno di sfruttare la gente per far decollare l’economia americana dopo la Grande Depressione del 1929.
    Il New Deal per Joe Zangara si traduce in un sentimento di anticapitalismo, “la sua idea”, cui Orrico e Garritano danno corpo attraverso parole e musica nell’autobiografia più intima di un condannato a morte.

    Joe Zangara dagli States al Rendano

    Dal 27 ottobre al 5 novembre i due hanno riportato Joe Zangara negli States tra la comunità italo-americana in occasione della decima edizione del festival In Scena! Italian Theater Festival NY Fall Edition 2023, promosso da Kairos Italy Theater in collaborazione con Kit Italia e Casa Italiana Zerilli-Marimò at NYU, con il supporto del Ministero per gli Affari Esteri e la Cooperazione Internazionale.

    La kermesse, a cura di Laura Caparrotti e Donatella Codenescu, ha quindi raggiunto San Diego e Santa Rosa in California, poi Calgary e Lethbridge in Canada, con spettacoli teatrali per le comunità di origini italiane e incontri tra artisti italiani e internazionali rendendo concreto il senso più profondo del teatro che vuole essere un incontro, non solo tra pubblico e attori, ma tra comunità, tra culture e identità che si ritrovano oltre quell’oceano attraversato molti anni prima della loro nascita dai loro stessi progenitori.

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    Il Teatro Rendano di Cosenza

    Dopo il tour nordamericano, lo spettacolo torna adesso nei teatri della Calabria per il progetto speciale di Fondazione Armonie d’Arte, L’Altro Teatro e Nastro Mobius, nel cartellone di Un Giorno All’Improvviso .
    La mia idea. Memoria di Joe Zangara di Ernesto Orrico, con le musiche di Massimo Garritano, produzione Zahir/Teatro Rossosimona va in scena infatti nella Sala Quintieri del teatro Rendano di Cosenza venerdì 8 dicembre alle 19. L’ingresso è gratuito.

  • Parco Aspromonte: tra Autelitano e Putortì è guerra sulle assunzioni

    Parco Aspromonte: tra Autelitano e Putortì è guerra sulle assunzioni

    All’Ente Parco Aspromonte è ormai guerra totale tra il presidente Autelitano e il direttore amministrativo Putortì. Da quando I Calabresi  hanno dato notizia del parere dell’Avvocatura dello Stato sui quesiti di Giuseppe Putortì in relazione alla legittimità delle assunzioni di 5 ex LSU e LPU volute da Leo Autelitano, è in atto una battaglia senza esclusione di colpi.
    Nell’attesa che si svolga la riunione del Consiglio Direttivo il prossimo 24 novembre con, tra i punti all’ordine del giorno, le “Contestazioni al Direttore dell’Ente. Determinazioni”, il presidente e il direttore se le stanno dando di santa ragione.
    È di pochi giorni fa, il 17 novembre, la pubblicazione di due atti: un decreto del Presidente, n°3 del 17/11/2023 e una determina del direttore, n° 501 della stessa data.

    Parco Aspromonte: Autelitano blocca Putortì

    Il primo annulla i provvedimenti disciplinari che ha preso la Direzione amministrativa contro Silvia Lottero. È la funzionaria che firmò i provvedimenti di passaggio nella dotazione organica di 5 dei 17 LSU/LPU stabilizzati. Ad oggi risulterebbe colpevole di un ingente danno erariale per l’ente.
    Putortì, nella qualità di componente dell’ufficio procedimenti disciplinari, avrebbe infatti dato il via ad un procedimento disciplinare contro di lei.
    Il Consiglio Direttivo, lo scorso 23 ottobre 2023, aveva audito Lottero in merito alle circostanze. In quell’occasione nessuno avrebbe sollevato osservazioni, almeno secondo quanto riportano le premesse del decreto di Autelitano.
    La nostra redazione ha dato piena disponibilità a raccogliere le dichiarazioni della funzionaria sulla vicenda in corso. In risposta, ad oggi, nessuna nota o sollecitazione però.

