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  • Cannabis per uso personale, quel primato tutto calabrese

    Cannabis per uso personale, quel primato tutto calabrese

    Da sempre in Calabria le persone affette da patologie trattabili con la cannabis vivono un calvario senza fine. E nelle altre regioni la situazione non è migliore. La normativa proibizionista su coltivazione, vendita ed uso ricreativo finisce per penalizzare i pazienti che ne fanno richiesta. Tantissimi di loro aspettano di sapere cosa dirà stasera la Consulta sull’ammissibilità del referendum che vorrebbe far decidere agli italiani se introdurre o meno la possibilità di coltivare cannabis per uso personale.

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    Allo stesso modo, tantissimi e qualificati sono gli studi scientifici, tra i quali le ricerche condotte sin dagli anni Settanta dal medico Giancarlo Arnao, che sostengono l’efficacia dei preparati a base di canapa nel trattamento dei sintomi di gravi patologie come glaucoma, sclerosi multipla, Alzheimer, epilessia, traumi cerebrali ed ictus, sindrome di Tourette, glioblastomi, artride reumatoide, morbo di Crohn, colite ulcerosa. Inoltre è un efficace antiemetico in chemioterapia e coadiuvante nella terapia del dolore e nella stimolazione dell’appetito nell’AIDS.

    Cannabis, un primato tutto calabrese

    La Calabria vanta pure un singolare primato. È calabrese il primo paziente ad aver ottenuto in Italia il diritto di impiegare la preziosa infiorescenza per curarsi. Quella di Gianpiero Tiano è una battaglia estenuante, iniziata 30 anni fa. Nel 1992 rimase vittima di un terribile incidente stradale. Durante la lunga convalescenza, scoprì che il violento trauma gli aveva provocato una grave forma di epilessia. Aveva letto un articolo sulla cannabis come valida alternativa ai farmaci tossici. Decise così di provare assumendo dei quantitativi minimi e si rese conto che le infiorescenze della pianta funzionavano: le crisi epilettiche erano sparite. Già in quegli anni, però, le pene previste per chi la maneggiava erano altissime.

    Non potendo acquistarla, decise di coltivarla come prezzemolo, basilico e mentuccia. È noto che alle latitudini di Calabria la marijuana cresce rigogliosa. La conferma scientifica è arrivata pochi anni fa, quando uno studioso calabrese, il geologo Giovanni Salerno, ha realizzato un’accurata mappa dei siti calabresi ideali per la produzione di cannabis. All’epoca Gianpiero versò pochi semini nei vasi esposti alla finestra del balcone di casa, a San Giovanni in Fiore. Dal terreno spuntarono 6 germogli. Ma ben presto ricevette la visita dei carabinieri, forse allertati da qualche delazione. Così gli costarono care quelle piantine appena sbocciate. Finì in carcere, nonostante le sue precarie condizioni di salute.

    Cannabis e Giustizia, l’impresa di Mazzotta

    In primo grado il tribunale di Cosenza lo condannò. I giudici non ammisero che la documentazione presentata dalla difesa avesse valore probatorio. Ma in appello, difeso dal geniale e coraggioso avvocato Giuseppe Mazzotta, la sentenza ridusse la pena sospesa e per la prima volta riconobbe che Tiano aveva realizzato la minicoltivazione non per spaccio, bensì per un uso terapeutico. Quel testo era destinato a fare giurisprudenza. Negli anni successivi, innumerevoli sono state le sentenze assolutorie dei tribunali italiani nei confronti di persone che hanno deciso di coltivare in proprio, e per uso esclusivamente personale, la pianta tabù.

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    L’ingresso del tribunale di Cosenza

    Ottenuto un dispositivo non criminalizzante, a Gianpiero rimaneva però il problema di come approvvigionarsi della sostanza, vista la rigorosità della permanente normativa proibizionista. Si fece allora promotore di una battaglia civile. Scrisse lettere aperte ai parlamentari, nel 1999 fu tra i fondatori dell’associazione Cannabis terapeutica, trovò un valido sostenitore nel professore Andrea Pelliccia dell’università La Sapienza, che gli prescrisse l’uso dei preparati a base di THC, il principio attivo della cannabis.

    Nel 2001 presentò alle autorità competenti formale richiesta ed ottenne che il sistema sanitario importasse le infiorescenze da un’azienda olandese. Nel 2002, nel summit sulle droghe a Genova, insieme ad altri attivisti dell’associazione fu ricevuto dal ministro della Salute, Umberto Veronesi, e gli consegnò un libro bianco sul diritto negato di assumere cannabis ad uso terapeutico.

    Cannabis e appetito

    «Oggi – denuncia Gianpiero Tiano – mi sembra d’essere tornato al punto di partenza. Non c’è nessun neurologo che me la prescriva. Il medico di famiglia non ne vuole sapere. Conosco tanti altri pazienti calabresi che, come me, sono costretti a compiere clamorose azioni di protesta per tornare a sollevare il problema. Ritengo che i principali ostacoli al riconoscimento dell’uso terapeutico della cannabis derivino dagli interessi delle multinazionali farmaceutiche che per tutelare i loro famelici profitti, nella nostra regione pilotano medici, gruppi di pressione e apparati politici contrari a questa prospettiva.

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    «Una cura alternativa a base di cannabinoidi – prosegue Tiano – sarebbe competitiva nei confronti di altri costosissimi farmaci già impiegati per certe patologie. Inoltre, più difficile è ottenere la canapa, maggiori sono i profitti delle farmacie galeniche, le uniche abilitate a preparare i prodotti a base di cannabis. Per capire l’entità dei profitti, si pensi che nel biennio 2015 – 2017 tra Lamezia, Catanzaro e Crotone il costo di questi preparati è aumentato del 400%. Gli stessi consiglieri regionali che in anni passati sono stati promotori di iniziative politiche in Calabria si sono rivelati una delusione, un bluff. Volevano solo farsi pubblicità proponendo assurde spending review preventive, ma è chiaro che non avevano la minima intenzione di raggiungere un obiettivo che sarebbe prima di tutto sanitario». Dietro uno scontro in apparenza ideologico, dunque, si muovono ben altre manovre. È risaputo che la marijuana provoca appetiti non solo alimentari.

  • Mimmo Lucano al contrattacco: 140 pagine per ribaltare la condanna

    Mimmo Lucano al contrattacco: 140 pagine per ribaltare la condanna

    Una ricostruzione della realtà «macroscopicamente deforme rispetto a quanto emerso in udienza», un atteggiamento «aspro, polemico, al limite dell’insulto» e la preoccupazione di trovare Mimmo Lucano colpevole «ad ogni costo». Hanno ritmi sferzanti le argomentazioni utilizzate da Giuliano Pisapia e Andrea Daqua nelle quasi 140 pagine di richiesta d’appello alla sentenza con cui, in primo grado, il Tribunale di Locri ha “sepolto” l’ex sindaco di Riace, condannato nel settembre scorso a 13 anni e due mesi di reclusione.

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    La lettura della sentenza di condanna per Mimmo Lucano

    Una puntigliosa ricostruzione del lungo processo a carico di Mimmo “il curdo” Lucano, che prova a smontare, pezzo per pezzo, le monumentali motivazioni (oltre 900 pagine) con cui i giudici locresi hanno messo la parola fine a quel progetto di accoglienza integrata che aveva portato il piccolo paese jonico all’attenzione dei media internazionali. Nel fascicolo presentato in Appello, i legali di Lucano ribadiscono quanto espresso in udienza, sottolineando la totale estraneità del loro assistito alle accuse che lo hanno visto condannato per i reati di associazione a delinquere, falso in atto pubblico, peculato, abuso d’ufficio e truffa: 21 i reati in totale, contenuti in 10 capi d’accusa dei sedici originari.

    Pezzo per pezzo

    Sono tanti e dettagliati i punti che non tornerebbero nella sentenza di primo grado e che gli avvocati difensori sottolineano per sostenere l’innocenza di Mimmo Lucano. Punti che bollano la sentenza emessa dal giudice Fulvio Accurso come «in toto censurabile» e dalla cui lettura «matura la netta convinzione» che il giudicante «sia incorso in un palese errore prospettico che ha condizionato pesantemente il giudizio, restituendo una ricostruzione della realtà macroscopicamente deforme rispetto a quanto emerso in udienza».

    Incongruenze e errori che secondo Pisapia e Daqua avrebbero riguardato tutte (o quasi) le determinazioni della sentenza: dalle intercettazioni «utilizzate oltremodo» con un’interpretazione «macroscopicamente difforme dal suo autentico significato», al cambio in corsa del capo di imputazione da abuso d’ufficio a truffa aggravata, fino all’ipotesi di associazione a delinquere dove la sentenza «appare raggiungere il massimo livello di creatività». E poi le spinte all’accoglienza dell’ex sindaco che sarebbero state dettate dalla voglia di arricchirsi e dalla necessità di mantenere gli equilibri per continuare a guidare Riace da primo cittadino: tutte, mettono nero su bianco gli avvocati difensori «letture forzate, se non surreali, dei risultati intercettivi».

