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  • Intellettuali, in Calabria puoi trovarne uno per tutte le stagioni

    Intellettuali, in Calabria puoi trovarne uno per tutte le stagioni

    Gli intellettuali locali – professori, giornalisti, romanzieri, registi, attori e artisti in genere – sono spesso manager di se stessi, presenzialisti per interesse, volontà di potere mediatico o potere tout court. Presentano libri, rilasciano interviste e fanno conferenze in cui si atteggiano a profeti. L’importante, è trovarsi sempre al centro dell’attenzione, comparire in televisione, essere citati nelle cronache dei giornali e ricevere riconoscimenti. Professionisti della parola, per appagare il loro narcisismo, puntano più alla pancia che alla testa, più agli umori che alla ragione. Consapevoli che per avere successo non è il contenuto del discorso che conta, legittimano sé stessi attraverso retorica, affabulazione e oratoria brillante.

    Narciso
    Narciso in un dipinto attribuito a Caravaggio – I Calabresi
    Intellettuali tormentati

    Si commuovono quando parlano della Calabria e descrivono il personale tormento che li spinge da una parte a voler andar via e dall’altra a rimanere. A volte la descrivono come una terra eccezionale, ricca di valori e di energie positive. Altre volte come una regione senza speranza che si avvia inevitabilmente verso la catastrofe. Molti intellettuali sono schierati politicamente, ma ammiccano opportunisticamente a un pubblico di destra o di sinistra e polemizzano a prescindere dalle idee. Se qualcuno dipinge un quadro pessimista e negativo della realtà regionale, sono pronti a smontarne le tesi per mutare atteggiamento poco tempo dopo.

    Guai se manca il rimborso spese

    Le loro conferenze sono moderate da giornalisti, arricchite da musicisti che allietano l’ambiente e attori o attrici che leggono pagine tratte dai loro libri bene esposti sui banchetti per essere venduti. Si fingono disinteressati a successo e guadagni, ma prima di accettare inviti chiedono il rimborso spese ed esigono ospitalità in alberghi e ristoranti rinomati. Gli intellettuali calabresi sono maestri nelle pubbliche relazioni, sempre attenti ad assicurarsi un ruolo nelle giurie di svariati concorsi così da scambiarsi reciprocamente premi e riconoscimenti.

    Un premio non si nega a nessuno

    In Calabria non c’è città, paese o contrada che non bandisca una rassegna, una selezione, un premio con relativa generosa distribuzione di pergamene, medaglie, coppe, targhe e compensi. Appuntamenti che sono vere e proprie fiere di vanità dove il pubblico si ritrova più per amor di mondanità che per interesse culturale.

    Presentandosi come specialisti in grado di trovare soluzioni ai problemi, gli intellettuali spesso sono chiamati dai politici per amministrare la cosa pubblica e molti diventano assessori e consulenti culturali. Una volta assunto il ruolo, organizzano eventi in cui svago e informazione spicciola si confondono, manifestazioni che risultano inefficaci, inutili e vacue, nelle quali si trovano blande tracce di storia, cultura, arte, musica condite da una buona dose di enogastronomia.

    Intellettuali che fanno intrattenimento

    Alcuni sostengono sia meglio aprire alla modernità piuttosto che restare fedeli alla tradizione, poiché i legami affettivi e identitari condizionano la libertà di scelta. Altri che ci sia bisogno di ritrovare il clima culturale e sentimentale del passato che rappresenta ancora oggi il tratto comune dei cittadini, e insistono nel ripercorrere, realmente o idealmente, gli avvenimenti fondativi della storia locale.

    I nuovi intellettuali favoriscono un sapere in cui il cittadino è utente passivo, una volgare cultura d’intrattenimento che ha colonizzato le strutture più profonde della coscienza. Le ricerche approfondite, le inchieste sul campo, le teorie complesse sono ignorate e respinte come inutili e anacronistiche, buone solo per una ristretta cerchia di specialisti.

    Storici della domenica

    Molti anni fa, Huinziga scriveva che lo storico di professione, rendendosi conto che per comprendere la complessità della realtà c’è bisogno di un faticoso lavoro critico, ha rinunciato a fare l’architetto scegliendo di diventare scalpellino. Interviene, quindi, la figura del dilettante che, illudendosi di avere pensieri ordinati, velocemente intravede tutte le prospettive necessarie per comprendere il reale. Incoraggiata dagli editori, preoccupati di soddisfare una cerchia di lettori sempre più ampia, nasce così quella che può essere chiamata la «storia letteraria». O, meglio, «belletteristica storica», in quanto l’essenza è belletteristica e l’aspetto storico è secondario.

    Attenti alle lusinghe del potere

    Lo studioso deve esprimere le proprie idee e non lasciarsi accecare dalle blandizie del potere, poiché non è possibile vivere in combutta col sistema e allo stesso tempo criticarlo. In quanto dicitore coraggioso di verità, non deve avere paura di mettere a repentaglio la propria condizione e le relazioni. Come un parresiasta, deve esprimersi in maniera chiara, dire quello che pensa senza dissimulazioni ed orpelli retorici, comunicare il suo vero pensiero correndo il rischio di irritare gli interlocutori.

    Il suo compito non è quello di capovolgere il mondo, ma indicare alla sua gente gli atteggiamenti che l’hanno resa vittima di se stessa e, nello stesso tempo, spingerla ad agire per migliorare la sua vita. Deve rivelare agli uomini quanto siano ostaggio di una macroscopica manipolazione volta ad intorpidire le menti e nascondere la vita reale e smascherare i falsi retori che hanno veicolato ideologie finalizzate unicamente a perpetuare il sistema sociale funzionale al potere.

    Sfatare i miti di una Calabria piagnona

    Alcune ideologie, pur fornendo alla realtà un orizzonte di senso, si fondano sulla mistificazione della realtà. Giustificano l’atteggiamento vittimistico che ha plasmato le coscienze dei calabresi a tal punto da far loro ritenere di essere limitati e incapaci di affrontare gli eventi. I mali che affliggono la regione non sono addebitabili ad altri o al destino ma alle scelte compiute dagli uomini.

    La falsa coscienza, o ideologia della sopravvivenza, può forse essere utile per superare difficoltà transitorie, ma sul lungo periodo si rivela dannosa. Il compito dell’intellettuale consiste nel riportare alla luce la falsa coscienza, distruggere le prigioni mentali che condannano gli animi a una cecità sempre più profonda, sfatare i miti che alterano la realtà e oscurano le coscienze, smantellare il castello di sacre opinioni che contribuiscono a dare un’immagine distorta di sé stessi.

    Attenti al pensiero comune

    L’intellettuale non deve fare la rivoluzione ma semplicemente dire la verità. Lo studioso non può essere condizionato dal relativismo secondo il quale tutto può essere affermato e che, pertanto, non esiste una verità. Non può rinunciare al giudizio e giustificare ogni cosa in virtù del principio che i gruppi hanno cultura propria. Non deve essere vincolato da una fedeltà alla sua gente che gli fa pronunciare mezze verità o perpetuare vecchi canoni ideologici. Egli deve sottrarsi alle pressioni del pensiero comune e dire con coraggio quello che pensa.

    In Calabria, purtroppo, sono pochi coloro che si propongono di analizzare criticamente la realtà. E ancora meno quelli che vogliono saperla. Essi sanno che chi dice il vero provoca spesso irritazione e collera, mentre chi si adatta a ciò che la gente vuole sentire è ascoltato e amato. Forse gli uomini non sopportano la verità scomoda avendo vissuto troppo tempo nell’inganno. Preferiscono essere consolati da una menzogna piuttosto che essere feriti da una verità. Evitano di fare i conti con la realtà e si accontentano di ritenere autentiche le verità che hanno ereditato.

    Meglio esuli in patria che servi

    L’appartenenza politica o ideologica degli intellettuali non ha costituito garanzia di verità. Orwell affermava che le ideologie sono un veleno per la letteratura e, se proprio uno scrittore dovesse appassionarsi alla politica, dovrebbe farlo come cittadino. Gli intellettuali devono fare gli intellettuali, ricercare la verità senza subire condizionamenti, esercitare la critica demistificatrice della realtà nella ricerca del vero e contribuire, in quanto cittadino, a vivere in un mondo più giusto e più bello.

    George Orwell
    Lo scrittore George Orwell

    Chi vuole perseguire la verità deve rifiutare qualsiasi interferenza esterna, essere imparziale ed oggettivo. Non farsi condizionare dalle proprie simpatie, non avere preoccupazioni politiche, apologetiche o polemiche. Lo studioso deve correre il rischio di essere isolato e criticato, costretto ad abbandonare la sua terra o restarci a vivere come se fosse in esilio. L’esilio in patria è una condizione di dolorosa solitudine. Ma sempre preferibile a una socialità superficiale e tranquillità servile.

     

  • C’era una volta un ospedale a Cariati, Roger Waters e Ken Loach: «Riaprite»

    C’era una volta un ospedale a Cariati, Roger Waters e Ken Loach: «Riaprite»

    Smascherare chi ha devastato la sanità pubblica in Calabria, garantire a tutte e tutti il diritto alla salute. Era una delle ultime volontà di Gino Strada, medico senza confini e fondatore di Emergency. E vuole farlo anche C’era una volta (la sanità pubblica) in Italia. Il lungometraggio propone, tra le tante, anche le voci del regista britannico Ken Loach e del cofondatore dei Pink Floyd, Roger Waters, che incorniciano gli abissi della sanità calabrese in una tragedia dalle dimensioni globali. La negazione delle più elementari prestazioni sanitarie nella nostra periferica terra è inserita nel più vasto fenomeno della privatizzazione predatoria, imposta dal neoliberismo in tutto il pianeta.