    Leo Autelitano, il presidente dell’Ente Parco dell’Aspromonte

    Ora, nonostante i richiami alla violazione dell’articolo 4, commi 1 e 4, del regolamento disciplinare dell’Ente Parco, il decreto presidenziale potrebbe configurarsi come un abuso.
    Non rientrerebbe nelle prerogative del presidente né del Consiglio direttivo – il primo dei quali è, ricordiamolo, un organo di indirizzo e orientamento politico – annullare atti datoriali. Né tantomeno potrebbero occuparsi dei procedimenti disciplinari. Essi sono prerogativa esclusiva del datore di lavoro e/o dell’ufficio procedimenti disciplinari per questo nominato.

    Parco Aspromonte: Putortì, Autelitano e la determina 

    Il secondo provvedimento emanato lo scorso 17 novembre annulla con effetto immediato la determina 295/2021 che portò a quelle assunzioni e stabilizzazioni.
    In particolare, il documento dichiara

    • «la caducazione automatica dei rapporti di lavoro stipulati in data 01 Luglio 2021 (…) essendo venuto meno il presupposto in base al quale il rapporto di lavoro è stato costituito»;
    • la ricollocazione «con effetto immediato tra i soprannumerari con conseguente ed immediata modifica del proprio status e trattamento retributivo e contributivo di cui al contributo assegnato per i lavoratori ex Lsu-Lpu stabilizzati»;
    • il recupero di «tutte le somme (…) corrisposte e versate dalla data di stipula dei singoli contratti di lavoro (…) per effetto della [loro] illegittima assunzione in ruolo sino alla data della disposta risoluzione» da reinserire nel bilancio dell’Ente Parco.

    La determina è stata trasmessa alla Procura Generale della Corte dei Conti, al Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, al Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, e a quelli dell’Economia e del Lavoro, nonché alla Regione Calabria ed al Collegio dei revisori dei conti.

    Pino Putortì, il direttore del Parco dell’Aspromonte

    In sostanza le contestazioni sarebbero di tre ordini:

    1. l’assunzione illegittima di 5 delle 17 risorse in oggetto;
    2. la procedura illegittima, con una commissione – cui avrebbe preso indebitamente parte la Lottero – che avrebbe effettuato le prove selettive in violazione di un avviso secondo cui per le categorie C sarebbe stato necessario un concorso, sotto la gestione del Dipartimento della Funzione Pubblica;
    3. l’assorbimento dei 12 con competenze e funzioni diverse da quelle che avrebbero dovute avere.

    Il Consiglio direttivo ratificherà?

    Sono i due volti di quel Giano bifronte su cui si fonda l’attuale governance degli Enti Parco Nazionali italiani (legge 394/1991), le cui criticità aveva richiamato proprio Putortì in un’intervista su questo giornale.
    Ora a ratificare il decreto del presidente, come richiama il documento stesso, dovrà essere il Consiglio Direttivo. Vi siedono anche i rappresentanti dei Ministeri competenti, dell’ISPRA e delle associazioni di tutela ambientale. Ammesso che l’atto per cui si richiede ratifica ottenga il via libera, la presenza di tutti i componenti e il raggiungimento del numero legale valido darà già la misura di quanto ancora possa crescere l’intensità del conflitto in atto. E rappresenterà un forte segnale politico.

    La posizione delle associazioni

    Nel frattempo molto si è mosso. L’Associazione Guide Ufficiali del Parco ha rilasciato un comunicato in cui ha dichiarato come da tempo si conoscessero «i problemi e le criticità all’interno dell’Ente Parco». Così come che «il quadro delineato dalla pronuncia dell’Avvocatura dello Stato è a dir poco preoccupante» perché «la funzionalità e il regolare svolgimento dell’attività amministrativa dell’Ente pare sia stata compromessa da azioni e scelte dell’attuale governance».
    Per loro è ora di «difendere il Parco, che deve funzionare e deve farlo bene», in virtù della sua funzione per tutto il territorio della Città Metropolitana di Reggio. Operazione che si può realizzare solo se prevalgono istanze di chiarezza e trasparenza troppo spesso disattese o perdute in quello che ad oggi, per opacità, si configura come un vero e proprio porto delle nebbie.
    La prossima puntata della saga andrà in onda dopo il 24 novembre.

