Tag: politica

  • L’insostenibile mobilità di Reggio Calabria

    L’insostenibile mobilità di Reggio Calabria

    Con la delibera che, in via sperimentale, raddoppia il costo della sosta sul lungomare Matteotti dal prossimo 1 maggio al 31 ottobre, il vaso di Pandora della mobilità a Reggio Calabria è stato definitivamente scoperchiato. Un provvedimento che punterebbe a disincentivare l’uso del mezzo privato, riducendo i costi ambientali, sociali e infrastrutturali del traffico veicolare e della sosta, agevolando la fruizione di aree a prevalente uso pedonale e ciclabile e migliorando la fluidità della circolazione.

    costo-mobilita-reggio
    Un estratto della delibera di fine marzo con cui la Giunta ha disposto l’aumento delle tariffe per la sosta

    La misura non avrebbe scatenato le polemiche che sono piovute se il raddoppio delle tariffe fosse uno degli aspetti di una strategia più ampia per la mobilità sostenibile che ad oggi non esiste. O meglio, esiste solo sulla carta. Perché alla maggiorazione di certi costi non corrispondono alternative che consentano ai cittadini di spostarsi in un’ottica davvero sostenibile. Non esiste un Piano della Mobilità Sostenibile (PUMS). Non un sistema attivo di monitoraggio di traffico e circolazione. A pagare lo scotto è la visione di sistema evocata nella bozza di Masterplan 2050.

    Un piano fermo al 2017

    Nel capitolo “Mobilità Pubblica e Attiva” si sottolineano le molte criticità relative alla mobilità a Reggio e si individuano in governance e visione di sistema i pilastri di una strategia complessiva per promuovere l’uso del mezzo pubblico, l’abbattimento del livello di CO2 e la cosiddetta “mobilità dolce” a tutela della salute dei cittadini e dell’ambiente. In questo momento però mancano l’una e l’altra.
    Perché manca il PUMS, che è lo strumento di pianificazione e programmazione di questa visione di sistema. Il Comune ha approvato un suo preliminare realizzato dalla società IT s.r.l. nel 2017 e necessario per la valutazione di impatto ambientale propedeutica alla realizzazione del piano definitivo di cui non c’è traccia. Il sito web specificamente dedicato al PUMS non è raggiungibile. E quel preliminare, ormai datato, si basa su dati ISTAT del 2011 e non tiene conto di elementi nuovi come il potenziamento dell’aerostazione. In più ci sarebbe il contenzioso tra Comune e IT per il mancato pagamento di quel preliminare.

    piano-mobilita-reggio
    Il verbale di approvazione del preliminare risale a ottobre del 2017

    Il Piano Regionale dei Trasporti ha stabilito che i quattro nodi della rete strategica di trasporto regionale di Reggio Calabria siano rispettivamente per il centro città i punti “Porto-Stazione Lido” e “Stazione centrale-Aeroporto” e per la periferia Pellaro a Sud e Gallico a Nord. Nonostante i Comuni potessero porre osservazioni e suggerimenti per implementare il documento, Reggio non si è pronunciata. Sono così rimasti fuori punti fondamentali come quelli relativi all’accesso lato monte della città: le bretelle del Calopinace e la zona Ospedale.

    Mobilità a Reggio: la Centrale di Controllo senza dati

    In quanto poi a mobilità, mancano i dati. Reggio ha a disposizione la Centrale per il Controllo della mobilità, cioè la struttura informatica per la raccolta in real time, la catalogazione e l’elaborazione dei dati sulla sosta e su traffico in entrata e in uscita dalla città. Ma non ha né elaborato una mappa completa dei punti di rilevamento, né si è mai dotata dei sensori per l’acquisizione dei dati di infomobilità. Apparecchiature che sarebbero dovute essere acquistate dal Comune con i fondi PON Metro in scadenza lo scorso 31 dicembre. L’operazione non è andata in porto per paura di sforare la data di chiusura del programma e non vedersi consegnati i sensori.

