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  • Ucraina e Russia: le comunità della Calabria tra paure e voglia di pace

    Ucraina e Russia: le comunità della Calabria tra paure e voglia di pace

    «Purtroppo sentiamo le bombe, perché qui siamo a circa 200 chilometri da Kiev». Padre Cirillo parla in maniera pacata, ma la voce tradisce l’emozione del testimone oculare di una grande tragedia: il primo atto militare su grande scala della Russia in territorio europeo dai tempi dell’invasione di Praga.

    Padre Cirillo è un testimone prezioso per più motivi. Innanzitutto, perché proviene da Vinnycja, una cittadina a sudovest dell’Ucraina, non troppo distante dal confine e quindi particolarmente interessata dai flussi dei profughi, che la attraversano come una fiumana incessante. Il video che vedete poche righe più su è girato dalla sua finestra, quello alla fine del paragrafo mostra come si passa la notte da quelle parti.

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    Padre Cirillo

    In seconda battuta, la testimonianza di padre Cirillo ha il valore dell’assoluta imparzialità del religioso, che mette da parte le questioni politiche e aspira soltanto alla pace.
    Infine, Padre Cirillo è una persona che vive a cavallo tra due paesi, l’Ucraina – dov’è nato e dove si trova da dicembre per assistere la madre ammalata – e l’Italia. Anzi, la Calabria, visto che il religioso fa parte dei minimi di San Francesco di Paola.

    Testimone dall’Ucraina

    Proprio grazie a questo ruolo, il padre minimo raccoglie le preoccupazioni dei suoi connazionali in Calabria e dei loro parenti rimasti in patria a subire o a fronteggiare l’invasione russa. Cerca di rassicurare tutti, con un racconto imparziale.
    «Le persone hanno iniziato ad andar via anche da qui, ora che sono iniziati i bombardamenti». Certo, la situazione non è paragonabile a quel che succede nei centri più grandi e nella capitale, ma ormai anche le province sono a rischio. «Molti passano la notte nei sotterranei e tutti facciamo i conti con le carenze nelle forniture idriche ed elettriche». E ancora: «Finora Vinnycja è stata risparmiata, ma non escludo che a breve potremmo subire anche noi l’occupazione militare». Con rischi che salirebbero alle stelle per tutti, specie se dalle operazioni “convenzionali” si dovesse passare alle tattiche, ben più sanguinose, della guerriglia.

    Il racconto di Inna

    Inna Stets vive a Cosenza da oltre dieci anni ed è una pittrice molto apprezzata. È originaria di Khmelnistkiy, una città turistica vicina a Vinnycja, dove ha lasciato la maggior parte dei suoi parenti. A partire dal fratello e dai nipoti.
    La sua testimonianza è meno imparziale di quella di padre Cirillo. Tuttavia, Inna non considera i russi dei nemici. Anzi: «Non sarebbe giusto far pagare a tutto il popolo russo le responsabilità della politica di Putin, perché loro sono vittime come noi». Sia nella loro madrepatria sia in Ucraina, dove la situazione “etnica” è più complessa di come la raccontano i nostri media e, soprattutto, di come filtra dalle propagande contrapposte. «Noi e i russi siamo popoli fratelli, perché ci sono molte famiglie miste: io stessa ho cugini di origine russa che parlano il russo normalmente e ho paura anche per loro».

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    Inna Stets

    Già: non si può mai sapere a quali conseguenze può portare la spirale dell’odio attivata «per semplici motivi di potere e di avidità». L’accusa a Putin («è un dittatore») è scontata. Molto meno la preoccupazione umanitaria per il popolo “fratello”: «Vedere tutti quei ragazzi mandati a combattere, e a morire, nel mio paese mi ha stretto il cuore. Ognuno di loro ha delle madri, delle mogli, dei figli che tremano per loro e forse li piangeranno come in molti facciamo per i nostri». E i calabresi? «Ho avvertito molta solidarietà e vicinanza dai cosentini, che fanno il possibile per aiutare la nostra comunità in questo momento difficile».
    Più particolare il rapporto coi russi che vivono a Cosenza: «Ho varie amiche russe, con le quali non ho mai avuto motivi di lite. Ma ora registro il loro silenzio e la loro assenza: alla manifestazione per la pace che si è svolta a Cosenza non ne ho vista nessuna».

    Russia e Ucraina, due comunità a confronto

    Quella ucraina è la comunità di stranieri residenti dell’Est europeo più numerosa, in Calabria. In tutto, sono 5.720, con una maggioranza schiacciante di donne (4.304). La concentrazione maggiore è nella provincia di Cosenza, dove le donne sono 1.349 e gli uomini 435.
    Decisamente minore la comunità russa, che conta 1.017 residenti in tutta la regione, con un rapporto tra donne e uomini ancora più sbilanciato: 852 contro 165. A Cosenza sono 468 (389 donne e 79 uomini).
    I loro riferimenti in città sono innanzitutto religiosi: gli ucraini si ritrovano attorno alla chiesa di San Nicola, dove seguono le funzioni religiose prevalentemente in rito greco bizantino; i russi, invece, nella chiesetta vicina a Loreto, dove seguono la liturgia ortodossa.

    Katia e il nazionalismo

    Katia Nykolyn, originaria di Leopoli, è tra le animatrici di un gruppo di attivisti che, in collaborazione con la Caritas Migrantes e con la Croce Rossa, raccoglie beni di prima necessità, medicine e soldi da inviare ai familiari rimasti in patria.
    L’ultima spedizione è stata piuttosto importante: oltre trenta pacchi, più 1.200 euro, raccolti tra connazionali ma soprattutto tra i cosentini. «Ho ricevuto tantissime telefonate dai calabresi, che sono riusciti a commuovermi». Ma la solidarietà non riesce a calmare la preoccupazione: «A Leopoli ci sono mio figlio Bogdan, mia nuora e la mia nipotina di sei anni». Nei confronti dei russi Katia esprime perplessità analoghe a quelle di Inna: «Ho varie amiche russe, ma sono letteralmente sparite da quando è iniziata la guerra».

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    Katya Nikolin

    Anche Katia non polemizza contro il popolo “fratello” ma limita i suoi strali a Putin e al suo establishment: «Hanno lanciato un seme di odio tra due popoli che vogliono solo stare in pace e hanno creato divisioni che non avevano più motivo». Katia, inoltre, racconta le emozioni contrastanti – ed estreme – dei suoi compatrioti: «Il popolo è pronto a difendersi anche a mani nude». E su queste emozioni pesa non poco la memoria sovietica: «Nell’Urss eravamo un popolo di serie b, la nostra lingua non aveva un valore e le nostre tradizioni erano represse». Ora, si chiede Katia, «è nazionalismo voler praticare le nostre tradizioni e parlare la nostra lingua in casa propria, senza controlli e censure? O dobbiamo chiedere il permesso al signor Putin?».

    La parola ai russi

    Tuttavia, non è corretto dire che i russi tacciono o, come sospettano gli ucraini, sotto sotto sono putiniani. Più semplicemente, non parlano di politica, forse perché temono che le critiche rivolte alo zar Vladimir si ritorcano contro di loro.
    Non parla di politica ma si limita a invocare la pace, Elena Semina, presidente di un’associazione molto attiva nel periodo pre pandemia nella promozione della cultura russa.

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    Elena Semina

    «Ricordo con molta nostalgia le iniziative che abbiamo promosso, a cui hanno partecipato molti italiani e molti amici dell’est Europa, ucraini compresi».
    Ora, invece «siamo piombati in un clima surreale di sofferenze e di odi. Ma la guerra non ha vincitori né vinti, solo vittime». Elena non fa il tifo per nessuno ma spera che «si arrivi a una soluzione che riporti pace e dignità a tutti».
    Un obiettivo minimo, che forse adesso sembra utopico.

    Un inquietante last minute

    La situazione resta fluida, sebbene i primi negoziati lascino intravedere qualche spiraglio. Logico, allora, cercare di saperne di più. Ma gli ulteriori tentativi di contatto con padre Cirillo in Ucraina sono inutili: «Non posso parlare, scusami, c’è la censura militare».
    Quanto dobbiamo preoccuparci?