  • Rom, malavita e non solo: in manette Patrizio Bevilacqua

    Rom, malavita e non solo: in manette Patrizio Bevilacqua

    L’arresto di Patrizio Bevilacqua lo scorso sabato notte rappresenta un nuovo capitolo nelle vicende della criminalità legata ai clan rom di Reggio Calabria. L’uomo aveva già riportato una condanna per estorsione in relazione al caso Ventura. Stavolta lo hanno fermato mentre trasportava su un’Audi di sua proprietà un ingente quantitativo di stupefacenti assieme a dei bilancini di precisione.
    Il tutto avviene a qualche giorno dalla conferenza stampa sull’operazione Garden contro la ‘ndrangheta reggina dello scorso 14 novembre. A condurla, la Guardia di Finanza del Comando provinciale di Reggio Calabria col coordinamento della Procura distrettuale antimafia diretta da Giovanni Bombardieri.

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    Il procuratore Giovanni Bombardieri

    Il do ut des tra i rom e la ‘ndrangheta

    L’indagine, che colpisce le attività delle cosche Borghetto-Latella e ha portato alle misure cautelari per 27 persone, conferma le ipotesi tracciate nell’inchiesta de I Calabresi sul nuovo ruolo dei clan rom all’interno della ‘ndrangheta.
    Secondo gli inquirenti, i rom dei quartieri Modena-Ciccarello e Arghillà sarebbero ormai organici alla criminalità reggina nell’organizzazione dello spaccio di stupefacenti, di traffico di armi, estorsioni e usura, in continuità con le vicende che riguardano anche altre aree della Calabria, come la Piana di Gioia Tauro, la Sibaritide, il Lametino.
    In particolare i rom avrebbero fornito le armi da guerra trovate dalla Finanza. In cambio avrebbero ottenuto l’autorizzazione a esercitare i crimini in modo libero e autonomo. Potrebbero, infatti, contare su «un’organizzazione autonoma con all’attivo decine e decine di persone, soprattutto giovanissimi», hanno affermato alcune fonti investigative.

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    Una veduta del quartiere Arghillà

    Patrizio Bevilacqua e i guai a casa Ventura

    Si tratta di due vicende che seguono a un altro segnale inquietante: l’attentato intimidatorio dello scorso 24 ottobre alla famiglia Ventura. Ignoti, appropinquandosi all’abitazione dei Ventura, hanno esploso cinque colpi armi da fuoco contro la loro auto. Tutto ciò nonostante la Prefettura di Reggio Calabria avesse messo Francesco Ventura sotto tutela.
    L’episodio è avvenuto dopo l’uscita di diversi articoli sul tema e a margine di un’ulteriore condanna riportata da Patrizio Bevilacqua per violazione dei sigilli.
Osservando le immagini dell’attentato registrate dalle telecamere a circuito chiuso posizionate fuori dall’abitazione la mente torna gli anni Ottanta, quando a Reggio si sparava e vigeva una sorta di coprifuoco non dichiarato.

    Patrizio Bevilacqua, la politica e i Ventura

    Estorsione, trasporto e spaccio di stupefacenti, minacce: questi i segmenti di un filo che legherebbe Bevilacqua a logiche e azioni che vanno ben oltre la bassa manovalanza criminale per saldarsi al racket delle case popolari e alle nuove piazze di spaccio sotto il controllo dei clan rom.
    In merito al tema delle case popolari, la ricostruzione pubblicata da I Calabresi dopo l’analisi dei verbali di alcune commissioni consiliari del Comune di Reggio tratteggiava una situazione opaca e caotica. L’avevano denunciata sia l’allora dirigente del settore, l’avvocata Fedora Squillaci, sia l’ex delegato al patrimonio edilizio Giovanni Minniti.
    Si va avanti così da diversi anni, senza trovare soluzione. E senza che, alla luce delle nuove notizie, la politica abbia speso una parola o un gesto di solidarietà verso i Ventura che da anni, anche alla luce delle risultanze delle loro audizioni in quelle stesse commissioni, denunciano una condizione di illegalità diffusa e perdurante.

    Che diranno Ripepi e Lamberti?

    Le domande (e le risposte) che una politica usualmente prodiga di dichiarazioni – ma in questo caso muta – non può più ignorare sono di due ordini.