    Dopo il successo del film PIIGS, che nel 2017 ha ricostruito le nefaste conseguenze delle politiche economiche di austerità europea, a suo tempo realizzato insieme a Mirko Melchiorre e Adriano Cutraro con la voce narrante di Claudio Santamaria, il regista crotonese Federico Greco torna nella propria terra per evidenziare una delle sue piaghe peggiori. A I Calabresi, lui e Melchiorre narrano in anteprima contenuti e retroscena della loro inchiesta sullo sfacelo sanitario. Al centro del film, la vicenda emblematica dell’ospedale di Cariati, chiuso per effetto del commissariamento della sanità in Calabria. Da più di un anno è occupato dagli attivisti dell’associazione Le Lampare e da migliaia di altri cariatesi in segno di protesta.

    ospedale cariati
    Striscioni di protesta davanti all’ospedale di Cariati (foto Alfonso Bombini) – I Calabresi
    Raccontare il mondo partendo dalla Calabria

    «Tutto nasce nel novembre dell’anno scorso – spiegano Greco e Melchiorre -, quando Gino Strada fu chiamato in Calabria per l’emergenza Covid. Abbiamo lavorato con lui un paio d’anni fa. Quello era solo l’inizio di un progetto più ambizioso: raccontare la devastazione della sanità pubblica in Italia e nel mondo, a partire dalla Calabria. Ottenuto l’OK da parte di Gino, Simonetta Gola e tutta Emergency ci hanno anche sostenuto finanziariamente, oltre a starci molto vicini. Dopo aver seguito Gino a Crotone, abbiamo proceduto con un approfondimento. Un giorno, tornando a Roma, ci siamo fermati a Cariati per conoscere gli occupanti dell’ospedale. All’inizio pensavano che noi fossimo della Digos ed erano molto straniti. Non gli piacevamo. Poi hanno capito che eravamo persone sincere e volevamo davvero fare ciò che dicevamo. La loro storia ci è piaciuta tantissimo. Siamo stati insieme in quest’ultimo anno almeno una volta al mese per tre o quattro giorni, quindi abbiamo seguito tutto l’arco narrativo».

     

    cover piigs

    Come PIIGS, anche questo documentario si basa su due binari paralleli. Uno è la microstoria de Le Lampare, l’altro focalizza il macrolivello, cioè l’analisi di quel che succede nel mondo nella privatizzazione della sanità. Intervengono nomi autorevoli, come l’epidemiologo inglese Michael Marmot (OMS) e il sociologo svizzero Jean Ziegler (ONU). «Abbiamo l’aspettativa di portare il lavoro nei festival internazionali nella prossima primavera. Poi – proseguono gli autori – sarà nei cinema, in Tv e sulle piattaforme. Dobbiamo fare i conti con la chiusura delle sale cinematografiche a causa della pandemia. Quest’anno abbiamo un calo del 45 % degli spettatori nelle sale. Un’ecatombe! Se continua così, nel 2022 non riaprirà il 30 % dei cinema».

    Epoche a confronto

    Il titolo C’era una volta (la sanità pubblica) in Italia propone un sottotitolo: Giakarta sta arrivando. Mirko Melchiorre e Federico Greco spiegano che «questa frase minacciosa apparve nel 1970 in Cile sui muri di Santiago e in alcune lettere recapitate ai militanti del Partito comunista cileno dopo l’elezione di Salvador Allende. Si riferiva al massacro di circa tre milioni di comunisti, avvenuto a Giakarta, in Indonesia, nel 1965. In precedenza, il presidente indonesiano Sukarno aveva espresso la volontà di proteggere il suo Paese dalla predazione delle multinazionali statunitensi e londinesi. Ma nel ’66 ci fu il golpe militare di Suharto, durante il quale furono uccise da 500mila a tre milioni di persone con modalità atroci. Quindi, quando fu eletto Allende, la CIA avvertì che in Cile sarebbe accaduto quanto era già avvenuto in Indonesia.

    La scritta apparsa sui muri di Santiago del Cile
    La scritta apparsa sui muri di Santiago del Cile – I Calabresi

    Noi riteniamo che Giakarta metaforicamente stia arrivando in Italia,e in Europa grazie alla globalizzazione. L’operazione ha avuto un momento di svolta nel 2011, con l’avvento del governo di Mario Monti; oggi grazie a chi all’epoca a Monti conferì pieni poteri. È ovvio che non parliamo di golpe militare in Italia. Gli obiettivi però sono gli stessi: la predazione dei servizi e degli asset pubblici, la privatizzazione non solo della sanità, ma anche dell’acqua pubblica e di tanti altri settori nevralgici della nostra società».

    Dall’Inghilterra di Ken Loach alla Lombardia

    Nel documentario è Ken Loach a ricostruire l’analoga storia del sistema sanitario pubblico inglese, nato nel ’48 già con il verme delle privatizzazioni. «Successe la stessa cosa negli anni Ottanta in Italia – proseguono i due film maker -. Nel ’78 il primo ministro della sanità fu Renato Altissimo, un liberale, appartenente a uno dei partiti che il sistema sanitario pubblico non lo avrebbe voluto. Oggi, prendiamo per esempio la Lombardia: la narrazione dominante sostiene che questa regione sarebbe sempre stata un’eccellenza, ma noi abbiamo intervistato Maria Elisa Sartor, docente universitaria a Milano e autrice di un libro di 800 pagine, che racconta la privatizzazione della sanità lombarda. Guarda caso, la pandemia ha provocato più danni nella regione in cui il sistema pubblico non esisteva, perché quasi tutto in precedenza è stato privatizzato.

    Ken Loach
    Ken Loach chatta con gli autori durante la lavorazione del film – I Calabresi

    È una regione che ospita un sesto della popolazione italiana, ma ha fatto registrare un quinto dei contagiati e un quarto dei morti per Covid. Questo è dovuto al fatto che il sistema sanitario, dopo essere stato privatizzato dai Formigoni e dai Maroni, è indecente. I proprietari dei grandi gruppi che investono sull’oro delle Residenze Sanitarie Assistenziali, focolai del contagio, hanno comprato testate giornalistiche in perdita. Per esempio, De Benedetti, tessera “onoraria” numero 1 del PD, con la KOS Spa è un grandissimo proprietario di strutture sanitarie private. Viene spontaneo chiedersi a cosa gli siano serviti giornali in perdita come la Repubblica. E non solo a lui.

    Tanti sono gli editori di giornali che da anni producono articoli di aspra critica del sistema sanitario pubblico, a favore di quello privato. Ciò accade in Calabria, ma ovunque. Negli anni Ottanta in Italia avevamo più di 500mila posti letto, oggi meno di 200mila. L’emergenza pandemica non sarebbe stata così devastante se avessimo avuto il numero dei posti letto tagliati dalle riforme del ’92, dalla cosiddetta sinistra: prima Monti, poi Renzi. La responsabilità ricade soprattutto sulle scelte del PD negli ultimi 20 anni».

    Davide contro Golia

    Nelle loro inchieste, i due registi cercano di andare sempre alle origini dei problemi: la globalizzazione, il Washington consensus, il filantrocapitalismo. «Tocca lottare – concludono Mirko Melchiorre e Federico Greco – contro un mostro che è ciclopico, sta ad altezze siderali e non sappiamo nemmeno di preciso chi sia. Eppure, come dice Ken Loach, a volte colui che sembra Davide, può divenire più potente di Golia. Il vero gigante, se riesce a estendere le lotte e intrecciarle, è Le Lampare di Cariati, la sua occupazione dell’ospedale. Con Gino Strada realizzammo due interviste, una a Crotone e l’altra a Milano. Parlava con entusiasmo de Le Lampare. Aspettava solo un cenno per andare a gestire un ospedale in Calabria: quello di Cariati mi sembra il più adatto, disse».

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    Gino Strada, medico e fondatore di Emergency
    La Calabria come set

    Tra le immagini scolpite nella memoria visiva dei due film maker, la terapia subintensiva a Crotone: «Emergency la ha gestita per alcuni mesi. Abbiamo vissuto situazioni emozionanti nella tragicità come nella speranza. Una su tutte? La gioia di persone in età avanzata, quando gli infermieri annunciavano loro che il tampone era finalmente negativo e potevano tornare a casa».

    Riprese a Cariati
    Un momento delle riprese a Cariati – I Calabresi

    Federico Greco è così riuscito a fare i conti con la propria terra: «Ci torno ogni estate, da 50 anni. Non avevo mai visto, però, Crotone da un punto di vista professionale, non ci ero mai sbarcato con la telecamera in spalla. E questo mi ha fatto vedere Crotone e la Calabria come non le avevo mai osservate. Così ho sciolto le resistenze verso tutto ciò che non va. Adesso ci verrei a vivere e a morire. Con tutte le persone che abbiamo incontrato, gli attivisti de Le Lampare, Mimmo, Cataldo, Michele, Mimmo Massaro, Ninì Formaro, siamo diventati fratelli. È nata un’amicizia per tutta la vita. Come dice Michele Caligiuri, Cariati è il posto più bello del mondo».

  • Università e politica, dopo 50 anni ancora paraventi e rivendicazioni?

    Università e politica, dopo 50 anni ancora paraventi e rivendicazioni?

    Caro Direttore, caro Franco,
    ho seguito la discussione sulle università calabresi che ha preso il via sul tuo giornale fin dall’intervista a Sandro Bianchi, e poi si è sviluppata con interventi che hanno arricchito il quadro con ulteriori elementi e da diverse angolazioni.

    Mi è parso di capire che se l’aspettativa era alta, sul ruolo e l’incidenza che il sistema universitario calabrese avrebbe potuto-dovuto avere rispetto alle condizioni sociali e culturali oltre che politiche, oserei aggiungere antropologiche, della nostra regione, tale aspettativa, da quel che leggo è rimasta in buona misura disattesa. Il rettore emerito Gianni Latorre è più cauto e sottolinea gli aspetti positivi e per talune considerazioni che svolge dirompenti: lui conosce bene l’Unical e la vischiosità dei tanti anfratti in cui si cela la nostra identità, il nostro essere cittadini calabresi, con tutte le ambasce, i condizionamenti, i retaggi.

    Se posso aggiungere la mia voce alle tante, e mi auguro anzi auspico si moltiplichino, inviterei a rimuovere le valutazioni che, sottotraccia o esplicitamente, attribuiscono o attribuivano virtù taumaturgiche alla nascita, al sorgere, allo stabilizzarsi del mondo accademico qui da noi. E non è una diminutio o una sottovalutazione, la mia posizione, quanto l’evidenziare che cinquant’anni di vita di una istituzione – che per lo stesso fatto di irrompere in un quadro preesistente fatto di relazioni, patti, accondiscendenti e mutui laisser vivre, ha comportato sconvolgimenti nel concepire la vita associativa – sono poca cosa. Poca cosa per mutare o curvare secoli di indolenza, autosufficienza, più presunta che reale, un predominio della politica o per dir meglio del politichese sovra ogni altro comparto.