    rende-agonia-citta-sognava-grande
    L’Università della Calabria sta collaborando con il Comune di Cosenza per la redazione del PUMS

    Senza dati, i modelli di trasporto, domanda e offerta, alla base di una strategia “visione di sistema”, non possono essere generati. D’altronde il Comune non ha tecnici cui assegnare questo compito. Manca un mobility manager. E manca un altro pezzo fondamentale: il coinvolgimento degli stakeholders. Nonostante la presenza del Laboratorio Analisi Sistemi di Trasporto, tra i più importanti centri di ricerca del settore a livello europeo, il Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione, delle Infrastrutture e dell’Energia Sostenibile dell’ateneo dello Stretto non sarebbe stato consultato. Diversamente da Cosenza dove UNICAL sta collaborando alla redazione del PUMS con il professor Guido, associato ICAR/05 del Dipartimento di Ingegneria Civile e mobility manager.

    Intermodalità e finanziamenti

    C’è poi la questione dell’intermodalità. Dopo le polemiche sul paventato definanziamento dei relativi progetti, lo scorso ottobre Battaglia, già assessore ai comunale ai Trasporti, aveva garantito che i fondi non sarebbero andati persi. Era stata la stessa Staine, con la stessa delega alla Regione ad annunciare un piano da 20 milioni di euro a valere sul PAC 2014/2020 per parcheggi, stazioni di interscambio e corsie riservate con sistema di semafori intelligenti per i bus. Come certifica la bozza di Masterplan, il Comune starebbe lavorando per aumentare le fermate della linea ferroviaria in città e posizionarne una ogni 500 metri. Ipotesi lunare in termini operatività, costi e sostenibilità del servizio.

    Bisognerebbe poi risolvere il nodo del collegamento tra l’aeroporto della città, la fermata ferroviaria dedicata e il pontile di attracco degli aliscafi che presenta una serie di criticità dovute all’attuale conformazione dell’aerostazione lontana da entrambi i punti di “approdo”.
    Reggio, inoltre, non ha mai approvato il Piano Urbano per la Sicurezza Stradale.
    L’impressione è che si lavori in (dis)ordine sparso, a compartimenti stagni, senza che una mano sappia ciò che fa l’altra. Senza quella visione di insieme fatta di coordinamento, coinvolgimento di esperti e stakeholder, elaborazione di modelli. Come invece dovrebbe essere.

  • Che fine ha fatto Reggio Calabria?

    Che fine ha fatto Reggio Calabria?

    Che fine ha fatto Reggio Calabria? Potrebbe essere il titolo di una pellicola, a metà tra il poliziesco ed il noir. Perché nonostante l’avvento RyanAir, Reggio è sparita: appalti al palo, progetti arrivati all’ultimo miglio e mai completati, cantieri finiti nell’abbandono. E l’assenza di un dibattito pubblico serrato e pragmatico su dove sia e dove voglia andare.
    Dopo l’annuncio dello sbarco della compagnia aerea irlandese, in riva allo Stretto poco si è saputo. Nessuno ha visto il piano industriale successivo ai tre anni in cui la Regione coprirà il costo delle nuove tratte attivate. E il silenzio di imprenditori, associazioni di categoria, amministratori, e operatori vari, non lascia tranquilli. Una rondine sola non fa primavera.

    Reggio Calabria e i dati ISTAT

    Più che la ricettività, il vero tema da porre è l’attrattività. Su questo i dati sono impietosi: nella rilevazione ISTAT del 2023 sui profili delle Città Metropolitane in Italia, Reggio Calabria occupa gli ultimi posti di tutte le voci indicizzate. La sua popolazione è diminuita di 7,3 punti percentuali. Assieme a Palermo e Napoli, risulta l’area con la minore partecipazione attiva al mercato del lavoro. A livello nazionale, presenta la più bassa densità di unità locali relative ad offerta turistica, attività finanziarie e professionali. Senza contare che entro il 2033 è prevista un’ulteriore emorragia demografica.
    Un’Area metropolitana in piena crisi di lavoro e di risorse umane. Incapace di fare sistema. Un non senso rispetto a quello che a Reggio già c’è e che, se coordinato, potrebbe fare la sua fortuna: un aeroporto, diversi punti approdo marino, due università, un museo di rilevanza internazionale e uno del mare in fase di realizzazione, un parco nazionale, decine di km di costa, un patrimonio storico e archeologico non comune, produzioni floristiche ed agricole uniche per caratteristiche e qualità.

