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  • Amantea, l’ex regina del Tirreno dove anche la normalità sembra un miraggio

    Amantea, l’ex regina del Tirreno dove anche la normalità sembra un miraggio

    Era una regina del Tirreno, bella e capricciosa. Dal dopoguerra ai primi anni ’80, quando Paola e Torremezzo ne presero il posto, Amantea era anche la spiaggia dei cosentini, che vi arrivavano in tre quarti d’ora attraverso la vecchia, scassatissima “via del mare”, che passa per Potame, alle pendici del Monte Cocuzzo. Ancora: Amantea, specie negli anni ’70, era piuttosto “avanti”: parrebbe che Coreca, al riguardo, vanti il primato dei primi topless, esibiti con generosità, va da sé, dalle “forastìere”.
    La mafia? C’era senz’altro, ma era poca cosa: fece giusto scalpore, il 13 maggio 1981, il triplice omicidio di Francesco Africano, Emanuele Osso e Domenico Petrungaro, avvenuto nel contesto – particolarmente tragico – della guerra tra i clan Perna-Pranno e Pino-Sena.

    Ma il grasso colava e copriva molte cose, comprese alcune forme di sviluppo urbanistico, iniziate prima della “legge Galasso” ma che dopo sarebbero state censurate, più che dagli uomini dalla natura: ci si riferisce al lungomare, costruito attorno alla vecchia “rotonda”, e all’urbanizzazione della costa nei pressi della foce del fiume Oliva e di Campora San Giovanni. Su queste opere, va detto, sarebbe piombata la vendetta del mare, nella duplice forma delle ondate e dell’erosione, che, in particolare, ha divorato un bel tratto della scogliera di Coreca.
    Ma il presente di Amantea va oltre le peggiori dietrologie. La regina, dopo essere stata detronizzata, ha le rughe.

    Le rughe della regina

    Queste rughe sanno più di malattia che di fisiologico invecchiamento. Lo rivela il decreto con cui, il 30 giugno 2021, la Presidenza della Repubblica ha deciso di prorogare su indicazione del prefetto di Cosenza, il commissariamento della cittadina tirrenica.
    Un dato colpisce in maniera particolare: insediatisi nel 2020, i commissari prefettizi erano riusciti sì e no ad approvare i rendiconti del 2016 e del 2017, relativi cioè all’ultima fase dell’amministrazione Sabatino, e si redigono tuttora i rendiconti del biennio successivo.
    I risultati di questa prima, importante attività finanziaria sono già micidiali: certificano un debito che oscilla tra i 27 e i 30 milioni di euro. Su scala, queste cifre ricordano non poco il dissesto di Cosenza. Vediamo come.

    Il municipio di Amantea
    Il municipio di Amantea

    Amantea, che ha circa 13mila e rotti abitanti, dovrebbe pareggiare il Bilancio con più o meno 12 milioni di euro. Ciò basta a far capire come il debito, gestibile o fisiologico in città più grandi, possa risultare micidiale e quindi ripiombare la città nel dissesto.
    Il problema, come per il capoluogo, è soprattutto il mancato incasso dei tributi comunali, relativi alla rete idrica, alla Tari e alla Tasi, che sfiora percentuali da capogiro, che si attestano attorno al 60%.
    Ma c’è di peggio: molti esercenti e residenti non ricevono le tasse da circa due anni e tutto lascia pensare che il default, il secondo in meno di 10 anni sia un’ipotesi quasi certa.
    Di fronte a questo disastro, la ’ndrangheta, che pure c’è e condiziona tantissimo, potrebbe non essere il male principale.

    Tutto mafia è?

    La prima emersione giudiziaria dei retroscena amanteani è nell’ordinanza di “Omnia”, la maxi operazione antimafia condotta nel 2007 dalla Dda contro i Forastefano di Cassano. Cosa curiosa per un’inchiesta gestita dai Carabinieri del Ros, il nome di Franco La Rupa, all’epoca dei fatti (2005) sindaco di Amantea, vi appare grazie a una velina della Digos, che lo tampinava da tempo: secondo i poliziotti, La Rupa trescava con Antonio Forastefano, detto “il Diavolo”, per ottenerne l’appoggio nelle Amministrative regionali a cui partecipava in quota Udeur.

    Franco La Rupa
    Franco La Rupa

    In seguito alle accuse di Omnia, La Rupa finì in galera e subì un procedimento che, tra vicende alterne, è terminato nel 2018 con la sua condanna definitiva a cui è seguita l’interdizione dai pubblici uffici e l’applicazione della sorveglianza speciale.
    I problemi di La Rupa non finiscono qui: nel 2007 l’ex sindaco finì in un altro guaio grosso, assieme a un suo ex sodale, Tommaso Signorelli, suo compagno di avventura fino al 2004. Ci si riferisce all’operazione “Nepetia”, in cui era emersa l’eccessiva vicinanza dei due amministratori al boss Tommaso Gentile.

    Per amor di verità, occorre ricordare che La Rupa e Signorelli sono risultati prosciolti dal processo Nepetia. Ma ciò non è bastato, evidentemente, al Prefetto e alla Commissione d’accesso, che menzionano i due a più riprese nella relazione inviata al ministro dell’Interno sulla base di un assunto: la loro vicinanza ai clan resterebbe comunque provata, anche a dispetto delle assoluzioni. Di più: a dispetto degli “omissis” La Rupa e Signorelli restano riconoscibilissimi, anche perché i loro nomi sono associati alle ultime elezioni amministrative, svoltesi nel 2017, in cui entrambi hanno avuto ruoli di primo piano. Signorelli come candidato sindaco e La Rupa come organizzatore della lista civica di Mario Pizzino, risultato vincitore e poi commissariato.
    Lo diciamo con tutto il garantismo possibile: quando la polvere è troppa, non la si può più nascondere.

    Il disastro che viene dal passato

    A settembre è franata una strada che collega il centro storico di Amantea alla marina. E non è stato possibile intervenire in alcun modo, anche perché il municipio era già con le pezze al sedere: sono rimasti otto funzionari, tre dei quali prossimi alla pensione e uno “a scavalco”, cioè che lavora non solo per Amantea. Il grosso dei servizi è appaltato, inoltre, a cooperative e aziende esterne e i fondi scarseggiano.
    Il grande buco finanziario emerge tra il 2016 e il 2017, quando salta la maggioranza della sindaca Monica Sabatino, sostenuta dal Pd e vicina a Enza Bruno Bossio, e il Comune finisce in commissariamento.

    Monica Sabatino
    Monica Sabatino

    La sindaca Sabatino, tra l’altro figlia dello storico ragioniere del municipio, non presenta la relazione finale del suo mandato. Ciò spiega il successivo immobilismo di Pizzino, che scarica agevolmente ogni responsabilità sui predecessori. E spiega come mai i conti di Amantea somiglino un po’ troppo a quelli dell’Asp di Reggio Calabria. Cioè risultino misteriosi e, in buona parte “orali”. Ma il disastro risulta enorme e ha più responsabili. Soprattutto, non può essere imputato alla sola Sabatino e al solo Pizzino.
    Occorre un ulteriore passo indietro. Cioè al dramma politico e alla tragedia umana di Franco Tonnara.

    Morire col tricolore

    Tonnara è il classico sindaco del “dopo”. È stato l’amministratore che si è dovuto far carico del post La Rupa. Proveniente anche lui dalla Dc, Franco Tonnara si candida nel 2006 contro una coalizione guidata dal superbig ex scudocrociato Mario Pirillo e da La Rupa. Vince ma paga dazio: nella sua giunta c’è Tommaso Signorelli, già sodale dell’ex sindaco. Come già accennato, Signorelli finisce nell’inchiesta Nepetia e il Comune subisce lo scioglimento nel 2008.

    Per fortuna dura poco: l’anno successivo Tonnara e i suoi vincono il ricorso al Consiglio di Stato e vengono reintegrati con tante scuse e un cospicuo risarcimento. La giunta Tonnara si ripresenta nel 2011 e rivince a man bassa. Ma l’ebrezza dura poco, perché il sindaco muore poco dopo di un brutto tumore allo stomaco e Amantea torna al voto nel 2014, dopo tre anni di reggenza del vicesindaco Michele Vadacchino. Vince la Sabatino e tutto il resto è storia nota. O quasi.

    Coppole e debiti

    Potrebbe essere una scena degna di un film di Cetto La Qualunque: durante la campagna elettorale del 2017, Pizzino ringrazia dal palco Franco La Rupa. La Rupa, spiega la relazione del prefetto, si sarebbe dato dato un gran da fare per organizzare la lista che porta Pizzino alla vittoria. Anzi, si è dato da fare un po’ troppo: la lista si chiama “Azzurra”, proprio come le liste che ha organizzato nei suoi anni d’oro. Ancora: nell’aiutare a compilarla, l’ex sindaco non sarebbe andato troppo per il sottile. Infatti, pende a suo carico un’inchiesta per intimidazione, in cui è rimasto coinvolto anche Marcello Socievole, un consigliere di maggioranza costretto alle dimissioni nel 2018.

    Mario Pizzino
    Mario Pizzino

    Tuttavia, questi non sono i problemi principali, perché, come si apprende ancora dalla relazione del Prefetto, il Bilancio resta un’entità virtuale e il Comune continua a non incassare. In particolare, varie aziende e cooperative non pagano i tributi. A scavare un po’ più a fondo, ci si accorge che in alcune di queste lavorano o hanno ruoli importanti persone imparentate con i boss di Amantea e altri personaggi, legati a loro volta ai clan di Lamezia e Gioia Tauro.

    Non è il caso di approfondire oltre, perché si rischia di scrivere intere pagine di storia criminale. Che però non basterebbero a spiegare perché una cittadina una volta ricca e aperta sia finita in un declino così profondo e, probabilmente, con poche vie d’uscita.
    La ex regina si prepara al voto per la prossima primavera. Ancora non è dato capire chi si sacrificherà per sanare un disastro nato in lire a fine ’90 e poi esploso in euro.
    Nel frattempo, il territorio è presidiato in continuazione dai Carabinieri ed è pieno di poliziotti in borghese. Come se non bastasse, gli elicotteri dell’Arma sorvolano di continuo la città, che sembra vivere un paradossale coprifuoco.
    Gli anni ’80 sono lontani e irrecuperabili. Ma, in queste condizioni, anche la normalità sembra un miraggio.

  • IN FONDO A SUD | Cosenza, la città con un grande futuro alle spalle

    IN FONDO A SUD | Cosenza, la città con un grande futuro alle spalle

    Prima che Cosenza diventasse lunga e scheletrica com’è adesso, l’Unical di Arcavacata, la prima Università dei calabresi, fu per molti di noi provinciali un incubatoio di vite in movimento. L’università è stata la nostra Utopia. Oggi è semplicemente il serbatoio di Cosenza, il suo unico motore sociale, la linfa vitale che nutre tutta l’area vasta. Tra quei cubi da paesaggio surrealista ha messo radici il progresso disunito di questa Calabria, e anche buona parte della vita di sponda della Cosenza di adesso si gioca lì. Un progresso che per noi generazione di arcavacanti si è affacciato sull’orlo della Storia, e subito si è dato via con un risucchio, attratto all’indietro da una forza d’entropia.