    Mimmo Lucano, un caso politico

    Travolto da una copertura mediatica imponente, il processo a Mimmo Lucano si è soffermato a lungo sul ruolo politico rivestito dall’ex sindaco. Dichiaratamente disobbediente e legato agli ambienti della sinistra radicale, Lucano ha riproposto attraverso il modello Riace un’idea diversa dell’accoglienza, nella stessa terra in cui gli slums di Rosarno e San Ferdinando riempiono le pagine della cronaca. Ed è proprio analizzando il ruolo politico di Lucano – e il conseguente utilizzo dei migranti per ottenere la rielezione, come ipotizzato dal Tribunale – che gli avvocati affondano il colpo.

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    Giuliano Pisapia

    Pisapia e Daqua sottolineano «le malevoli interpretazioni, le contraddizioni, il rovesciamento di senso, le enfatiche distorsioni» di un giudizio «preoccupato, più che a valutare gli elementi probatori forniti dall’istruttoria dibattimentale, a “dipingere” e “romanzare” la figura di Lucano. Dov’è lo scambio politico? – si chiedono gli avvocati nell’istanza di appello – Dove sono i voti di riscontro all’atteggiamento omissivo che Lucano avrebbe tenuto? Dov’è quella tanto ricercata (ma inesistente) ricchezza, quel vantaggio economico acquisito dal Lucano attraverso lo sfruttamento del sistema integrazione?».

    Ricostruzioni fantasiose

    Una sentenza pesantissima quella emessa dal Tribunale di Locri che ha, di fatto, raddoppiato la pena avanzata dalla Procura che in sede di requisitoria aveva chiesto la condanna a sette anni. Una sentenza che, scrivono ancora i difensori di Lucano si baserebbe su «ricostruzioni apodittiche e fantasiose» e che si rivolge all’imputato Lucano con «espressioni caratterizzate da una aggettivazione aspra, polemica, al limite dell’insulto», descrivendolo «coma una figura avida, infida, arrogante, una controparte da perseguire più che una persona da sottoporre a giudizio»

  • Caso Lucano, le “verità” al veleno di Palamara

    Caso Lucano, le “verità” al veleno di Palamara

    Di sicuro, nel recentissimo Lobby e Logge di Luca Palamara e Alessandro Sallusti, uscito per Rizzoli la scorsa settimana, ci sono alcuni vizi, non proprio leggeri: l’ansia di rivalsa e il desiderio di autodifesa dell’ex presidente dell’Anm più la proverbiale allergia del direttore di Libero nei confronti delle toghe.
    E tuttavia, le dichiarazioni al vetriolo dei due – che spesso vanno ben oltre il politicamente corretto – meritano una certa attenzione, per almeno due motivi: scombussolano un po’ le carte sulle questioni giudiziarie e, cosa più importante, si basano su fatti.
    Anche per quel che riguarda la Calabria, che emerge in questo libro-intervista soprattutto per quel che riguarda alcuni aspetti del processo a Mimmo Lucano, terminato con una condanna più commentata che analizzata.

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    La lettura della sentenza di condanna per Mimmo Lucano

    Il magistrato e l’ex sindaco

    Le dichiarazioni di Palamara, sul caso Lucano, sono piccanti e argomentate.
    All’ex magistrato romano non interessa la vicenda di Lucano in sé, ma solo come punto di partenza per polemizzare contro gli equilibri interni al potere giudiziario. Cioè gli assetti di potere di quello che lui, nel suo libro precedente, ha definito “Il sistema”.
    Infatti, su Lucano l’ex capo delle toghe è piuttosto garantista: «Pur nel pieno rispetto delle motivazioni dei giudici di Locri, depositate il 17 dicembre del 2021, non mi spiego una pena così alta viste le imputazioni contestate e il contesto nel quale le condotte dello stesso Lucano si sono verificate».

    Il vero bersaglio di Palamara è Emilio Sirianni, giudice della Corte d’Appello di Catanzaro, finito nei guai per via della sua amicizia per Lucano, in nome della quale si espose un po’ troppo, al punto di essere indagato dalla Procura di Locri e di subire un procedimento disciplinare davanti al Consiglio superiore della magistratura.
    Per onestà è doveroso ribadire che i fastidi giudiziari di Sirianni sono solo un ricordo, visto che il giudice catanzarese è stato archiviato a Locri e prosciolto dal Csm nel 2020, quindi oltre un anno prima che Lucano venisse condannato.

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    Emilio Sirianni

    Piange il telefono

    Tuttavia, ciò non toglie che certe affermazioni di Sirianni siano pesanti, come rilevano i magistrati di Locri nell’ordinanza di archiviazione dell’inchiesta sul loro collega: «il comportamento mantenuto è stato poco consono a una persona appartenente all’ordine giudiziario, peraltro consapevole di parlare con una persona indagata».
    Ma cos’ha detto di così pesante Sirianni?
    Innanzitutto, c’è una battuta piccantissima su Nicola Gratteri, “colpevole” di non aver difeso a sufficienza Lucano. In altre parole, Lucano era preoccupato del fatto che il procuratore di Catanzaro si era dimostrato tiepido sull’inchiesta di Locri, limitandosi a un banale: «Sarei cauto, bisogna leggere le carte», dichiarato in tv ad Alessandro Floris.

    Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri
    Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri

    Sirianni avrebbe cercato di rassicurare Lucano per telefono con un commento al peperoncino rivolto al magistrato antimafia più famoso d’Italia: «Lascialo stare, è un fascista di merda ma soprattutto un mediocre, un mediocre e ignorante».
    Addirittura alla ’nduja le dichiarazioni di Sirianni su un altro calabrese di peso: Marco Minniti, all’epoca ministro dell’Interno nel governo Gentiloni, che viene definito «uno pseudo comunista burocrate che ha leccato il culo a D’Alema per tutta la vita».
    Non entriamo nel merito di queste dichiarazioni, così come non ci è entrata la commissione disciplinare del Csm che ha prosciolto Sirianni perché ha detto quel che ha detto in privato e non in pubblico e quindi non ha discreditato la magistratura.

    Compagni in toga

    A essere pignoli, la frase più pesante del giudice di Catanzaro sarebbe quella in cui non ci sono parolacce ma tira in ballo un altro magistrato: Roberto Lucisano, presidente della Corte di Assise d’Appello di Reggio e compagno di Sirianni in Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe italiane.
    Sempre stando alle intercettazioni riportate in Lobby e Logge, Sirianni avrebbe detto a Lucano una cosa non troppo sibillina: «Ho parlato con Lucisano, il quale mi dice che la procura di Locri sta indagando ma che su questo Magistratura democratica farà una crociata». Non è proprio poco visto che, commenta Palamara, Lucisano, in virtù del suo ruolo, potrebbe essere giudice di Appello di Lucano.
    Ma l’ex magistrato evita i processi alle intenzioni e si sofferma, piuttosto, sull’aspetto ideologico della vicenda.

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    Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace condannato in primo grado

    Toghe rosse

    Un lungo virgolettato di un’altra intercettazione, riportato stavolta da Sallusti, chiarisce i motivi per cui Sirianni si è sbilanciato tanto nei confronti di colleghi ed esponenti di governo. E il diritto c’entra davvero poco.
    Ecco il passaggio, che sa più di Potere Operaio che di Anm: «Magistratura democratica è nata con una cultura della corporazione, dicendo: noi non siamo giudici imparziali, o meglio noi non siamo indifferenti, noi siamo di parte, siamo dalla parte, siamo dalla parte del più debole, perché questo è scritto nella Costituzione, non perché questa è una rivoluzione».

    Il commento di Palamara, che si riporta per dovere di cronaca, è piuttosto duro: «In questa intercettazione c’è tutto quello che ho vissuto nei miei undici anni alla guida del Sistema che ha governato la politica giudiziaria. L’egemonia culturale di sinistra che sovrasta la Costituzione, la partigianeria che interpreta la legge». Non è il caso di entrare nel merito di questa dichiarazione dell’ex magistrato, perché la vera notizia, in questo caso è un’altra.

    Uno scandalo inedito?