    Il rapporto con il mare

    Negli ultimi decenni, Reggio Calabria ha cominciato un cammino verso il modello di Città del Mediterraneo, rivalutando il suo rapporto col mare. Prima con la progettazione del lungomare dall’allora presidente di FS, Vico Ligato. Successivamente con la sua realizzazione sotto la guida di Italo Falcomatà. In ultimo, con la pianificazione del Waterfront da Giuseppe Scopelliti. Proprio il Waterfront – prima cassato da Giuseppe Falcomatà, poi ripreso, rimodulato e spezzettato rispetto all’idea originaria – deve ancora vedere la sua fine, tra cantieri sospesi o semi-abbandonati e misurazioni errate.
    Ne fa parte anche il Museo del Mediterraneo, già inserito nel PNRR,  pensato per «ampliare e potenziare l’offerta turistico-culturale» e dare «impulso al rilancio economico e sociale della città».

    Giuseppe Falcomatà

    Il progetto scomparso

    Resta invece al palo il progetto del porto turistico, Mediterranean Life. da realizzare a Porto Bolaro, zona sud della città, che il Comune ha approvato pressoché all’unanimità con delibera di Consiglio lo scorso 13 novembre 2021. Una grande infrastruttura da diporto con servizi integrati capace di generare attrattività per il territorio e creare 2.500 posti di lavoro. Un’opera a ridosso di una delle fermate della nuova metropolitana di superficie (finanziata con 25 milioni di euro dall’allora ministro dei Trasporti Bianchi) che RFI, una volta terminato l’aggiornamento del listino dei prezzi, è pronta a cantierare. E a due passi da un aeroporto che, per mantenere questa rinnovata vitalità, dovrà dimostrarsi attrattivo, caratterizzando l’offerta Reggio Calabria.

    porto-bolaro-reggio-calabria
    Come dovrebbe diventare Porto Bolaro con la realizzazione del progetto Mediterranean Life

    La delibera che approvava il progetto, a seguito del preliminare parere favorevole del dirigente di settore, gli assegnava un interesse strategico fino a ipotizzare di inserirlo nel PNRR. Dava quindi mandato al sindaco (poi sospeso) di convocare una conferenza inter-istituzionale per preparare il relativo accordo di programma ed eventuali deroghe al Piano regolatore, come da verbale della conferenza dei servizi tenutasi il 2 aprile 2019. Dell’inserimento nel PNRR non si è più parlato e dell’accordo di programma non si ha notizia. Dell’idea non si parla nemmeno nella bozza di Masterplan della città: al Punto B.4 del documento che illustra il Parco del Mare, Porto Bolaro, inserito ne “Le spiagge del vento”, è menzionato solo come zona con pontile di attracco. Un po’ poco per un documento programmatico che dovrebbe dettare le linee di indirizzo della futura città.

    mediterranean-life-oggi-reggio-calabria
    L’area costiera interessata dal progetto, così come appare oggi

    Botta e risposta

    Il progetto non è nemmeno previsto nel nuovo Piano Strutturale Comunale, che non prevederebbe ulteriori cubature in città e su cui pure la Regione pare abbia sollevato diverse osservazioni.
    Inoltre il recente Piano spiaggia prevede per Porto Bolaro solo l’autorizzazione per punti di approdo e bagni chimici, eludendo la possibilità di erogare servizi per le imbarcazioni in sosta. Non di certo un incoraggiamento.
    Nel botta e risposta tra il raggruppamento di imprese e l’amministrazione Comunale, Paolo Brunetti, facente funzione durante l’interregno di Falcomatà, ha dichiarato che il progetto esecutivo richiesto dal Comune non sia mai arrivato. Peccato che non si trattasse di una gara pubblica, ma della presentazione di un progetto “di particolare complessità e di insediamenti produttivi di beni e servizi” presentato con “motivata richiesta dell’interessato” con relativo studio di fattibilità, come previsto dal comma 3 dell’articolo 14 delle legge 241/1990.