  • Fratelli d’Italia, meno di Calabria: la decrescita infelice dei meloniani

    Fratelli d’Italia, meno di Calabria: la decrescita infelice dei meloniani

    Fratelli d’Italia è il primo partito d’Italia o il secondo, dipende dai giorni e dai sondaggi. Le rilevazioni più recenti lo danno attorno al 20%, dietro al Pd di circa un punto percentuale. Il dato consolidato è un altro: alla creatura di Giorgia Meloni è definitivamente riuscito il sorpasso sulla Lega (17%), in calo costante dopo la decisione di Matteo Salvini di entrare nel Governo di salvezza nazionale di Mario Draghi.

    Ma se Fdi è ormai il partito guida del centrodestra – con la sua leader che sogna di diventare premier –, in Calabria arranca vistosamente, al punto di essere una sorta di junior partner non solo del Carroccio, ma soprattutto di una Forza Italia che, pur viaggiando intorno all’8% in Italia, tra il Pollino e lo Stretto sembra rivivere i fasti del 1994.

    Fratelli d’Italia cresce ovunque, tranne in Calabria

    L’exploit del partito berlusconiano, capace, assieme alla lista satellite “Forza azzurri”, di sfiorare il 26% alle ultime elezioni regionali e di esprimere gli ultimi due presidenti di Regione, Jole Santelli e Roberto Occhiuto, è un’anomalia che si può spiegare con la propensione della Calabria ad andare sempre in direzione ostinata e contraria.
    Tendenza che vale anche per Fratelli d’Italia.

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    Wanda Ferro, leader di FdI in Calabria, deve indicare alla coalizione di centrodestra il candidato a sindaco di Catanzaro

    Ancora una volta, a parlare sono i dati: lo scorso ottobre, i fratellisti, con l’8,7% delle preferenze, sono sì riusciti ad arrivare secondi dietro Fi e a staccare, seppur di uno zero virgola, la Lega, ma hanno perso due punti percentuali rispetto alle Regionali del 2020. Insomma, quello di Meloni è un partito che in Calabria, a differenza di quanto succede nel Paese, sta decrescendo. I motivi principali potrebbero essere due: un voluto disinteresse frammisto a una mania del controllo da parte dei vertici romani e un’organizzazione abbastanza approssimativa del partito regionale.

    Le inchieste e il disamore di Giorgia Meloni

    In ambienti di centrodestra si dice che il probabile disamore verso la Calabria di Giorgia Meloni potrebbe essere iniziato tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, quando due distinte operazioni antindrangheta finiscono per coinvolgere personaggi di primo piano del partito.
    Prima tocca a Giancarlo Pittelli, inizialmente arrestato con l’accusa associazione mafiosa nell’ambito dell’inchiesta Rinascita Scott della Dda di Catanzaro. L’imbarazzo della leader di Fdi è enorme perché, nelle ore successive alla mega operazione, esce fuori un suo tweet del 2017 in cui dava il benvenuto nel partito all’ex parlamentare, definito «un valore aggiunto per la Calabria e per tutta l’Italia».

    Nemmeno il tempo di riprendersi dalla botta mediatica-giudiziaria, che un’altra tempesta si abbatte su Fdi, stavolta nel Reggino: un mese dopo le elezioni del 2020, viene spedito ai domiciliari il neo consigliere regionale Domenico Creazzo, accusato di aver ottenuto i voti della cosca Alvaro di Sinopoli. Per Meloni è un’altra batosta che rischia di offuscare l’immagine di un partito che in quel momento ha preso l’abbrivio tanto ricercato; una pubblicità pessima e per di più evitabile, dato che l’allora sindaco di Sant’Eufemia d’Aspromonte era transitato in Fdi da poche settimane, dopo essere stato per molto tempo un esponente del Pd.

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    Domenico Creazzo

    Raccontano che, dopo i due arresti eccellenti, l’ex ministro dei governi Berlusconi non abbia più guardato questa regione con gli stessi occhi. E che ne abbia in qualche modo preso le distanze, disponendo al contempo un controllo ferreo sull’intero gruppo calabrese per evitare altri guai o imbarazzi.

    Fratelli d’Italia sotto la tutela di Wandissima

    Tant’è che il partito ancora oggi si trova sotto la tutela della commissaria Wanda Ferro, la persona di maggior fiducia di Meloni a queste latitudini. I risultati, in termini politici ed elettorali, sono però tutt’altro che entusiasmanti, perché al disallineamento dei dati calabresi si aggiungono pure i problemi di autorevolezza di una forza politica che non sembra avere un ruolo attivo nei processi decisionali, in Regione come nelle altre realtà locali. «Inutile negarlo, abbiamo un peso politico minimo se confrontato non solo con quello di Fi, ma anche in relazione alla Lega, che è arrivata terza ma ha strappato posti di comando più prestigiosi dei nostri», confessa un colonnello del Cosentino.

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    Giorgia Meloni e Wanda Ferro

    Il riferimento è al manuale Cencelli usato da Occhiuto per Giunta e Consiglio regionale. Saltato il ticket con Nino Spirlì, a cui sarebbe dovuta andare la vicepresidenza, Salvini ha comunque guadagnato la seconda carica regionale, cioè la presidenza del Consiglio, andata a Filippo Mancuso. A Fratelli d’Italia sono invece toccati solo due assessorati: uno, rilevante, a Fausto Orsomarso (Turismo, marketing e Mobilità), l’altro, decisamente meno ambito, a Filippo Pietropaolo (Organizzazione della burocrazia regionale). Un assessorato, quest’ultimo, «che poteva avere un valore nella Calabria degli anni ’80, non certo ora», riflette un dirigente del Catanzarese, uno di quelli – e sarebbero tanti – che in provincia non hanno affatto gradito la scelta di Ferro.

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    Filippo Pietropaolo, neo assessore regionale nonostante la sconfitta elettorale

    Il caso Pietropaolo

    Pietropaolo, candidato nella circoscrizione Centro, ha infatti fallito l’appuntamento elettorale (4.498 voti), surclassato da Antonio Montuoro (5.241), ma è comunque riuscito a entrare in Giunta, grazie proprio alla spinta decisiva della commissaria regionale. Una mossa che ha scosso e indignato buona parte del partito. «Da noi i dirigenti premiati dagli elettori devono farsi da parte per permettere a Wanda di continuare a dettare legge», spiega con un filo di rancore un esponente di primo piano dei meloniani.

    Tra i delusi non c’è solo Montuoro. Ferro non ha tenuto in considerazione nemmeno le performance elettorali di Luciana De Francescoerede politica della famiglia Morrone – e di Peppe Neri. Entrambi si sono dovuti accontentare di ruoli di secondo piano: rispettivamente, la presidenza della commissione Affari istituzionali e la guida del gruppo in assemblea.

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    Luciana De Francesco

    La delusione di Neri

    Tra i due consiglieri, è soprattutto Neri a masticare amaro, considerato che, nelle ultime due elezioni, ha fatto il pieno di voti senza mai essere indicato per un posto nell’esecutivo. Segno che il suo peso politico, all’interno del partito, è pari allo zero. Secondo i bene informati, il capogruppo reggino – che ha un passato nel centrosinistra di Oliverio e che viene ancora percepito da molti fratellisti come un corpo estraneo – sarebbe stato in corsa fino all’ultimo per la poltrona più alta dell’assemblea regionale, prima di essere affondato dal fuoco amico, cioè dal «no» perentorio dei vertici di Fdi, per la gioia di Mancuso e di un partito alleato ma pur sempre avversario.

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    Giuseppe Neri

    Così come Orsomarso, a caccia di una rivincita dopo aver mancato di un soffio l’elezione alla Camera nel 2018, anche Neri potrebbe tentare il salto in Parlamento alle prossime Politiche. Ma con ogni probabilità dovrà fare i conti con Ferro, una commissaria che non pare troppo amata dai suoi colonnelli. Questi malumori generalizzati sarebbero stati comunicati da tempo a Roma, ma né Meloni né il responsabile dell’organizzazione interna, Giovanni Donzelli, sembrano intenzionati, almeno per il momento, a sostituire la Wandissima calabrese. I problemi interni, però, restano e potrebbero esplodere nei prossimi appuntamenti elettorali.