    È questo mio dire una giustificazione o addirittura un’assoluzione delle università calabresi, in primis dell’Università della Calabria, che meglio conosco rispetto alle altre, e che nacque, appunto come università regionale, anticipatrice della riforma, a numero chiuso e residenziale, con la missione di servizio al territorio da assolvere-tutto scritto e sottolineato nel suo Statuto? Certamente no, e lo dico dalla prospettiva e a posteriori, di chi ha vissuto fra i cubi di Arcavacata per quasi cinquant’anni, sovente occupando posizioni dentro gli istituti di gestione e di governo. Non perché i suoi doveri istituzionali Unical li ha ottemperati egregiamente e doverosamente per quanto attiene ricerca e didattica (inutile dilungarsi qui: è sufficiente constatare le migliaia di laureati nostri cosa fanno e i report delle ricerche contenuti nei files accreditati). E nemmeno perché non abbia spinto, motivato e proposto tante e tante volte e nei modi più diversi tavoli e incontri, contatti e relazioni con il mondo della politica e delle professioni, della produzione e del commercio. Anche qui ha fatto, lo ha fatto a lungo.

    Il muro, le resistenze, l’opacità e la viscosità che ha incontrato, laddove il fondatore Beniamino Andreatta aveva immesso elementi di forte e dichiaratamente impattante stridore per provocare una shocking wave in grado di risvegliare un corpaccione dormiente, non erano facili scalfire. Non lo era nemmeno, però, introiettare per molti versi e in diversi ambiti un modo di fare, un ritrarsi, un ‘autogiustificarsi’ quasi omologatorio al sistema circostante.

    Non è questa, ovviamente, la sede per ricordare episodi, fatti, accadimenti, che si sarebbero potuto dipanare in altri modi, che forse avrebbero potuto condurre a soluzioni di interesse generale più ampie e profonde, ma forse si può, qui, iniziare a fornire un quadro di lettura, una traccia almeno, di come e perché altrove, un qualsiasi altro altrove, dove però ci sono città di dimensioni medio-grandi, ospedali funzionanti, servizi efficienti, infrastrutture adeguate, modelli organizzativi di condivisione, ritrovo, scambio, dove c’è un sistema imprenditoriale che dà e riceve secondo un patto non per forza di cose scritto, dove il weberiano ‘controllo sociale’ mostra ancora segni di vitalità in vece dell’ossequio dell’appartenenza, in questo altrove, dicevo, le università, l’università rappresenta e costituisce un elemento aggiuntivo e premiante, un valore supplementare al contesto. Senza reclamare o invocare predomini della politica su tutt’il resto, senza, per converso, trincerarsi dietro paraventi di autonomia.
    Si può lavorare per tutto questo?

    Massimo Veltri
    Professore ordinario all’Unical ed ex senatore della Repubblica

  • La spy story di Calabria e il primo maxiprocesso

    La spy story di Calabria e il primo maxiprocesso

    C’è un piccolo enigma che riguarda l’Archivio di Stato di Cosenza, dove è conservato l’archivio personale di Maria Pignatelli, moglie del principe Valerio Pignatelli di Cerchiara. Nelle carte della principessa c’è un faldone vuoto, che reca una scritta a dir poco bizzarra: Ok. Storia della resistenza fascista al Sud.
    Questo faldone, stando anche alle memorie del marito di donna Maria, avrebbe dovuto contenere il diario di una missione speciale condotta dalla nobildonna calabrese nel territorio della Repubblica Sociale Italiana durante la primavera del ’44. Ma quel diario non si trova più.

    Un’avventura particolare, quella vissuta dalla principessa, che fu protagonista di intrighi e doppi giochi, tra i fascisti – clandestini al Sud e ancora istituzionali al Nord – i servizi segreti di tutte le parti in causa e ciò che restava della monarchia in quell’ultimo, tragico scorcio della guerra.
    L’epicentro di questa vicenda, emersa solo di recente grazie all’importante scavo dello storico Giuseppe Parlato, è calabrese. Perché calabresi sono i protagonisti principali e perché i fatti più salienti si sono svolti in Calabria.

    Prima della fine

    È calabrese d’origine Carlo Scorza (era nato a Paola, dove aveva vissuto fino a 15 anni, prima di trasferirsi a Lucca) l’ultimo segretario del Partito nazionale fascista. È calabrese di adozione Francesco Maria Barracu, nato in Sardegna ma diventato federale di Catanzaro dopo la guerra d’Etiopia e lì rimasto fino all’armistizio. Poi sarebbe andato a Roma e quindi avrebbe seguito Mussolini a Salò.
    Nella tarda primavera del ’43 le truppe dell’Asse avevano perso l’Africa settentrionale e lo sbarco alleato al Sud era imminente.

    Alfredo Cucco, il ras fascista della Sicilia, lanciò l’allarme, Sforza lo raccolse e formulò una proposta a Mussolini: organizzare una rete di resistenza fascista che ostacolasse l’avanzata delle truppe alleate. Il duce approvò e coniò il nome di quest’organizzazione: Guardia ai labari. E incaricò Barracu, suo uomo di fiducia, di darsi da fare.
    Quest’ultimo, assieme a Scorza, individuò l’uomo adatto per creare e gestire la rete “nera”, che può essere considerata la prima organizzazione neofascista italiana: Valerio Pignatelli.

    Una coppia pericolosa

    Il principe Valerio Pignatelli è un personaggio inquieto, che sembra uscito da un romanzo di Dumas padre. Militare dalla carriera intensa ma irregolare, esordì nella guerra di Libia come tenente di cavalleria. Inoltre, partecipò alla Prima Guerra Mondiale come capitano degli Arditi. Poi, a ostilità finite, divenne addetto militare dell’Ambasciata italiana in Ungheria. Fu una piccola pausa, per il principe, che proprio non poteva fare a meno di menare le mani. Infatti, nel 1920 si arruolò nell’Armata bianca di Vrangel per combattere quella rossa di Trockij.

    Raggiunse il massimo di questa bizzarra carriera in Messico, dove riuscì a farsi incoronare imperatore di una piccola regione del sud del Paese. Ma durò in carica solo dieci giorni: il tempo di scappare negli Usa e di sposare Patricia Hearst, una ricca ereditiera.
    Anche il matrimonio durò poco: rientrato in Italia, il principe si iscrisse al Pnf. Ma l’adesione al fascismo non gli inculcò alcuna disciplina a Pignatelli, che riuscì a sfidare a duello (e a ferirlo) nientemeno che l’ex segretario Roberto Farinacci.

    Prima della Seconda Guerra Mondiale, l’indomito aristocratico partecipò alla guerra d’Etiopia come comandante di un reparto di eritrei e a quella di Spagna. In entrambe, collezionò medaglie e ferite.
    Non era da meno Maria Elia, nobildonna toscana, che prima di conoscere Valerio aveva sposato il marchese Giuseppe de Seta, da cui aveva avuto quattro figli, ed era diventata esponente di primo piano della nobiltà meridionale. Rimasta vedova, convolò in seconde nozze col principe di Cerchiara nel 1942.

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    Renato Guttuso, Ritratto della marchesa Maria De Seta, olio su tavola, 1937
    Bombe in Calabria, la storia degli ottantotto

    Nel dare il via libera alla rete nera, Mussolini raccomandò prudenza estrema. I suoi fedelissimi non avrebbero dovuto scatenare una guerra civile, ma solo dar fastidio agli occupanti, fare propaganda e, ovviamente, fare le spie in accordo coi vertici del Sid, i servizi segreti di Salò e con la Gestapo.
    Il regista dell’operazione era Barracu, nel frattempo diventato sottosegretario della Rsi. Valerio Pignatelli, intanto, si era trasferito a Napoli, in una villa di fronte alla Nunziatella, dove assieme alla moglie, intratteneva rapporti ambigui con gli alti gradi dell’Amgot, l’autorità di occupazione alleata nei territori del Sud, esponenti del fascismo e agenti del Sim, i servizi segreti del Regno d’Italia.

    La rete calabrese è affidata a un altro personaggio importante nella storia del neofascismo: il cosentino Luigi Filosa, un fascista di ultrasinistra (oggi lo si direbbe un “fasciocomunista”), dal passato a dir poco burrascoso, dentro e fuori il regime.
    L’organizzazione iniziò a darsi da fare a partire dall’autunno del ’43 con una serie di attentati dinamitardi (ben 18) nel Lametino, a danno di due tipografie, del Liceo di Nicastro, della casa del preside del Liceo, di una Caserma dei carabinieri e di altri obiettivi, più simbolici che sensibili.

    Poi la Polizia arrestò due studenti di Catanzaro e ricostruì la rete. Filosa, vista la mala parata, andò a Bari per cercare di scappare al Nord. Ma venne arrestato il 14 maggio del ’44 e finì a processo con altri 87 imputati con l’accusa di associazione sovversiva. Fu il primo maxiprocesso del dopoguerra al Sud.
    Poco prima di lui, il 27 aprile, erano finiti in manette i principi Pignatelli. Per loro, tuttavia, l’accusa era un’altra: spionaggio militare.

    Lo strano viaggio della principessa

    Facciamo un passo indietro e torniamo a Napoli. Mentre i fascisti calabresi si “esercitavano” con le bombe e raccoglievano armi con la complicità di non pochi militari, Pignatelli ricevette un ordine da Barracu: raggiungere Gargnano, sul lago di Garda, per conferire con lui e con Mussolini.
    Pignatelli, per ottenere il lasciapassare per attraversare il fronte, “cercò una pastetta” al principe Umberto e allo scopo giocò una carta importante: l’amicizia tra sua moglie e Maria José di Savoia. Nulla da fare: i servizi segreti del Regno d’Italia, che tenevano d’occhio Pignatelli, non concessero il nulla osta.

    La regina d’Italia Maria José di Savoia

    Al principe restò solo una fiche: sua moglie. E la puntò bene. Perché anche la principessa aveva le sue amicizie. Tra queste, c’era il tenente di vascello Paolo Poletti, che faceva un doppio gioco spregiudicato tra la X-Mas di Junio Valerio Borghese e l’Oss, i servizi segreti americani, guidati da James Jesus Angleton, il futuro capo della Cia. Angleton era animato da un anticomunismo estremo, che lo portava a diffidare più degli alleati antifascisti che dei nemici fascisti. Ciò lascia pensare che il doppio gioco di Poletti non fosse ignorato (né disapprovato) né da lui né dai vertici di Salò. Il tenente italiano sarebbe stato quindi quel che oggi si direbbe un agente doppio.

    James Jesus Angleton
    L’incontro col feldmaresciallo

    Poletti accompagnò donna Maria una prima volta a fine marzo ’44, assieme al capitano Nuvolari, agente del Sim anche lui legato all’Oss. Incapparono in un check point gestito dagli inglesi che rispedirono indietro la comitiva.
    Il secondo tentativo, invece, riuscì: la principessa, stavolta, varcò il confine nei pressi di Lanciano a bordo di un’ambulanza della Croce Rossa e fu ricevuta sul monte Soratte dal feldmaresciallo Albert Kesserling per un colloquio, nel corso del quale la nobildonna avrebbe rivelato alcuni dati sensibili sulle strutture militari alleate del Sud.