    Pino Falduto2
    Pino Falduto, l’imprenditore reggino promotore del progetto

    Lo scorso 8 febbraio, a oltre due anni dalla delibera, tramite Pec, il raggruppamento di imprese coinvolte, con a capo una reggina, ha scritto al Comune. Ribadendo di poter fornire gratuitamente «assistenza tecnica per il completamento dell’iter amministrativo», ha chiesto «un incontro di chiarificazione tecnico amministrativa» per «dare finalmente impulso» al progetto. Che, dice il sindaco, oltre ad incassare il parere favorevole di Sovrintendenza, Enac, Città Metropolitana, deve essere coerente con PSC, piano spiaggia, Ferrovie. Gli stessi attori presenti nella conferenza dei servizi preliminare e gli stessi documenti programmatici in cui un’ipotesi del genere non si menziona.

    Reggio Calabria in silenzio

    Per aumentare il proprio appeal turistico Reggio Calabria non può fermarsi all’offerta di città green che guarda alla cultura come idea di sviluppo. Deve promuovere una grande infrastruttura che punti sull’intermodalità (Forza Italia ha appena presentato un emendamento all’ultimo decreto del PNRR proprio sul rafforzamento dell’intermodalità e sull’annullamento dell’addizionale comunale sui diritti di imbarco sugli aerei). Un’opera che incoraggi il partenariato pubblico-privato inserito nel Masterplan e che sfrutti la geografia dell’area: al centro del Mediterraneo e della grande autostrada del mare che collega Oceano Atlantico e Oceano Indiano.

    yacht-reggio-calabria
    Uno yacht di fronte a Porto Bolaro

    Serve un’infrastruttura che attragga investimenti e capitali, generi economie di scala e spalanchi una nuova porta di accesso al suo territorio e ai suoi patrimoni: Museo del Mediterraneo, Museo della Magna Grecia, Parco Nazionale dell’Aspromonte, bergamotto, archeologia e storia millenaria. Potrebbe essere Mediterranean Life?
    Per questo, però, servono volontà, visione, continuità, strategia, vitalità, partnership e convergenza. Invece divisa, isolata, inaccessibile, lasciata all’oblio di un dibattito che non c’è, Reggio Calabria sembra non aver imparato la lezione. Mentre continua a perdere residenti, forza lavoro, capitale umano e opportunità.

  • Oncomed, chi ha paura del medico buono?

    Oncomed, chi ha paura del medico buono?

    Realizzare dal nulla un progetto di solidarietà in un contesto di disagio sociale e senza avere risorse è un’opera ciclopica. Ma è necessaria se lo scopo è la difesa della salute, dove la disuguaglianza fa la differenza tra il curarsi e il non poterlo fare. In questa trincea lavora da anni Oncomed, una realtà di sostegno sociale volontario per la prevenzione e la cura delle patologie oncologiche.
    Oggi questa associazione è in affanno, malgrado attorno ad essa sia cresciuto il sostegno di medici e cittadini. «A causa dell’incomprensibile ostilità di qualcuno è assai probabile che saremo costretti a trasferirci», spiega Francesca Caruso, che di Oncomed è stata l’ideatrice e ancora oggi ne è una delle anime.

    oncomed-francesca-caruso
    Francesca Caruso

    La nascita di Oncomed

    «Tutto nasce a seguito di esperienze personali, che mi spinsero a proporre ad Antonio Caputo l’idea di dare vita a uno spazio di prevenzione delle malattie tumorali». Caputo, medico oncologo, evidentemente vide in quella proposta un progetto difficile da realizzare, ma necessario e quell’idea divenne anche sua. Altri medici condivisero presto quel progetto e offrirono le loro competenze gratuitamente. Enzo Paolini, a sua volta, diede in uso degli spazi nella città vecchia per realizzare gli ambulatori.
    «All’inizio mancava tutto, niente attrezzature, nulla di nulla, poi con le donazioni e con il lavoro volontario dei medici, abbiamo dato vita a questa realtà», racconta ancora Francesca Caruso.