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    Fausto Orsomarso contava di raggiungere Giorgia Meloni in Parlamento

    La kingmaker senza nomi

    L’operato di Ferro non sta entusiasmando neppure a Catanzaro. La commissaria ha rivendicato da tempo il ruolo di kingmaker nella scelta del prossimo candidato sindaco, che da accordi nel centrodestra spetta proprio a Fdi; eppure, dopo un’attesa di mesi, gli alleati aspettano ancora che faccia un nome. Ad approfittare di questa esitazione è stata ancora una volta Fi, per cui è da tempo schierato il giovane Marco Polimeni.

    Lo stesso Mancuso, nel corso dell’ultimo vertice del centrodestra, è stato indicato in modo compatto come candidato sindaco, ma ha infine declinato l’offerta anche perché la sua eventuale elezione rimetterebbe in discussione gli attuali assetti istituzionali in Regione.

    Filippo Mancuso (Lega) è il presidente del Consiglio regionale della Calabria

    Ferro, dal canto suo, ha avuto il suo bel da fare per allontanare da sé più di un sospetto. Diversi esponenti del centrodestra catanzarese sono convinti che la deputata meloniana lavori sottotraccia per il suo avvocato, quel Valerio Donato iscritto al Pd e candidato sindaco alla testa di un costruendo polo civico.

    «Fdi – ammette un quadro del partito – è alle prese con molte fibrillazioni interne che ne limitano la crescita. Ecco perché non andiamo bene come nel resto del Paese. Questa crisi può rientrare, a patto che si cambi rotta al più presto».
    Chissà cosa ne pensa Wanda.

  • Verdi colline di rifiuti in attesa di bonifica a Scalea

    Verdi colline di rifiuti in attesa di bonifica a Scalea

    Al di là delle polemiche, dei blitz ambientalisti, delle risposte da parte del sindaco, il problema della discarica di Scalea esiste e pesa quanto un macigno. E’ inutile nasconderselo, il sito della discarica a Piano dell’Acqua andava bonificato e da anni.  Invece è rimasto lì come se non esistesse. Il blitz di Carlo Tansi, geologo e presidente di Tesoro Calabria, assieme agli ambientalisti del Tirreno, una settimana fa ha riportato a galla la questione.

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    Il geologo Carlo Tansi, leader del movimento “Tesoro di Calabria”

    La Procura chiude la discarica

    Era il 2013 quando la Procura di Paola chiuse la discarica. Tutti i rifiuti esistenti vennero raggruppati con ruspe e sepolti da tonnellate di terreno costituendo così delle verdi collinette oltre che finire in profonde buche. Cosa c’è in quelle collinette di Scalea forse non lo sapremo mai. Intanto quella discarica non doveva essere costruita in quel luogo al centro di tanti villaggi turistici. Si trova a poche centinaia di metri dall’ospedale, ora sede del Sert e di alcuni uffici dell’Asl e adiacente a diversi terreni ad uso agricolo.

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    La strada che conduce alla discarica ormai chiusa di Scalea

    Lo scempio ambientale a Scalea

    Un sito che sovrasta la cittadina tirrenica e sorvolato ancora oggi da centinaia di gabbiani in cerca di cibo. Dove passano falde acquifere e partivano ruscelli di percolato che raggiungevano le spiagge davanti alla Torre Talao. Uno scempio ambientale sotto tutti i punti vista, non valutato da chi ha dato le concessioni alla fine degli anni 90. Poi, agli inizi degli anni 2000 ecco fioccare le prime denunce da parte degli ambientalisti e le proteste di commercianti e cittadini sfociate in una manifestazione che ha sfilato per le vie di Scalea.

    Nel 2013 la chiusura definitiva, senza che nessuno ne pagasse le conseguenze. Un omicidio ambientale senza colpevoli. Poi ecco l’arrivo da parte della Regione Calabria di un finanziamento per la bonifica di circa 3 milioni di euro. L’attuale sindaco Perrotta dice di volerlo utilizzare al più presto.

    I siti pericolosi e le bonifiche mancate

    Resta aperta in tutto il Tirreno cosentino così come nel resto della regione la questione delle bonifiche mancate. Il piano regionale delle bonifiche risale al 2002 ( ordinanza del commissario n.1771 del 26.02.2002) e come riportato da un successivo piano in Calabria esistono 48 siti che necessitano di una bonifica; 20 ricadono in provincia di Cosenza, 2 ricadono in provincia di Crotone, 5 ricadono in provincia di Catanzaro, 5 ricadono in provincia di Vibo Valentia e 16 ricadono in provincia di Reggio Calabria.

    Ma molti altri siti non ricadono in questo elenco. Nei 409 comuni calabresi vennero censiti 696 siti di discarica potenzialmente contaminati da rifiuti, dei quali 354 attivati con autorizzazione regionale o ai sensi del DPR 915/1982 e i restanti 342 in assenza di autorizzazione. Secondo la classificazione del rischio relativo, i siti potenzialmente contaminati sono stati così suddivisi: 73 siti a rischio marginale, 262 a rischio basso, 261 a rischio medio e 40 ad alto rischio.

    Oltre 5 milioni dal Pnrr per le bonifiche

    Forse per avere un piano completo dei siti contaminati aggiornato e delle bonifiche da fare, (ma chi lo farà se manca la figura dell’assessore all’Ambiente all’interno della giunta regionale?), bisognerà attendere l’arrivo del fondi del Pnrr, fra i quali dovrebbero esserci 5.443.128 euro espressamente per le bonifiche di alcune superfici. Lo chiarisce il deputato calabrese del Movimento 5 Stelle Alessandro Melicchio, che indica anche le aree che saranno interessate dal processo di bonifica.

    «Sono previsti – ha detto – interventi a Celico per l’ex discarica di località Tufiero e a Buonvicino per l’ex discarica di località Fossato, in provincia di Catanzaro a Lamezia Terme in località Scordovillo e nella città metropolitana di Reggio Calabria a Siderno presso la Fiumara Novito». Intanto i cittadini si chiedono quanto tempo si dovrà attendere per le altre bonifiche.

    Terreni e fiumi inquinati

    Altra situazione da monitorare con attenzione è quella del fiume Noce a Tortora inquinato dall’impianto di san Sago. Qui sono stati accertati dai carabinieri importanti sversamenti  di percolato. Ciò nonostante è in corso, da parte dei gestori dell’impianto, presso la Regione Calabria una richiesta per la riapertura dell’impianto.

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    L”ingresso della fabbrica della Marlane

    Un sito altamente inquinato è il fiume Oliva ad Amantea. Qui sono stati sotterrati dagli anni 90 in poi oltre 100 mila metri cubi di rifiuti di ogni tipo. Nessuno dimentica l’oscura vicenda della Motonave Jolly Rosso spiaggiata nei pressi della sua foce nel lontano 1990. Infine restano i terreni della Marlane a Praia a Mare, che rischiano di essere “tombati” se venisse approvato il progetto di una grande struttura alberghiera, con annesso centro commerciale.

    Non mancano testimonianze rispetto a quanto avvenuto nel sito della Marlane. Come quella di Francesco De Palma, poi morto di tumore. La sua posizione, così come quella di altri lavoratori, non è mai stata presa in considerazione nei processi a Paola e a Catanzaro sui 110 operai morti in quella fabbrica. A Paola i 12 imputati vennero tutti assolti. Oggi è in corso un nuovo processo dopo i recenti rilievi su quei terreni.

     

     

     

  • Quer pasticciaccio brutto di via Roma

    Quer pasticciaccio brutto di via Roma

    Comunque vada a finire, dello scontro sulla riapertura di via Roma in Misasi a Cosenza la vera vittima, più che bambini, residenti o commercianti, rischia di essere il senso del ridicolo. Resteranno agli annali i dettagli più coloriti, a partire da quelli – colorati – dei cartelli affissi alle recinzioni del cantiere dai soldatini in trincea per difendersi dal ritorno dalle auto promesso da Franz Caruso già in campagna elettorale. Quei «Sindaco pelato», la versione petalosa (pelatosa?) del più goliardico nomignolo Cap’i lampadina toccato in sorte a un suo recente predecessore in altri tempi, e qualche parolaccia extra – in cui si avverte l’improvvido zampino di qualche meno maturo ma più adulto suggeritore – sarebbero da liquidare con un sorriso.

    Scontri di piazzetta a via Roma

    Certo, i bambini le parolacce è meglio le evitino finché possono. Ma da qui ai comunicati ufficiali di qualche consigliere comunale per censurare l’episodio ce ne corre. Eppure è successo. Così come è successo che il sindaco socialista e di vedute storicamente ampie quanto la sua calvizie abbia chiesto la rimozione del dirigente scolastico Massimo Ciglio, reo di aver profanato il cantiere ancora inattivo per una simbolica difesa della piazzetta della discordia.