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    Luca Palamara

    La fornisce Palamara: «Strano che l’integrale di queste intercettazioni non sia mai uscito sui giornali, e ancora più strano che non siano mai arrivate al Csm, e non penso che sia stato un disguido delle poste». Dichiarazione sua, che spetta ai diretti interessati smentire.
    Ma è una dichiarazione che, se non smentita, autorizza le peggiori dietrologie. Ad esempio questa, sempre di Palamara: «Penso che quelle frasi gravemente scorrette nei confronti di importanti magistrati e politici avrebbero creato dei grattacapi non solo a lui ma a tutta la sinistra giudiziaria».
    Di sicuro queste dichiarazioni, che si prestano a tutte le strumentalizzazioni possibili, non aiutano a far chiarezza in una vicenda, quella di Mimmo Lucano, che richiede ben altra serenità.

  • D’accordo su tutto, tranne che sul Pd: l’unità finta dei democrat calabresi

    D’accordo su tutto, tranne che sul Pd: l’unità finta dei democrat calabresi

    L’unità, che bella cosa, era pure il nome del giornale di famiglia. L’istituto del commissariamento, invece, è un male antidemocratico. Per il Pd nazionale sono due verità incontrovertibili, a patto che in gioco non ci sia la Calabria. Sotto al Pollino, l’unità diventa un diktat tartufesco, il commissariamento un’arma da brandire alla bisogna.
    Il congresso regionale, già celebrato, e quelli provinciali, che si svolgeranno dal 18 febbraio, sono lì a dimostrare la relatività di tutte le cose dem. Un osservatore esterno, ad esempio, potrebbe domandarsi perché mai, in una comunità democratica come quella del Pd, l’unità diventi necessariamente una sorta di obbligo ineludibile di stampo leninista.

    Missione unità: tutti con Irto

    È avvenuto anche in occasione dell’elezione del nuovo segretario regionale, Nicola Irto, imposto dai vertici romani e poi accettato – non sempre con entusiasmo – da tutti i maggiorenti locali. A Irto il Nazareno ha affidato un mandato chiaro: realizzare l’«unità» pure nelle federazioni provinciali e nei circoli cittadini. Il segretario, ormai da settimane, è al lavoro per ridurre al minimo i conflitti e arrivare a «sintesi» in ogni territorio, con l’obiettivo di schierare candidati «unitari» in tutti i congressi e di ridurre a zero le faide e, quindi, i problemi per Roma.

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    Nicola Irto

    Le preoccupazioni del Nazareno

    Il Nazareno, infatti, segue sempre lo stesso modus operandi: liquidare la pratica Calabria senza conseguenze e, in caso di rischi troppi alti, affidare la guida del partito a persone di assoluta fiducia come i commissari esterni.
    Il Pd regionale, dalla sua nascita, ne ha avuti tre – Musi, D’Attorre e Graziano –, tutti arrivati con la regola d’ingaggio di mettere ordine nei vari «feudi» regionali (copyright: Irto). Missione sempre fallita: il partito era ed è tuttora balcanizzato.
    Una consapevolezza di tutte le segreterie dem, sempre pronte a prendere le distanze dalla “democrazia” interna del Pd calabrese. Così, ecco i commissari a fare il coperchio di una pentola a pressione; così, adesso, ecco Irto, il candidato unico benedetto da Roma, e i congressi in perfetto stile sovietico.

    Ma quale democrazia reale

    «L’unità è un valore, ma solo se è vera. Qui invece la si impone per evitare scandali», sostiene un autorevole rappresentante istituzionale del Pd. Si fa presto a dire quali scandali: le primarie farlocche, i pacchi di tessere nelle mani dei ras locali, i candidati controversi per parentele o frequentazioni. La cronaca politica (e giudiziaria) degli ultimi anni ha fornito molti esempi che in qualche modo possono aver giustificato le azioni dei vari Bersani, Zingaretti, Letta e via dicendo.

    Unità fake

    Quella predicata e realizzata è solo un’unità posticcia, un fake politico; un’unità imposta a chi poteva scegliere di evitare commissari peggiori. Irto, in fondo, è stato accolto di buon grado: giovane, moderato, con una buona esperienza alle spalle, aperto al dialogo e al compromesso, mai divisivo. In più, meno di un anno fa era stato candidato governatore con la benedizione di tutto il partito calabrese, prima di essere silurato dall’area Orlando-Provenzano (quindi l’intervista a L’Espresso e le accuse a un partito sempre più «in mano ai feudi»).

    È probabile, tuttavia, che l’unità attorno a Irto, più che reale, sia stata tattica: il modo migliore che i big locali hanno trovato per togliersi di torno Graziano, il commissario capace di inanellare una lunga serie di disastri elettorali.
    Le alternative poste in modo implicito dal Nazareno, infatti, erano solo due: l’accordo (Irto) o il regime speciale (Graziano). L’unità diktat e il commissariamento arma, appunto.

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    Stefano Graziano

    La guerra nelle federazioni

    Sono state queste le opzioni in gioco anche nelle varie federazioni locali, torri di Babele in cui ogni corrente continuerà a perseguire i propri scopi.
    A Cosenza si arriverà a un congresso con un vincitore già designato dopo una guerra muscolare tra il commissario uscente, Francesco Boccia, e i vari capataz provinciali. Alla fine, l’ha spuntata proprio l’ex ministro, che è riuscito a imporre Maria Locanto a dispetto dei desideri dei vari Adamo, Bruno Bossio, Guccione e Iacucci, che sostenevano Vittorio Pecoraro.

    Pare che Boccia, per vincere la partita, abbia messo i dirigenti locali di fronte al classico aut aut: o Locanto o rinvio del congresso, cioè ancora commissariamento. Si può chiamare unità di partito? Non proprio, anche perché è poi saltata fuori la candidatura dell’outsider Antonio Tursi, che potrebbe catalizzare il voto degli scontenti.

    Vibo a Di Bartolo

    A Vibo sembravano pronti ad andare ai materassi, ma anche qui sarà congresso unitario con un unico candidato, il ventenne Giovanni Di Bartolo. Il suo avversario, Sergio Rizzo, pochi giorni fa ha annunciato il ritiro sottolineando l’importanza di «seguire la linea tracciata» da Irto. L’esito, però, non nasconde la realtà di un partito lacerato dalle tensioni interne, come dimostra l’atteggiamento ondivago dell’ex consigliere regionale Luigi Tassone, candidato, poi sostenitore di Di Bartolo, poi ricandidato e infine di nuovo al fianco del futuro segretario. «È un’unità di facciata, perché tutti i dirigenti hanno capito che, senza una soluzione comune, toccherà ancora al commissario», conferma uno che conosce bene le dinamiche in atto tra i dem vibonesi.

    Analisi, questa, che trova riscontri nella guerra per la segreteria cittadina. Francesco Colelli, sostenuto da Tassone, sfiderà Claudia Gioia, rappresentante dell’area del consigliere regionale Raffaele Mammoliti. Tassone e Mammoliti non possono certo essere definiti due amiconi e, secondo più di un osservatore, venderanno cara la pelle.

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    Raffaele Mammoliti

    La vendetta di Falcomatà

    Sarà un congresso dall’esito scontato anche a Reggio, ma il futuro segretario provinciale, Antonio Morabito, si troverà a guidare un partito lacerato. Secondo gli accordi romani, la scelta del candidato unico toccava a Giuseppe Falcomatà. Il sindaco metropolitano (oggi sospeso) si sarebbe però visto bocciare tutti i nomi proposti, per poi essere quasi costretto a dire sì a Morabito, la cui famiglia è storicamente vicina a Irto. E adesso c’è chi giura che, presto, Falcomatà potrebbe passare al contrattacco. La città dello Stretto non è insomma il regno dell’armonia sognato da qualcuno.

    Giuseppe Falcomatà

    Lotta dura a Catanzaro

    Fervono le trattative anche a Catanzaro, dove nemmeno la presenza di Boccia avrebbe sortito effetti ecumenici. Fino all’ultimo verrà tentata una mediazione tra i due candidati in campo, Salvatore Passafaro, sostenuto dai circoli cittadini, e Domenico Giampà, appoggiato dai consiglieri regionali Ernesto Alecci e Mammoliti.
    Finora è stata una lotta senza esclusione di colpi e carica di veleni, con l’area di Passafaro che ha anche accusato la commissione di garanzia di strane manovre nella suddivisione dei collegi per il voto e Giampà inflessibile nella volontà di non fare un passo indietro per favorire un candidato di superamento. «Nessuno vuol trovare una mediazione, vogliono la guerra», commenta un esponente del Pd cittadino.

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    Salvatore Passafaro

    Il clima generalizzato è questo. A Crotone lo scontro al congresso provinciale è stato evitato solo al fotofinish: Sergio Contarino si è ritirato per lasciare campo libero a Leo Barberio. Pace fatta, dunque? No, perché la contesa si è solo trasferita a un livello più basso, al congresso cittadino. Annagiulia Caiazza, corrente Barberio, sfiderà Mario Galea, area Contarino.
    Del resto, è una fatica di Giobbe tenere unito ciò che non lo è. Sembra di vederlo, Irto, mentre implora il suo partito con la battuta cult dell’ultimo film di Sorrentino: «Non ti disunire!». Ma ci vorrebbe proprio la mano di Dio.