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    Massimo Ripepi

    Il primo riguarda quali provvedimenti si vogliono prendere per diradare la cortina di nebbia che regna sul settore dell’edilizia popolare del Comune di Reggio.
    Il secondo concerne la posizione che Massimo Ripepi ed Eduardo Lamberti Castronuovo assumeranno nei confronti di Bevilacqua. Quest’ultimo con Ripepi è stato candidato al Consiglio Comunale. Con Lamberti, invece, intratterrebbe rapporti di lavoro tali da avere a disposizione, per stessa ammissione di Lamberti, le chiavi di casa sua.

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    Eduardo Lamberti Castronuovo

    Entrambi i politici reggini hanno già da tempo lanciato la propria campagna elettorale per le prossime amministrative come papabili candidati sindaco.
    In attesa di ulteriori sviluppi dei filoni d’indagine, non guasterebbe una presa di posizione da parte dei due.

  • MAFIOSFERA| Rinascita-Scott: cosa resta al di là dei numeri

    MAFIOSFERA| Rinascita-Scott: cosa resta al di là dei numeri

    Per noi “spettatori” diventa tedioso e abbastanza confusionario ascoltare un’ora e quaranta minuti di lettura del dispositivo che in primo grado condanna o assolve i 338 imputati di Rinascita-Scott. Immaginiamoci cosa deve essere per quegli stessi imputati che attendono il loro nome – chi con la A, chi con la Z – con rassegnazione o speranza, intrecciando gli sguardi con gli avvocati perché non sempre si capisce cosa effettivamente dica il dispositivo in questione.

    I numeri di Rinascita-Scott

    Questa più o meno la situazione dentro e fuori dall’Aula Bunker di Lamezia Terme, con gli occhi della stampa estera ma anche di quella italiana che vuole fare i conti e li vuole fare facilmente. Quanti sono i condannati? Quanti gli assolti? Cosa significa oltre 2000 anni di carcere o 4000? Poi, come spesso accade (soprattutto nei maxi-processi), si comprende che non tutti i condannati sono uguali e non tutti gli assolti sono uguali. D’altra parte, è uno dei motivi di confusione di Rinascita-Scott, soprattutto all’estero: quanto è significativo il processo dipende da chi – non dal quanto – si porta a giudizio.
    Ed in processi così grandi la differenziazione è complessa.

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    L’aula bunker di Lamezia Terme che ha ospitato il processo Rinascita-Scott

    Nei grandi numeri di Rinascita-Scott ci sono certamente delle condanne importanti e le condanne sono la maggioranza. La cosa non sorprende, se si considera l’apparato accusatorio che mira a guardare l’insieme. Riportano i notiziari che 207 sono le condanne emesse nei confronti di capi e gregari delle ‘ndrine vibonesi. Tra questi sicuramente spiccano le condanne a trent’anni di carcere – sostanzialmente l’ergastolo – emesse nei confronti di Francesco Barbieri, Saverio Razionale, Paolino Lo Bianco e Domenico Bonavota. Li si considera i capi-mafia, membri apicali della provincia ‘ndranghetista del vibonese, tra quelli rimasti a processo in questa sede. Ma sono comunque non pochi, 134, i capi di imputazione che vengono meno fra assoluzioni e prescrizioni.

    Nomi vecchi e nomi nuovi

    Regge dunque l’impianto accusatorio per, diciamo, due terzi. Si mirava, ricordiamolo, a inquadrare come vecchi e nuovi clan di ‘ndrangheta della provincia di Vibo fossero arrivati a riconoscersi e riconoscere una provincia vibonese, sostanzialmente autonoma dal “Crimine” di Polsi. Al centro il paese di Limbadi dove risiede quella parte della famiglia Mancuso, capitanata per lungo corso da Luigi Mancuso, che spadroneggia sul territorio e fa da “mamma”, come si dice in gergo ‘ndranghetista. Significa dunque che a subire le condanne sono stati – con tutti i caveat di quelle in primo grado e importanti diminuzioni delle pene richieste dalla procura – coloro che ci si aspettava le subissero. Individui, cioè, che in misura più o meno incisiva risultano affiliati ai vari clan della città e della provincia di Vibo.