    Massimo Ciglio, megafono in mano, all’interno del cantiere

    La piega presa dalla disfida tra il preside barricadero, volto storico della sinistra cosentina, e il primo cittadino ricorda un po’ la Prima repubblica. Solo che i comunisti che mangiavano i bambini ora li vogliono addirittura far correre in libertà indurendone la carne. Mentre i socialisti, gaudenti per antonomasia della gauche italiana di un tempo, oppongono al divertimento il ritorno di un più austero cemento. Grande è la confusione sotto il cielo.

    Lo scivolone di Caruso

    Sorgerà il sol dell’avvenire riaprendo quei pochi metri di via Roma o tramonterà? O, ancora, forse le nuvole che lo hanno sempre coperto resteranno i bipartisan genitori fraccomodi che nel trafficatissimo orario di uscita delle scuole si piazzano beati in terza fila pur di evitare quattro passi in più con i diletti pargoli? Giusto nel frattempo lamentarsi dello scivolone di Caruso, come hanno fatto i docenti della scuola solidali col dirigente e molti cittadini che magari lo hanno pure votato perché via Roma la vorrebbero riaperta. O perché erano stufi delle accuse di lesa maestà con cui Palazzo dei Bruzi ha respinto negli scorsi dieci anni ogni critica e si sperava divenissero un ricordo.

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    Il sindaco di Cosenza, Franz Caruso (foto A. Bombini) – I Calabresi

    A gongolare probabilmente è proprio il sindaco uscente Mario Occhiuto, artefice della piazzetta, che, dopo aver incassato nei giorni scorsi l’assoluzione da un corposo danno erariale attribuitogli, ora si starà godendo gli avversari di un tempo che prendono le parti di una sua creatura. E con una passione che negli anni scorsi non si è vista nell’invocare il ripristino dell’agibilità nella palestra della stessa scuola ribelle.

    Con quello forse, non ci sarebbero state le polemiche sulla piazza (o la piazza stessa), quelle sul perché non ne abbiano fatte altrettante davanti alle scuole di quartieri meno nobili, le gonfiatissime rappresentazioni del neonato spazio come un irrinunciabile paradiso pedonale dei piccoli eternamente gremito, il contraltare anacronistico degli adoratori tout court della dea Automobile.

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    Auto incolonnate in prossimità delle scuole su via Misasi

    Le critiche da opposizione e… opposizione

    Gongola pure l’opposizione ufficiale, che finora non aveva brillato per vigore e ha trovato una bella onda da cavalcare con facilità. E dispensa battutine al vetriolo qua e là anche quella dell’ultima ora (?): Bianca Rende, dopo essere stata in maggioranza solo nel relativo gruppo WhatsApp dalle elezioni ad oggi, è ormai ufficialmente in rotta col vincitore del ballottaggio che lei stessa aveva supportato in quella occasione.

    Logica vorrebbe che lo fosse anche con il M5S. Che la voleva sindaca al primo turno, eppure si tiene la sua casella nella giunta Caruso come se l’addio della leader di coalizione non lo riguardasse neanche di striscio. Anche qui c’entra Roma forse, anche se non la via. Ma fa sorridere altrettanto.

  • Stampa e Calabria: la libertà va difesa ogni giorno

    Stampa e Calabria: la libertà va difesa ogni giorno

    Si sono aggiunti tanti sostenitori alla denuncia contro l’attacco alla stampa libera che ieri I Calabresi e numerose altre testate della nostra regione hanno pubblicato. Ma non può bastare. Le adesioni delle associazioni di categoria e di numerosi politici al nostro appello contro l’abuso di querele temerarie non erano scontate come potrebbe sembrare. Neanche quelle dei lettori comuni, in un mondo che dei giornali ha un’opinione sempre più in declino. Fanno piacere, spingono ad andare avanti con ancora più impegno, ma non cancellano il retrogusto amaro del silenzio prolungato su un tema così importante che opprime la Calabria.

    Già, la Calabria, non solo i giornalisti. Perché la posta in gioco non è la tranquillità soggettiva del giornalista sotto la perenne spada di Damocle delle querele temerarie. Quella si può ottenere senza troppi problemi, volendo. Basta non scrivere cose scomode, annacquarle fino a renderle irrilevanti agli occhi del lettore. Qualcuno lo ha già fatto o ha preferito cambiare mestiere. Tanti altri, in tutti i giornali calabresi, continuano a rifiutarsi. Perché? Perché un’informazione irrilevante, prona agli interessi di poteri più o meno occulti, poco diffusa sarebbe il colpo di grazia per la Calabria. Per la sua società civile. Per la voglia dei suoi abitanti di essere parte attiva e pensante di una crescita improcrastinabile che passi dal raddrizzare le tante storture e valorizzare l’immenso patrimonio, umano e non, di questa terra.

    Ed è un problema enorme per tutti quando a vacillare è un diritto costituzionale come la libertà di stampa. Anche di quelli per cui la stampa libera è buona solo quando parla bene di loro o di chi e cosa gli piace, paladini pronti a trasformarsi in persecutori al primo articolo sgradito. Sgradito, si badi, non diffamatorio. Chiunque – i giornalisti sono i primi a saperlo e assumersene le responsabilità – può chiedere giustizia per un articolo sul suo conto se ritiene lo abbia offeso. Ma spetta ai magistrati valutare la fondatezza, la proporzione di certe richieste e lamentele. Se esse siano degne di sfociare in un processo o meno. Se, peggio, risultino invece malcelati tentativi di intimidazione. Spesso certi aspetti, niente affatto marginali, non godono della necessaria attenzione da parte della magistratura.

    È necessario dirlo, qui a sbagliare possono essere in tanti: i giornalisti quando non lavorano come dovrebbero; gli editori quando non tutelano i loro dipendenti; i politici, le associazioni e gli imprenditori quando difendono la libertà di stampa a seconda del momento; i magistrati quando costringono per leggerezza qualcuno a difendersi solo per aver fatto correttamente il proprio lavoro. A perderci, però, sono ancora di più: tutti i cittadini, privati di un fondamento della democrazia come l’informazione libera.
    E una situazione simile, diffusa in tutto il Paese, in Calabria crea ancora più danni. Non possiamo permettere che diventino irreversibili.

  • La fuga dei fascisti: la rete al femminile tra Calabria e alte sfere del Vaticano

    La fuga dei fascisti: la rete al femminile tra Calabria e alte sfere del Vaticano

    Non è un romanzo né un film, sebbene la vicenda abbia tutti i crismi della spy story. Anche l’Italia ebbe un’organizzazione simile a Odessa e Der Spinne, che mirava a proteggere i fascisti in fuga alla fine della guerra.
    A differenza delle due strutture tedesche, l’associazione italiana non fu completamente segreta né ebbe caratteri illegali o, peggio, criminali.
    Ma ebbe comunque le sue peculiarità: fu un gruppo essenzialmente femminile (e, per i parametri dell’epoca, anche “femminista”) ed ebbe la sua base vera in quella Calabria che, dopo la caduta del regime, si riscopriva “rossa” e in cui i contadini, appoggiati dalle forze di sinistra, iniziavano le prime, importanti mobilitazioni.

    Il Movimento italiano femminile, così si chiamava questa struttura, fondato dalla principessa Maria Pignatelli nell’autunno del ’46, ebbe anche il singolare primato di essere la prima organizzazione neofascista legale del Paese, perché precedette di poco la nascita ufficiale del Msi (che si costituì il 26 dicembre 1946).

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    La principessa Maria Pignatelli

    La strana fuga

    È l’estate del 1945. La principessa Pignatelli è prigioniera nel campo di concentramento britannico di Riccione. In città c’è Puccio Pucci, un reduce di Salò collegato a Pino Romualdi e ad Arturo Michelini, che nello stesso periodo si trovano a Roma e cercano di radunare tutti i fascisti sbandati attorno a un progetto politico.
    Pucci non è lì per caso. Deve recuperare la principessa che progetta l’evasione dal campo. Il piano riesce: grazie all’aiuto delle suore di Cesena, che fanno le ausiliarie del carcere alleato. Le religiose nascondono la principessa nel furgone della biancheria e la fanno arrivare a Roma. Qui trova rifugio in Vaticano, presso monsignor Silverio Mattei, prelato della Sacra congregazione dei riti.
    Proprio a casa di Mattei la Pignatelli inizia a tessere la trama con cui costituirà il suo movimento di assistenza ai fascisti, grazie senz’altro alla sua formidabile rete di contatti con l’aristocrazia romana e con molti esponenti dell’ex regime. Ma soprattutto grazie all’aiuto delle autorità vaticane.