    Il feldmaresciallo Albert Kesserling

    Poi, la principessa andò a Roma, per incontrare due persone care: la figlia primogenita Bona de Seta e Vittoria Odinzova, una profuga della rivoluzione russa che era stata fidanzata con suo figlio Francesco, tenente di aviazione caduto nel 1941.
    Il ruolo della Odinzova è tutt’altro che secondario in questa vicenda: detestata dai restanti tre figli della principessa, la bella russa era diventata la pupilla della nobildonna. Ma, soprattutto, Poletti aveva perso la testa per lei e, pur di averla, accettò di aiutare la nobildonna.

    Nobili, doppiogiochisti e servizi segreti

    Le stranezze non finiscono qui: i Pignatelli erano senz’altro fascistissimi. Non altrettanto i figli della principessa. Non lo era Vittorio de Seta, prigioniero dei tedeschi a Salisburgo. E non lo era suo fratello Emanuele, che faceva parte di una rete antifascista clandestina ed aveva subito i rigori delle Ss nella famigerata prigione romana di via Tasso.
    Quanto a Bona, c’è da dire che era ospite della residenza capitolina di un’altra famiglia aristocratica calabrese: i baroni Marincola di San Floro.

    Gerarca di Catanzaro e amicissimo del principe Valerio, Filippo Marincola aveva sposato Josephine Pomeroy, cittadina americana, antifascista e legata ai servizi segreti alleati. Non era da meno il cognato di don Filippo, Livingstone Pomeroy, che addirittura faceva parte dell’Oss ed era molto legato a Bona.
    In pratica, la principessa si era cacciata nella tana del lupo: tre figli antifascisti o quasi, più amici non del tutto affidabili.

    Dopo alcuni giorni, la principessa raggiunge Gragnano, dove ebbe il colloquio con Barracu e col duce. Cosa si siano detti non è facile da ricostruire, perché dai verbali degli interrogatori subiti dai Pignatelli emerge di tutto e di più.
    Infine, il ritorno, assieme a Vittoria Odinzova. Al confine le attendevano Poletti assieme a un altro collega dell’Oss, tale Mathieu, di cui resta ignota la reale identità.
    Non appena rientrò a Napoli, la principessa fu arrestata dalla polizia militare dell’Amgot. Assieme a lei finirono in galera la giovane russa, il principe Valerio e il tenente Poletti.

    Gli strani processi

    I quattro subirono interrogatori pesantissimi. La prima a uscire, praticamente scagionata, fu Vittoria Odinzova, considerata un’ingenua pedina nelle mani della principessa.
    Prima di lei, tuttavia, uscì dalla vicenda Poletti. Nella maniera peggiore possibile: torturato dalla polizia militare inglese nella prigione di Santa Maria Capua Vetere, l’agente dell’Oss impazzì e fu rinchiuso in una cella da cui tentò di evadere.
    Durante la fuga, Poletti, ancora ammanettato, aggredì due guardie, che lo uccisero.

    Questa fu la versione ufficiale: in realtà, secondo alcuni storici lo sfortunato tenente fu liquidato dai suoi colleghi dell’Oss, i servizi segreti statunitensi che temevano le sue testimonianze nel processo. Già: britannici e americani giocavano due partite diverse. Antifascisti (e antiitaliani), i sudditi di Sua Maestà britannica avevano intenzioni “punitive” nei confronti dell’Italia. Anticomunisti e filoitaliani, gli statunitensi si preoccupavano di contenere l’avanzata del Pci al Sud nell’imminente dopoguerra.

    Proprio su questa divergenza il principe Pignatelli giocò con grande abilità. Durante la sua deposizione rivelò che Barracu, Mussolini e Borghese stavano lavorando a una rete anticomunista che comprendeva i fascisti, alti gradi dell’Esercito rimasto fedele alla Corona e quella parte della resistenza (gli osovani, i monarchici della “Sogno” e parte di Giustizia e Libertà) che temeva l’egemonia dei partigiani “rossi” della divisione Garibaldi.

    Il “principe nero”, Junio Valerio Borghese

    Tenuta in poca considerazione durante il processo, la rivelazione del principe è stata rivalutata in sede storica dai documenti che provano i continui contatti tra la Marina del Sud e i Servizi della Rsi e gli abboccamenti tra i partigiani osovani e i militi della X-Mas in chiave anticomunista. Ed è confermata dal salvataggio di Borghese operato da Angleton in persona.
    Lo spauracchio “rosso” fu giocato anche dalla difesa degli ottantotto fascisti processati a Catanzaro.

    Fine della storia

    Cosa curiosa, nessuno riuscì a provare il collegamento tra i dinamitardi calabresi e Pignatelli. Quindi l’accusa di associazione sovversiva cadde. Per fortuna degli imputati, che altrimenti sarebbero finiti davanti al plotone di esecuzione.
    Ciò non evitò condanne piuttosto pesanti alla maggior parte degli arrestati. Tuttavia, il processo fu annullato dalla Cassazione per vizi di forma. E rinviato a un’altra Corte. Ma non si celebrò mai, perché nel frattempo Togliatti amnistiò i fascisti.

    Discorso simile per i Pignatelli, condannati entrambi a dodici anni di carcere. Ne scontarono a malapena uno e qualcosa.
    Appena scarcerato, Valerio fondò il Movimento sociale italiano assieme agli ex camerati. Ma il suo carattere irrequieto ebbe il sopravvento per l’ennesima volta: litigò e si ritirò a vita privata. Scrisse romanzi e memorie e gestì i beni di famiglia fino al 1965, quando morì a Sellia Marina.
    Maria lo raggiunse tre anni dopo, in seguito a un incidente stradale nei pressi di Cosenza.

  • Università della Calabria, senza dialogo con istituzioni e territorio non si cresce

    Università della Calabria, senza dialogo con istituzioni e territorio non si cresce

    Gentilissimo direttore,
    ho seguito con molto interesse il dibattito apertosi su I Calabresi inerente il ruolo che le università hanno nello sviluppo del nostro territorio e, dunque, sull’importanza di quella che viene definita “Terza Missione”: su come, cioè, gli atenei possono e devono svolgerla, interpretarla, interagendo con la società civile ed il mondo imprenditoriale, i cittadini.
    Mi permetta da cittadina calabrese che si è laureata presso l’Università della Calabria, ha lavorato e fatto impresa nella propria terra e che oggi ha l’onore di rappresentarla tra i banchi della Camera dei Deputati, di condividere con Lei ed i suoi lettori qualche appunto mentale sull’argomento e raccontarle anche alcune esperienze personali ad esso correlate.

    Serve più dialogo

    Il ruolo delle università, va da sé, – ma è comunque giusto ricordarlo – è assolutamente centrale per la crescita culturale, sociale ed economica dei territori. Per questa ragione le istituzioni – locali soprattutto ma anche centrali – dovrebbero a mio avviso potenziare maggiormente il dialogo con gli atenei e tessere un lavoro di contaminazione costante al fine non solo di tracciare le migliori e più aderenti politiche per la crescita del territorio in questione, quanto anche adoperarsi per consentire a tutte le fasce della popolazione, in particolar modo quelle più fragili, che oggi si sentono distanti e disamorate dalle aule universitarie, che addirittura considerano quasi controproducente l’accesso al sapere, di far propri quegli strumenti, pratici e cognitivi, che consentono una crescita personale e professionale tale da aggredire e non subire il mondo ed il mercato del lavoro.

    La cultura collegata alla comunità

    Da sottosegretario di Stato ai Beni Culturali nel Conte II, ho voluto fortemente coinvolgere l’Università della Calabria nella progettazione degli interventi per la riqualificazione del centro storico di Cosenza attraverso il Contratto istituzionale di sviluppo. Proprio per questo motivo ho chiesto all’Unical di sviluppare un progetto per la creazione di un incubatore per le imprese culturali e turistiche – che avrà sede all’interno dell’ex Convitto nazionale Telesio – con l’obiettivo di stimolare, attraverso la formazione e la diffusione della cultura di impresa, partendo dai bisogni del centro storico, nuove imprese di servizi proprio per la cultura e il turismo in grado di intercettare il mercato nazionale ed internazionale.

    La motivazione è semplice: l’università con il suo background nel campo della ricerca e dello sviluppo, non solo di spin-off, ma anche di startup innovative, è il soggetto più indicato per realizzare un percorso che colleghi i luoghi della cultura di Cosenza innanzitutto alla comunità cittadina, e del centro storico in particolare, e di tutti i cittadini dell’area urbana.

    Serve volontà politica

    La volontà politica, dunque, all’interno delle istituzioni, ad ogni livello, è fondamentale per innescare una collaborazione concreta e proficua con le università rafforzandone la capacità di connettersi al territorio e trasferire saperi, strumenti ed opportunità. In tal senso, con l’ultima Legge di bilancio varata dal Conte II, quella per il 2021, si è dato vita agli ecosistemi dell’innovazione per le regioni del meridione d’Italia, con l’obiettivo di stimolare la creazione di veri e propri hub dell’innovazione tra soggetti pubblici, le università e i privati, ovvero aziende nel campo dell’ICT, startup e imprese tradizionali.

    Guardare oltre le mura delle proprie aule

    È fondamentale, infatti, incentivare il dialogo tra pubblico e privato, soprattutto in una regione come la nostra che soffre ancora oggi di insani campanilismi, spinte individualiste e divisive. Se, dunque, la “politica” ambisce ad essere definita tale, quella cioè con la “P” maiuscola (io per prima finché vorrò portarla avanti attivamente), deve altresì impegnarsi per trovare la strada giusta e stimolare gli atenei calabresi a guardare oltre le mura delle proprie aule.

    Così come è responsabilità delle università accelerare sui percorsi della Terza Missione non solo lavorando in sinergia tra di loro, ma pensando alla Calabria come un territorio “unico” dove, potenzialmente, ogni giorno, potrebbero nascere progetti ed idee che, magari, hanno solo bisogno di trovare riferimenti seri per crescere e far crescere il contesto intorno a loro. Solo così, ritengo, avremo una Calabria fertile di saperi condivisi e solo così le nostre università potranno continuare a crescere e raggiungere traguardi sempre più alti nel campo dell’offerta formativa, della ricerca e del sapere umano.