  • Garibaldipoli, la città fantasma tra la Locride e le Serre

    Garibaldipoli, la città fantasma tra la Locride e le Serre

    A Galatro, poco meno di 1.500 abitanti tra la Locride e le Serre, ci sono due potenti attrattori: innanzitutto le terme, costruite a fine ’800, e una fattoria modello, la Tenuta agricola Riario Sforza.
    Queste strutture sono ciò che resta di un progetto ambiziosissimo e mai realizzato. Si tratta di una città nuova di zecca, che avrebbe dovuto prendere il posto del borgo, dedicata nientemeno che all’eroe dei due mondi. Parliamo di Garibaldipoli, forse il primo progetto di rigenerazione urbana in Calabria, concepito da un personaggio singolare, Luigi De Negri, un ex garibaldino genovese trapiantato a Napoli.

    Un avventuriero per due continenti

    Su Luigi De Negri si sa poco. E quel poco che si sa lo si deve alle ricerche effettuate dallo storico Giuseppe Monsagrati, finite nel libro “Garibaldipoli e altre storie di terra e di mare” (Rubbettino 2021). Difficile dire, soprattutto, che età avesse De Negri quando, nel 1862, tentò la fortuna in Calabria meno di un anno dopo essere uscito di galera, dov’era finito per una maxitruffa a Napoli. E non si sa neppure che fine abbia fatto, dopo aver tentato di far fortuna in Africa, agli albori del colonialismo italiano.
    Che sia stato garibaldino e avesse partecipato alla spedizione dei Mille lo si apprende dai documenti del Generale. L’eroe dei due mondi in effetti ebbe con lui un rapporto particolare. In cui c’era di tutto, tranne la fiducia. E le sue idee strampalate, a volte geniali ma sempre irrealizzate, emergono dagli archivi giudiziari e ministeriali.

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    Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi

    Una città ultramoderna a Galatro

    Nel 1861 Galatro aveva un problema singolare: lo spopolamento, iniziato addirittura in età borbonica e dovuto alla cattiva posizione del borgo, tutt’altro che salubre.
    Il paese, tra l’altro, era stato ricostruito a inizio ’800 su un’altura, dopo che il terremoto del 1783 aveva raso al suolo il sito originario. In altre parole, questa situazione era il risultato di una scelta fatta in situazione di grave emergenza, in cui i rischi erano ben altri che l’aria insalubre e l’umidità.
    Con tutta probabilità, l’idea di creare una nuova città e dedicarla a Garibaldi fu suggerita agli abitanti di Galatro proprio da De Negri, che quell’anno aveva appena chiuso una tipografia per inventarsi una fantomatica Società Promotrice per le Opere Pubbliche Comunali per l’Italia meridionale, con tanto di sede prestigiosa: il Palazzo Maddaloni di Napoli, proprietà del principe Tommaso Caracciolo.

    Proprio a Napoli, De Negri avrebbe frequentato un galatrese diventato famoso: Nicola Garigliano, un medico liberale, ferito durante i moti che precedettero l’arrivo dell’Eroe dei Due Mondi nella ex capitale dei Borbone. Vediamo meglio di cosa si trattava.

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    Garibaldi entra a Napoli con i suoi uomini

    Garibaldipoli

    Sembra strano trovare tanta modernità nell’Italia appena unita. Eppure, se fosse stata realizzata, Garibaldipoli sarebbe stata la prima città realizzata in project financing.
    Non solo: sarebbe stata anche la prima città costruita su un piano regolatore all’avanguardia: una pianta quadrata, divisa in quattro porzioni da due strade che si incrociano ad angolo retto. L’abitato, infine, sarebbe stato costituito da case di un solo piano, di uno o tre vani. Il nome di Garibaldi, in questo caso, serviva ad ungere le ruote dell’amministrazione provinciale e dei ministeri e ad attirare investitori. Già: perché oltre che dai desideri dei cittadini di Galatro e dalla megalomania di De Negri, il progetto non era supportato da niente.

    La città patacca

    Garibaldipoli si sarebbe dovuta realizzare su un’altura della Valle del Salice, tramite l’esproprio, finanziato dal Comune di Galatro, di vari appezzamenti di terreno agricolo già assegnati a vari privati.
    L’operazione non era leggerissima, avendo un costo iniziale di circa 10 milioni di euro odierni. Stesso discorso per la costruzione, che secondo il piano di De Negri, sarebbe stata finanziata in parte dagli stessi cittadini con l’acquisto preventivo delle case, in pratica una cooperativa edilizia. Più interessante è l’altra parte del finanziamento, che sarebbe dovuto derivare da azioni, dal valore di 200 euro odierni l’una, emesse direttamente dalla Società di De Negri, il quale praticamente non metteva uno spicciolo di suo, ma solo il nome di Garibaldi, con cui millantava rapporti di grande intimità.

    In cambio di tanto impegno, l’imprenditore si “accontentava” della concessione gratuita delle acque termali, che allora sgorgavano in una grotta nei pressi del paese. Per sfruttarle avrebbe costruito uno stabilimento, finanziato sempre con azioni, da collocare addirittura presso il mercato internazionale.
    E non finisce qui: il nome del Generale, inoltre, avrebbe dovuto garantire la costruzione di nuove strade che collegassero l’area di Galatro, praticamente isolata, alla vicina Polistena.

    Convocato da Garibaldi

    C’è da dire che il Nostro si diede da fare per davvero. Inondò di lettere Garibaldi, a cui chiese addirittura di mettere la sua residenza proprio nella futura città.
    Ma l’Eroe dei Due Mondi, ripresosi da poco dalle ferite riportate in Aspromonte, non solo non aderì all’iniziativa, che finì in niente, ma volle vederci chiaro e convocò De Negri a Caprera. Di questo incontro, che avvenne alla fine del 1863, non si sa molto, se non che, da allora in avanti, De Negri non si sarebbe più messo in bocca il nome del Generale.

    Truffe garibaldine

    Infatti, non era la prima volta che De Negri usava il nome di Garibaldi che era già un brand di suo. Già nel 1860, a conquista appena ultimata delle Due Sicilie, l’imprenditore ligure aveva inventato un Comitato per la spada d’onore a Garibaldi, con sedi a Napoli e Milano.
    Era la classica macchinetta mangiasoldi, escogitata assieme ad Alessandro Salvati un altro ex garibaldino avventuriero come lui, segno che chi si somiglia si piglia.
    Lo scopo di questo comitato, che faceva concorrenza ai ben più seri Comitati di provvedimento garibaldini, era la raccolta di fondi per finanziare le prossime imprese dell’Eroe. Tra cui una bizzarrissima e megalomane: una spedizione nei Balcani per liberare l’Ungheria dal giogo austriaco. Sembra strano, ma qualcuno la prese sul serio, col rischio di scatenare una crisi internazionale

    Intrigo internazionale

    In Italia c’era allora una comunità di esuli ungheresi, divisa da una forte rivalità interna tra due leader, entrambi militari. Erano Istvan Turr, comandante della Legione ungherese e uomo di fiducia di Garibaldi, e il generale Sandor Gall.

    Galatro-Garibaldopoli-I-Calabresi
    Istvan Turr, comandante della Legione ungherese e persona molto vicina a Garibaldi

    Gall si fece sedurre dall’idea dei due fondatori del Comitato della Spada: uno sbarco in Grecia, possibilmente guidato da Garibaldi (o comunque in suo nome), quindi la risalita in armi nei Balcani occidentali per dare una mazzata all’Impero d’Austria. E così il Comitato iniziò a reclutare volontari e, soprattutto, a raccogliere quattrini.
    Peccato solo che Cavour, impegnato a negoziare la pace, contrastò l’iniziativa, a cui Turr si era ferocemente opposto, e Garibaldi negò il suo consenso. Risultato: i Comitati di provvedimento denunciarono per malversazioni finanziarie Salvati e De Negri, che finirono in galera assieme a Gal.

    Il generale ungherese Sandor Gall

     

    Senza Garibaldi

    Nel 1870 De Negri si tolse dalla testa Garibaldi e si buttò in un altro settore: la pesca. Allo scopo, aveva comprato uno scoglio nella baia di Posillipo, l’isola di Gajola. Luogo su cui aveva costruito una villa che sarebbe dovuta diventare la sede di quest’impresa. Un’attività economica per l’epoca all’avanguardia: l’allevamento dei pesci e il loro sfruttamento razionale. Inutile dire che questa iniziativa si sarebbe dovuta finanziare, più o meno, come Garibaldipoli: attraverso la raccolta di fondi mediante le azioni della sua Società di Pescicoltura. Anche quest’impresa finì malissimo, sia perché i pescatori vi si opposero sia perché la bocciò l’illustre zoologo Achille Costa.