    Ora gli studenti del campus sono circa quarantamila. Ma l’università sembra un altro pezzo sfuso del domino di periferie senza centro che si allarga oltre il villaggio totale di Cosenza e di Rende. Ordinata ed efficiente in apparenza, ordinaria, spenta e molto normalizzata vista da dentro. Se quel posto ha cambiato da giovani la vita di molti di noi, non ha però cambiato granché Cosenza e la Calabria intorno. È andato tutto poco oltre la sua cerchia. Fuori è arrivato poco. Ma dopotutto, qualcosa di quello che è accaduto lì ad Arca ancora resta significativo: in fondo è la storia di un sogno. E un sogno frantumato si espia lungo la storia come una pena.

    L’Arca di Cosenza
    Studenti sul ponte Bucci all'Unical prima della pandemia
    Studenti sul ponte Bucci all’Unical prima della pandemia

    L’affresco post-meridionale della sua parabola è diventato l’allegoria capziosa di un’antropologia del casino calabrese. Dove il casino è tutto contemporaneo, ma stratificato e multiforme, una sinossi della storia che ancora sale di spessore come un soufflé ma non cancella nessuno degli strati irrisolti che vengono a galla dal bolo di un passato mai veramente oltrepassato, rubricato e digerito. L’Arca di Cosenza è un’erma bifronte, un sistema perfetto. Doveva essere l’inizio di un tempo nuovo. La rinascita, il meridionalismo applicato bene, il riscatto dei figli delle plebi, il trionfo della cultura meridionale.

    Delle facoltà di un tempo oggi sono rimaste le sigle da app alla moda, i Cal park, l’innovescion solo digitale, un recinto di poteri convergenti controllato da vecchi e nuovi lupi d’accademia. Ma quelli di adesso non fanno sogni d’utopia e non sanno insegnare come i buoni e i cattivi maestri di una volta, non sanno amare e non sanno scrivere bei libri. Sono lupi senza nulla di seducente, famelici e basta. In fondo in lingua calabra Arcavacata, il posto in cui è cresciuta l’università, significa “arca-vuota”, vacante, svaligiata. Un luogo dissacrato.

    Vecchie e nuove diarchie

    E a Cosenza da dove si ricomincia? Come si ricostruisce l’idea di un orizzonte comune, un’immagine di città? Cosenza oggi fa fatica a ritrovare i suoi simboli dopo il tramonto della sua grandeur provinciale, che si trascina ancora nella retorica un po’ stucchevole di “Atene delle Calabrie”, difficile da rinverdire. Come rimettere in piedi una classe dirigente credibile e adeguata ai tempi, dopo i fasti della Prima Repubblica, scandita da personalità discusse ma di grande rilievo come Mancini e Misasi.

    Dopo i due dioscuri cosentini, ministri della modernizzazione, del rigonfiamento terziario, delle opere pubbliche e del cemento, gli ormoni che hanno ingrandito a dismisura la nuova Cosenza senza farne però un organismo urbano dalla fisionomia compiuta, gli anni più vicini a noi sono stati quelli di una diarchia minore che ha però comandato da Cosenza sulla Calabria intera, regnando sui palazzi della politica cittadina, provinciale e regionale.

    Mario Occhiuto e Mario Oliverio a Palazzo dei bruzi
    Mario Occhiuto e Mario Oliverio a Palazzo dei Bruzi

    L’era dei due proconsoli, oggi tramontati e superati dai successori (anche in linea dinastica). L’età dei “due Maruzzi”, Occhiuto e Oliverio, di cui restano a futura memoria le feroci contrapposizioni e gli incroci di interessi trasversali, lo sciupio di luminarie e concertoni, i rodeo di cowboy in Sila e altre discutibili imprese. Da viale Parco incompiuto al tentativo abortito della metropolitana di superficie, fino alla celebrazione dei fasti di seconda mano dell’isola pedonale e del museo all’aperto su corso Mazzini.

    Il tramonto della cultura

    Una città che dall’avere avuto in passato un assessore alla Cultura di prestigio come Giorgio Manacorda, opta per non averne più(ancora oggi, sotto il neosindaco Caruso) neanche uno. Un movimento musicale e teatrale ormai privo di riferimenti, con la crisi cronica del teatro di tradizione Rendano, con la fine della leggenda off del Teatro dell’Acquario (diventato un bistrot) e con lo stop definitivo dato alla prosa pubblica, cessata a Cosenza con il Teatro Stabile di Produzione, il Morelli (oramai disabilitato, ma diretto in passato da uno scrittore come Enzo Siciliano), la vita culturale della città di Telesio è scesa dalle poltrone di velluto della cultura dei salotti buoni di un tempo alle parodie postmoderne dell’impegno.

    La Fiera di San Giuseppe a Cosenza
    La Fiera di San Giuseppe a Cosenza

    Il declassamento è presto approdato ai surrogati ultra pop degli “eventi” e degli happening piccoli e grandi, come la fiera di San Giuseppe, i concertoni di Capodanno, la Festa del cioccolato sul corso. E anche peggio alla quota dei festivalini celebrativi dell’eclettismo post-tutto intitolati a invasioni e re barbarici, fino alle celebrazioni elevate a idoli identitari farlocchi. Mentre servizi pubblici, scuole, istituzioni e centri culturali con alle spalle tradizioni centenarie presenti in città rimangono orfani e languenti, la Casa della Culture sbarrata, biblioteche e importanti archivi pubblici disertati e allo sbando.

    La città tra resistenza e retorica

    Qualche residuo fermento antagonista e qualche punto di resistenza culturale e civica sopravvive comunque o ha fatto in città storia recente: l’eredità del collettivo Gramna, Radio Ciroma, i gruppi di lotta per la casa, gli attivisti per il centro storico e i beni pubblici, un po’ di associazionismo laico e di solidarismo cattolico, una piccola casa editrice indipendente, CoEssenza, che anima il centro storico abbandonato, e una casa editrice senior che nonostante la crisi festeggia i settant’anni di vita (Pellegrini, la più antica fondata in Calabria e attiva a Cosenza dal 1952, con più di 5.000 titoli in catalogo).

    Ironia e devozione al cuddrurieddru sui muri di Portapiana a Cosenza

    Pochi simulacri di gusti popolari, trasversali e bipartisan, facilmente assimilabili al neofolklore cittadino, sopravvivono strenuamente all’omologazione. Superimposti, aldisopra di tutto e sempre presenti nella fiorente retorica identitaria che a Cosenza abbonda e celebra gli sparuti simboli eredità di una presunta autenticità e di un passato metastorico in cui si fatica a riconoscersi. Fin troppo elementari però, anzi alimentari, se il richiamo di consolazione sempre più sbiadito da opporre alla crisi di valori e al caos dei tempi nuovi è quello offerto dalla insuperata triade gastronomica di tradizione locale formata da scirubbetta invernale (neve e miele di fichi), dal must silano delle patate ‘mbacchiuse (patate al tegame), e infine dal trionfo incontrastato dei sempiterni cuddrurieddri, le ciambelle fritte (prodotto non originalissimo in verità) presenti in ogni stagione e in ogni dove, assunte in funzione totemica, autentiche e insuperabili colonne d’ercole della più autentica distinzione cittadina.

    Un patto civico

    Ma quel che difetta oggi in città è, soprattutto, il tratto culturale, una tradizione di stile che contraddistingueva un tempo non solo le elìtes vere, ma segnava il carattere stesso dei cosentini. Una sorta di principio fondativo, di patto civico. Doti che certo non facevano difetto tra gli intellettuali e le diverse famiglie politiche cosentine del passato, intorno alle quali si tenevano circoli e cenacoli culturali come quelli che si formarono intorno a personalità di opposte appartenenze ideologiche, ma di pari valore cultuale e peso politico.

    Dario Antoniozzi
    Dario Antoniozzi

    Figure colte e appassionate come quelle dei comunisti Gino Picciotto (che fu il primo a sollevare le questioni del centro storico abbandonato già alla fine degli anni ’80) e di Umile Peluso; di democristiani interpreti delle istanze del solidarismo cattolico e popolare come Riccardo Misasi e Dario Antoniozzi; di fuoriclasse della politica ragionata in forma di diritto e di azione riformatrice come Fausto Gullo e Giacomo Mancini, a cui si deve nel 1949 l’istituzione del prestigioso Premio Sila, riesumato dall’oblio nel 2010 per volontà della Fondazione Premio Sila, attiva in città con appuntamenti letterari e un premio nazionale.

    Ritratto di un califfo

    Quello stesso Mancini a lungo idolatrato come idealtypus weberiano del cosentino da esportazione, il cui carisma di grande politico, insieme all’indubbia caratura culturale, risaltano anche da un indimenticabile ritratto a firma di Gianpaolo Pansa (in una pagina de La Repubblica del 1987). Quando Pansa lodando la raffinata retorica della “orazione manciniana”, definiva Mancini «Califfo di Calabria». Poche righe, ma balza fuori prepotente la sua personalità da ottimato, il notabile di un Sud giunto al successo della scena politica nazionale.

    Giacomo Mancini
    Giacomo Mancini

    Il socialista modernizzatore e l’uomo di Stato che non perde però – nelle più pastose pennellate del dipinto di Pansa- il suo tratto aristocratico e l’aura da gran provinciale, con quel suo parlare lento e colto e le sz arrotate da cosentino di lignaggio, con «quel profilo da gran signore che tutto ha visto e tutto ricorda, quelle occhiate di sbieco che suggeriscono tante cose, quell’eloquio lento e solenne, senza impennate, le parole bene incise dalla voce nasale ma ricca di zeta che son lame di rasoio».

    La classe dirigente dei galoppini

    Pansa senza saperlo metteva in enfasi in Mancini anche quel tratto di vanità colta e di autorevolezza affluente che tutta l’intellighèntzia cosentina di un tempo aveva ereditato o appreso a forza di educazione colta e di buoni studi, senza i quali non si faceva politica e non si diventava classe dirigente. Una classe dirigente tutta passata, sino agli anni del boom, dalle severe e pensose aule neoclassiche del prestigioso liceo-ginnasio Bernardino Telesio.

    A sostituirla sulla scena politica cittadina di oggi, sbriciolati i partiti e le ideologie novecentesche, è il rampantismo social di un generone politico ignorante e rozzo, specie antagonista naturale di libri e sensibilità culturale, ma sempre in primo piano, fungibile e riposizionabile a piacere, che vanta gli addottoramenti dell’università della strada e carriere veloci percorse all’Asp o a Calabria Verde, per lo più formato da galoppini ed ex portaborse, tenutari di clientele spesso eredità di notabili di terza fila della vecchia politica non ancora in disarmo.

    Princìpi condivisi

    Gli ultimi testimoni di quella stagione trascorsa della buona politica cosentina, raccontano invece un tratto colto e dialogante che, dalla politica al costume, quale che fosse poi il colore di queste élite cittadine, improntava lo stile della vita collettiva sino agli strati più popolari. Formando una solida comunità di presupposti di convivenza e di princìpi civici e culturali condivisi. Significava saper stare al gioco della dialettica, saper tollerare e comprendere le ragioni opposte alle proprie.