    Un personaggio particolare

    La fuga a Roma, dove si erano rifugiati moltissimi fascisti in fuga dal Nord, mette la parola fine a due anni di prigionia per la principessa.
    Tutto era iniziato nella primavera del ’44, quando donna Maria riuscì in un’impresa spericolatissima. Varcò il confine di guerra, all’epoca poco sotto Roma, incontrò il feldmaresciallo Kesserling, a cui riferì notizie sensibili sulle strutture strategiche alleate. Poi andò a Gargnano sul Garda, dove incontrò Mussolini e Francesco Maria Barracu, ex federale di Catanzaro e in quel momento sottosegretario della Repubblica Sociale Italiana.
    Stando alle dichiarazioni della principessa e a varie testimonianze storiche, Mussolini in persona ordinò alla nobildonna di creare il Mif.
    L’ordine non fu dato per caso, perché la principessa Pignatelli sembrava la persona adatta allo scopo.
    Fiorentina di origine e figlia dell’ammiraglio Giovanni Emanuele Elia, donna Maria aveva sposato in prime nozze il marchese Giuseppe de Seta, aristocratico siciliano col vizio del gioco. Da lui ebbe quattro figli, tra cui Vittorio de Seta, che sarebbe diventato un importante regista del filone neorealista.

    Michele Bianchi e la principessa Pignatelli

    Sposa del principe Pignatelli di Cerchiara

    Ma il matrimonio durò poco. Subito dopo la separazione, la marchesa de Seta si legò a Michele Bianchi, di cui fu amante. Poi, nel ’42, subito dopo la morte del marito, sposò il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara.
    Il loro fu un legame forte, in cui sentimenti e passione politica costituirono un mix micidiale vissuto con una certa incoscienza. Anche Valerio, un fascista irrequieto con una carriera militare alle spalle, era legatissimo a Mussolini, per conto del quale aveva creato, alla fine del ’43, la Guardia ai labari, un’organizzazione clandestina ramificata tra la Calabria e Napoli.
    L’organizzazione fu scoperta e smantellata dai carabinieri nell’estate del ’44. Qualche mese prima, la polizia militare britannica aveva scoperto il viaggio della principessa oltre confine e arrestò i Pignatelli.
    Per Valerio e Maria iniziarono la galera e i guai giudiziari. I due, condannati a 12 anni di carcere a testa per spionaggio, furono detenuti assieme nel campo di concentramento di Padula per alcuni mesi. Poi la principessa fu trasferita dapprima a Terni e, da lì, a Riccione.

    Giornale d’epoca sul processo agli 88 di Catanzaro

    Intrighi internazionali

    Il Movimento italiano femminile disponeva di due carte vincenti: una struttura diffusa su tutto il territorio nazionale e l’appoggio della Chiesa, grazie al quale la principessa organizzò, quando ancora era latitante in Vaticano, l’espatrio di oltre 15mila fascisti in fuga verso l’Argentina di Juan Domingo Peron.
    Come rivela l’inchiesta di Giorgio Agosti, all’epoca questore di Torino, gli espatri furono coperti dai francescani di Genova, che radunavano i fuggiaschi e procuravano loro i passaporti per lasciare l’Italia. Assieme ai fascisti sbandati, per molti dei quali era diventato pericoloso restare in Italia, scapparono in Sud America non pochi ustascia croati, per i quali restare in Italia significava il rimpatrio e la morte certa.

    Ma perché proprio l’Argentina e, soprattutto, quale fu il ruolo della Pignatelli? La prima risposta è semplice: la comunità italiana di Buenos Aires era filofascista e, grazie a Peron, era diventata molto influente nelle scelte politiche del Paese latinoamericano. Più nello specifico, Valerio Pignatelli aveva un forte legame personale con il presidente argentino. Questo legame, di cui si avvantaggiò il Mif, fu ribadito in un incontro riservato tra la principessa, le dirigenti del suo movimento ed Evita Peron, che si svolse a Roma nel ’47. Il Mif, inoltre, si occupò anche della raccolta dei finanziamenti inviati dagli italiani d’Argentina per aiutare la nascita del Msi.

    Evita Peron

    Cose di Calabria

    Nell’estate del ’46 la situazione cambia. Grazie all’amnistia di Togliatti, donna Maria abbandona la latitanza e Valerio lascia il campo di Padula.
    I due tornano in Calabria, per la precisione a Sellia Marina. E proprio da lì la principessa inizia a gestire il Mif. Soprattutto, inizia a usare la Calabria come rifugio per fascisti.
    La vicenda, a questo punto, assume tratti pittoreschi, che emergono dalle lettere che la principessa indirizza alle dirigenti calabresi del Mif o ai leader del Msi. Donna Maria non parla mai di “fascisti” o di “latitanti”, ma si esprime in gergo: a seconda della gravità dei casi, parla di “disoccupati”, di “malati che devono cambiare aria”, di “falegnami”, “carpentieri” e via discorrendo.

    La casa in Sila per il fratello di Junio Valerio Borghese

    In un caso, il riferimento è esplicito, quando la principessa chiede aiuto a Luigi Filosa (foto in basso a destra), dirigente del Msi cosentino, perché cerchi una casa in Sila per il fratello e la sorella di Valerio B., cioè del principe Junio Valerio Borghese.
    In un altro caso, a dispetto delle tante cautele, qualcosa emerse a Cosenza, dove due ex repubblichini in fuga da Roma, avevano dato un po’ troppo nell’occhio e allarmato i comunisti. Difficile quantificare quanti fascisti abbiano approfittato degli aiuti del Mif. Secondo un calcolo prudente, potrebbero essere attorno al migliaio.

     

    Fasciste in rosa

    La particolarità del Mif fu la sua natura di movimento creato e gestito da donne, in cui gli uomini potevano avere al massimo due ruoli: quello di legale (che a Cosenza, per fare un esempio, fu ricoperto da Ugo Verrina, altro leader del Msi meridionale) o di consigliere religioso.
    I rapporti col Msi furono tutt’altro che idilliaci, perché la principessa difendeva a oltranza l’indipendenza del Mif dalle mire del partito, che voleva farne una specie di sezione femminile.
    Al riguardo, restano memorabili le polemiche della Pignatelli nei confronti dei vertici missini, di cui non gradiva le ingerenze.

    Se le donne votano come gli uomini, chiedeva la principessa al segretario del Msi Arturo Michelini, a cosa servono le sezioni femminili? E ancora: noi facciamo assistenza a chi ha problemi, non politica, ribadiva la nobildonna alle sue seguaci che si facevano tentare dalle candidature (anche se, va detto, il Msi fu il partito che candidò più donne).
    Il Mif chiuse i battenti intorno al ’53, perché la normalizzazione del quadro politico nazionale ne aveva rese superflue le funzioni. La principessa sopravvisse altri 15 anni. Morì in un brutto incidente stradale, nel momento in cui il ’68 gettava le basi di un protagonismo ben diverso per le donne…

  • Regione Calabria, bomba contabile: 24 milioni di euro per le indennità extra dei burocrati

    Regione Calabria, bomba contabile: 24 milioni di euro per le indennità extra dei burocrati

    La Calabria, come è noto, è terra di privilegi sia per i politici, sia per i sodali interni ed esterni ai palazzi. I consiglieri regionali, ad esempio, nella propria struttura, cioè tra le caselle da riempire di nomina strettamente fiduciaria, oltre a portaborse, collaboratori vari e autisti (per i capogruppo e i membri dell’ufficio di presidenza), nominano anche dei componenti interni, ossia dipendenti del consiglio o della giunta regionale chiamati a lavorare direttamente per i politici.