    L’isola di Gajola, che fu acquistata dall’avventuriero ed ex garibaldino Luigi De Negri

    Mal d’Africa

    De Negri tentò l’ultima avventura ad Assab, nei primi ’80 del 1800. Il porto eritreo era da poco colonia italiana perché l’armatore Rubattino l’aveva venduto al governo. Logico che attirasse gli appetiti di imprenditori, semplici lavoratori e di avventurieri. Altrettanto logico che uno come De Negri tentasse anche lì. Infatti, il Nostro ripropose l’idea della pescicoltura con un’aggiunta esotica in più. Purtroppo per lui, trovò sulla sua strada Costa, a cui il governo dell’epoca chiese una consulenza. Inutile dire che il progetto fu lasciato cadere. Da questo periodo in avanti non si hanno più notizie di questo personaggio, a dir poco singolare.

  • Il superburocrate così dà l’incarico al portaborse del politico

    Il superburocrate così dà l’incarico al portaborse del politico

    Stavolta la nomina non l’ha fatta un politico. La politica però in qualche modo c’entra sempre. Anche quando una superburocrate a capo di un apparato monstre decide di affidare all’esterno un incarico che, evidentemente, a suo parere non si può proprio assolvere con le risorse interne. Difficile a credersi, ma è quanto succede in uno dei Palazzi in cui resistono privilegi impensabili in altri luoghi di lavoro.

    Il segretario della segretaria generale

    L’ultima perla consegnata ai calabresi attraverso il Burc riguarda l’ennesima chiamata diretta in uno staff. Solo che stavolta non si tratta di un consigliere regionale, ma del vertice della struttura amministrativa di Palazzo Campanella. Il segretario generale Maria Stefania Lauria, che sta al punto più alto di una piramide di ben 250 dipendenti, ha dovuto arruolare un esterno come suo segretario particolare.

    Il segretario generale Maria Stefania Lauria e l’ex presidente del consiglio regionale, Mimmo Tallini

    Quarantamila euro per il portaborse

    Lei percepisce uno stipendio di 184mila euro lordi all’anno, a cui si aggiunge un’indennità di risultato in rapporto ai mesi di servizio e alla valutazione dei risultati conseguiti. Il suo segretario particolare al 100% ne prenderà invece 40mila. Molti di meno, certo, ma in realtà il prescelto, tale Francesco Noto, con questa nomina raddoppia: fino al giorno prima era infatti il segretario particolare al 50% del presidente del consiglio regionale, Filippo Mancuso.

    La fortuna del portaborse

    È questo uno dei tanti tratti quantomeno singolari di questa vicenda, che vede un portaborse passare di fatto dallo staff di un organo politico di vertice a quello del più alto burocrate dello stesso palazzo. Ma di passaggi che destano, diciamo così, un certo stupore, ce ne sono anche altri. Il primo, lampante paradosso, è che un dirigente che è a capo di una megastruttura amministrativa il cui personale costa già di per sé 25 milioni di euro all’anno di soldi pubblici decida di farne spendere un altro po’ per pescare all’esterno un collaboratore.

    Promossa da Tallini

    Un altro è che la stessa Lauria, a cui l’allora presidente Mimmo Tallini ha affidato anche la direzione generale del consiglio regionale, abbia già alle dipendenze dirette un Settore (il Segretariato generale, appunto) che conta solo al suo interno circa una cinquantina di persone. Per non parlare degli altri uffici che, comunque, sempre a lei fanno riferimento.

    C’è poi il fatto che il provvedimento, una determina dirigenziale, porti la firma, oltre che della responsabile del procedimento Romina Cavaggion, anche della stessa Lauria, alla quale il 19 gennaio scorso l’Ufficio di Presidenza – di cui ovviamente è a capo Mancuso – ha conferito l’incarico dirigenziale ad interim del Settore Risorse Umane.

    Filippo Mancuso (Lega) è il presidente del consiglio regionale della Calabria

    Si libera un posto nella struttura del presidente del consiglio regionale

    Per ricapitolare, dunque, con questo atto Lauria comunica al Settore diretto da Lauria che intende avvalersi di un collaboratore esterno. E Lauria prende atto che nulla osta alla nomina del segretario particolare che la stessa Lauria poi dispone con una sua determina. Liberando così, ché non guasta mai, un posto in più nella struttura del presidente del consiglio regionale, il quale certamente troverà presto un sostituto di Noto, che vi era stato inserito lo scorso 25 novembre.

    Certamente sarà tutto legittimo, e si tratta comunque di poca cosa rispetto alla guerra dei mandarini che abbiamo già raccontato. Ma è la conferma di quanto il pudore, al contrario di una miriade di portaborse, non trovi proprio alloggio ai piani alti di Palazzo Campanella.

  • Acqua pubblica in Calabria? L’ultima parola spetta a una banca in Irlanda

    Acqua pubblica in Calabria? L’ultima parola spetta a una banca in Irlanda

    Si tratta di due situazioni molto diverse tra loro, ma Sacal e Sorical in comune hanno anche alcune cose non proprio marginali. Innanzitutto gestiscono, in regime di sostanziale monopolio, gli aeroporti e gli acquedotti della regione, due settori cruciali che stanno attraversando percorsi piuttosto sofferti di riassetto societario. In queste società miste i rapporti tra pubblico e privato sono, per così dire, mutevoli e altalenanti. E vi ruotano attorno delle situazioni tutte da chiarire di cui, probabilmente, i calabresi sanno ben poco.

    L’altro fattore che accomuna Sacal e Sorical sono le «gravi incurie» e i «disordini» che dal punto di vista contabile si sono «stratificati negli anni». Lo ha certificato la Corte dei conti concludendo che le «gravi irregolarità» che riguardano queste realtà, al pari di Ferrovie della Calabria e Corap, «recano nocumento alla gestione del bilancio regionale, sia in termini di maggiori oneri, alimentando contenzioso e ingenerando debiti fuori bilancio, e sia sotto il profilo dell’attendibilità e veridicità del bilancio».

    Sacal e Sorical, le differenze

    Detto questo, vanno chiarite anche le differenze. Sorical, che dal 2004 gestisce l’acqua calabrese con una convenzione trentennale per cui paga 500mila euro all’anno, è al 53,5% della Regione e al 46,5% dei privati (Acque di Calabria s.p.a., controllata al 100% alla multinazionale Veolia). Sacal è subentrata nel 1990 al Consaer (consorzio costituito nel 1965 per la realizzazione e la gestione dell’aeroporto di Lamezia Terme) e nel 2009 ha avuto in concessione per 40 anni lo scalo lametino, a cui nel 2017 si sono aggiunti anche quelli di Reggio e Crotone, reduci dai fallimenti delle rispettive società di gestione. Ma soprattutto nei mesi scorsi è passata sotto il controllo dei privati.

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    Un aereo sulla pista dell’aeroporto di Lamezia

    A inizio agosto avevamo banalmente osservato come la linea di demarcazione fosse già sottile: erano 13.666 le azioni di Sacal in mano a enti pubblici – Comuni, Regione, Province e Camere di commercio – e 13.259 quelle dei privati. Dopo la vittoria alle elezioni, Roberto Occhiuto si è però accorto che i pesi sulla bilancia erano cambiati e, sotto la guida di un supermanager nominato da Jole Santelli e vicino alla Lega, un gruppo imprenditoriale (la “Lamezia Sviluppo” della famiglia Caruso) aveva acquisito la maggioranza delle quote nel silenzio generale.

    Tempo scaduto, ma tutto ancora ai privati

    Ciò che è avvenuto dopo è noto: l’Enac ha avviato una procedura che potrebbe portare alla revoca della concessione e al commissariamento degli aeroporti. Per scongiurarlo la Regione ha dato mandato a Fincalabra di acquisire il pacchetto azionario facendo tornare pubblica la maggioranza. Ma qui sta il problema, perché non sembra che questo passaggio sia così semplice come qualcuno pensava. Il tempo che l’Enac aveva concesso è già scaduto da oltre un mese, ma la ripubblicizzazione della società aeroportuale ancora non c’è stata.

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    Occhiuto vota per il Presidente della Repubblica

    Nei giorni dell’elezione del Presidente della Repubblica lo stesso Occhiuto assicurava – intervistato da CalNews, Calabria News 24 e Calabria Diretta News – di essere impegnato anche da Roma nei negoziati «con eventuali soci privati di Sacal e con i privati di Sorical». A distanza di pochi giorni, a margine della conferenza stampa sui suoi primi 100 giorni, riguardo a Sacal ha parlato di una trattativa «estenuante».