    Anna Laura Orrico
    Deputato M5S – ex sottosegretario ai Beni Culturali

     

  • Donne e diritti, una panchina rossa non può bastare

    Donne e diritti, una panchina rossa non può bastare

    Sono numerose le iniziative che in questi giorni hanno animato i centri cittadini della Calabria in occasione del 25 novembre. La panchina rossa è diventata anche nella nostra regione simbolo del contrasto alle violenze esercitate dagli uomini sulle donne. L’uso del plurale si rende necessario per evidenziare le molteplici forme di violenza che subiscono le donne. Non è infatti solo la violenza fisica ciò che caratterizza molte relazioni che degenerano in prevaricazione. Si esercita violenza verbale, psicologica, economica. Si isola la donna socialmente per ridurre i rischi che possa confidarsi, per continuare a esercitare potere su di lei, preda di una cultura patriarcale di cui è pervasa la nostra società e che ha radici antiche.

    Le ricorrenze sono importanti ma non bastano

    La pandemia e le misure di contenimento dei contagi adottate, che hanno portato a una maggiore permanenza della famiglia in casa, e il precipitare delle condizioni socio-economiche nella crisi accentuata dall’emergenza sanitaria, sono ulteriori elementi di possibile aggravamento dei comportamenti violenti.
    Occorre dunque interrogarsi su cosa e come agire per ridurre il rischio che le donne si trovino in condizioni di violenza domestica, perché non può bastare l’attenzione al fenomeno in un breve intervallo temporale attorno al 25 novembre e all’8 marzo, benché entrambe le ricorrenze siano importanti occasioni di sensibilizzazione e informazione.

    L’Italia bacchettata dalla Corte europea

    Il nostro paese ha ratificato nel 2013 la convenzione di Istanbul, che declina una serie di misure da adottare, ma che non è mai stata applicata realmente. Lo dimostra la condanna della Cedu, risalente al 2017, per aver infranto, nell’ormai noto caso di Elisaveta Talpis, ben quattro articoli della Convenzione europea sui diritti umani: l’art. 2 sul diritto alla vita, l’art. 3 sul divieto di trattamenti inumani e degradanti, l’art. 4 e l’art. 14 sul divieto di discriminazione. La Corte raccomanda al governo italiano di rispettare gli impegni presi emanando nuove leggi, colmando le lacune normative, istituendo una struttura ad hoc, lavorando sull’educazione e sull’empowerment femminile. L’Italia nel 2020 presenta quindi un piano, ritenuto lacunoso e incompleto dalla Cedu negli elementi già da tempo evidenziati dalle avvocate del circuito D.I.R.E.

    La Corte europea dei Diritti dell'uomo
    La Corte europea dei Diritti dell’uomo – I Calabresi
    Il reddito di libertà

    Ulteriori informazioni per fare il punto sulla situazione italiana sono contenute nel rapporto Grevio, che pone l’attenzione anche ai fenomeni sempre più diffusi di revenge porn e vittimizzazione secondaria. Importante recente novità sul contrasto alle violenze contro le donne è il Dpcm del 17 dicembre 2020, che introduce il “reddito di libertà” da attribuire alle donne che scelgono di uscire da condizioni di violenza domestica. La misura è anche compatibile con altri strumenti di sostegno al reddito previsti dalle leggi italiane. Pur riconoscendone l’importanza come contributo utile per donne che hanno subito violenze, occorre comprendere che non aiuta a prevenire il fenomeno. Ciò di cui abbiamo bisogno è soprattutto attivare opportune strategie di prevenzione di violenza domestica.

    Lavoro e gap salariale

    Innanzitutto bisogna ridurre il gap salariale tra uomini e donne, che determina asimmetria economica, quindi asimmetria di potere, alla base delle violenze esercitate. Molte donne, soprattutto nel Sud Italia, non hanno un lavoro retribuito e nell’anno della pandemia, secondo gli aggiornamenti di Eurostat, il tasso di occupazione femminile, che in Europa è stato in media del 62,4% per le donne tra i 15 e 64 anni, in Calabria è solo del 29%. Ma già prima della pandemia tale divario era superiore alla media italiana: al primo gennaio 2019 l’occupazione femminile in Calabria risultava addirittura ridotta del 2,3 %.

    Tassi di occupazione in Italia per sesso (2018-2020)
    Tassi di occupazione in Italia per sesso (2018-2020) – I Calabresi

    Per contribuire a prevenire la creazione delle condizioni che favoriscono violenza domestica, sarebbe opportuno valutare un reddito di autodeterminazione per tutte le giovani donne, con il vincolo dell’obbligo di studio e/o di ricerca di lavoro, costruendo le condizioni perché sviluppino competenze specifiche e abbiano facile accesso a un mondo del lavoro che richiede livelli sempre più elevati di conoscenze, di abilità anche tecniche e di competenze specifiche e trasversali.

    Non basta il fondo di inclusione rosa

    Bisogna garantire canali privilegiati di accesso ai luoghi di lavoro per le donne che subiscono comprovata violenza domestica, anche perché è noto quanto sia faticoso e impegnativo ottenere contributi economici da parte del partner o dell’ex partner che le ha maltrattate. L’importanza di garantire un reddito alle donne, di riconoscere anche economicamente e con adeguata retribuzione il gran lavoro di cura che compiono quotidianamente in famiglia, è supportata dalla constatazione che recenti sentenze di separazione di diversi tribunali, in assenza di reddito della madre o in presenza di reddito molto basso, assegnano la residenza a figli e figlie minorenni presso il domicilio paterno, anche in caso di padre maltrattante.

    Non può essere sufficiente come misura per l’inclusione delle donne nel mondo del lavoro il cosiddetto fondo d’inclusione “rosa” per le casalinghe, di recente approvazione e che non prevede la garanzia di autonomia economica ma è un credito per l’accesso gratuito a corsi di formazione, ai quali non avrebbero comunque accesso molte donne prive di reddito, in condizioni di subalternità economica, prive di mezzo autonomo di trasporto in una regione in cui è negato il diritto alla mobilità non essendoci servizi di trasporto pubblico per il pendolarismo intraregionale.

    Demolire gli stereotipi di genere

    Ma soprattutto è indispensabile prevedere, nelle scuole di ogni ordine e grado, percorsi specifici e mirati all’educazione alla pari dignità di uomini e donne, alla demolizione degli stereotipi di genere, all’educazione sessuale. Percorsi pressoché assenti nelle scuole calabresi. Infine, non è più tollerabile l’assenza delle donne dai luoghi decisionali della politica. In Italia solo l’Umbria ha come presidente di regione una donna e alle recenti elezioni regionali calabresi una sola donna era candidata mentre le sindache elette in Calabria sono poco più del 7% dei sindaci.
    Una società paritaria è una società in cui uomini e donne hanno le stesse opportunità di crescita professionale e di accesso ai luoghi decisionali delle istituzioni, dove portare il prezioso contributo della visione femminile del mondo e il fare politica al femminile, per rendere più equa la nostra società.

    Antonia Romano

  • Aeroporto Minniti, Reggio è la cenerentola degli scali calabresi

    Aeroporto Minniti, Reggio è la cenerentola degli scali calabresi

    L’aeroporto Tito Minniti fu pensato per essere porta d’ingresso per le due città metropolitane, canale d’arrivo e di partenza privilegiato per una fetta di Sud da oltre un milione di abitanti. Ma è finito nell’angolino più angusto del sistema dei trasporti del fondo dello Stivale. Lo scalo di Reggio Calabria arranca tra un emorragia di passeggeri che non conosce sosta – è all’ultimo posto per utenti trasportati tra gli scali calabresi – e un’offerta anemica che si limita a Roma e Milano, con prezzi da tratte internazionali che dirottano su altri aeroporti (Catania e Lamezia) anche buona parte dell’utenza “domestica”.

    Il prezzo dell’incanto

    Incastrato tra le ultime ombre d’Aspromonte e la meraviglia dello Stretto, lo scalo reggino paga, tra le altre cose, una serie di limitazioni dettate proprio dalla posizione in cui lo hanno costruito e dalla difficoltà nelle manovre di atterraggio. Dotato di due piste (anche se i voli di linea atterrano e decollano solo su quella principale) è uno dei pochi scali italiani a prevedere un’abilitazione particolare per il pilota (in fase di atterraggio è necessaria una manovra gestita direttamente in cabina).

    Limitazione che si somma a quelle legate all’impossibilità di dotare lo scalo con i moderni sistemi di radiofaro per l’atterraggio strumentale degli aerei e che, di fatto, resta come un macigno sospeso sui progetti di sviluppo visto che molte compagnie, low cost in testa, preferiscono puntare su scali incatenati da minori restrizioni e quindi accessibili a costi più bassi.

    Uno scalo per due

    Reggio e Messina come bacino naturale, il Tito Minniti (in memoria dell’aviatore reggino protagonista della guerra colonialista d’Abissinia) non è mai riuscito a diventare veramente attrattivo per i viaggiatori in partenza e in arrivo dalla sponda siciliana dello Stretto. Più veloce e più comodo per l’area metropolitana di Messina (nonostante la maggiore distanza) raggiungere lo scalo catanese di Fontana Rossa, che garantisce una maggiore offerta e prezzi decisamente più competitivi.

    Oggi, se un utente messinese volesse decollare da Reggio servendosi di mezzi pubblici potrebbe scegliere tra: prendere un autobus (privato) dalla città peloritana che, attraversato lo stretto via traghetto fino a Villa, lo lasci in aeroporto dopo il tragitto in autostrada o, in alternativa, prendere un aliscafo fino al porto di Reggio e da lì raggiungere lo scalo con un mezzo Atm: in entrambi i casi, oltre un’ora di tragitto scomodo e costoso che scoraggerebbe anche il più entusiasta dei viaggiatori.

    Arrivare in aeroporto dal mare

    Eppure qualcosa era stato fatto in passato per migliorare il collegamento. Nata durante la primavera di Reggio con Italo Falcomatà, l’idea di dotare il Minniti con un approdo pensato per gli aliscafi, si concretizzò nell’era Scopelliti, ma le cose non andarono bene. Modificato il vecchio molo della stazione aeroporto e “sistemata” la via d’accesso diretta tra la stazione e il Minniti, il nuovo percorso che consentiva l’accesso diretto allo scalo (con check in possibile direttamente a Messina) non riuscì mai a sfondare.

    Troppo lungo il tragitto via mare (nell’entusiasmo di quei giorni un consigliere comunale arrivò a invocare l’adozione degli hovercraft per il collegamento super veloce delle due sponde dello Stretto), scomodo e lento il trasbordo sulla navetta dalla stazione. Il servizio rimase in piedi per una manciata di mesi soltanto. Poi, così come era venuta, l’idea di arrivare al Minniti dal mare è naufragata in fretta. E ha lasciato come (costosa) dote, un molo ristrutturato e ormai in disuso e un sottopassaggio inutilizzato prima vandalizzato da una discarica abusiva e poi mestamente chiuso al traffico.