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    Luigi Mancuso

    Se c’è una cosa che questo processo, sebbene non sia il solo ovviamente, ci sta insegnando è proprio il rapporto tra reputazione mafiosa di lungo corso e riconoscimento di nuovi gruppi criminali-mafiosi all’interno del gruppo di riferimento, cioè la ‘ndrangheta. Ecco perché ci sono, in Rinascita-Scott, nomi “vecchi” da Mancuso a Bonavota e Razionale. Ed ecco il perché di nomi “nuovi” – ossia meno conosciuti ai non addetti ai lavori o a chi vive lontano da quei territori – come Barba o Lo Bianco.

    Rinascita-Scott e i colletti bianchi

    Se ci si aspettava più o meno il successo dell’impianto accusatorio per quel che riguarda la mafia vibonese in senso stretto – d’altronde c’era già stata la pronuncia del processo abbreviato, che in appello ha confermato condanne per oltre 60 individui – quello che poteva incuriosire era il “trattamento” processuale dei cosiddetti imputati eccellenti, i colletti bianchi, protagonisti del processo forse più di tanti altri presunti mafiosi. Ed ecco che proprio qui arrivano delle sorprese.

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    Gianluca Callipo

    Sicuramente alcune sorprese positive per imputati come l’ex sindaco di Pizzo, Gianluca Callipo e l’ex assessore regionale Luigi Incarnato, entrambi assolti. Così come per l’ex consigliere regionale Pietro Giamborino, condannato ad 1 anno e sei mesi a fronte di una richiesta di condanna a 20 anni di reclusione per reato associativo mirato al voto di scambio.
    Non avendo ancora le motivazioni per questo verdetto odierno è difficile immaginare cosa la Corte abbia escluso come indizio di colpevolezza in questi casi. Nel caso di Giamborino la Corte di Cassazione già nel 2020 aveva chiesto al tribunale di merito in ambito cautelare di colmare alcune lacune motivazionali riguardanti «la probabilità di colpevolezza, la sussistenza del vincolo sinallagmatico tra il Giamborino ed il sodalizio criminale nell’interesse del quale egli avrebbe agito, in cui si sostanzia il patto politico-mafioso, sorto con riferimento ad una specifica tornata elettorale».

    Il caso Giamborino

    Infatti i vari eventi riferiti non sembravano confermare la «serietà» e la «concretezza» dello scambio e anzi essere caratterizzati da «genericità». Questo, si badi bene, nonostante i gravi indizi di colpevolezza che facevano risultare «non peregrino ipotizzare che il Giamborino abbia goduto dell’appoggio del locale di Piscopio nella competizione elettorale del 2002». Si legge nel dispositivo che Giamborino è stato condannato per il reato all’art. 346 bis (traffico di influenze illecite) ma per altri reati contestatigli gli viene riconosciuta la formula assolutoria «per non aver commesso il fatto» e perché «il fatto non sussiste». E ci si chiede se, dunque, quest’altra Corte di merito non abbia accolto quel consiglio della Corte di legittimità a essere più specifica del rapporto sinallagmatico e non ci sia infine riuscita in modo soddisfacente da provarlo oltre ogni ragionevole dubbio.

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    L’ex consigliere regionale Pietro Giamborino

    Inoltre, sebbene sia pacifica la sua definizione giurisprudenziale, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa – così come quello di voto di scambio –  rimane particolarmente ostico. E, pertanto, soggetto a grandi divergenze nella sua applicazione pratica. Risulta particolarmente complesso raccordare le varie condotte del colletto bianco, non affiliato, e ricondurle a un contributo volontario, specifico e consapevole al gruppo mafioso. E risulta ancora più complesso gestire in sede di merito quelle che sono doglianze di legittimità. Coordinarsi nel giudizio di merito come quello attuale con giudizi della Corte di Cassazione, che spesso intercettano questioni polivalenti nel tentativo di valutare situazioni a latere, per esempio legate alle custodie cautelari, è notoriamente materia complessa.