    I tempi cambiano

    Nasceva così uno spazio dove i cittadini con minori possibilità economiche e che certamente non avrebbero potuto aggirare le lunghe liste d’attesa dalla sanità pubblica rivolgendosi a quella privata, avrebbero trovato interlocutori competenti per visite specialistiche gratuite. Gli ambulatori di Oncomed diventano presto la trincea per chi ha urgenza di diagnosi sicure ma deve fare i conti con le molte facce della povertà, anche quella silente che in questi anni sta divorando quelli che una volta erano i ceti medi. In questo i tempi del Covid hanno lasciato il segno, facendo spesso arretrare chi prima poteva contare su una relativa sicurezza economica, allargando le fasce di povertà. «I pazienti sono cambiati, oggi si rivolgono a noi anche persone apparentemente insospettabili», racconta Caruso.

    La banca della parrucca

    Ma se la platea del bisogno si è allargata, anche la pattuglia dei medici è cresciuta. Oggi Oncomed è in grado di offrire percorsi diagnostici diversificati e grazie ai medici che gravitano attorno al progetto, fare rete e costruire pure indicazioni terapeutiche.
    Questa realtà da qualche tempo ha avuto il riconoscimento anche di Carlo Capalbo, primario di Oncologia del Mariano Santo. Presso il reparto guidato dal medico calabrese che ha lasciato Roma, dov’era professore associato alla Sapienza con incarichi di alta specializzazione all’ospedale Sant’Andrea, per cogliere la sfida della nuova facoltà di Medicina dell’Unical, l’associazione Oncomed ha aperto uno spazio di accoglienza per i malati e le famiglie e ha avviato la “banca della parrucca”, dove le pazienti potranno avere parrucche in comodato d’uso.

    Carlo_Capalbo_cc
    L’oncologo Carlo Capalbo

    Oncomed tra minacce e silenzi

    Malgrado tutto questo e il ruolo di sostegno alla cittadinanza che questa associazione svolge da tempo, nel quartiere in cui sono ospitati gli spazi dell’ambulatorio, cioè nel cuore del centro storico, qualcuno non gradisce la presenza dei volontari. Da qui l’accanirsi con dispetti, danneggiamenti o qualche minaccia, che presto indurrà gli animatori dell’ambulatorio medico a cercare altrove una nuova sistemazione.

    oncomed-sede
    La sede nel centro storico

    «Siamo oggettivamente in difficoltà, trovare nuovi spazi e le risorse per pagare il fitto non è facile, né vorremo abbandonare la città vecchia», conclude Francesca Caruso, ricordando che all’associazione non è giunta alcuna parola dalle istituzioni, se non contatti informali. Un silenzio colpevole, soprattutto quello del Comune, che forse potrebbe trovare spazi dignitosi da affidare a chi è impegnato nella prevenzione e nella difesa della salute dei cittadini.

  • Calabrexit: Praia, Aieta, Tortora e quella voglia di Lucania…

    Calabrexit: Praia, Aieta, Tortora e quella voglia di Lucania…

    «Praja-Ajeta-Tortora. Stazione di Praja-Ajeta-Tortora», un ritornello – con quelle “j” reliquie di un tempo in cui la lingua italiana tutelava i dialetti regionali e non tentava di nasconderli preferendo l’asportazione di parole da altri dizionari – ripetuto dalla voce nitida, senza particolari emozioni, degli altoparlanti della prima stazione di Trenitalia all’interno dei confini della Calabria. Una frase che per tantissimi calabresi emigrati al Nord reca il sapore di casa.
    Potrebbe recarlo ancora per poco, però, perché si è riaccesa la questione per cui Praia a Mare, Aieta e Tortora, i tre comuni dell’Alto Tirreno Cosentino, i primi abitati calabresi scendendo verso Sud dal litorale tirrenico, potrebbero in futuro passare ad altra giurisdizione. Quella della confinante Basilicata, appena oltre il corso del fiume Noce che funge da valico fra la Calabria e, appunto, la Basilicata.