    Scartamento ridotto

    Il Minniti è passato sotto la gestione di Sacal all’indomani del rovinoso fallimento della Sogas, la compartecipata pubblica che gestiva lo scalo andata a gambe per aria nel 2016 con uno strascico di 10 indagati. Ha evitato così una rovinosa chiusura grazie a una gestione provvisoria che gli ha consentito di non perdere le necessarie autorizzazioni. Ma l’aeroporto reggino ha continuato a perdere collegamenti e passeggeri in un’emorragia senza fine aggravata dal baratro Covid e dalle scelte di Sacal che, accusano da Reggio, «spinge Lamezia e lascia al palo Reggio e Crotone».

    Il biglietto costa il doppio di Lamezia

    Sul piatto restano i milioni del rinnovato piano industriale previsti dal gestore per i tre scali calabresi. Una fetta dovrebbe essere destinata a Reggio per l’adeguamento della pista e dell’aerostazione e il rilancio dello scalo: «Vogliamo portare Reggio a un milione di viaggiatori», disse l’allora facente funzioni Spirlì durante una conferenza stampa della scorsa estate.

     

    In attesa del milione di passeggeri, al Minniti, nel mese di ottobre, si sono avventurati poco più di 13 mila utenti che rendono lo scalo reggino ultimo tra i tre aeroporti calabresi per numero di passeggeri. Anche perché, prenotare per la settima di Natale, un andata e ritorno sia da Roma che da Milano (uniche tratte sopravvissute alla desertificazione dei voli) costa al malcapitato viaggiatore poco meno di 400 euro. Circa 200 euro in più delle medesime tratte in vendita, nel medesimo periodo, sullo scalo lametino.

  • Vibo, dove cultura e poteri dialogano un po’ troppo

    Vibo, dove cultura e poteri dialogano un po’ troppo

    La reale consistenza dell’élite culturale e politica di Vibo è nitidamente rappresentata da una recentissima polemica, ma anche da due distinti episodi del passato. La vicenda non riguarda una delle solite storie di sciatteria istituzionale a cui è abituato chi vive nella provincia più marginale della periferia d’Italia. Di mezzo c’è, invece, una realtà che è considerata un’eccellenza: il Sistema bibliotecario vibonese. Un’istituzione che rende un servizio essenziale ed è protagonista, tra le altre cose, dell’organizzazione del Festival Leggere&Scrivere, rassegna che ogni anno attira quaggiù i nomi più importanti del panorama culturale italiano.

    Di padre in figlio

    La polemica l’ha sollevata il Pd locale, che al Comune è all’opposizione e ha chiesto pubblicamente chiarezza sulla nomina a direttore del Sistema bibliotecario di Emilio Floriani, figlio del direttore storico, Gilberto. Il capogruppo del Pd, Stefano Luciano, ha sostanzialmente domandato delucidazioni sul passaggio del timone da padre in figlio, sull’eventuale pagamento del canone per i locali comunali occupati dal Sistema (un palazzo monumentale nel centro storico) e su quale tipo di rapporti ci siano con il Comune, anche in relazione alle iniziative di Vibo Capitale italiana del libro 2021.

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    Gilberto Floriani, direttore del Sistema bibliotecario vibonese, ha nominato come suo successore il figlio Emilio – I Calabresi

    All’interrogazione, presentata due mesi e mezzo fa, non ha ancora risposto né il sindaco né l’assessore competente. Lo ha fatto invece Floriani (padre) su Facebook lanciando un «appello in favore del Sistema bibliotecario vibonese». Floriani senior ha parlato del «tentativo» di «danneggiare una grande realtà culturale che solo bene ha portato alla città nel corso degli anni». E annunciato che per «reagire democraticamente a queste strumentalizzazioni gli operatori e i volontari del Sistema intendono essere presenti ai lavori del Consiglio comunale».

    Oggi gli attacchi, domani gli accordi

    Per approfondire la controversia basta consultare pagine e profili social dei protagonisti e chi abbia torto o ragione, forse, non è poi così interessante. È significativa invece la dinamica e l’atteggiamento di chi l’ha innescata. Luciano, oltre che un affermato avvocato, è un giovane ma esperto politico che studia da sindaco da un pezzo. Ed è già passato da una parte all’altra dell’arco costituzionale con la stessa destrezza con cui Floriani da anni domina la scena culturale locale, dimostrandosi abile a coltivare rapporti con le amministrazioni pubbliche che spesso ne sovvenzionano, legittimamente, le attività.

    La polemica non è direttamente collegata con i due episodi del passato – uno sull’élite politica e l’altro su quella culturale – che riportiamo di seguito. I protagonisti sono però in qualche modo il sottoprodotto di due mondi, o forse di un’unica aristocrazia, che da anni fa il bello e il cattivo tempo a Vibo. E tutto, la diatriba recente come le ombre del passato, c’entra molto con l’assuefazione alle pratiche del familismo, del consociativismo e con la consuetudine per cui tutto, a queste latitudini, debba muoversi attraverso guerre per bande e oscure alleanze. Oggi magari ci si attacca, ma domani probabilmente ci si accorderà. Il risultato è sempre lo stesso, fermentato in un unico brodo di coltura in cui germogliano solo corrispondenze inconfessabili mirate alla conservazione del potere.

    «L’atto ufficiale di nascita della mafia a Vibo Valentia»

    Il primo episodio riguarda un articolo, seguito da un processo per diffamazione a mezzo stampa. Uscì a dicembre del 1966 sui Quaderni calabresi, mensile politico-culturale del circolo Salvemini. Il pezzo denunciava ciò che gli autori definirono «l’atto ufficiale di nascita della mafia a Vibo Valentia».

    Il fatto era questo: un uomo aveva avuto la concessione per installare un distributore di benzina in un luogo in cui il Piano regolatore prevedeva altro, cioè una strada pubblica. Il sindaco, solitamente rigido sulle concessioni, in quel caso non si era dimostrato tale. La maggioranza dei consiglieri comunali aveva poi ratificato la concessione. E quell’uomo aveva impiantato le sue colonnine «dove nessuno avrebbe osato neppure immaginare».

    La decisione aveva destato scalpore. Il beneficiario aveva diverse grane giudiziarie e c’entrava con «una lunga e cruenta guerra mafiosa ingaggiata attorno ad alcune società petrolifere in Calabria e nel Lazio». Vibo era l’«epicentro» di quegli affari. E nelle paventate collusioni con l’alta borghesia politica della città gli autori dell’articolo individuavano il debutto palese del vero potere mafioso, il prodotto della presunta intesa segreta tra il crimine e l’élite.

    Il sindaco e lo ‘ndranghetista

    Il sindaco dell’epoca era Antonino Murmura, divenuto poi senatore Dc e rimasto per decenni assessore ai Lavori pubblici o all’Urbanistica. Artefice istituzionale della Provincia e politico vibonese più influente dai tempi del ministro fascista Luigi Razza, aveva portato in Tribunale i redattori della rivista. Che furono assolti 4 anni dopo con sentenza poi confermata in Appello.

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    L’ex sindaco e senatore Antonino Murmura – I Calabresi

    L’uomo che, 60 anni prima dell’inchiesta “Petrolmafie”, aveva piazzato quelle colonnine era un Pardea. Detti “Ranisi”, fin dal Dopoguerra sono stati i custodi della tradizione ‘ndranghetista a Vibo. Poi altre famiglie si sono affacciate sul panorama criminale e ad avere il sopravvento sono stati i Lo Bianco-Barba, federati ai Mancuso. Dal gruppo Lo Bianco a un certo punto si è distaccato Andrea Mantella, killer ragazzino divenuto boss emergente che non sottostava allo strapotere dei Mancuso. Oggi è uno dei principali pentiti del maxiprocesso “Rinascita-Scott”. E in uno dei suoi verbali ha raccontato una vicenda vissuta al fianco di Franco Barba, un imprenditore edile che «ha costruito mezza Vibo».

    Il killer e l’intellettuale

    È il secondo episodio, quello sull’élite culturale. Nei primi anni 2000 Barba e Mantella sarebbero andati da «una persona importantissima» (non indagata in Rinascita-Scott, ndr), in una «grandissima casa antica, vecchio stile tipo castello, con mobili antichissimi e piena di libri», per parlare della compravendita di un terreno da un milione di euro. La persona che li aveva ricevuti subito, pur senza preavviso, secondo Mantella «sapeva benissimo che aveva a che fare con mafiosi e che i soldi venivano dai Mancuso».

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    Il pentito Andrea Mantella – I Calabresi

    Lo stesso costruttore avrebbe raccontato di avergli portato uno «zainetto pieno di soldi con il quale lo ha “stordito” per cui l’affare è stato concluso». Mantella lo identifica in Luigi Lombardi Satriani, antropologo entrato a buon diritto nel gotha della cultura calabrese, eletto al Senato alla fine degli anni ’90 con il centrosinistra e all’epoca componente della Commissione Antimafia. Negli anni non ha fatto mancare il suo autorevole contributo di studioso ai Quaderni calabresi.

    Epilogo. Il 28 ottobre 2021 il procuratore di Vibo Camillo Falvo, già pm nel pool antimafia dell’agguerrito Nicola Gratteri, è stato premiato, nel corso della seconda giornata del Festival Leggere&Scrivere, dall’associazione “Antonino Murmura”. Le motivazioni enunciate alla consegna della targa fanno riferimento al «suo fondamentale contributo alla giustizia», al «corretto e puntuale esercizio dell’azione penale», alla capacità di dimostrare che «non può essere veramente onesto ciò che non è anche giusto».

     

  • Reggio Calabria, lo psicodramma di Falcomatà e del Pd. E l’inesistenza del centrodestra

    Reggio Calabria, lo psicodramma di Falcomatà e del Pd. E l’inesistenza del centrodestra

    In politica non esistono spazi vuoti. È una regola conosciuta da tutti. E così, da scelte poco coraggiose, da comportamenti ondivaghi, non può che nascere il caos. Con il ritorno in auge anche di chi sembrava ormai finito nell’oblio definitivo sotto il profilo istituzionale. È quanto sta accadendo a Reggio Calabria. La città è nel bel mezzo di una crisi politico-amministrativa, dopo la condanna del sindaco Giuseppe Falcomatà nell’ambito del processo sul cosiddetto “Caso Miramare”. Un anno e quattro mesi per aver di fatto “regalato” a un imprenditore amico una parte di uno dei “gioielli di famiglia” della città. Una sentenza che ha portato all’automatica sospensione del primo cittadino in base alla Legge Severino.