    Rinascita-Scott e gli undici anni per Pittelli

    Tra le notizie negative per gli imputati, sebbene con pene in parte ridotte rispetto alle richieste dei Pm, alcune dimostrano plasticamente la complessità del reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Tra queste spicca la condanna del colletto bianco per antonomasia di Rinascita-Scott, Giancarlo Pittelli. Ex senatore e politico, avvocato e uomo molto conosciuto nei suoi ambienti, Pittelli ha fatto parte in vari momenti anche delle logge massoniche locali, appartenenza che potrebbe aver amplificato la risonanza delle sue condotte.

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    Giancarlo Pittelli si è visto infliggere una condanna a 11 anni di reclusione

    L’avvocato-politico è stato condannato a 11 anni di carcere, a fronte dei 17 chiesti dalla procura. Ma questo sarà arrivato con non poca sorpresa a lui e ai suoi avvocati che da anni sono impegnati in ricorsi – ovviamente non solo loro – davanti alla Corte di Cassazione e al Tribunale del Riesame per chiarire la posizione dell’imputato, soprattutto per quanto riguarda la sua detenzione. Qui emerge la complessità di raccordare giudizi di merito con giudizi di legittimità che solitamente seguono.

    Millanteria o no?

    Già un anno fa, per esempio, la Corte di Cassazione, accogliendo un ricorso dei legali di Pittelli contro una decisione del Tribunale del Riesame, aveva confermato la rilevanza ai fini cautelari di alcune condotte dell’avvocato-politico imputato ma non di altri indicatori di grave colpevolezza. Ribadiva, in sostanza, che per il concorso esterno in associazione mafiosa serve più della millantata o reale “messa a disposizione” del professionista.

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    La Corte di Cassazione

    Il Tribunale di Catanzaro, a cui la Cassazione aveva dunque rinviato il giudizio, nel gennaio del 2023 ha poi chiarito che la condotta dell’imputato di “messa a disposizione” fosse qualificabile come una millanteria del Pittelli. Ed ha altresì escluso che l’imputato abbia «usufruito o tentato di sfruttare particolari entrature, in ragione del suo ruolo, per agevolare la consorteria».
    Anche qui, in attesa delle motivazioni del verdetto, è difficile valutare cosa il Tribunale abbia considerato grave indizio di colpevolezza in questo caso da giustificare invece gli 11 anni di condanna. Rimarrà certamente argomento del contendere in appello.

    In carcere a lungo, poi l’assoluzione

    Da ultimo, giova ricordare che mentre si aspettano le motivazioni della sentenza passerà ulteriore tempo. Ci sono persone assolte in questo processo, per cui la procura aveva chiesto 18 anni di carcere per reati associativi – ad esempio il nipote acquisito che faceva da autista allo zio, boss, per capirci – che stanno in carcere dal dicembre 2019. Per quanto valgano scuse e monete di risarcimento, resteranno private di 4 anni di vita e probabilmente anche della propria reputazione. Questo processo, complesso, lungo, titanico per ragioni che sono certamente comprensibili da un punto di vista dell’impianto accusatorio, porta a una serie di storture di difficile gestione da un punto di vista del rispetto dei diritti umani e della necessità – internazionale, europea, italiana – di gestire i processi in tempi brevi e soprattutto non punitivi.

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    Il procuratore Falvo

    Si rimanda qui alle parole del procuratore di Vibo Valentia, Camillo Falvo, che nota come, nonostante la scelta dei maxi-processi possa sembrare discutibile, a volte viene giustificata dalle dimensioni del collegio giudicante. Ovviamente riconoscendo quanto ciò porti ad ulteriori problematiche su altri processi e pronunce future.

    Realtà giudiziaria e storica

    Ed ecco dunque che mentre aspettiamo le motivazioni – e mentre qualcuno forse mosso dalla voglia inesorabile di più “punitività”, si lamenterà di quelle oltre 100 posizioni di assoluzione e prescrizione – invito a ricordare che delle condanne dei processi c’è da gioire solo fino a un certo punto. E che secondo il principio costituzionale di non colpevolezza fino a prova contraria, ciò che tutti noi possiamo fare fino al passaggio in giudicato di questioni così complesse come la mafia, è analizzare criticamente la realtà, giudiziaria quanto storica, di ciò che i processi e poi le sentenze effettivamente dicono.