    L’ultimatum di Occhiuto

    La sostanza dell’impasse sugli aeroporti è ovviamente legata ai soldi: i privati si dicevano disponibili, con una lettera resa pubblica dallo staff del presidente della Regione, a cedere tutto il loro pacchetto senza sovrapprezzo al valore nominale di poco meno di 12,5 milioni di euro (foto lettera). Occhiuto invece ritiene che il valore reale, alla luce della crisi e della procedura Enac, sia molto minore e non vuole far scucire alla Regione tutti quei soldi.

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    La lettera dei privati che hanno acquisito la maggioranza di Sacal a Roberto Occhiuto

    Come se ne esce? Dalla Cittadella è partito un ultimatum: se entro 10 giorni non si sblocca la trattativa mandiamo tutto a monte e facciamo nascere una nuova società che assumerà tutto il personale Sacal. La cosa non sarebbe indolore perché passerebbe attraverso la revoca della concessione da parte di Enac. Intanto i lavoratori stagionali, già precari da anni, restano a casa, e i 152 dipendenti (71 operai, 70 impiegati e 11 quadri) vanno verso la cassa integrazione con una prospettiva che, complice il crollo del traffico aereo durante la pandemia, non è per niente rosea.

    Sorical: 595mila euro di utili, 188 milioni di debiti

    In Sorical, che nel frattempo ha dovuto fronteggiare la grave crisi idrica dell’Epifania, l’assetto societario è molto meno ingarbugliato: attualmente la Regione ha 7.169.000 azioni e Acque di Calabria 6.231.000. La società è in liquidazione ormai da 10 anni, il Bilancio 2020 ha fatto registrare un utile di 595mila euro – in aumento rispetto all’esercizio precedente – ma i debiti ammontano a 188 milioni di euro. Per l’acqua al momento però non c’è alcuna possibilità che i privati passino in maggioranza, anzi: Veolia da tempo non nasconde di volersi liberare e la Regione ha detto chiaramente di puntare ad acquisire le sue quote.

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    L’acquedotto Abatemarco (dal sito Sorical)

    Una delibera di Giunta regionale di maggio del 2021 aveva dato questo indirizzo ed era stata commentata con entusiasmo dall’asse leghista che (allora) governava la Regione con Nino Spirlì e (ancora oggi) Sorical con Cataldo Calabretta. Quell’annuncio però tra poco compirà un anno e non sembra, al di là delle dichiarazioni di facciata, che siano stati fatti dei decisivi passi in avanti. Tanto che, per non perdere alcuni fondi destinati all’ammodernamento degli acquedotti, nel frattempo è stata creata, su impulso dell’Aic (l’Autorità di governo d’ambito in cui sono rappresentati i Comuni), un’Azienda speciale consortile che si dovrà occupare della fornitura d’acqua al dettaglio, mentre a Sorical resterà l’ingrosso.

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    Spirlì e Calabretta

    La multiutility e quella banca irlandese…

    Si tratta di una soluzione provvisoria perché Occhiuto vuole arrivare a un’unica «multiutility» che gestisca tutto: fornitura idropotabile, depurazione e riscossione delle bollette. E proprio nei giorni scorsi il suo capo di gabinetto, incontrando i sindacati, ha dichiarato l’impegno della Regione a sottoscrivere un protocollo d’intesa per cui, «laddove si dovesse verificare l’acquisizione e la pubblicizzazione della Sorical», l’attuale personale della società passerà in toto alla nuova «multiutility» con le stesse condizioni contrattuali. I dipendenti sono 266 (125 amministrativi, 127 operai, 12 funzionari, 1 “atipico” e 1 dirigente) e, in termini di costo del personale, secondo la Corte dei conti Sorical è passata da 13,9 milioni nel 2017 a 15,6 nel 2020. Con un aumento che alla magistratura contabile appare «anormalmente elevato», considerato che un reale incremento di unità si è avuto solo fra gli operai.

    Ma per realizzare il progetto di Occhiuto, e dunque arrivare al gestore unico previsto dalla legge, c’è di mezzo un altro ostacolo, evidentemente ancora da superare: Sorical può diventare totalmente pubblica solo se si “convince” una banca con sede in Irlanda, la Depfa, con cui la società ha debiti per circa 85 milioni di euro. Nel 2008 Sorical ha stipulato con questo istituto un contratto derivato beneficiando di un project financing, così Depfa Bank oggi è il suo principale creditore e ha il pegno su crediti e conti correnti. Dunque è con la banca nel caso di Sorical, e con la “Lamezia Sviluppo” nel caso di Sacal, che si deve fare letteralmente i conti per far tornare questi settori, di enorme interesse collettivo, sotto il controllo pubblico. Ma come si può immaginare né le banche né gli imprenditori privati fanno quello che fanno per beneficienza.

  • Una poltrona per quattro: Catanzaro, dove la politica è sottosopra

    Una poltrona per quattro: Catanzaro, dove la politica è sottosopra

    Avviso ai lettori: abbandonate ogni categoria politica nota e armatevi di santa pazienza, unico modo per capire questa storia.
    Se vi è capitato di vedere Stranger things, la fortunata serie di Netflix, beh, potreste essere avvantaggiati, perché anche qui si racconta di un mondo parallelo, di un Sottosopra che inquieta, di una città in cui tutto è deformato.
    Succedono strane cose nella Catanzaro che si appresta al voto.

    Catanzaro sottosopra

    Proviamo a sintetizzare, ma attenti, perché il rischio che vi giri la testa è davvero alto.
    Via: il Pd, in accordo con il M5S, vorrebbe candidare a sindaco di Catanzaro un professore che non ha tessere in tasca, mentre un altro professore, lui sì iscritto al partito di Letta, propone un esperimento civico che però è ben visto dal centrodestra e, soprattutto, dalla destra-destra di Fratelli d’Italia, il tutto mentre la Lega spinge per un esponente dell’Udc, partito che, a sua volta, vorrebbe il prof di cui sopra – no, non il primo, il secondo – a guidare la coalizione, quando nel frattempo Coraggio Italia preme per un rappresentante di Forza Italia, a cui tuttavia non va proprio giù la discesa in campo di un avvocato che, pochi mesi fa, figurava nella lista ufficiale dei berlusconiani per il Consiglio regionale.
    Se non ci avete capito nulla, non è un problema vostro. Le realtà parallele spesso sono incomprensibili; a volte, come in questo caso, maledettamente trasversali.
    Nel Sottosopra nessuno ci capisce niente, nemmeno quelli che dovrebbero governarlo.

    Tafazzismo di sinistra

    Quel che tutti possono capire, anche senza conoscere la saga fantascientifica americana, è che, al momento, i candidati a sindaco sono quattro. Uno, Antonello Talerico, è presidente dell’Ordine provinciale degli avvocati ed è riconducibile al centrodestra; gli altri tre hanno radici ideologiche o politiche nel centrosinistra: l’avvocato di estrazione socialista Aldo Casalinuovo, il professore di Diritto privato all’Università di Catanzaro Valerio Donato e il docente di Diritto canonico all’Unical Nicola Fiorita.

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    Nicola Fiorita

    Proprio quest’ultimo, già candidato a sindaco, con buoni risultati, alle scorse Comunali (23%), è il nome prediletto del “Nuovo centrosinistra”, coalizione di cui, oltre a sigle più piccole, fanno parte anche Pd e M5S. Fiorita, insomma, è il collante locale di un’alleanza, quella giallorossa, che Letta e Conte (almeno prima della decadenza decisa dal Tribunale di Napoli) vorrebbero replicare in tutte e quattro le città al voto la prossima primavera.
    Fin qui il fatto che Fiorita non sia un iscritto del Pd non provoca problemi. Il punto è che la sua candidatura risulta indebolita proprio da un esponente di peso del Pd di Catanzaro, quel Donato che ha già ufficializzato la sua volontà di diventare sindaco alla testa di una coalizione civica («non voglio essere un uomo di parte, il periodo attuale richiede un governo di salute pubblica»).

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    Valerio Donato

    Si dirà: è lo storico tafazzismo di una sinistra che si spacca favorendo la destra. Però la faccenda è più complicata di così, e per comprendere meglio il contesto bisogna mettere in conto l’endemico trasversalismo della politica catanzarese.
    In un modo che potrebbe risultare paradossale – ma solo a chi non conosce certe dinamiche locali – il nome di Donato è infatti saltato fuori durante il vertice del centrodestra andato in scena la scorsa settimana.