    I fortunati arrivano a guadagnare di più rispetto ai colleghi perché percepiscono una indennità di struttura aggiuntiva allo stipendio che può superare i mille euro mensili. Una indennità illegittima da molti anni, ma che continua a gravare sulle tasche dei calabresi nonostante norme e giudici abbiano dato un chiaro altolà. Per questo si paventa un presunto danno erariale da 24 milioni di euro in cui gran parte degli “storici” dirigenti regionali avrebbe messo lo zampino (o, perlomeno, un visto su una determina). Ma procediamo per gradi.

    Ogni anno fiumi di soldi

    Il bilancio di previsione 2022-2024 della Regione Calabria contenuto nel Burc dello scorso 12 gennaio stanzia ben 450mila euro l’anno per tre anni per l’indennità di struttura per il personale appartenente ad altre pubbliche amministrazioni e comandato presso le strutture speciali dei politici. Sono ben 950mila gli euro annui per l’indennità di struttura del personale di ruolo del Consiglio regionale assegnato alla politica. «Il rapporto di collaborazione è correlato all’espletamento delle attività istituzionali su indicazione nominativa di ciascun titolare di struttura speciale», specifica la normativa regionale risalente al 1996 (legge regionale numero 8 e sempre la 8, ma del 2007).

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    La sede della Giunta regionale a Germaneto

    Sono un centinaio tra Giunta e Consiglio i dipendenti che vengono incasellati al seguito dei politici regionali. Postazioni ghiotte e ambite che portano a qualche problemino negli uffici regionali, tant’è che nella programmazione triennale dei fabbisogni di personale del Consiglio regionale predisposta dal dirigente Antonio Cortellaro e aggiornata al 2021 c’è scritto nero su bianco che “l’ultima rilevazione dei fabbisogni ha reso evidente che a causa del gran numero di dipendenti di categoria C assegnati alle strutture speciali, sussiste una forte esigenza, manifestata dalla gran parte dei dirigenti dell’ente, di implementare il personale di tale categoria nell’ambito delle strutture organizzative, in particolare di reclutare istruttori amministrativi e contabili. Si tratta di professionalità essenziali per quanto concerne la declaratoria delle funzioni di ogni settore”.

    Benefit anche per chi rimane fuori

    Partiamo da un paradosso: più l’inquadramento del dipendente “prestato” al politico è basso (come le categorie C che sono arrivate a scarseggiare) più alta sarà l’indennità aggiuntiva.
    Se un consigliere regionale chiama nella sua struttura un impiegato del consiglio regionale (categoria C1) che ha una retribuzione annua di circa 21.000 euro, questo prenderà una “indennità di struttura” di 11.500 euro. Un funzionario (categoria D1) con stipendio tabellare di 29.638,84 euro annui, invece, prenderà “solo” 6.456 euro di indennità. Per cui, il personale più qualificato (rispetto all’inquadramento) sarà fortemente disincentivato a dare il proprio apporto alla politica, ma ci guadagnerà comunque.

    Chi rimane fuori (e sono circa 160 unità), però, beneficerà del fondo per la contrattazione integrativa che per il solo 2021 (come da determinazione del dirigente Antonio Cortellaro del 14 dicembre 2021) è stato determinato a 900.401,66 euro. Così come performance (leggasi, premio di produttività) potrà ricevere fino a 5.627,51 euro annui, ben 2.164,43 euro in più rispetto ai 3453,08 euro che arriverebbero a prendere se non ci fosse il “prestito” dei 100 dipendenti ai politici. Insomma, mangiano tutti.

    L’indennità è illegittima… e spunta Roberto Occhiuto

    Tutto nasce, sotto la presidenza di Battista Caligiuri, dalla deliberazione 89 del 22 maggio 2001, avente ad oggetto la regolamentazione delle modalità di trattamento accessorio delle strutture speciali. In quell’occasione l’Ufficio di presidenza di allora ritenne di determinare il trattamento economico accessorio del personale addetto alle strutture speciali dipendente da pubbliche amministrazioni.

    Seguì il contratto collettivo nazionale degli enti locali del 2004 che eliminava l’indennità integrativa speciale (inglobandola nella retribuzione tabellare), ma l’ufficio di presidenza del consiglio regionale a guida Peppe Bova (con vicepresidente Roberto Occhiuto, attuale presidente della Regione Calabria), con la deliberazione 17 del 20 giugno 2005 (che risulta, guardacaso, non essere stata mai pubblicata sul Burc) decise di superare le norme del contratto collettivo nazionale, in quanto prevedeva “termini assolutamente non accettabili”. Confermò così la deliberazione del 2001, facendo muro a favore del privilegio dei dipendenti regionali “prestati” ai politici.

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    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    La citata legge regionale 8 del 2007 e la successiva delibera dell’Ufficio di presidenza numero 16 dello stesso anno (sempre con Bova presidente e Occhiuto vice) specifica che il trattamento economico dei dipendenti regionali “prestati” ai politici «è attribuito in misura fissa ed indipendente dalle dinamiche della contrattazione collettiva». Ciò nonostante l’articolo 40 del decreto legislativo 165 del 2001 imponga che «le pubbliche amministrazioni adempiono agli obblighi assunti con i contratti collettivi nazionali e integrativi». A conti fatti, dal 2005 ad oggi si quantifica una spesa per indennità di struttura di quasi 24 milioni di euro.

    La giurisprudenza è chiara, ma non per la Regione Calabria

    Ad intervenire sono state ben due sentenze della Corte Costituzionale. La prima, la 18 del 2013, ha specificato che il trattamento economico dei dipendenti pubblici deve essere concertato (tra Aran e i sindacati) e non imposto dalla politica. Il principio giuridico secondo cui la disciplina del finanziamento e dei presupposti di alimentazione dei fondi per il trattamento accessorio del personale regionale e della loro erogazione è riservata alle leggi dello Stato e alla contrattazione collettiva nazionale cui le norme statali fanno rinvio è stato suggellato anche dalla sentenza della Consulta 146 del 2019.

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    La Corte Costituzionale

    La Corte mette nero su bianco che «sono illegittimi i fondi aggiuntivi istituiti dalla regione in tema di trattamento economico accessorio dei dipendenti regionali, al di fuori di quanto previsto dalle fonti normative prescritte perché lesivi della competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile e degli equilibri complessivi di finanza pubblica». Da ultimo, un inciso della sentenza 479 del 17 novembre 2020 della Corte d’Appello di Reggio Calabria, ha ricordato che «Il disposto imperativo del testo unico del pubblico impiego impone che il trattamento economico, fondamentale e accessorio, dei dipendenti pubblici debba trovare fonte nella contrattazione di comparto».

    Dirigenti nel caos e l’ombra della Corte dei Conti

    Il sistema è chiaro, ma la misura è colma. La rivoluzione burocratica annunciata da Roberto Occhiuto in campagna elettorale ha dovuto fare i conti anche con questa annosa questione. Già, perché il 1 gennaio con una rotazione degli incarichi dirigenziali, alle risorse umane è spuntata la dirigente Dina Cristiani.
    Rumors interni dicono che quest’ultima avesse chiesto un parere legale sulla legittimità delle indennità di struttura, rifiutandosi di firmare i contratti dei componenti interni delle strutture speciali. Cosa che effettivamente non ha fatto, fino a che non ha chiesto di essere rimossa dal suo incarico a “soli” 18 giorni dalla nomina (ufficialmente per una asserita incompatibilità con il ruolo di responsabile anticorruzione e trasparenza).

    Sta di fatto che colei che l’ha succeduta, la super dirigente Maria Stefania Lauria, confermata segretaria generale del Consiglio dopo il lungo interim, in poco più di un mese di contratti ne ha firmati almeno 15 coadiuvata dalla potente funzionaria responsabile delle strutture speciali Romina Cavaggion. A vistare gli atti ci sarebbe anche il dirigente dell’area gestione Sergio Lazzarino ed il dirigente del settore bilancio Danilo Latella. Il timore della lente di ingrandimento della Corte dei Conti è palpabile nonostante il silenzio tombale (o la copertura?) della politica, compresi i sedicenti gruppi neofiti d’aula come il M5S e lista di Luigi De Magistris.

    Regione Calabria, tanti nomi noti

    È chiaro che tutta la politica è perlomeno consapevole di ciò che accade. Tutti hanno fatto queste nomine, spesso “ereditando” nomi noti da colleghi di precedenti consiliature. Ad ereditare il componente interno dell’ex presidente del consiglio regionale Tonino Scalzo è stato l’esponente del M5S Francesco Afflitto, che ha nominato Santa Crisalli. Per il capogruppo pentastellato Davide Tavernise, invece, si rileva la nomina di Giovanni Paviglianiti, che era componente della struttura dell’ex democratico progressista (oggi sovranista) Peppe Neri.