    C’era un peso per la cultura e i per i ragionamenti. Le parole spese nella dialettica che alimentava la cultura e il dialogo politico tra questi grandi cosentini del secolo appena trascorso che frequentavano i libri e parlavano un italiano di buon gusto erano un contributo devoluto sempre alla causa della convivenza civile. Anche nella polemica più aspra c’era il sapore della civile conversazione, della conoscenza progredita, del pensiero alto e della buona critica.

    Lo stile smarrito

    Era un costume, una postura di stile a cui la città aderì fino a quando si sentì provincia colta e civile, ancora lontana dalle smanie degli arruffapopolo in cerca d’autore e dei palazzinari speculatori con la fissa della Grande Cosenza. Ora Cosenza è una città che ha smarrito lo stile, la misura di una terza via che non sia quella punzonata dal potere avventizio degli snob dialettofoni e ignoranti al potere, dei radical chic con risvoltino e premio letterario prêt-à-porter.

    Auto sul ponte di Calatrava
    Auto sul ponte di Calatrava

    Quella dei nuovi ricchi col Suv, della cricca dei populisti più rozzi che fanno la gara ai quattrini con gli ipermercati e il nuovo cemento spalmato in giro dagli immobiliaristi d’assalto. Quelli della Cosengeles dei grattacieli tirati su ben oltre i 15 piani, gli artefici della stesa di cemento sterile e privo di socialità che ha stampato la stecca di casermoni stile eclettico e finto international style che adesso corre ininterrotta dal nuovo land marker artificiale del più recente ponte sul Crati, opera modaiola e seriale dell’archistar Calatrava. Un blob di conglomerati edilizi che, scivolando da Macchiabella di via Popilia primo lotto, oltrepassa abbondantemente la frangia di Quattromiglia, fino a spandersi oltre gli ultimi compound dei capannoni di concessionarie di auto di lusso e dei lotti dell’area industriale di Rende-Castiglione Cosentino-Montalto.

    Il fantasma della città

    Di notte il fantasma scheletrico della nuova Cosenza sbiadisce nel gelo umido della valle del Crati distesa nelle luci fatue di questa Cosengeles disciolta nel buio intermittente dei suburbi. L’oblunga città-stradale, cullata da un’inquietudine che lentamente illumina il paesaggio fuori dalle auto che sfilano tra le cortine di costruzioni nuove e gli scheletri di palazzine mezzo abitate sorte tra gli spigoli di campagne smangiate, ormai guaste e desolate. Così per evitare la sensazione disunita e precaria che si apre sulle albe insonni di certe strane giornate, qualche volta cambio strada e vado a guardare la città dall’alto.

    Dalla rotabile che dai quartieri in collina porta dentro la città dal canalone di Laurignano, fin dentro le vecchie case della Riforma, vicino ai padiglioni scorticati dell’ospedale dell’Annunziata, e poi si perde dentro il labirinto dei cantieri non finiti, tra le strade provvisorie e senza nome dei nuovi lotti dietro via Popilia e Malavicina.

    Sotto la luce stordita di pochi lampioni la città nuova si macchia di una consistenza fatua e polverosa, ha qualcosa di stregato. Già dalla strada di mezza costa verso la città, i grossi pezzi del Lego che compongono i quartieri nuovi distesi come una colata di lava rappresa nella lunga valle del Crati, diventano immagini inutilmente vaste, imprecise e sfocate. I semafori si illuminano esitanti sul giallo, qualche corriera di linea parte per destinazioni più lontane dalla stazione degli autobus e qualcun’altra si infila stancamente lungo il viale degli arrivi, già carico di studenti e pendolari raccolti dalle pensiline dei paesi della provincia.

    L'autostazione a Cosenza
    L’autostazione a Cosenza

    I piazzali della stazione dei bus già molto prima del mattino sono fitti di impiegati partiti nel cuore della notte per arrivare in tempo negli uffici. Le facce smunte e intontite dal sonno delle donne ucraine che vanno a prendere servizio nelle case borghesi, o che staccano da una notte passata a fare le pulizie nei condomini. Il resto della ressa sono migranti, operai e manovali dei paesi che devono ancora arrivare a destino, comandati come me ad aprire svogliatamente il turno della vita del mattino.

    Hinterland, traffico e casermoni

    Poi il traffico si riversa di nuovo alla periferia nord di Cosengeles, dalle parti di Roges, dove si distende l’hinterland assiepato di enormi casermoni squadrati e di crocevia illuminati da grandi lampade che guidano come rastrelliere il traffico dei viali verso l’imbocco dell’autostrada. Ancora oltre, il traffico va a sfiatare verso l’università e la statale che riporta alle colline scure della vecchia Arintha e alla branca della 107.

    Il Tirreno visto dal valico della Crocetta, tra Cosenza e Paola
    Il Tirreno visto dalle montagne tra Cosenza e Paola

    Lì la strada si lascia alle spalle le ultime sagome della Grande Cosenza, e risalendo prende la rincorsa per prepararsi a scavalcare tra una spira di tornanti la sella più alta dell’Appennino, precipitando subito dopo dall’altra parte della costiera fino a Paola. Solo in quel punto gli ultimi sentieri della grande periferia sembrano assottigliarsi e scomparire, dileguando i loro confini contro il buio denso e magnetico della montagna che separa Cosenza dal Tirreno, col mattino che si apre già davanti al presagio del mare e ai suoi spazi smisurati. [continua…]

  • Licio e i suoi fratelli: grembiuli di Calabria dalla P2 alle inchieste di Cordova

    Licio e i suoi fratelli: grembiuli di Calabria dalla P2 alle inchieste di Cordova

    «Massone e me ne vanto!». Così, all’indomani dell’affaire P2, mentre le istituzioni erano ancora scosse dalla scoperta dell’elenco sequestrato a Licio Gelli, Costantino Belluscio, allora deputato del Psdi, gelò Montecitorio.
    Dato assai particolare, Belluscio figurava iscritto in massoneria a Roma (dove risiedeva e dove aveva fatto una carriera notevole al fianco di Giuseppe Saragat, di cui era l’uomo ombra) e non nella sua Calabria, dov’era sindaco di Altomonte.

    Quanti erano i calabresi iscritti alla P2? Dalle liste esaminate dalla Commissione d’inchiesta presieduta da Tina Anselmi, ne risultano tredici, oltre Belluscio. Sono tutti professionisti senza ruoli di primo piano: il catanzarese Carmelo Cortese, i cosentini Paolo Bruno, Antonio Cangiano, Antonio Messina, Italo Aloia, Domenico Fiamengo e i reggini Domenico De Giorgio, Franco Morelli, Carlo Satira, Giuseppe Strati, Aurelio Tripepi, Umberto Giunta, Giuseppe Arcadi.

    L’affaire Loizzo

    L’unica “vittima” calabrese dello scandalo P2 fu il cosentino Ettore Loizzo, che già all’epoca era massonissimo, ma non piduista. Loizzo, di cui era più che nota l’appartenenza alla Libera Muratoria, aveva anche un ruolo importante nel Pci, per conto del quale fu consigliere comunale a Cosenza. La sua è una vicenda nota, riemersa di recente in seguito alla riedizione di Confessioni di un gran maestro (Cosenza, Pellegrini 2021), il libro contenente l’intervista dell’ex gran maestro aggiunto del Goi al giornalista Francesco Kostner.

    Ettore Loizzo
    Ettore Loizzo

    Loizzo fu costretto ad abbandonare il Partito comunista da Fabio Mussi, che all’epoca era segretario regionale del partito di Berlinguer e subì la pressione fortissima, politica e mediatica, di Italo Garraffa, che allora guidava la sezione cosentina del Pci.
    Al riguardo, occorre ricordare che lo Statuto del Partito comunista dell’era Berlinguer non contemplava (a differenza di quelli della Dc, del Msi e del Psi) alcuna incompatibilità tra appartenenza alla massoneria e militanza comunista.
    Anche per questo motivo, il venerabile calabrese rilasciò alcune dichiarazioni pesanti, che alludevano a un soggetto ben preciso: la ’ndrangheta.

    A proposito di Paul Getty

    «Data la mia posizione massonica, in circostanze particolari, i dirigenti del mio ex partito spesso mi hanno chiesto una mano», affermò Loizzo nell’intervista-fiume. E precisò: «Fui contattato in occasione del rapimento del giovane Paul Getty. Le indagini, secondo gli investigatori, portavano in Calabria: una pista che venne seguita anche con il contributo della massoneria».

    John Paul Getty III
    John Paul Getty III

    Non è dato sapere cosa sia riuscito a fare di concreto Loizzo nell’affaire Getty. Ma una sua frase sibillina chiarisce alcuni punti: «Se si sforzasse di pensare alle ramificazioni della nostra Istituzione, in Calabria come in ogni altra parte d’Italia, e quindi alla rete di contatti sulla quale, attraverso i Fratelli, essa è in grado di contare…». Non serve aggiungere altro. Per il momento.

    Il segreto di Pulcinella

    Un dettaglio fa pensare che molte cose della P2 siano il classico segreto di Pulcinella. Infatti, a Licio Gelli si dedicò molto il giornalista dell’Espresso Roberto Fabiani, che scrisse nel ’78 I Massoni in Italia, un libro dossier pieno zeppo di informazioni e di imbeccate, ricevute da un piduista assai particolare: l’ex capo dell’Ufficio affari riservati Federico Umberto d’Amato.

    L’inchiestona di Cordova

    Torniamo alla Calabria e veniamo al presente. Pochi mesi fa il Tribunale civile di Reggio Calabria ha rigettato una richiesta di risarcimento danni avanzata dall’ex procuratore capo di Palmi Agostino Cordova nei confronti del Grande Oriente d’Italia.
    Il fatto, in sé secondario (il Tribunale si è limitato a ritenere legittime le critiche fatte dal gran maestro Stefano Bisi all’operato di Cordova), ha riaperto vecchie polemiche mai sanate sull’inchiesta che, a inizio anni ’90, scosse la Calabria e fece tremare l’Italia.
    Ciò che resta di quest’inchiesta, finita praticamente in nulla, è una mole enorme di materiali informativi. E di nomi, che tuttora girano in rete.

    Stefano Bisi
    Stefano Bisi
    La Calabria che conta(va)

    Nel 1992, quando Tangentopoli non era ancora scoppiata e mentre la mafia alzava il tiro della sua sfida allo Stato, l’indagine di Cordova finì sulla stampa d’inchiesta e di controinformazione.
    Un dossier di Franco Giustolisi, pubblicato dall’Espresso il 22 novembre di quell’anno, traboccava di nomi che contavano. Si parla dei superbig democristiani Riccardo Misasi, Bruno Napoli e Leone Manti. Ma soprattutto, si parla di socialisti, molti dei quali hanno tuttora ruoli importanti nella vita politica calabrese: Sandro Principe, Saverio Zavattieri e Leopoldo Chieffallo.

    Agostino Cordova
    Agostino Cordova

    Questi e altri nomi furono “cantati” a Cordova da Angelo Monaco, un medico socialista di San Mango d’Aquino e destarono una fortissima impressione. Soprattutto perché l’inchiesta di Palmi riprendeva il filone dei rapporti “proibiti” tra mafia e massoneria.
    Quello dell’Espresso non fu il solo dossier: anche Avvenimenti (un settimanale nato dall’esperienza dell’Ora di Palermo, di cui ereditava la redazione) aveva pubblicato, circa un mese prima, una lunga requisitoria di Laura Cortina e Michele Gambino sulle disavventure del dottor Monaco, da cui prese il via l’inchiestona.