    Il caos nel centrodestra

    Sala Giunta della Provincia. Al tavolo sono presenti quasi tutti i ras del centrodestra locale e regionale. La discussione parte da un accordo raggiunto nei mesi precedenti: Fi ha già scelto i candidati a Cosenza, Vibo e Crotone, la Lega a Reggio, quindi la designazione per Catanzaro tocca a Fratelli d’Italia.
    Del resto, raccontano diversi osservatori, nei mesi scorsi – e almeno fino a un certo momento – la commissaria regionale Wanda Ferro aveva rivendicato per sé il ruolo di kingmaker della coalizione e, quindi, la facoltà di scegliere il profilo da proporre gli alleati.

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    Wanda Ferro

    Solo che, nell’interpartitica, la deputata meloniana inizialmente non avanza alcun nome, ma anzi la tira in lungo dicendo che «sarebbe auspicabile» un «candidato unitario», dal momento che finora «le prove muscolari hanno avuto esiti negativi per tutta la coalizione». La kingmaker dei tre colli, però, a un certo punto della riunione di nomi ne fa due, Rocco Mazza e Caterina Salerno. Non scaldano i cuori, ma la mossa è ben studiata, a parere degli analisti più attenti. Lo vedremo tra poco.

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    Filippo Mancuso

    Anche gli altri big fanno proposte, di quelle che ben si adattano al Sottosopra catanzarese. Il leghista Filippo Mancuso non va a sponsorizzare il nome di Baldo Esposito, formalmente esponente dell’Udc, con cui si è candidato alle ultime Regionali? Quanto al sindaco uscente, Sergio Abramo, fa pure lui la sua strana scelta: Marco Polimeni, esponente di Forza Italia. Tutto bene, se non fosse che lo stesso Abramo, giusto pochi mesi fa, ha abbandonato il partito di Berlusconi per entrare in quello di Toti e Brugnaro (forse per aumentare le sue chance di entrare a far parte della Giunta regionale di Roberto Occhiuto, che poi ha deciso diversamente).

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    Sergio Abramo

    Quindi Coraggio Italia sostiene Polimeni, che tuttavia è inviso a una parte del suo stesso partito. Tant’è che il responsabile provinciale di Fi, Mimmo Tallini, si fa portavoce della necessità di avviare una interlocuzione con Talerico, pochi mesi fa candidato al Consiglio regionale proprio sotto le insegne azzurre.
    Quindi Fi appoggia Talerico? Macché: il capo dei berlusconiani in Calabria, Giuseppe Mangialavori, stoppa le velleità dell’avvocato in quanto responsabile di una «fuga in avanti» che avrebbe messo in difficoltà il suo stesso partito.

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    Giuseppe Mangialavori e Silvio Berlusconi

    Il colpo di teatro

    In questa confusione spaventosa (altro che il Demogorgone della serie tv), il coup de théâtre è di Giovanni Merante, presente al vertice in quota Udc. Uno pensa: c’è Esposito in ballo, il suo partito indicherà lui. Quando mai. Agli alleati viene proposto il nome di Donato. Proprio lui, il candidato civico con la tessera del Pd in tasca. «Il professor Donato – queste le parole che vengono attribuite a Merante – potrebbe essere disponibile a ragionare con noi…».

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    Giovanni Merante

    Brusio, mugugni pensosi, caos. Qualcuno chiede: «Con i simboli di partito o senza?». Risposta: «Accetterebbe anche i simboli». Altri brusii, altre riflessioni, poi si mette di traverso Tallini, infine anche Mancuso. «Ma come – questo il ragionamento di entrambi –, governiamo in Regione e in città e non riusciamo nemmeno ad avanzare un nome nostro?».

    Wanda e l’avvocato

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    Mimmo Tallini

    Alle comprensibili obiezioni di Tallini e Mancuso, tuttavia, non si sarebbe aggiunta quella di Ferro, la kingmaker che dovrebbe avere l’ultima parola.
    Un esperto di (strane) cose catanzaresi spiega tutto così: «Non dimentichiamo che Donato è stato il legale di Wanda per il ricorso davanti alla Consulta che le ha permesso di rientrare in Consiglio regionale quando era ormai fuori dai giochi. Lei, da capo di Fdi in Calabria, non può proporre Donato perché perderebbe la faccia. Ma se si mette a fare nomi alternativi e credibili si inimica un amico a cui deve tanto. Quindi potrebbe aver deciso di favorire Donato in modo indiretto…».
    E il pensiero corre di nuovo a Merante e alla sua proposta choc, ma poi mica tanto. Lo abbiamo capito che nel sottosopra è tutto un po’ incasinato. E ora basta, ché la testa gira forte.

  • I padri so’ piezz’e core: dopo Pina, anche Luigi Incarnato nella squadra di Caruso

    I padri so’ piezz’e core: dopo Pina, anche Luigi Incarnato nella squadra di Caruso

    I padri so’ piezz’e core. Da Palazzo dei Bruzi arriva la nuova versione della celebre canzone di Mario Merola sui figli, protagonista un volto noto della politica locale: il socialista Luigi “Gigino” Incarnato. Tra i grandi sostenitori del vincitore delle ultime Amministrative, Franz Caruso, Incarnato aveva già messo piede nel Comune di Cosenza per interposta persona: sua figlia Giuseppina, eletta nella lista del Psi, è infatti uno degli assessori dell’attuale Giunta. Ora però anche suo padre avrà ufficialmente un ruolo nella nuova amministrazione di centrosinistra. Come riportato da Antonio Clausi sulle pagine di Cosenzachannel, Incarnato senior ha infatti ottenuto un incarico di collaborazione dal sindaco.

    Due Incarnato al fianco di Caruso

    Si occuperà, questa la formula, dell’espletamento di attività di supporto alla realizzazione delle linee programmatiche di governo. In estrema sintesi, farà il capo gabinetto, ruolo che il dissesto targato Mario Occhiuto ha lasciato giocoforza scoperto. Proprio le disastrate finanze municipali imporranno l’assenza di qualsiasi compenso per colui che i detrattori più maligni chiamano “Gigino ‘u gommista”. L’incarico per Incarnato sarà infatti a titolo gratuito (rimborsi esclusi), non per particolari ragioni etiche ma, più semplicemente, perché non potrebbe essere altrimenti. E, va detto, tra Franz e Gigino i rapporti sono ben più datati di quelli del primo con la figlia del secondo, vista la lunga comune militanza politica socialista.

    Un inedito

    Resta però la bizzarria di vedere il padre di un assessore fare da consulente a un altro membro – il più importante, tra l’altro – della Giunta. Non che nel passato in municipio parenti e amici degli amministratori non abbiano beneficiato dei loro rapporti (di sangue e non), ci mancherebbe. Ma quella di Luigi Incarnato nel suo genere, se la memoria non ci inganna, è una prima assoluta anche per Cosenza. D’altra parte i suoi successi come assessore regionale e commissario liquidatore della Sorical sono sotto gli occhi di tutti. E, visto che era libero, come rinunciare a un talento simile, per di più gratis?

     

  • Caos calmo nella gauche reggina: Falcomatà, i social e quel congresso… Irto d’ostacoli

    Caos calmo nella gauche reggina: Falcomatà, i social e quel congresso… Irto d’ostacoli

    Una condanna, ormai di circa tre mesi fa, che non ha sostanzialmente nulla sotto il profilo istituzionale. Un dibattito politico inesistente. L’ombra, tuttora alta, che le ultime elezioni comunali possano essere state viziate da brogli elettorali. Sfiducia dei cittadini crescente, con la conseguenza che persino un consiglio comunale aperto – espressione più alta della partecipazione – vada pressoché deserto, trasformandosi in una farsa. E il Pd che annaspa, nonostante il nuovo corso di Nicola Irto. Con il rischio dei “soliti noti” nei ruoli che contano.

    Tre mesi dopo

    Di tempi bui, Reggio Calabria ne ha vissuti tanti. Dalla guerra di ‘ndrangheta tra gli anni ’80 e ’90, quando a imporre il coprifuoco era la paura delle ‘ndrine e non le restrizioni per il Covid, agli anni del “Modello Reggio”, culminati con lo scioglimento del consiglio comunale per contiguità con la ‘ndrangheta.

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    L’ex presidente della Regione ed ex sindaco di Reggio, Giuseppe Scopelliti

    Quello attuale, invece, è certamente uno dei periodi più apatici della storia recente di una città che, solitamente, si è sempre divisa un po’ su tutto. Reggio Calabria è passata dalla centralità regionale, avuta negli anni di Giuseppe Scopelliti, a un ruolo sempre più marginale. Ma come si può avere un’importanza esterna se non si riesce nemmeno a discutere internamente? Ormai il reggino medio sembra aver perso anche la voglia di alzare le barricate. E per una popolazione che di quelle del “Boia chi molla” ha fatto il proprio vessillo è preoccupante.