    Una settimana fa

    A distanza di una settimana, la città naviga a vista. Falcomatà si è affrettato a spargere nomine qua e là, tagliando fuori, di fatto, il Partito Democratico. Il Comune di Reggio Calabria e la Città Metropolitana sono oggi retti da un nuovo vicesindaco, Paolo Brunetti. Esponente di Italia Viva, nominato in fretta e furia prima che la condanna cadesse sulla testa del giovane sindaco. Inoltre, per la nomina di vicesindaco della Città Metropolitana, Falcomatà ha dato un ulteriore schiaffo al Pd: con la nomina di Carmelo Versace, esponente di Azione, il movimento di Carlo Calenda.

    Ma non finisce qui. Con una mossa che per molti è sembrata incredibile, Falcomatà ha rimosso dal ruolo di vicesindaco il professor Tonino Perna. Intellettuale molto conosciuto e stimato in città, era stato chiamato per rianimare l’Amministrazione dopo i primi cinque anni oggettivamente deludenti. Senza nemmeno una telefonata, Falcomatà lo ha degradato ad assessore.

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    L’ormai ex vice sindaco Tonino Perna – I Calabresi

    Una scelta che Perna non ha accettato. Non poteva accettarla. E così, ha rassegnato le dimissioni. Non prima, però di aver demolito la figura personale e politica di Falcomatà nel corso di una conferenza stampa. Perna ha parlato di «città allo sbando». Ha ammonito sul concreto rischio, per Reggio Calabria, di perdere cospicui fondi per l’occupazione giovanile, se non si interverrà entro dicembre. «Sarebbe un atto criminale» ha detto. Ha definito Falcomatà «una personalità complessa, da studiare». Dove per molti il «da studiare» significa “da curare”.

    Comportamenti schizofrenici

    La chiarezza non è di casa. Per nessuno dei protagonisti. Falcomatà, infatti, ha preannunciato ricorso contro la sospensione. Di fatto, continua a fare il sindaco, almeno stando a quanto emerge dai social, dove commenta interventi di manutenzione e supervisiona i cantieri. Eppure è ormai acclarata quella che sembra essere una exit strategy per il primo cittadino: la vittoria di un concorso come dipendente amministrativo presso il Comune di Milano. Qualcosa che parrebbe presagire un piano B per il giovane esponente del Pd, ormai ai ferri corti con il suo partito.

    Già, il Pd. I retroscena raccontano della furia del responsabile Enti locali dei Democratici, Francesco Boccia, in alcune riunioni dopo la sospensione di Falcomatà. Al Pd, le scelte del sindaco sospeso sono sembrate un appiattimento sulla posizione di Matteo Renzi. Cui Falcomatà, un tempo, era molto legato. In tanti ricordano endorsement e selfie tra i due. Maestri della (eccessiva) comunicazione tramite social. Ma, come spesso accade quando di mezzo c’è il Partito Democratico, la montagna ha partorito un topolino. Perché dalle lunghe riunioni interne, l’ira funesta del Pd si è trasformata in una posizione a dir poco ibrida. I Democratici si limitano a chiedere nuovo slancio all’Amministrazione Falcomatà/Brunetti. Con un rimpasto o, al massimo un azzeramento della Giunta.

    Parola d’ordine: conservazione

    Posizione ben diversa rispetto a quanto sostenuto, in passato, tanto dal Pd, quanto da Italia Viva, sostanzialmente. «Ora bisogna andare subito al voto anticipato: lo dobbiamo ai calabresi». Così si esprimeva l’allora segretario regionale del Pd, Ernesto Magorno. Fine marzo 2014. Giuseppe Scopelliti è presidente della Giunta Regionale della Calabria e poche ore prima è stato condannato in primo grado a sei anni nell’ambito del “Caso Fallara”. Sentenza, negli anni, divenuta definitiva e irrevocabile, portando l’ex sindaco del “Modello Reggio” dietro le sbarre.

    Ernesto Magorno e Matteo Renzi
    Ernesto Magorno e Matteo Renzi – I Calabresi

    Magorno chiedeva le dimissioni di Scopelliti: «La notizia di questa sera conferma, anche dal punto di visto etico, la necessità di ridare la parola ai calabresi. La Calabria deve voltare pagina, ritrovare fiducia nella politica e affidarsi ad un’esperienza di rinnovamento e buon governo, che ponga come priorità la questione morale e della lotta alla criminalità». Oggi il Pd tace sulla cosiddetta “questione morale”. È infatti palese che condurre il Comune verso il commissariamento significherebbe correre verso una sonora sconfitta elettorale alla prima occasione utile. Il consenso di Falcomatà e del centrosinistra, infatti, è ai minimi termini. Gode invece Italia Viva. Irrilevante nei numeri, ma ad amministrare il comune di una città metropolitana. E lo stesso Magorno, renziano della prima ora e quindi passato a Italia Viva, è, ovviamente, tra i principali sostenitori dell’Amministrazione Comunale di Reggio Calabria, decapitata.

    A volte ritornano

    Un simile scenario non può non aver fatto ringalluzzire chi sembrava (giustamente) destinato all’oblio. Nelle riunioni partitiche e interpartitiche, infatti, è tornato a fare la voce grossa persino l’ex assessore regionale al Lavoro, Nino De Gaetano. Scomparso dai radar dopo essere finito agli arresti domiciliari nell’ambito dell’inchiesta “Erga omnes”, sullo scandalo dei rimborsi elettorali del Consiglio Regionale. Soggetto che il Pd aveva, per un periodo, tenuto ai margini, anche per via di alcune pesanti risultanze investigative della Dda di Reggio Calabria. Nel covo dove verrà catturato il superboss Giovanni Tegano, infatti, saranno ritrovati “santini” di Nino De Gaetano. Indicato come candidato gradito alla potente famiglia di Archi, per il tramite del suocero, oggi defunto.

    Ma già nel corso delle ultime consultazioni regionali, De Gaetano era riuscito a infiltrare nuovamente il Partito Democratico piazzando lì il suo fidato Antonio Billari. Consigliere regionale uscente, perché ripescato dopo le dimissioni di Pippo Callipo nel corso della precedente consiliatura. Oggi sogna un nuovo ingresso, qualora Nicola Irto dovesse optare per una candidatura alla Camera dei Deputati, appena possibile.

    Cosa accadrà?

    De Gaetano, quindi, è riaffiorato dalla penombra in cui era sprofondato. E adesso detta la linea. È stato lui stesso a parlare per primo di azzeramento della Giunta comunale. Un messaggio alla città che doveva arrivare dal sindaco sospeso Falcomatà. O dal suo facente funzioni, Brunetti. O, magari, dal Pd, che è il principale partito rappresentato in consiglio comunale.

    Nino De Gaetano
    L’ex consigliere regionale Nino De Gaetano – I Calabresi

    Non di certo da De Gaetano, che non avrebbe titolo per parlare. Ma la sua compagine politica è determinante nei numeri. E, quindi, passano appena poche ore e il facente funzioni Brunetti, con una nota ufficiale, cede ai desiderata. Annunciando un azzeramento delle deleghe nel giro di pochi giorni.

    Il toto-nomi

    E, ovviamente, si scatena il toto-nomi. Il Pd, principale azionista dell’amministrazione comunale reggina, si ritrova attualmente con un solo assessore, l’anziano Rocco Albanese, in consiglio comunale da una vita. Ma De Gaetano & co. chiedono spazio. E sono almeno quattro i consiglieri comunali che fanno riferimento all’ex assessore regionale. Uno o forse due, tra questi, potrebbero entrare in Giunta. Mentre il Pd, che vanta il maggior numero di donne, potrebbe puntare ad alcuni ingressi in nome delle “quote rosa”.

    A fare spazio potrebbe essere qualche esterno, quindi. Vacilla, allora, la posizione di Rosanna Scopelliti, figlia del giudice Antonino Scopelliti. Anche lei, come Perna, era entrata nel “secondo tempo” dell’Amministrazione Falcomatà per ridare slancio. Ma adesso potrebbe ricevere un “arrivederci e grazie”.

    L’impalpabile centrodestra

    In tutto ciò, sul podio delle posizioni imbarazzanti, non può che salire anche la (non) posizione del centrodestra. Che, almeno sulla carta, dovrebbe effettuare una serrata opposizione alla maggioranza di centrosinistra. E, invece, nell’arco di una settimana, non è riuscito a mettere in piedi una posizione pubblica che fosse una. Solo nelle ultime ore, una nota firmata, tra gli altri, dal deputato di Forza Italia, Francesco Cannizzaro e dalla sua omologa di Fratelli d’Italia, Wanda Ferro. I due hanno chiesto una posizione netta al Governo sul caso Reggio Calabria. Attribuendo anche al sottosegretario Nicola Molteni frasi che lascerebbero presagire la possibilità di decisioni gravi sul Comune di Reggio Calabria. Ma, al momento, tutto sembra un bluff. Anche per celare l’imbarazzante comportamento dell’opposizione nella lunga settimana post sentenza sul “Caso Miramare”.

    Incollati alla poltrona
    Antonino Minicuci
    Antonino Minicuci – I Calabresi

    Nelle ore successive alla condanna di Falcomatà trapelava l’idea di dimissioni di massa. Ma, alla conta, non più della metà dei consiglieri di minoranza avrebbe effettivamente lasciato il proprio posto.  Tra i fondoschiena maggiormente incollati alla poltrona, quello del (presunto) capo dell’opposizione. Quell’Antonino Minicuci che, per il voto del settembre 2020, era stato scelto addirittura da Matteo Salvini. Perderà nettamente contro Falcomatà, ma dopo averlo costretto al ballottaggio. A distanza di un oltre un anno, di Minicuci si ricordano solo alcune tragicomiche uscite in Consiglio Comunale. Tra frasi dialettali e parolacce.
    Ma l’impressione è che, se si tornasse al voto, persino lui potrebbe vincere contro un centrosinistra così ridotto ai minimi termini.

  • Ministri calabresi? Il buio oltre Mancini, Misasi e (forse) Minniti

    Ministri calabresi? Il buio oltre Mancini, Misasi e (forse) Minniti

    «Al Pci i cervelli, alla Dc i bidelli», recitava un adagio che spiegava in pillole l’egemonia comunista e bollava la presunta insensibilità culturale della Balena Bianca.
    Un giudizio ingeneroso, perché i vertici nazionali della Democrazia cristiana furono di altissima caratura intellettuale.
    Tuttavia, un giudizio non del tutto immotivato, anzi, aveva un bersaglio politico e un riferimento territoriale: Riccardo Misasi e la Calabria.
    Il clientelismo spinto fu l’accusa più rivolta dagli avversari, esterni e interni, all’ex big scudocrociato, che, nel suo primo mandato da ministro della Pubblica istruzione (1970-1972), riempì le scuole italiane di bidelli calabresi reclutati su chiamata diretta.