    Il tritacarne

    In ritardo storicamente su tutto, la Calabria rischiava di anticipare Tangentopoli. L’inchiesta di Cordova, a ripercorrerla col senno del poi, sembrava guardare in due direzioni. Da un lato, con la sua affannosa ricerca dei legami tra logge e ’ndrine, il procuratore di Palmi ripercorreva itinerari fatti negli anni precedenti dai magistrati siciliani e dalla Commissione d’Inchiesta sulla P2. Dall’altro lato, tuttavia, l’inchiesta sulla presunta massomafia si proponeva come raccordo di altre operazioni giudiziarie pesantissime. Ci si riferisce all’assassinio di Ludovico Ligato, all’inchiesta sulle tangenti a Reggio, in cui fu coinvolto Manti, e ad altri affari poco chiari, che finirono in nulla.

    Sandro Principe
    Sandro Principe

    Così fu per Riccardo Misasi, nei confronti del quale la Procura di Reggio chiese l’autorizzazione a procedere per associazione a delinquere di stampo mafioso e corruzione. E così fu per Sandro Principe, all’epoca sottosegretario dei governi Amato e Ciampi, che venne indagato da Cordova per presunti brogli elettorali a suo favore nella Piana di Gioia Tauro. Nel caso di Principe, la vicenda assunse toni grotteschi: la Camera negò a ripetizione la richiesta di autorizzazione a procedere di Cordova e la stessa Procura di Palmi propose alla fine l’archiviazione. Anche sulla base di una considerazione: Principe aveva preso pochissimi voti nella Piana. Solo un fesso, cosa che l’ex sottosegretario non è, si sarebbe esposto per un bottino così magro. Analoghi risultati giudiziari per Misasi: rifiuto dell’autorizzazione a procedere e quindi archiviazione.

    Niente grembiuli per i big?

    E l’appartenenza dei due big alla massoneria? Non risulta dalle carte giudiziarie né dagli elenchi sequestrati al Goi, alcuni dei quali continuano a girare in rete. Stesso discorso per Saverio Zavettieri, che di massoneria non ha mai parlato. L’unico ad avere un ruolo confermato in massoneria è Chieffallo. Ma questa militanza non è collegata a nessuna ipotesi giudiziaria. Restano le dichiarazioni di Monaco, seppellite nelle macerie dell’inchiesta.

    Torniamo a Loizzo. Il venerabile cosentino, si trovò al vertice del Goi in qualità di “reggente” assieme a Eraldo Ghinoi dopo che il gran maestro Giuliano Di Bernardo, altro superconfidente di Cordova, aveva mollato il Goi per fondare la Gran Loggia Regolare d’Italia. Di Bernardo, proprio qualche anno fa, si prese una vendetta postuma nei confronti di Loizzo. L’ex gran maestro del Goi, aveva dichiarato che Loizzo gli avrebbe confidato che su 32 logge calabresi ben 28 sarebbero state infiltrate dalla ’ndrangheta. Ma un ex notabile del Goi ha smentito queste dichiarazioni: è il cosentino Franco Chiarello, che all’epoca della reggenza di Loizzo era segretario regionale del Goi e adesso è animatore della Federazione delle Logge di San Giovanni, una comunione massonica indipendente.

    Giuliano Di Bernardo
    Giuliano Di Bernardo

    «Consultai più volte gli elenchi e posso dire di non avervi mai trovato nomi sospetti». E ancora: «Come mai Di Bernardo ha parlato solo 25 anni dopo quell’inchiesta e a cinque anni di distanza dalla scomparsa di Loizzo?». Infine: «Loizzo non stimava affatto Di Bernardo, anzi: lo trovava poco affidabile e antipatico. Perché avrebbe dovuto fargli quelle confidenze?».
    Interrogativi senza risposte anche questi. Ma probabilmente il “mistero” massonico è fatto di questi e altri equivoci, che si trascinano da un decennio all’altro e da inchiesta a inchiesta.

  • L’autismo è un pianeta ignoto per le istituzioni calabresi

    L’autismo è un pianeta ignoto per le istituzioni calabresi

    Dopo la colazione con tre biscotti della sua marca preferita e un bicchiere di latte riempito fino all’orlo, Lorenzo vorrebbe andare al cinema. Mentre suo fratello si veste per non arrivare tardi a scuola, lui rimane in pigiama sul divano a guardare cartoni animati di cui conosce a memoria ogni battuta. I suoi coetanei sono in classe e lui riempie quel tempo vuoto di richieste bizzarre, domande difficilissime e pensieri solitari, alcuni lo fanno sorridere altri lo immalinconiscono fino a farlo piangere. Lorenzo è un ragazzo autistico, di quelli che lo guardi e dici «ma sembra normale!» in una società in cui l’etichetta deve sempre accompagnare un giudizio. Lorenzo è un normalissimo ragazzo autistico ormai maggiorenne.

    Lorenzo era un genio della matematica

    A lui, nel pomeriggio, piace andare in giro. Sarebbe bello se lo facesse con i ragazzi della sua età, ma non ha amici. Soltanto suo nonno vuole uscire con lui e nonostante l’età e gli acciacchi vanno su e giù insieme, a guardare i treni che arrivano alla stazione o a leggere una per una e poi daccapo tutte le offerte esposte all’ingresso del supermercato. Lorenzo era un genio in matematica. Alle scuole elementari davanti alla porta della sua aula si formava sempre un capannello di curiosi che voleva assistere alle sue performance: risolveva le espressioni algebriche a mente, rimaneva immobile, osservava quei numeri scritti sulla lavagna e poi diceva: «50. Fa 50!». Ed era esatto, e tutti applaudivano e lui si tappava le orecchie perché Lorenzo odia il rumore degli applausi.

    Un superlativo Dustin Hoffman interpreta un autistico nel film “Rain man”
    Un ragazzone che trascorre tante ore da solo

    Poi la matematica è scivolata via, insieme alla passione per la scrittura, per la lettura delle storie, alla meticolosità nel disegno, all’amore per il pianoforte. Era un bambino pieno di talento, adesso è un ragazzone che trascorre tante, troppe ore da solo e che a scuola non ci va quasi più. Perché? Perché non è facile comunicare con lui se non si è ha ben chiaro il suo “funzionamento”, perché è cresciuto e intorno a lui sono cresciuti i limiti e le barriere mentali.

    A partire dall’asilo ha cambiato un insegnante di sostegno ogni anno, ha provato a fare equitazione, nuoto, a unirsi a gruppi di preghiera, di artigianato, di trekking, non c’è nulla che i suoi genitori non abbiano tentato per regalargli una vita sociale ma non è servito e oggi, sulla soglia dell’età adulta, a tenere compagnia a Lorenzo – oltre ai suoi familiari – ci sono solo educatori a pagamento e qualche ora di svago in un centro diurno per persone con disabilità.

    Le mille sfumature dell’autismo

    La vita di Lorenzo è come un vestito che si potrebbe incollare così com’è al volto di molti altri ragazzi autistici, perché cambiando scenario e città la situazione rimane simile. Solitudine e interminabili giornate da strutturare, famiglie sfasciate, madri e padri esausti che hanno dovuto mettere da parte tutto, spesso anche il lavoro, per dedicarsi ai loro figli. L’autismo include moltissime sfumature, ci sono persone non verbali e persone molto loquaci, ma è comune la difficoltà nelle relazioni e l’assenza quasi totale di supporto alle famiglie, con l’adolescenza e l’età adulta tutto diventa esponenzialmente più complicato.

    La felicità di stare insieme agli altri

    «Ha mai visto un ragazzo autistico che va a mangiare una pizza con gli amici?». Angela Villani, presidente dell’associazione “Il volo delle farfalle” di Reggio Calabria evita giri di parole e va dritta al punto. «I nostri figli crescono senza la gioia di condividere qualcosa con i loro coetanei. La mancanza di socialità è un grande vuoto nella loro vita. Noi genitori facciamo il possibile, chi può spende molti soldi per permettergli di fare sport o altre attività, ma c’è qualcosa che nessuno di noi può comprare: la felicità di stare insieme agli altri». E gli interrogativi di un genitore sono lame affilatissime che inchiodano la politica e le amministrazioni, a partire da quelle locali.

    Servono più figure specializzate

    «Tutte le vite sono uguali? E allora perché i nostri figli devono rimanere isolati? Questa è la peggiore delle discriminazioni». C’è una soluzione? «La politica regionale deve investire sul capitale umano, deve farsi interprete dei bisogni di chi non ha voce. I ragazzi autistici desiderano stare con gli altri, ma hanno certamente bisogno di “mediatori” che li aiutino a rapportarsi nella maniera corretta, per questo c’è bisogno in tutti gli ambienti sociali di figure specializzate che creino la base per costruire i rapporti».

    Il futuro di un figlio

    Una prospettiva che per un attimo illumina lo sguardo, ma l’ottimismo è un lampo negli occhi di questi genitori. «Come vedo il futuro di mio figlio? Non riesco a vederlo – sospira Villani -. Dobbiamo lottare per il diritto alle cure, abbiamo appena vinto una battaglia per avere il rimborso dei soldi per le terapie. Siamo ancora a questo punto, come potrei riuscire a vedere oltre?». E invece guardare oltre è necessario, lo sostiene Enrico Mignolo dell’associazione “Io Autentico” di Vibo Valentia. «Per i nostri figli dobbiamo pretendere molto di più dei centri diurni, di strutture in cui fare terapia. I contesti esclusivi sono escludenti, dobbiamo invece educare i nostri contesti ad accogliere i ragazzi con autismo, solo così avremo un cambiamento reale e una prospettiva diversa e duratura».

    Le attività di Io autentico prevedono forme di socializzazione legate anche al lavoro
    Costretti a mettersi in gioco

    Io Autentico ha avviato un progetto che mette in pratica tutto questo, si chiama “Aut Out” e coinvolge ragazzi con autismo e a sviluppo tipico che, divisi in piccoli gruppi, svolgono attività di vario tipo. Per esempio durante le feste natalizie hanno confezionato panettoni e li hanno consegnati a domicilio.

    «Abbiamo buttato questi ragazzi fuori di casa – sorride Mignolo – e li abbiamo costretti a mettersi in gioco per conquistare autonomie personali e autonomie sociali che sono indispensabili per il loro futuro. Non è stato facile, lo abbiamo fatto a nostre spese, ci sono stati e ci saranno momenti complicati, ma abbiamo ottenuto grandissimi risultati. Prima venivano visti come “gli autistici”, quelli strani. Adesso abbiamo educato il contesto, lo abbiamo abituato alla nostra presenza e a non mostrarsi diffidente. Domani potremmo abituarli a vedere i nostri figli nella sala di un ristorante sparecchiare i tavoli o lavorare in altri settori in cui si possano sentire a loro agio».