    Il sindaco Giuseppe Falcomatà, infatti, è stato condannato ormai circa tre mesi fa per il cosiddetto “Caso Miramare”. Una decisione di primo grado che ha portato all’automatica sospensione del primo cittadino, in forza della Legge Severino. Da quel giorno, però, nulla sembra essere cambiato. Falcomatà ha deciso di non dimettersi. Ha piazzato, poche ore prima di essere condannato, un anonimo assessore alla carica di facente funzioni. Quel Paolo Brunetti che, in due mesi e mezzo, ha tirato a campare.

    Dov’è la politica?

    «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia», diceva Giulio Andreotti. Può darsi. Ma nella sindacatura, seppur da facente funzioni, di Brunetti non si ricorda al momento un provvedimento simbolo. Anzi no, uno sì. La chiusura delle scuole per il riacutizzarsi della pandemia da Covid-19. Brunetti è stato l’unico sindaco di una grande città calabrese a optare per questa scelta. Né Catanzaro, né Cosenza e nemmeno le più piccole Vibo Valentia e Crotone o Lamezia Terme avevano preso questa decisione. Brunetti è andato in controtendenza. Forse anche perché “imboccato” da uno dei tanti post pubblicati su Facebook dal sindaco sospeso, Falcomatà, che quasi invocava la chiusura degli istituti. Il risultato è che, dopo pochi giorni, il Tar, investito della questione da alcuni genitori, ha dato torto all’Amministrazione Comunale di Reggio Calabria, disponendo la riapertura delle scuole. Con il Comune che non ha nemmeno impugnato il provvedimento.

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    Giuseppe Falcomatà, sindaco di Reggio sospeso dopo la condanna per il caso “Miramare”

    Falcomatà ancora sindaco sui social

    L’impressione è che Brunetti sia lì a tentare di tener calda la poltrona di Falcomatà, in attesa che questi possa ritornare al proprio posto esaurita la sospensione. Il primo cittadino sospeso, peraltro, non ha quasi mai smesso di parlare da sindaco tramite i propri seguitissimi social. Ha visionato cantieri, ha, come detto, reso pubblica la propria posizione circa la gestione della pandemia. Recentemente ha anche stigmatizzato l’inciviltà di alcuni reggini che, continuamente, che insozzano il waterfront, una piazza o una scalinata. Ma, a proposito di decoro e civiltà, non ha inteso dimettersi dopo la condanna di primo grado. Né, ancor prima, per lo scandalo dei presunti brogli elettorali nel corso delle elezioni che lo hanno riconfermato primo cittadino.

    L’ombra dei brogli a Reggio Calabria

    Sì perché un po’ ovunque, tra il serio e il faceto, in città si parla della grave vicenda che ha portato Reggio Calabria sulle prime pagine di tutti i media nazionali. In riva allo Stretto, ha semplificato molta stampa, avrebbero “votato anche i morti”. Un’inchiesta ancora aperta. La Procura di Reggio Calabria non ha infatti ancora chiuso le indagini su quanto accaduto nel settembre 2020.
    Ma, al netto delle facili e ironiche narrazioni, da quanto fin qui emerso, sarebbe consolidato lo scenario di una macchina amministrativa che non solo non ha gli anticorpi per resistere a tali disfunzioni ma che, anzi, le avrebbe avallate. Eppure, a distanza di mesi dall’esplosione del caso, nulla è stato fatto.

    Il consiglio comunale aperto: una farsa

    Uno dei primi a sollevare la questione, fu il massmediologo Klaus Davi, da anni impegnato in città. Con la sua lista, Davi non entrò in consiglio comunale per una manciata di voti. E, fin da subito, segnalò una serie di presunte anomalie. Fu uno degli ultimi rantoli del dibattito politico cittadino. Poi, il nulla. Con la voglia dei cittadini di partecipare, di incidere sul processo democratico, ormai pari allo zero.

    Alcuni mesi fa un Comitato spontaneo – “Reggio non si broglia” – ha chiesto la celebrazione di un consiglio comunale aperto per discutere del caso. Una seduta che si è svolta, con ritardo siderale, solo alla fine del mese di gennaio. E che si è trasformata in una farsa. Appena 15 gli iscritti a parlare. E neanche un terzo a presentarsi effettivamente in aula. Un’occasione persa, in cui a intervenire sono stati (pochi) oppositori politici, con alcuni nostalgici dell’era Scopellitiana. E poi, la solita ridda di interventi – non troppo significativi – da parte dei consiglieri comunali.

    Il buco nero del consiglio comunale

    Proprio quell’aula che dovrebbe essere la massima espressione della democrazia cittadina è diventata, sostanzialmente, una mera passerella – neanche particolarmente interessante – per qualche istante di celebrità dei singoli consiglieri. Nel corso del consiglio comunale aperto, peraltro, la maggioranza ha bocciato la proposta dell’opposizione di istituire una commissione d’indagine sui brogli elettorali. Ma non è tutto.

    Proprio nelle ultime ore, i consiglieri comunali di centrodestra hanno denunciato lo stallo amministrativo in seno a Palazzo San Giorgio: «A tre mesi dalla condanna e successiva sospensione del sindaco Falcomatà e dei consiglieri comunali in carica, nessuna delle Commissioni consiliari permanenti è stata convocata nei tempi previsti dal regolamento e dallo statuto comunale per procedere alle surroghe e alle sostituzioni necessarie per garantire l’operatività», lamentano i gruppi consiliari di centrodestra. La convocazione dovrebbe avvenire entro 10 giorni dalla cessazione della carica in seguito alla sospensione. «L’impressione è che l’attuale maggioranza consideri le Commissioni consiliari permanenti solo come una concessione fatta alle opposizioni e non come un valido ed importante strumento di lavoro istituzionale»,  dicono ancora dal centrodestra.

    La Svolta?

    Dopo gli anni del “Modello Reggio” targato centrodestra e l’ignominia dello scioglimento per ‘ndrangheta e del successivo commissariamento, Falcomatà e il centrosinistra si erano proposti come l’antidoto per riportare la città a una situazione di normalità. Lo slogan dell’allora giovane candidato sindaco era “La Svolta”. Anche una delle liste a suo sostegno portava questo nome. Dopo otto anni di amministrazione ininterrotta, però, il centrosinistra e Falcomatà raccolgono i cocci.

    La città continua ad avere i problemi di sempre, se possibile anche riacutizzati: dall’emergenza rifiuti a quella idrica. Ma ciò che preoccupa maggiormente è l’assenza di un dibattito e di proposte culturali. Un vuoto, questo, figlio anche di quanto accaduto in questi anni. Non solo la condanna di primo grado del sindaco e di numerosi tra i suoi fedelissimi. Ma anche lo scandalo dei brogli, con l’arresto del consigliere comunale Antonino Castorina. Uomo forte del Pd fino al momento in cui finirà ai domiciliari. Castorina, infatti, non solo era capogruppo dei Democratici nel consiglio comunale, ma anche membro della Direzione Nazionale del Pd, con entrature molto importanti nella politica romana.

    Il Pd, Nicola Irto e i “soliti noti”

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    Nicola Irto, segretario regionale del Pd

    Già, il Pd. L’elezione, anzi, l’acclamazione del reggino Nicola Irto alla carica di segretario regionale del Partito Democratico aveva illuso qualcuno circa la possibilità di riportare la politica reggina al centro della scena. Ma il giovane ex presidente del Consiglio regionale ha probabilmente già imparato sulla propria pelle quanto possa essere lacerato il Pd reggino. Ancora in mano ai colonnelli di sempre: da Sebi Romeo al ripescato Nino De Gaetano.

    Per la scelta del segretario provinciale, infatti, si va di rinvio in rinvio. Con ogni capocorrente che prova a imporre la sua linea. Falcomatà sarebbe persino arrivato a proporre quel Giovanni Muraca condannato con lui nell’ambito del processo “Miramare”. Dal canto suo, Nicola Irto non riesce a venirne a capo e sembra essersi consegnato mani e piedi a un’altra vecchia conoscenza come Sebi Romeo, ras dei democrat fino al momento in cui verrà coinvolto in un’indagine per corruzione.

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    Sebi Romeo, ex capogruppo del Pd in consiglio regionale

    Nicola Irto e Sebi Romeo

    Proprio Sebi Romeo e Nicola Irto sarebbero i principali sponsor dell’avvocato Antonino Morabito, figlio dell’ex presidente della Provincia di Reggio Calabria, Pinone Morabito. Dovrebbe essere proprio lui il candidato unico per tentare di ritrovare unità. Una candidatura tirata fuori dal cilindro (Morabito non ha particolari esperienze di politica e partitiche) per arginare l’avanzata dell’ex consigliere regionale Giovanni Nucera, rientrato nel Pd dopo una lunga esperienza in Sel. Ma anche lui è invischiato in un’inchiesta sui rifiuti a Reggio Calabria.