    L’ex ministro democristiano Riccardo Misasi – I Calabresi

    Altri tempi, di cui oggi, nel Sud profondo, coltivano in tanti una nostalgia morbosa. Allora sì, la Calabria “contava” grazie ai Misasi, che, recita un altro adagio, «mangiavano ma facevano mangiare». E contava anche grazie a Giacomo Mancini, che fu addirittura leader di Partito e ricoprì incarichi ministeriali importantissimi.
    I due big, scomparsi a inizio millennio, praticamente assieme al secolo su cui avevano inciso e che li aveva resi grandi, sono diventati il “mito incapacitante” della politica calabrese che, senza di loro, avrebbe senz’altro avuto un peso minore nella storia del Paese e che, dopo di loro, si è ridotta a poca cosa.

    Ministeri alla calabrese, i prototipi

    In realtà, i calabresi “di governo” esplosero un po’ prima. Per la precisione, durante la Grande Guerra e nei governi Giolitti IV, Boselli, Orlando e Giolitti V.
    In questi governi ricoprirono incarichi di assoluto prestigio il silano Gaspare Colosimo – che fu ministro delle Poste dei telegrafi, delle Colonie e dell’Interno -, il reggino Giuseppe De Nava – che occupò tutti i dicasteri economici e concluse l’età liberale da ministro del Tesoro – e il cosentino Luigi Fera, che fu ministro delle Poste e di Grazia e giustizia.
    L’ingresso dei calabresi nei ministeri proseguì col fascismo, in cui ebbe un ruolo di prima grandezza Michele Bianchi. Di più: è proprio lui il prototipo del ministro calabrese di successo e di potere, il modello che si sarebbe riprodotto nella Prima Repubblica senza colpo ferire.

    Michele Bianchi, segretario del Partito nazionale fascista e ministro – I Calabresi

    Forse quello che gli somiglia di più è Giacomo Mancini, che ebbe la stessa visione politica (l’inclusione della piccola borghesia e degli strati popolari nelle strutture pubbliche e di partito) e la stessa concezione economica (l’uso delle opere pubbliche come volano di crescita finanziaria e di sviluppo) del quadrumviro mussoliniano.
    Don Giacomo fascista? Proprio no. Al contrario, Bianchi socialista. E calabrofilo al pari del compianto “leone”.
    «Cosenza, che Michele Bianchi ha voluto bella», scrisse Pietro Ingrao nella sua autobiografia. E Mancini, da sindaco, tentò di rifarla bella circa settant’anni dopo.

    Superterroni di governo

    I ministri calabresi nei governi repubblicani sono in tutto dodici su un totale di 591. Tolti Misasi e Mancini, nessuno di loro ha avuto un peso politico forte.
    Quello che si è avvicinato di più ai due grandi è Marco Minniti, che ha ricoperto il ministero dell’Interno nel governo Gentiloni. Tutto il resto, è roba di sottosegretariati e incarichi vari, assegnati il più delle volte per semplici questioni di equilibri territoriali e senza andare troppo per il sottile. Dodici ministri sono poca roba nella storia dell’Italia repubblicana, in cui hanno fatto la parte del leone quattro regioni: Lombardia, Sicilia, Campania e Lazio, che hanno avuto circa la metà dei ministri.

    Questo per restare ai paragoni assoluti. Ma anche all’interno del Sud la Calabria non è messa benissimo. In termini relativi, la batte anche il piccolo Molise che, coi suoi cinque ministri, ha espresso più “governabili” rispetto alla propria demografia. In pratica, un ministro ogni 60mila abitanti su una popolazione di circa 300mila.
    La Calabria, invece, ne ha ottenuto uno ogni 158mila e rotti, calcolati su una popolazione complessiva media di 1 milione e 900mila.

    Dop di Calabria

    A questa statistica, occorre aggiungere un’altra considerazione: non tutti i ministri calabresi sono o sono stati realmente tali. Certo, calabrese era Fausto Gullo che, a cavallo tra la fine del Regno d’Italia e l’inizio dell’era repubblicana, fu al governo come ministro dell’Agricoltura prima e di Grazia e giustizia dopo.

    Non può essere considerato, invece, un dop di Calabria il democristiano Nicola Signorello, che è nato nel Vibonese ma ha fatto carriera a Roma, di cui fu presidente della Provincia dal 1961 al 1965 e sindaco dal 1985 al 1988. Tutto il resto, cioè le elezioni in Parlamento e i dicasteri ministeriali, lo ha ottenuto grazie ai voti della circoscrizione laziale e alla militanza andreottiana. Nessun legame col territorio e gli elettori calabresi per lui.

    Lo stesso discorso vale per il socialista Emilio de Rose, che nacque a Marano Marchesato ma fece carriera, di medico e di politico, a Verona con voti veneti. E vale ancor più per Claudio Vitalone, che scalò i vertici della magistratura a Roma e quelli politici nella Dc grazie alla militanza andreottiana. Fu eletto senatore in Puglia e in Ciociaria e non ha mai avuto rapporti diretti con la sua Reggio Calabria e con gli elettori calabresi.

    Per quel che riguarda la Seconda repubblica, non si può dare il dop a Linda Lanzillotta, originaria di Cassano all’Ionio ma vissuta a Roma, dove ha fatto carriera nei ministeri, prima da funzionaria e poi da politica. Protagonista di un lungo viaggio dalla Margherita al Pd, intervallato dalla militanza nell’Api rutelliano e tra i montiani di Scelta Civica, Lanzillotta ha gestito gli Affari regionali e le autonomie locali nel II governo Prodi. È stata eletta in Lombardia e in Umbria. Cassano per lei è sì e no un ricordo.
    Tolti questi quattro, il ruolo della Calabria risulta ridimensionato. Per fare un ministro ci vogliono 237mila e rotti calabresi. Quattro volte che in Molise.

    Perdita di peso

    Al contrario, c’è stato un calabrese adottivo di successo: il reatino Dario Antoniozzi, concittadino per nascita di Lucio Battisti cresciuto a Cosenza dove papà Florindo dirigeva la Cassa di risparmio di Calabria e di Lucania, una delle voci più importanti del potere calabrese. Formatosi in Calabria e cresciuto nei ranghi della Dc cosentina, Antoniozzi è arrivato prima a Montecitorio e poi a Strasburgo coi voti dei suoi corregionali “adottivi”. Grazie al peso della Dc calabrese, ha ricoperto i dicasteri del Turismo e dello spettacolo prima e quello dei Beni culturali poi (e c’è chi maligna, nei suoi riguardi, di un numero di bibliotecari uguale a quello dei bidelli di Misasi…).

    Dario Antoniozzi, ex ministro della Democrazia Cristiana – I Calabresi

    Dalla Seconda repubblica in avanti, il bottino è decisamente magro: due soli ministri (Maria Carmela Lanzetta e Marco Minniti). A cosa è dovuta questa perdita di peso? Torniamo al parametro Michele Bianchi per capire meglio. Bianchi lasciò la Calabria da ragazzo, fece carriera nel sindacato, fu tra i fondatori del Pnf, di cui divenne segretario. Infine entrò nella squadra di governo di Mussolini, prima come sottosegretario e poi come ministro dei Lavori pubblici. Tutto senza mai perdere contatto col suo territorio, il Cosentino, a cui tentò di redistribuire risorse grazie al prestigio e al potere personale accumulati.

    Marco Minniti, ex ministro dell’Interno e sottosegretario con delega ai Servizi segreti – I Calabresi

    Questo stesso meccanismo si applica, come già detto, a Giacomo Mancini e a Riccardo Misasi, che vantavano rapporti privilegiati e diretti (quello di Mancini con Nenni è tutto da approfondire ed è quasi superfluo ricordare che il nonno di Misasi fu testimone di nozze e compare d’anello del papà di Aldo Moro…).
    Ma vale anche per tutti gli altri.

    La tragedia delle autonomie

    Cos’avevano in comune l’Italia della Prima repubblica e i suoi partiti col ventennio fascista? La risposta è banale: le istituzioni pubbliche accentrate.
    Tutto, apparati dello Stato e strutture dei partiti, faceva capo a Roma, senza soluzioni di continuità.
    Citare può essere pesante, ma in questo caso è doveroso. Infatti, gli analisti più recenti della questione meridionale (il napoletano Paolo Macry, il calabrese Vittorio Daniele e l’abruzzese Emanuele Felice) concordano su un dato: la maggiore crescita del Sud, coincidente con il boom economico, avvenne tra gli anni ’60 e il decennio successivo e fu propiziata proprio dal sistema accentrato, che aveva generato un meccanismo politico semplice ma efficace.

    In pratica, i politici erano obbligati dai propri elettori a “strappare” qualcosa al centro per portarlo a casa. Ciò valeva per la Calabria come per il Friuli.
    Il declino politico del Sud, con tutta probabilità, dipende da tre fattori: la “territorializzazione” della politica, iniziata nel  ’93 con l’elezione diretta dei sindaci, il decentramento amministrativo spinto e disordinato e la fine dei vecchi partiti, che funzionavano anche come scuole e palestre politiche.
    Ed ecco che le cose all’improvviso cambiano. Il Sud, tranne Campania e Sicilia, arretra ed emergono altri territori, come l’Emilia Romagna e l’Umbria, che aumentano i propri ministri.

    Il fattore legale

    A queste trasformazioni, occorre aggiungere il fattore legalitario. Ciò che prima si tollerava, in nome dello sviluppo, oggi viene avversato in nome della legalità.
    Infatti, a partire dalle vecchie inchieste di de Magistris, la Calabria è diventata una zona minata, in cui i leader nazionali si muovono a fatica e solo se costretti. Scivolare sulla buccia di banana o “pestare la cacca” è più facile da noi che altrove. E questo spiega perché il centrodestra non ha mai creato ministri calabresi. O perché il centrosinistra ha distribuito i ruoli col contagocce. Basta il fascicolo di un pm e una buona campagna stampa per mandare all’aria mesi e anni di attività politica.

    Ed ecco che la Calabria si è ritrovata così ai margini che per avere un ministro con una delega importante si è dovuto attendere Marco Minniti. E il fatto che Minniti abbia mollato la politica istituzionale non fa ben sperare…