    Il contesto crea la disabilità

    Una buona pratica da replicare, ma il primo obiettivo deve essere «un cambio di paradigma» dice Paola Giuliani, componente del comitato “Uniti per l’autismo Calabria” che racchiude tutte le associazioni di famiglie di bambini e ragazzi con autismo. «I nostri figli non devono restare chiusi in casa e l’alternativa non possono essere soltanto i centri diurni. Questi ragazzi hanno il diritto di vivere nei contesti in cui vivono i loro coetanei, di fare quello che fanno i loro coetanei, ovviamente affiancati da persone formate, educatori. Simone, mio figlio, non è un problema. Il problema semmai è il contesto che non lo accoglie e non lo include: è il contesto che crea la disabilità. Chi come me è madre di un ragazzo che ha superato i 18 anni sa che quando si oltrepassa questa tappa tutto diventa ulteriormente complicato».

    Le mamme rinunciano a lavorare, a vivere

    «Con un figlio adulto perdi la forza, le energie, la speranza  – continua Paola Giuliani – che qualcosa possa ancora cambiare, sopraggiunge la rassegnazione. Spesso le scuole superiori non sono attrezzate e pronte, non hanno personale specializzato e allora inducono all’abbandono scolastico, ti privano di fatto del diritto allo studio. Rinunciare alla scuola significa ritrovarsi ad avere una giornata vuota e sappiamo tutti quanto è importante per le persone autistiche strutturare i tempi perché altrimenti l’ansia e la frustrazione prendono il sopravvento».

    Tutto questo ha una ricaduta sulle famiglie che da sole si trovano a dover gestire ogni difficoltà. E allora? «E allora le mamme – quasi sempre loro – rinunciano a lavorare, a uscire, a vivere. L’unico appiglio è pagare un educatore che per qualche ora può darti respiro e consentirti di andare a fare la spesa o una piega dal parrucchiere. È inutile parlare del “dopo di noi”, parliamo del “durante”, parliamo di quello che si può fare per migliorare la qualità della vita dei nostri figli e quindi la nostra».

    Siamo indietro culturalmente

    Il territorio regionale è un deserto, conferma Alfonso Ciriaco dell’associazione “Oltre l’autismo” di Catanzaro. «Gli unici svaghi non possono essere logopedia e psicomotricità per i ragazzi autistici. Mancano le opportunità di socializzazione, ma soprattutto siamo indietro culturalmente, l’autismo è un pianeta sconosciuto e anche le amministrazioni comunali, nonostante la buona volontà, non conoscono le esigenze delle famiglie».

    Certi momenti la desolazione è devastante

    Bisogna sempre mettere insieme tutta la forza di cui si è capaci e continuare a lottare per garantire una qualità della vita dignitosa ai propri figli, lo sa bene Simona Laprovitera dell’associazione “Dimmi A” di Scalea. «Mio figlio Biagio ha 19 anni ed è un ragazzo molto sociale. Gli piace tanto stare insieme agli altri, ma c’è un problema: non ha coetanei con cui possa uscire e trascorrere del tempo. E quindi… io pago per garantirgli questa piccola felicità. In alcuni momenti la desolazione è devastante, noi genitori dobbiamo farci carico di tutto e augurarci di stare bene per continuare a farlo».

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    I palloncini blu, simbolo della giornata della consapevolezza sull’autismo

    Ma lamentarsi non serve, bisogna anche essere propositivi. Pensare ad esempio di coinvolgere attività commerciali, aziende, cooperative, onlus affinché mettano a disposizione piccole opportunità di formazione e occupazione, sulla scorta di esperimenti che in altre parti d’Italia stanno funzionando, come ad esempio il progetto I Bambini delle fate (www.ibambinidellefate.it).

    Valorizzare le abilità di questi ragazzi

    «Biagio frequenta l’Istituto alberghiero – spiega Laprovitera – in estate dà una mano nel nostro piccolo albergo, si occupa di apparecchiare i tavoli per la colazione e per il pranzo. Piccole conquiste di autonomia che potrebbero essere un giorno la base di un’occupazione che gli consenta di vivere dignitosamente». Simona ha le idee chiare su come procedere, per suo figlio e per tutti gli altri: «Bisogna individuare le abilità di questi ragazzi e insistere su quelle per costruirci intorno un lavoro. È su questo che è necessario impegnarsi e investire. Sappiamo tutti quanto i ragazzi con autismo abbiano un’eccellente memoria, siano metodici e precisi. Questi sono punti di forza da sfruttare. Quante biblioteche ci sono, anche nelle scuole, che devono essere riordinate? Ecco si potrebbe pensare a microprogetti che coinvolgano i nostri ragazzi. Farebbero un ottimo lavoro e si sentirebbero utili e integrati».

    Il cinismo della burocrazia

    Sembra fattibile, ma questi genitori conoscono bene il cinismo della burocrazia che smorza ogni entusiasmo. «Chiedere è sfiancante, lottare per affermare i diritti è logorante, come biasimare quelle madri e quei padri che a un certo punto alzano le braccia, si arrendono. Ogni genitore vuole il meglio per suo figlio, a prescindere dalla personalità o dai suoi limiti. E allora perché noi dovremmo accontentarci di dar loro solo delle briciole?».

  • La casta a 5 stelle adesso fa il pieno di portaborse

    La casta a 5 stelle adesso fa il pieno di portaborse

    Nelle stesse ore in cui Roberto Fico convoca il Parlamento in seduta comune per eleggere il capo dello Stato i suoi epigoni calabresi dimostrano di essere entrati nella parte allo stesso modo, con le dovute proporzioni, del presidente della Camera. Certo è azzardato il paragone tra il più alto rito di Palazzo e quello, evidentemente più basso, delle nomine di sottobosco nel consiglio regionale calabrese. La stessa è però la cifra politica che i due passaggi restituiscono rispetto a una forza, il Movimento 5 stelle, allattato con il furore anticasta e ormai avvezzo alle liturgie delle stesse istituzioni che si proponeva di ribaltare.

    Nella casta M5S pure Tavernise e Afflitto

    Il loro ingresso nell’Astronave di Palazzo Campanella è stato salutato come storico ma la prassi è altra cosa rispetto alla retorica. Così i due consiglieri regionali M5S mentre con una mano lanciano un messaggio di austerità, con l’altra cominciano a riempire le caselle a disposizione con i vituperati “portaborse”. Si tratta dei co.co.co. che ogni consigliere assume per chiamata diretta e che, va detto, spesso hanno esperienza e cv più che consoni al ruolo. Non di rado però questi incarichi diventano uno strumento per pagare debiti elettorali e certamente tante volte sono finiti nel mirino degli antisistema. Nel sistema però ora ci sono anche Davide Tavernise e Francesco Afflitto.

    I consiglieri regionali del M5s, Davide Tavernise e Francesco Afflitto
    La guerra con la Bausone

    Quest’ultimo, a cui il Pd e il centrodestra hanno concesso la Presidenza della Commissione di Vigilanza, deve fronteggiare in sede giudiziaria (e non solo) la collega di partito Alessia Bausone. Che, dopo aver conquistato il primo posto tra i non eletti in fase di riconteggio, gli contesta l’ineleggibilità puntando al suo seggio e gli muove accuse – a cui lui risponde annunciando querele – non proprio leggere. Come quella di essere «politicamente un Poltergeist» e di muoversi tra «poltronifici, silenzio sulle mafie e mancato rispetto delle regole (anche elettorali)».

    Tavernise è invece il giovane capogruppo e i due ruoli (presidente di gruppo consiliare e di Commissione) consentono a entrambi i 5stelle di assumere il doppio dei componenti dello staff rispetto a un consigliere semplice.

    Così fan tutti

    Sia chiaro: gli altri non sono certo da meno e sono già noti i casi di Leo Battaglia arrivato davvero alla Regione, di un ex fotoreporter di Mario Oliverio nominato autista della leghista Simona Loizzo, dei collaboratori che passano da Carlo Guccione a Franco Iacucci e da Luca Morrone alla moglie, o dello stesso Roberto Occhiuto che ha assunto a Palazzo Campanella una supporter del fratello.

    Ma anche i pentastellati non sembrano avere alcuna intenzione di fare a meno delle assunzioni fiduciarie. Hanno fatto sapere urbi et orbi di aver rinunciato al vitalizio – che oggi è ben poca cosa rispetto al tesoretto da migliaia di euro assicurato ai vecchi ex consiglieri – e all’indennità di fine mandato, ma non sbandierano le nomine che fanno per i loro staff.

    Quattro piccioni M5S per un Tavernise

    Tavernise, per esempio, ne ha portate a casa quattro in un colpo solo. Fabio Gambino, già assistente parlamentare di Alessandro Melicchio, sarà il suo segretario particolare al 50% per poco più di 20mila euro all’anno. Collaboratore esperto (al 50%) del capogruppo è invece Lidia Sciarrotta. Prenderà 16.700 euro all’anno ed è nota agli annali grillini perché, nel 2019, «avrebbe dovuto partecipare alla Parlamentarie per la selezione dei candidati alle europee» – si legge sul sito Informazione & Comunicazione – ma il suo nome sparì dalla lista dei candidati «benché incensurata» perché, «secondo talune fonti», qualcuno avrebbe segnalato che aveva «parenti condannati per usura».

    Duro e puro di Giorno

    C’è poi spazio per un componente interno – il dipendente del consiglio regionale Giovanni Paviglianiti, per la cui indennità di struttura saranno erogati 12.800 euro all’anno – e soprattutto per Giuseppe Giorno. Si tratta di un consigliere comunale di Luzzi che è stato coordinatore della campagna elettorale M5S per le Regionali. A metà luglio diceva peste e corna dell’alleanza con il Pd e Amalia Bruni, accusando i cittadini-portavoce-parlamentari Riccardo Tucci e Massimo Misiti di aver «tramato fin dall’inizio probabilmente solo per interessi personali». Oggi forse avrà cambiato idea sui dem e la loro ex aspirante governatrice, comunque farà il segretario particolare al 50% per circa 20mila euro all’anno.

    L’ex duro e puro Giuseppe Giorno, coordinatore della campagna elettorale del M5S nelle ultime elezioni regionali

    Proprio Giorno nell’estate del 2020, quando il caso dei vitalizi fece arrossire davanti all’Italia sia la maggioranza che l’opposizione dell’epoca, sottoscriveva e spammava il comunicato dei parlamentari grillini che ricordavano come «il Consiglio regionale calabrese costa quasi quanto quello della Regione Lombardia che ha, però, il doppio dei consiglieri, cinque volte la popolazione della Calabria e un reddito pro capite di gran lunga superiore al nostro».

    Quando tuonavano contro gli stipendi troppo alti

    All’epoca erano fuori da Palazzo Campanella e puntavano il dito contro «lo stipendio mensile di 5.100 euro e i rimborsi netti di circa 7mila euro mensili attribuiti a ogni consigliere», oggi invece ci sono dentro e i loro cittadini-portavoce-consiglieri Tavernise e Afflitto incassano puntualmente quei compensi. Viene dunque da chiedersi se proveranno almeno ad approvare la proposta di legge M5S di «taglio ai privilegi» parcheggiata da anni a Palazzo Campanella che produrrebbe «un risparmio di 3 milioni di euro a legislatura». O se, nel caso in cui il centrodestra ne stoppasse gli eventuali buoni propositi, siano pronti a rinunciare almeno a una parte di stipendio o di staff. Produrrebbero un risparmio ben maggiore della loro attuale rinuncia e manderebbero, pur da dentro il Palazzo, un segnale di sobrietà un po’ più concreto.