    A fare incetta di componenti e supporti interni è il capogruppo della lista De Magistris, Ferdinando Laghi, che finora ne ha nominati quattro: Antonino Marra, Miriam D’Ottavio, Giuseppe Vita e Gabriella Maria Targoni, con quest’ultima che ha preso il posto inizialmente occupato da Vita.
    A dar supporto interno al vicepresidente del Consiglio regionale Franco Iacucci c’è l’ex assessore e consigliere regionale del Pd Carlo Guccione, che è dipendente di Palazzo Campanella, pur avendo di recente maturato un lauto vitalizio. Con lui, sempre sotto l’ala di Iacucci c’è la moglie dell’ex assessore regionale Nino De Gaetano, Grazia Suraci.

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    Carlo Guccione e Nicola Adamo nella segreteria di Franco Iacucci durante le ultime elezioni regionali (foto A. Bombini) – I Calabresi

    A destare attenzione è la nomina da parte della capogruppo della Lega Simona Loizzo, come supporto funzionale, di Antonia Pinneri, compagna del leghista Antonino Coco, definito dalla Dda reggina, che lo ha arrestato nell’ambito dell’inchiesta Chirone, “professionista posto al servizio dell’associazione di stampo mafioso”. Si parlava dei clan d’Aspromonte. Presente anche l’ex candidata regionale della Casa delle libertà Antonietta Giuseppina D’Angelis, nominata componente interno della forzista Katya Gentile. L’ex candidato regionale Udc, Riccardo Occhipinti, invece, è supporto funzionale interno della forzista Valeria Fedele.
    Insomma, si dovrà fare i conti con un bubbone contabile che sta per scoppiare e la politica non potrà continuare a mettere la polvere sotto il tappeto.

  • L’attacco alla libera stampa in Calabria

    L’attacco alla libera stampa in Calabria

    È inutile girarci attorno: in Calabria c’è una strana idea della stampa libera. Viene applaudita quando tocca “nemici”, secondo una classificazione tanto personale quanto sfuggente. Quando, invece, racconta interessi personali o di cordata diventa un nemico da combattere o, meglio ancora, da abbattere. Gli strumenti a disposizione non mancano: diffide, che preludono ad atti di mediazione, che aprono le porte a richieste di risarcimento che sfociano in querele, spesso temerarie.

    Gli esempi sono decine: agli imprenditori che, ritenendosi diffamati da un articolo di cronaca, arrivano a chiedere cifre a sei zeri si aggiungono quelli per i quali la richiesta di risarcimento diventa imponderabile. Politici feriti nell’orgoglio da una frase chiedono la cancellazione di un pezzo il giorno dopo la sua pubblicazione, pena una causa (milionaria anche quella?) che costringerà giornalista, direttore ed editore a girovagare per le aule dei tribunali, forse per anni. L’elenco sarebbe lunghissimo.

    Chiariamo: non si mette in dubbio il diritto di rivolgersi a un giudice qualora ci si ritenga diffamati. Il punto è che il campionario che ogni redazione può esibire mostra richieste tanto bizzarre da far sorgere il dubbio che la vera questione sia un’altra, e cioè cercare di mettere il bavaglio alla stampa. Ci si muove nel terreno che segna la distanza tra la lesione della propria onorabilità e il tentativo di intimidire cronisti, editorialisti, testate. La sensazione è che spesso si tenda a raggiungere il secondo obiettivo. Non ci stracceremo le vesti per questo, continueremo tutti a fare il nostro lavoro. A raccontare fatti, riportare opinioni, evidenziare le incongruenze di una regione in cui il grigio si allarga sempre più. E ci difenderemo dalle richieste di risarcimento e dalle querele temerarie.

    Ciò che non possiamo più fare è restare in silenzio davanti a metodi e numeri che fanno pensare a un attacco vero e proprio alle prerogative della libera stampa. È tempo di rispondere a questa aggressione. Come? Per dirla con le parole del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, «dobbiamo garantire i giornalisti dalle azioni temerarie. I giornalisti sono chiamati in tante cause civili con risarcimenti dei danni stratosferici. E il giornalista così non può svolgere serenamente il proprio lavoro».

    Il magistrato, già a capo della Dda di Reggio, conosce bene la realtà calabrese. Nel suo intervento alla tavola rotonda internazionale organizzata a Siracusa dall’associazione Ossigeno per l’informazione ha proposto una soluzione: «Quali possono essere i modelli di garanzia? Quando viene chiesto il risarcimento se la querela è temeraria, il soggetto che ha citato in giudizio il giornalista se ha torto dovrebbe essere condannato al doppio del risarcimento del danno richiesto». Perché «l’informazione oggi è il cardine della democrazia». E non un accessorio da esibire a seconda della (propria) convenienza.

    Le redazioni di:

    • I Calabresi
    • Corriere della Calabria
    • Il Quotidiano del Sud
    • Zoom 24
    • La Nuova Calabria
    • Catanzaroinforma
    • Calabria7
    • Il Crotonese
    • Arcangelo Badolati – giornalista e scrittore
    • Giuseppe Soluri, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Calabria
    • Andrea Musmeci, segretario del sindacato Giornalisti della Calabria
    • Michele Albanese, presidente dell’Unci Calabria
  • Italia Viva: l’Ernestone col partito intorno

    Italia Viva: l’Ernestone col partito intorno

    La domanda assilla chi è solito preoccuparsi di questioni marginali: ma Italia viva, in Calabria, va a destra o a sinistra? Si potrebbe rispondere alla maniera di Guzzanti/Rutelli: «Iv non è di destra né di sinistra, Iv è di Magorno. Se te compri ‘na machina è di destra o di sinistra? È ‘a tua, ahò: se vuoi anda’ a destra, vai a destra, se vuoi anda’ a sinistra, vai a sinistra».

    Il senatore e sindaco di Diamante, il più renziano tra i renziani, a sud del Pollino èpadrone assoluto e conducente unico di quella macchina nuova, ma già malconcia, chiamata Italia viva. Anzi, di più: «Iv, in Calabria, è Magorno», conferma un seguace calabrese dell’ex premier.

    Destinazione Parlamento

     

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    Ernesto Magorno

    Quel macinino, così scassato da non essere nemmeno riuscito a raggiungere le urne alle ultime elezioni regionali, può comunque assolvere la sua funzione più importante: accompagnare Magorno davanti al Parlamento per la terza volta consecutiva, sempre al fianco del leader indiscusso e indiscutibile, Matteo. Le sigle, i partiti, che siano il Pd o Iv, contano nulla. Per «Ernestone» – nomignolo affettuoso che gli sarebbe stato affibbiato dallo stesso Renzi – l’importante è far parte del mitico giglio magico, oggi decisamente appassito dopo anni di assoluto dominio. Fa niente che Italia viva, a due anni e mezzo dalla sua nascita, non abbia messo radici nei territori calabresi e che sia praticamente fuori da tutti i giochi politici, come dimostra la mancata presentazione della lista alle Regionali che hanno incoronato il centrodestra.

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    Paolo Brunetti

    Eppure, il partito di Renzi, dopo la sospensione di Giuseppe Falcomatà, esprime il sindaco di Reggio, la più grande città della Calabria. Ma Iv, finora, si è guardata bene dal rivendicare o supportare l’azione politica del reggente Paolo Brunetti. «Magorno – spiega un militante dello Stretto – lo tratta come fosse un clandestino a bordo, e finora nessuno ha capito perché».
    Il senatore cosentino può anche permettersi di snobbare il sindaco metropolitano, cambia poco: il suo futuro politico è comunque assicurato.

    Renzi blinda Ernestone

    Negli ambienti politici si racconta sempre un episodio che spiega bene il legame del sindaco-parlamentare con l’ex primo ministro. Vigilia delle Politiche 2018: Renzi è ancora segretario del Pd e sta inserendo nelle liste i suoi uomini più fidati. A un certo punto gli viene sottoposto il dossier Calabria. E lui lo approccia con una sola domanda: «Ernestone c’è?». Il Pd calabrese è alle prese con le solite faide tra capibastone che cercano spazio e i responsabili delle liste non sanno ancora rispondere. Renzi taglia corto, perentorio: «Ernestone al primo posto al Senato». Poi va via, disinteressandosi del resto.

    Per Magorno è candidatura blindata, mentre per la maggior parte dei capibastone sono dolori. Se Ernestone è riuscito a spuntarla pure in un bus affollato come quello del Pd, figurarsi se potrà andargli male al prossimo giro – le Politiche del 2023 –, ora che è alla guida della sua piccola utilitaria. «Renzi lo metterebbe al primo posto anche se l’alternativa fosse Obama», assicura divertito un italovivo di primo piano.

    L’amico leale

    Ecco, Iv Calabria è Magorno, politico capace di mille acrobazie ma costante nella sua lealtà a Renzi, anche quando la parabola dell’ex rottamatore ha cominciato a declinare. Pochi giorni fa, in Senato, mentre Renzi arringava l’aula contro i magistrati di Firenze (e non solo), ottenendo infine il voto favorevole che ha sollevato il conflitto d’attribuzione davanti alla Consulta sul caso della Fondazione Open, Ernestone era lì. Proprio dietro di lui, quasi a volerlo proteggere. Sempre sollecito nel battere le mani con enfasi nei passaggi più importanti di un’invettiva che ha poi compattato tutti, esclusi il M5S («attacco della politica alla magistratura? Si vergogni chi lo pensa: stiamo chiedendo che la politica faccia i conti con la realtà») e Leu.

    Dove va Italia Viva?

    Detto del legame indissolubile tra Renzi e Magorno, resta intatta la domanda: dove va Iv? Le adesioni più recenti non aiutano a spiegare il tragitto di un partito dalla natura sempre più incerta. L’ultimo arrivo, in ordine di tempo, è stato quello dell’ex sindaco di Crotone, Ugo Pugliese, in passato vicinissimo ai centristi Flora e Vincenzo Sculco.

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    L’ex sindaco di Crotone, Ugo Pugliese

    Ma a sorprendere è stato soprattutto l’ex pezzo da novanta del Pd vibonese, Brunello Censore, che ha celebrato il suo ingresso in Iv nel corso di un dibattito a Serra San Bruno, il suo feudo, al quale hanno preso parte il presidente nazionale, Ettore Rosato e, manco a dirlo, Magorno. L’ex deputato, dopo aver sottolineato che il ritorno nelle fila renziane «nasce dalla condivisione sulle politiche», ha ipotizzato la nascita di un «grande centro» e si è rammaricato del fatto che «non c’è più una rappresentanza vera dei territori in Parlamento». Malgrado abbia chiarito che «candidature non ne devo più fare», diversi osservatori hanno rilevato come la nuova avventura di Brunello arrivi in un momento favorevole, cioè all’indomani dell’addio della senatrice Silvia Vono, passata a Fi anche – mormorano – per via del pessimo rapporto con Magorno.

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    Matteo Renzi e Brunello Censore

    Brunello o aceto?

    Censore, in pratica, come forse anche Pugliese, sarebbe salito a bordo di Iv per coprire lo spazio che l’ex 5 stelle ha lasciato vuoto nella Calabria centrale, con l’obiettivo di fare il bis in Parlamento. Un attento conoscitore della sua storia politica, tuttavia, è abbastanza scettico: «È stato un Brunello d’annata, ma ormai è aceto…».
    Pure Censore – cosa che lo accomuna a Magorno, segretario mai troppo amato dai dem – è spesso vittima del sarcasmo degli ex compagni di partito. Un dem vecchia scuola sorride e butta giù una perfidia: «Presto chiederà un congresso come fece da noi ed Ernesto lo caccerà via».

    Perché, spazi vuoti o pieni, la tiritera è sempre la stessa: la macchina la guida Ernestone, nessun altro. Vale dunque poco la presa di posizione di un giovane renziano come il consigliere provinciale di Cosenza Alessandro Porco, convinto che Iv debba essere «un partito di centrosinistra».
    Magorno ha svoltato a destra con decisione, malgrado lo stesso Renzi, a Roma, sia al lavoro per verificare la possibilità di costruire un «campo largo» con il Pd e altri centrini.

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    Foto di gruppo in casa Iv: Magorno è il più a destra di tutti

    La corte al centrodestra

    Il senatore calabrese, invece, ha dichiarato pubblicamente di aver sostenuto il centrodestra del governatore Roberto Occhiuto e si è addirittura proposto come candidato di coalizione per la presidenza della Provincia di Cosenza. Anche questa mossa ha scatenato gli sfottò di alcuni ex compagni d’armi: «Vuole andare dall’altra parte a tutti i costi, ma non lo vogliono». Affermazione sensata, visto che il centrodestra cosentino ha poi candidato la sindaca di San Giovanni in Fiore, Rosaria Succurro.
    Poco male, per Ernestone: è al volante di Italia Viva e viaggia spedito verso il tris, con la benedizione di Matteo. Molto male per gli altri aspiranti parlamentari: un partito fermo al 2,4% rischia di essere solo una monoposto.

  • Città unica, la farsa dei sindaci che non dà voce ai cittadini

    Città unica, la farsa dei sindaci che non dà voce ai cittadini

    La discussione sulla città unica ha assunto negli ultimi tempi toni farseschi, legata a questioni che attengono più alla forma che alla sostanza. Un ragionamento su un’area così detta vasta richiede un approfondimento sulle strategie che si vogliono adottare e sui fini che si vogliono raggiungere. Non stiamo parlando di un mero atto amministrativo. Pertanto, non può essere appannaggio delle decisioni di chi governa demandando la partecipazione al semplice referendum. Le decisioni che comportano sostanziali modificazioni dell’assetto del territorio anche in termini di governance hanno una ricaduta importante sulle popolazioni che vi abitano. E richiedono atti di condivisione e partecipazione concreta attraverso momenti assembleari e pratiche di comunicazione trasparente.

    Studiare cosa comporterebbe la città unica

    In quest’ottica occorre sapere cosa comunicare e cosa far condividere. Perciò occorre una fase di studio e approfondimento di tutte le implicazioni che comporta un atto che, anche se indirettamente, modifica un sistema territoriale.
    Importante intanto è l’approccio ad un tema che rischia di privilegiare l’aspetto strutturale e renderlo prevalente rispetto a quello che definiamo ecosistema. Ricordo che l’alta valle del Crati, in cui ricadono i comuni oggetto dell’eventuale fusione, è un’area che presenta delle complessità per la presenza di un fiume che per sua natura rappresenta un segno caratteristico di un territorio più vasto fino alla foce.

    Inoltre siamo in presenza di una popolazione notevole con una rete complessa di relazioni che trovano poi il loro fulcro nella città. Ciò richiede una certa attenzione proprio per il miglioramento di tali relazioni in presenza anche di dinamiche centripete che causano lo spopolamento delle aree marginali e dei borghi con l’aggressione delle aree periurbane. Inoltre, non dobbiamo scordarci che siamo in una fase di ristrutturazione di alcuni servizi essenziali quali i presidi sanitari, la gestione dei rifiuti, oltre al contrasto al dissesto idrogeologico.

    Il nome? L’ultimo dei problemi

    Sono questi i temi che bisogna affrontare con serietà in un’ottica di integrazione nel rispetto del patrimonio territoriale coinvolto e non ridursi a promuovere forme di dialogo tra gli amministratori o preoccuparsi di quale nome dare alla futura città. Su quest’ultimo problema speriamo che prevalga il buon senso e che si attinga ai processi storici sedimentati e non si lasci spazio a fantasie e sigle che hanno il solo scopo di non scontentare nessuno. Rimane il fatto che il nome sarà solo la bandiera da piantare su una costruzione che dovrà essere solida e reggere nel tempo.

    Una città vive di tempi storici e non della caducità di una esperienza amministrativa. Voglio ricordare che il sindaco non è chiamato a caso “primo cittadino”, ma bisogna finirla con il continuare a porre l’enfasi sul termine “primo” mentre rimane a casa il “cittadino”. Noi intendiamo questo ruolo come primus inter pares. E, in quanto tale, ogni sua decisione che coinvolge la vita della cittadinanza deve essere da questa condivisa.

    Pietro Tarasi
    Presidente Coordinamento “Progetto Meridiano”