  • La domus c’è, il degrado pure: adesso che si fa?

    La domus c’è, il degrado pure: adesso che si fa?

    Ringrazio l’architetto Guido per la replica che condivido nelle parti in cui segnala le responsabilità legate alla mancanza di manutenzione dell’area archeologica scavata nel cuore di Cosenza nel corso degli anni ‘90. Lo stato di abbandono di piazzetta Toscano, a ridosso della Cattedrale, è palesemente il sintomo di un disinteresse e di una mancanza di cura che mi addolorano per il semplice fatto che, da “forestiero”, amo questa città.

    Le opinioni da me espresse nell’articolo, che il giornale I Calabresi ha avuto la bontà di ospitare, sono maturate a seguito di una esperienza vissuta sul campo qualche mese fa e riflettono il mio stato d’animo allorquando mi sono trovato di fronte al degrado in cui versano non solo le antiche rovine, ma anche l’opera di architettura che avrebbe dovuto valorizzarle. Evidentemente qualcosa non ha funzionato.

    Cercare colpe e colpevoli è un esercizio sterile a cui mi sottraggo. Dico solo, e propongo come tema di dibattito (non di polemica), che forse fra le cause del degrado -oltre all’incuria, e ripeto, alla evidente mancanza di manutenzione – vi è anche il riflesso di una visione assoluta dell’opera d’architettura come “oggetto autoreferenziale”. Un punto di vista che mette in secondo piano il contesto per affermare l’urgenza di un gesto di rottura in nome di una “Creatività Contemporanea” che, a mio avviso, ha fatto il suo tempo. Il concetto di manutenzione possibile e di accessibilità per tutti dovrebbe essere parte integrante del progetto di un’opera pubblica.

    La domus romana

    Quanto poi alla affermazione che «nessuna domus romana» è presente in loco, ma soltanto eterogenei lacerti di epoche diverse, rimando al saggio Le indagini archeologiche a piazzetta Toscano di S. Luppino e A. Tosti, contenuto nel Catalogo del Museo dei Brettii e degli Enotri, p.503 e seguenti. Confortato dalla letteratura specialistica segnalo quindi che l’architetto quando indossa il camice del chirurgo dovrebbe premurarsi di avere una conoscenza approfondita del corpo su cui interviene e dei suoi resti. Egli è stato chiamato allo scopo di proteggerli, valorizzarli e custodirli, perché quelle pietre ci parlano di Cosenza e della sua storia.
    Spero con tutto il cuore che questo scambio di opinioni possa servire a sensibilizzare la cittadinanza e i suoi rappresentanti sull’urgenza di riprendere le fila di un’azione di rilancio del centro storico che purtroppo è caduta nell’oblio.

    Giuliano Corti

  • Sibari, la Storia sommersa: il Parco archeologico tra allagamenti e speranze

    Sibari, la Storia sommersa: il Parco archeologico tra allagamenti e speranze

    I soldi per il Parco archeologico di Sibari c’erano, ma nessuno li ha usati. E così il progetto di rendere fruibili i suoi tesori dopo il tramonto ha fatto un buco nell’acqua, che in zona di problemi continua a darne parecchi. «È una storia tristissima», commenta l’economista Fabrizio Barca. Durante l’allagamento del 2013 da ministro della Coesione territoriale si era speso per salvare il sito e il Comune di Cassano Jonio di recente gli ha conferito la cittadinanza onoraria proprio per questo. Nell’occasione si è tornati a parlare del fallimento del progetto Sibari di notte, promosso proprio da Barca.

    Fabrizio Barca riceva dal sindaco Papasso la cittadinanza onoraria a Cassano Jonio
    Fabrizio Barca riceve dal sindaco Papasso la cittadinanza onoraria a Cassano Jonio
    I soldi restituiti

    L’idea era di valorizzare il parco del Cavallo, l’unica area visitabile del sito archeologico di Cassano Jonio. Il Ministero dei Beni culturali (che lo gestisce) siglò un accordo con la fondazione Con il Sud, presieduta da Carlo Borgomeo. Il progetto prevedeva la ricostruzione virtuale – attraverso fondi privati e mediante l’ausilio di strumenti multimediali – di particolari delle strutture dell’antica polis della Magna Grecia. Barca e Borgomeo hanno criticato aspramente il Governo sostenendo che ormai i soldi sono stati riconsegnati agli investitori. Non è possibile visionare il progetto, ma abbiamo contattato l’ex ministro per avere un suo commento.

    «La valorizzazione notturna di Sibari – dice – è fallita negli anni passati. L’idea nasce nel 2013 sull’onda del disastro, per rilanciare il parco e non per tamponare. Si concretizza con una disponibilità straordinaria dell’imprenditoria locale e l’apertura del ministero. Sei mesi fa, però, abbiamo preso atto del fallimento e durante il conferimento della cittadinanza il consiglio comunale di Cassano, dalla maggioranza all’opposizione, con grande unità è tornato in quella sede a esprimere la speranza che si possa riprendere l’itinerario. Insieme a Patrizia Piergentili, membro attivo nel progetto, abbiamo retrocesso con enormi difficoltà le donazioni che un gruppo di imprenditori del territorio aveva fatto ed erano rimaste lì in attesa del via. Le difficoltà precedono l’autonomia data dal ministero a Sibari – conclude Barca – e la domanda da farsi è: ora ci sono le condizioni per superare queste criticità?».

    L’autonomia

    L’autonomia a cui fa riferimento l’economista riguarda la scelta del ministero della Cultura di inserire nel 2019 anche il Parco archeologico della Sibaritide – comprensivo del vicino museo e di Amendolara – tra gli enti autonomi. Significa affidargli la gestione degli incassi e l’opportunità di appaltare lavori e servizi, a differenza degli altri musei statali. Per rendere operativo il parco archeologico, inoltre, il ministero ha inserito Sibari nell’elenco dei “Grandi progetti beni culturali” stanziando tre milioni di euro nel bilancio preventivo di quest’anno. Altri importanti finanziamenti sarebbero in arrivo.

    È approdato un nuovo direttore, Filippo Demma, e il museo della Sibaritide ha aperto nuove sale multimediali in edifici mai entrati in funzione. È in corso la riorganizzazione degli spazi espositivi e, prima di sbarcare per la prima volta alla Borsa del turismo a Paestum, è stato il turno di darsi una più moderna identità visiva con logo e sito web. Lo scorso aprile i carabinieri del nucleo Tpc agli ordini di Bartolo Taglietti hanno consegnato qui oltre 600 monete recuperate con attività investigative per restituirle alla collettività in un allestimento museale. Secondo il sindaco di Cassano, Gianni Papasso, questi sono «passi in avanti rispetto all’immobilismo degli ultimi anni».

    Gli allagamenti continuano

    Ma se è fallito così miseramente Sibari di notte, è invece visitabile il parco archeologico di giorno? L’acqua minaccia lo spazio aperto al pubblico – tanto da renderlo pericoloso – e le altre zone non accessibili ai visitatori, fino a lambire lo stesso museo che è fornito di pompe per risucchiarla. «Nonostante sia fallito prima del mio arrivo qui – afferma Demma sul progetto di Barca – lo considero importantissimo per la valorizzazione e per il coinvolgimento di artisti internazionali. Ho anche intenzione di riprendere questo piano e ne ho parlato proprio con lui qui a Cassano. Il punto è questo: come faccio ad autorizzare investimenti privati se ora abbiamo il sito completamente allagato perché le pompe per l’aspirazione dell’acqua sono di 50 anni fa e le trincee drenanti non sono mai state fatte?».

    I vigili del fuoco in azione dopo l’alluvione del 2013
    La golena e la falda

    Nel report presentato dopo l’alluvione del 2013 al Senato il sindaco Papasso parlava della presenza di coltivazioni non autorizzate nella golena del fiume che hanno ostacolato il deflusso dell’onda di piena. E il Comune, infatti, ha ordinato l’eradicazione di un agrumeto di un privato. Poi ricorso al Tar e la palla passa nel 2014 per competenza al Tribunale superiore delle acque pubbliche. Barca ricorda che nel 2013, quando era a Cassano per l’allagamento del sito, era palese una situazione di utilizzo non appropriato dei terreni in quell’area. «Da quanto ne so, il decreto di rimozione del famoso agrumeto è diventato efficace solo ora».

    Gli scavi allagati
    Gli scavi sommersi dall’acqua del Crati nel 2013

    «Il problema ora non è il Crati – sostiene Demma – ma riguarda la falda acquifera tra il fiume e il canale degli Stombi. Bisogna canalizzare quest’acqua prima che arrivi sotto il parco. Vuole sapere cosa sto facendo intanto? È in atto un intervento per sostituire il sistema di pompe well-point per l’aspirazione dell’acqua nel parco del Cavallo in modo da tenerlo asciutto e in sicurezza. Poi, grazie al Pnrr, si vuole mettere in sicurezza anche il museo, che pure soffre questi problemi di allagamento, e il resto dell’area archeologica: Casa Bianca e il cosiddetto “prolungamento”». «È necessario notare – afferma l’archeologa Maria Teresa Iannelli – che i livelli più antichi dell’arcaica Sybaris e della più recente Thurii, tranne poche eccezioni non sono visibili. L’area fruibile al pubblico è relativa all’ultima e più recente fase di occupazione del sito, cioè quella della città romana di Copia».

    Non solo acqua

    In autunno perlomeno la golena del Crati non ha dato preoccupazioni, ma problemi di altro genere non sembrano mancare. Una struttura ricettiva a Casa Bianca è stata spogliata di infissi e quadri elettrici e quest’estate un deposito (non utilizzato) è andato a fuoco. «Intimidazioni inaccettabili», secondo le deputate del Movimento 5 stelle Anna Laura Orrico ed Elisa Scutellà. E lo stesso Demma raccontava soltanto qualche mese fa a Maurizio Molinari sulle pagine di Repubblica che «la polizia ha documentato come si pratichi prostituzione anche in casotti e ricoveri di fortuna all’interno di zone archeologiche»

    Il deposito incendiato nell'estate 2021
    Il deposito a fuoco nell’estate 2021
    Orario ridotto

    La pianta organica del parco archeologico di Sibari, poi, prevede 48 tra vigilanti, amministrativi e archeologi. In servizio però ce ne sarebbe solo un terzo. E anche i tirocinanti della Regione non hanno rassicurazioni per un eventuale rinnovo di contratto nel 2022. «I 23 tirocinanti, impegnati diverse ore a settimana, ci consentono di tenere aperti il parco e i musei. Senza di loro da gennaio dovrò contrarre l’orario di visita», lamentava Demma quando lo abbiamo sentito. Passato il weekend di Capodanno, la conferma con un lungo e sconsolato post su Facebook: niente proroga ai contratti da parte della Regione, ora tocca a Roma rimediare. Nel frattempo, orari ridotti per carenza di personale. «Siamo sicuri – scrive Demma – che il Ministero della Funzione Pubblica porterà rapidamente a termine le procedure e potremo festeggiare anche il rientro degli ex-tirocinanti insieme al nuovo ampliamento delle aperture. Ma purtroppo non è questo il momento».

    I dati sugli ingressi del 2019 nei musei statali in Calabria

     

    Già prima della pandemia, in base ai dati ufficiali, non si rischiavano assembramenti di turisti. Il flusso in entrata nel 2019, in attesa dei numeri sul 2021, parla di 13 mila ingressi. Corrispondono al 3,4% del totale delle persone che nello stesso anno hanno visitato musei, castelli e siti archeologici gestiti dallo Stato in Calabria.
    Per crescere come merita al parco archeologico servono maggiore attenzione e un interesse concreto delle istituzioni. Il grande progetto per Cassano Jonio prenderà vita grazie all’autonomia o sarà il bis di “Sibari di notte”?

  • Piazza Toscano: dalla parte dell’architettura o della spazzatura?

    Piazza Toscano: dalla parte dell’architettura o della spazzatura?

    Fin dalla prima uscita de I Calabresi su queste pagine si è parlato del degrado del centro storico di Cosenza, l’ultima volta ospitando una riflessione di Giuliano Corti sullo stato in cui versa piazza Toscano. A quell’articolo diamo seguito ospitando le considerazioni del progettista della malridotta copertura che riveste l’area archeologica, l’architetto Marcello Guido. Una replica, quella di Guido, che pubblichiamo nella speranza che un dibattito allargato sia da stimolo per il recupero reale di un tesoro che appartiene a tutti.

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    Gentile Direttore,
    premetto che seguo la sua rivista e ne condivido le finalità culturali e di inchiesta volte ad una Calabria che tutti noi amiamo e vorremmo diversa rispetto alle criticità, purtroppo tante, che attanagliano la nostra regione.
    Le scrivo dopo aver letto l’articolo dedicato a Piazza Toscano a firma di Giuliano Corti pubblicato sulla rivista che lei dirige e vorrei, in qualità di progettista dell’opera, fare alcune considerazioni su quanto scritto.

    Puntuali, ogni due o tre anni, arrivano critiche e polemiche riguardanti Piazza Antonio Toscano, un’area del centro storico di Cosenza che, come architetto, ho avuto il compito di riprogettare alla fine degli anni ‘90 del secolo scorso. Sono abituato alla furia distruttiva di qualcuno che di volta in volta si scaglia contro questa opera. Alcuni anni fa, apparve finanche un cartello che invitava ad impiccarmi.

    Il recente articolo intitolato “L’anima del centro storico contro l’orrore di vetro a piazza Toscano” solleva un’interpretazione nuova a cui risulta doveroso rispondere. L’articolo lascia intendere che sia stato il mio progetto di architettura a generare il degrado del luogo: opera demoniaca, poiché caratterizzata da un “furore compositivo che ha generato un mostro” si può leggere tra le numerose frasi di condanna. Chi conosce le cronache cosentine, sa bene che l’area retrostante il Duomo, nei decenni che hanno preceduto il mio intervento di ristrutturazione urbana, era caratterizzata da povertà, randagismo, spaccio e prostituzione, nonostante l’attivismo di associazioni e residenti che si sono mossi per denunciarne i problemi.

    Bellezza e paure

    Tra gli addetti ai lavori, sono molti quelli che ritengono Piazza Toscano un significativo esempio di architettura contemporanea. Le opere contemporanee suscitano sempre dibattito, soprattutto quando mettono in crisi dei valori precostituiti, sollevano dubbi, interrogano le coscienze. Tuttavia pensavo fossero finiti i tempi in cui si additassero le colpe del disagio sociale -e dell’inefficienza politica- ad opere d’arte o d’architettura giudicate degenerate.

    L’autore del sopracitato articolo, riferendosi al mio progetto, ne riconosce lo status di “opera di ingegno” e lo descrive come una “macchinosa copertura in vetro [in] calcestruzzo e/o ferrame”, sentenziando che “laddove il brutto si afferma, lì si annida quasi sempre il disagio, l’emarginazione, l’orrore”. Ma le opinioni riflettono spesso paure subconsce, tanto che il brutto è solo ciò che non si uniforma ad astratti quanto personali standard estetici e morali. Per questo motivo, l’articolo non si limita ad una critica circostanziata al mio progetto, ma probabilmente esprime timori più profondi e radicati nei confronti di una società che non è in grado di offrire un’opera d’arte astrattamente bella e stabilizzante.

    Nessuna manutenzione

    In realtà, uno dei principali problemi che attanaglia Piazza Toscano e con essa anche gli altri beni storico-architettonici del centro storico di Cosenza, riguarda la manutenzione ordinaria e straordinaria. Purtroppo gli interventi sono stati troppo rari nel corso degli ultimi due decenni. L’erba è cresciuta indisturbata per anni nell’area archeologica e si sono accumulate buste di spazzatura e montagne di rifiuti in ogni angolo. Bande di teppisti hanno agito indisturbate, frantumando i vetri delle coperture e delle pavimentazioni, mentre altri malfattori hanno trafugato scossaline e pluviali indispensabili per la raccolta e il deflusso delle acque piovane. Inoltre diverse persone hanno utilizzato porzioni dell’area archeologica come spazio ricreativo dei propri animali domestici, preparandola a diventare un ricovero di randagi.

    Erbacce sotto la struttura che sormonta piazzetta Toscano
    Erbacce sotto la struttura che sormonta piazzetta Toscano

    Adesso con furia iconoclasta ci si scaglia contro l’opera architettonica e non contro il degrado che pervade quest’area al pari delle tante periferie urbane delle nostre città. Chiunque si sia mai dedicato ad un orto o un giardino, sa che la pulizia e l’estirpazione delle erbe infestanti richiedono un impegno continuo. In fondo, se si lasciasse la propria casa nell’incuria generale, senza pulire, buttare l’immondizia, scaricare l’acqua del bagno, senza raccogliere le deiezioni dei propri animali domestici, senza aggiustare un qualche vetro che si rompe, insomma senza fare le azioni quotidiane necessarie, la casa collasserebbe nel giro di pochi mesi. Perché ci si stupisce che Piazza Toscano, dopo anni di abbandono, abbia bisogno di interventi di manutenzione?

    La funzione sociale

    Sarebbe intelligente chiedere che venga svolto l’ordinario servizio di pulizia ed attivare dei tavoli di discussione tra i vari enti coinvolti nella gestione dell’area, promuovere delle campagne di educazione nelle scuole, sensibilizzare i cittadini organizzando visite guidate, dibattiti e attivando gli assistenti sociali quando necessario. Gridare allo sfascio, senza individuare responsabili e senza fare proposte concrete, invocando un’astratta quanto mitica “bella” architettura, rischia invece di assecondare il degrado.

    Per comprendere la situazione attuale è necessario conoscere la storia dell’intervento. Il progetto di quella che veniva chiamata Piazzetta Toscano, dopo cinquant’anni di disinteresse e controversie, fu definito all’interno di un programma di rigenerazione urbana attuato da Giacomo Mancini alla fine degli anni ’90. È con l’amministrazione di allora che concordammo di realizzare uno spazio che svolgesse una funzione sociale, all’interno di un progetto molto più ampio di sistemazione complessiva della spina dorsale del centro storico della città, rappresentata dal Corso Telesio.

    Duemila anni di storia

    Si trattava di uno dei primi interventi intesi a rivitalizzare la città storica, e si scelse appositamente una delle aree più problematiche del centro storico di Cosenza. La necessità di una campagna di scavi archeologici intervenne in seguito al ritrovamento di reperti antichi, di cui si era ipotizzata la presenza sin dal progetto preliminare. Dopo un anno di lavori, si portò alla luce un’area archeologica molto complessa e di difficile lettura, fatta di stratificazioni diversissime che si incrociano tra loro, con giacenze su diversi piani e con presenza di murature che impediscono il deflusso naturale delle acque.

    Tuttavia, quando si conosce poco la storia dei luoghi, si finisce per evocarla continuamente. Nessuna “domus romana” come è stato scritto, ma lacerti in cui sono visibili i traumi subiti da più di duemila anni di storia: tra i tanti reperti vi sono un enigmatico cilindro in muratura costruito in epoca rinascimentale, frammenti di epoca Bruzia, porzioni di mosaici e cocciopesti romani, un pozzo utilizzato nei secoli più recenti per conservare la neve, tronconi di murature di epoca medievale e contemporanea. Tracce di tumultuosi terremoti, distruzioni, assedi, incendi, sono presenti nell’articolata stratigrafia in cui si sono riscontrate sepolture frettolose fatte a seguito dei medesimi eventi.

    Chirurgia e puzzle

    Piazza Toscano rappresenta concettualmente una ferita causata da un’incisione chirurgica. Non a caso l’intervento di ristrutturazione urbana nasceva dalla suggestione di un corpo umano disteso sul tavolo operatorio. Il chirurgo e il suo team di collaboratori hanno la straordinaria possibilità di osservare gli organi interni prima di passare all’azione. Si voleva offrire ai cittadini l’opportunità rara di penetrare virtualmente nelle viscere della città, per offrire uno spettacolo unico ed educativo.

    Addetti ai lavori impegnati a piazza Toscano
    Addetti ai lavori impegnati a piazza Toscano

    Si può osservare così un tessuto urbano frastagliato e stratificato, fatto di piccoli episodi e frammenti architettonici, spesso non correlati tra loro. Un puzzle scomposto, di difficile interpretazione anche per gli addetti ai lavori. Da qui l’esigenza della Soprintendenza di realizzare delle coperture di protezione dell’area archeologica.
    Sarebbe bello e utile che Comune e Soprintendenza si mettessero d’accordo sulla manutenzione ordinaria dell’area archeologica e affidassero a qualcuno la predisposizione di alcuni pannelli illustrativi per spiegare ai visitatori la complessità e la ricchezza rappresentata da quelle tracce storiche.

    Il tema è dunque quello del difficile rapporto tra antico e nuovo, un rapporto da sempre conflittuale che vede contrapposte diverse linee di pensiero, sulle quali non mi soffermo per non ricadere in discorsi di natura accademica. Voglio solo sottolineare che la genesi del progetto nasce dal sottostante tessuto edilizio, scomposto e frastagliato, e ne ha assecondato lo schema. Il progetto fin dalla nascita ha suscitato in egual misura scandalo e consensi. Il fatto che sia stato approvato, a seguito di un articolato iter burocratico, con parere positivo del Comitato tecnico-scientifico del Ministero dei beni culturali, fa capire la complessità della questione.

    Un riconoscimento per pochi

    Recentemente il Ministero della Cultura, attraverso la Direzione Generale per la Creatività Contemporanea, ha incluso il progetto di sistemazione archeologica di Piazza Toscano in una lista di opere ritenute tra le più significative realizzazioni italiane del secondo Novecento. Piazza Toscano è uno dei pochi interventi realizzati da architetti ancora in vita, in quanto la maggior parte delle opere selezionate riguardano i maestri dell’architettura italiana del dopoguerra. Tra i progetti di architettura e di ingegneria calabresi realizzati negli ultimi vent’anni ce ne sono ben pochi che possono contare su questo riconoscimento. Un riconoscimento che a ben guardare non va a me, ma alla città di Cosenza, ai cittadini che dispongono di questo bene pubblico e alle maestranze calabresi che l’hanno costruito.

    Un particolare di piazza Toscano
    Gli interventi su piazza Toscano hanno riguardato anche gli edifici intorno ai ruderi romani

    Ho avuto il piacere di illustrare il progetto in diverse università, di vederlo in mostra in Italia e all’estero, di vederlo pubblicato in riviste nazionali e internazionali, ma a volte mi chiedo che reazioni avrebbe suscitato una copertura in tubi innocenti, come se ne vedono tante nelle aree archeologiche. Oppure cosa sarebbe successo se avessi proposto delle semplici coperture a forma di capanna, magari con coppi di cotto (una sorta di presepe)?
    Credo che avrei commesso una violenza inaudita nei confronti del tessuto storico e temo che sarebbe passato tutto nell’indifferenza generale, poiché avrei offerto una soluzione consolatoria o effimera, a seconda dei casi.

    Il degrado del centro storico

    Personalmente, nel mio fare professionale, affido particolare rilevanza alla qualità del progetto di architettura ed affido ad esso un ruolo “sociale”, nella consapevolezza che questo si debba configurare come una componente fondamentale del benessere e della qualità della vita. Ciò che fa discutere è il segno moderno nel contesto storico, ma qui si aprirebbe una discussione che va bel oltre queste poche righe.
    Su una cosa sono d’accordo con l’articolo che mi ha sollecitato a scrivere: oggi l’area è completamente vandalizzata e ruderizzata, sia il giacimento archeologico che le strutture architettoniche, ma lo è anche l’intero centro storico che cade a pezzi. Gli abitanti e le attività economiche sono sempre meno e tutti insieme lanciano un grido di aiuto, ma anche un monito per l’intera comunità.

    Marcello Guido

  • Sorveglianza attivisti, la Orrico (M5S) chiede la revoca al ministro

    Sorveglianza attivisti, la Orrico (M5S) chiede la revoca al ministro

    Dove finisce il diritto al dissenso e inizia la sua repressione? A Cosenza se lo sono chiesti in tanti nelle ultime settimane dopo le richieste di ammende e misure di sorveglianza speciale per alcuni attivisti locali che la Questura ha richiesto. Prima le multe ai passeggiatori sediziosi, o presunti tali. Poi quelle ai giovani protagonisti di alcune battaglie non violente in difesa della sanità pubblica. La questione della “camminata” era già sul tavolo del ministro Lamorgese grazie alla lettera che le ha inviato il direttore de I Calabresi. Ora la titolare del dicastero degli Interni però dovrà dire qualcosa sulla vicenda di fronte ai deputati.

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    Vittoria Morrone (a sinistra), insieme a Simone Guglielmelli e Jessica Cosenza, i due giovani per cui la Questura ha chiesto misure di sorveglianza speciale

    L’interrogazione parlamentare

    La parlamentare Anna Laura Orrico, infatti, ha deposito un’interrogazione parlamentare in merito alla questione. In una nota stampa della stessa pentastellata, si legge:  «Vorrei capire – dice Orrico – e perciò mi appello al Ministro Lamorgese, che tipo di agibilità democratica vige in città, se, cioè, le prerogative costituzionalmente garantite di attività politica e sindacale, se i diritti civili e se il dissenso sono divenuti dei privilegi riservati a pochi fortunati oppure se è ancora possibile goderne ed esercitarli liberamente».

    Non sono gli attivisti i nemici della collettività

    «Non credo che – sottolinea la Orrico – in una terra piagata dalla criminalità organizzata, dai diritti negati, e talvolta calpestati, da una classe dirigente spesso assente o, addirittura, collusa i principali nemici della collettività, indicati finanche come socialmente pericolosi, possano essere additati fra chi denuncia pubblicamente le terribili condizioni in cui i calabresi vivono e le relative responsabilità politiche».

    Misure per solito riservate ai mafiosi

    L’ex sottosegretario ai Beni culturali cita anche l’intervento di Zerocalcare che ha preso una posizione netta, solidarizzando con gli attivisti (due studenti universitari) sottoposti a misure di sorveglianza speciale.
    La deputata del M5S ha chiesto al Ministro dell’Interno «se queste misure di prevenzione, che comportano gravissime restrizioni della libertà personale, pregiudizievole per le attività di studio e lavoro dei destinatari, solitamente riservate ai mafiosi, non debbano essere revocate».

    La solidarietà di Zerocalcare agli attivisti cosentini nel mirino della Questura
    La solidarietà di Zerocalcare agli attivisti cosentini nel mirino della Questura
  • Cane non mangia cane: il “bilancio Occhiuto” passa, ma che farà Franz da grande?

    Cane non mangia cane: il “bilancio Occhiuto” passa, ma che farà Franz da grande?

    È sfuggito qualcosa, durante la discussione del Bilancio preventivo di Cosenza per il triennio 2021-2023, avvenuta a Palazzo dei Bruzi il 29 dicembre. Preso in sé, il dibattito non fa notizia. Scontato il voto unanime alla relazione dell’assessore al Bilancio Francesco Giordano, frutto di un lavoro certosino sui conti. Scontate, inoltre, le punzecchiature volate qui e lì durante gli interventi. Persino banali i plausi della minoranza: il documento contabile proposto dalla giunta Caruso appartiene solo nominalmente all’amministrazione attuale, ma in realtà è farina del sacco di Mario Occhiuto.

    A proposito di Occhiuto: l’ex sindaco aveva lanciato alcune frecciate al curaro dalla propria pagina Facebook poco prima delle festività natalizie. «Quando ci siamo insediati – aveva detto – avevamo trovato una situazione contabile disastrosa, ma non abbiamo accusato gli altri e ci siamo dati da fare». Sarà. Ma cose simili le aveva dichiarate pure Franco Santo, lo spin doctor di Salvatore Perugini: «Trovammo una situazione disastrosa ed esortammo Perugini a dichiarare il dissesto». Cosa che non avvenne.
    Insomma, il voto unanime ha un significato ben preciso: cane non mangia cane. Neanche quando c’è poco altro da mangiare, come dimostrano gli 11 milioni di disavanzo ereditati dal 2019. Ma cosa è sfuggito?

    Pantalone non paga più

    Contabile di spessore ed esperto in dissesti, l’amanteano Francesco Giordano è approdato nella giunta Caruso dopo aver fatto parte della Commissione di liquidazione del Comune di Cosenza nominata a febbraio 2020, quando il dissesto era ancora “fresco”. È uno che conosce bene la voragine delle casse comunali e tenta di salvare il salvabile. Lo rivelano due passaggi della sua relazione. Il primo: «I beni comunali dovrebbero essere messi a frutto, cioè affittati o liquidati, prima che l’ente vada (di nuovo, ndr) in dissesto».

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    Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza

    Secondo passaggio: «Non si può più ragionare come quindici anni fa, quando si badava più ai costi che alle entrate, perché dal 2011 è cambiato tutto». Ovvero: le rimesse statali sono calate in maniera drastica e gli enti locali devono far da sé, riscuotendo a più non posso. Il che non è stato per Cosenza. Anzi, è proprio questo il dato più sconfortante: gli uffici di Palazzo dei Bruzi hanno incassato solo il 20% della somma prevista (circa 17 milioni) di tributi urbani, in particolare Tari e fornitura idrica.

    Tocca svendere l’argenteria

    Cane non mangia cane, ma in compenso si morde la coda. Impossibilitato a risparmiare come dovrebbe, pena il collasso dei servizi, il Comune non riesce ad incassare. Anzi, secondo i bene informati, ci sono quartieri in cui riscuotere è utopia, anche a causa della povertà dei cittadini.
    Allora tocca svendere l’argenteria. Posto che sia in buone condizioni e posto che ci siano acquirenti. Altrimenti, la messa in liquidazione si tradurrà in voci attive virtuali e inutilizzabili. Sono i conti della serva? Certo.
    Ma non occorre una specializzazione in finanza pubblica per cogliere il vero rimprovero di Giordano: non si è risparmiato quando si poteva, non si è incassato quando si doveva. In compenso, si è speso.

    L’operazione verità? Un’altra volta

    Che ne è stato delle dichiarazioni con cui Franz Caruso prometteva fuoco e fiamme all’atto del suo insediamento? Una probabile risposta sta in un passaggio dell’intervento dell’ex vicesindaco Francesco Caruso, sconfitto alle Amministrative di ottobre: «Giordano non ha ravvisato elementi tali da portare le carte in nessuna procura. Non sono affermazioni eclatanti queste, ma vanificano l’operazione verità che si sta rivelando una bolla di sapone».

    Francesco-Caruso-Mario-Occhiuto-Cosenza
    Francesco Caruso e Mario Occhiuto durante la campagna elettorale

    L’ex vicesindaco non si ferma qui e – forse in maniera autoassolutoria – rivolge lo sguardo al passato: «È una situazione delicata ma non tragica, effetto di cause di un processo evolutivo che guarda a situazioni di amministrazioni di 10 anni fa». E ancora: «Noi abbiamo trovato nel 2011 un comune in dissesto».
    E, a proposito ancora di operazioni verità: «Non ho mai digerito l’operazione verità perché ha il sapore di una ricerca dei colpevoli. Siamo dei comuni mortali e a fasi alterne occupiamo posti di responsabilità. Oggi, se si vuole andare avanti, il bilancio si deve votare così come sono stati votati i bilanci con perdite significative».

    Il decennio intoccabile

    Non si poteva pretendere dall’attuale maggioranza una riflessione critica sugli anni ’90, quando iniziò in lire il debito che avrebbe travolto Cosenza in euro. Ma il rinvio alle responsabilità passate, fatto tardivamente da Occhiuto e rilanciato dai suoi sodali superstiti in consiglio (tranne da Antonio Ruffolo, arrivato in ritardo e silente come sempre) non è sufficiente. Né ci si può consolare col fatto che Cosenza è in dissesto al pari dell’80% dei Comuni al Sud.

    Alla classe politica cosentina è mancato il coraggio del parricidio. Non lo fece l’amministrazione Perugini, che aveva liquidato il decennio manciniano nell’immobilismo. Non l’ha fatto l’amministrazione Occhiuto, che anzi ha completato i progetti del vecchio Leone socialista, in particolare il ponte di Calatrava e il parcheggio di piazza Bilotti, attirandosi le critiche di chi negli anni ’90 applaudiva.
    Tuttavia, anche l’eventuale “revisionismo” su quegli anni oggi sarebbe inutile. Di sicuro non colmerebbe il deficit in bilancio che costerà ai cosentini lacrime e sangue. Né restituirebbe alla città la voglia di progettare e di sognare di quel decennio.

    La partita inizia ora

    Le schermaglie sono state poca cosa: un botta e risposta tra gli evergreen Mimmo Frammartino e Spataro, qualche stoccata di Bianca Rende che si è tolta i classici sassolini dalla scarpa più qualche precisazione. Ma resta un dato, ancora una volta evidenziato da Giordano e ribadito dal sindaco: quello approvato dal Consiglio comunale del 30 gennaio non è un bilancio di previsione dell’amministrazione Caruso.

    È l’ultimo consuntivo di quella Occhiuto, votato in zona Cesarini e quasi a scatola chiusa per evitare rischi più gravi. Niente interventi della Procura, più dichiarati che minacciati, né inchieste. Solo continuità, per il momento. La partita vera dei conti cosentini inizierà in primavera, quando Franz Caruso e i suoi diranno per davvero cosa faranno “da grandi” e, soprattutto, potranno fare.