    policastro-e-il-suo-golfo-cartoline-dallinferno-e-paradisi-perduti
    Il Golfo di Policastro, con al centro l’Isola di Dino, visto da San Nicola Arcella

    Chiariamo fin da subito: l’iter non è affatto semplice – lo vedremo – e il dibattito va avanti, fra improvvisi picchi e lunghi periodi di quiete, da dieci anni. Ma esiste un comitato civico, denominato Passaggio a Nord Ovest, che promuove il cambiamento. L’argomento principale? La distanza troppo marcata, non solamente sotto l’aspetto geografico, coi centri del potere regionali: Cosenza e Catanzaro.
    È così che sullo specchio d’acqua dalle mille sfumature del Golfo di Policastro – bacino condiviso da Campania, Basilicata e Calabria – potrebbe accendersi presto uno scontro destinato a provocare uno scossone nella politica regionale.

    Praia, Aieta, Tortora: le ragioni della secessione

    All’origine del proponimento una questione oltremodo spiacevole, ovverosia il disastroso depotenziamento, avvenuto a partire dal 2012, dell’ospedale civile di Praia a Mare – l’unico nosocomio dell’area –, passato a essere Centro di assistenza primaria territoriale. Un presidio che nei fatti, strozzato da molteplici sentenze e criticità di varia natura, non ha mai raggiunto alcuna stabilità. Il Centro “sospeso” oggi risulta soltanto un bluff ai danni della popolazione potenzialmente di riferimento; una beffa che dura da una decade. L’apice? Nel 2017, quando la struttura ospedaliera fu “riaperta” in pompa magna alla presenza dell’allora governatore della regione: la più classica ciliegina sulla torta di una vicenda ancora lungi dalla conclusione.

    praia-ospedale-casa-salute-capt-tortora-aieta
    L’ingresso della struttura sanitaria a Praia

    Sta di fatto che, al momento attuale, partendo da Praia a Mare, Aieta e Tortora, l’ospedale lucano di Lagonegro è più facilmente raggiungibile rispetto a quello regionale di Cetraro.
    A differenza della rivierasca Praia a Mare e della montana Aieta – oggi parte del Parco nazionale del Pollino e che fino al 1928 inglobava anche il segmento costiero di Praia, poi divenuta Comune a sé –, Tortora confina già con la regione dei desideri, segnatamente con tre comuni della provincia di Potenza: Maratea, Trecchina e Lauria.

    Il capitolo turismo

    Un altro punto caro al comitato e alla popolazione dei tre centri tirrenici che chiedono l’annessione alla Lucania è il turismo. E in questo tratto dell’antico Sinus Laus, il turismo oggi è lontano parente di quello florido e di qualità della seconda metà del secolo scorso, che pure ha recato ponderosi danni al tessuto sociale e al paesaggio della zona con la sregolata cementificazione e le mirabolanti imprese turistiche abortite nell’arco di poche stagioni. Su tutti, vedi le capanne, le residenze e il ristorante costruiti sull’isola di Dino, difronte alla spiaggia di Praia, negli anni Sessanta per volere nientepopodimeno che dell’Avvocato Gianni Agnelli – che completò l’acquisto dell’iconica isola per cinquanta milioni di lire –, complesso di edifici oggi in irrimediabile stato di abbandono.

    marlane-policastro
    Quel che resta di uno dei due stabilimenti Marlane

    Il «degrado antropologico» di questi luoghi «che d’inverno diventano terre di nessuno», come sostiene Luca Irwin Fragale in una accurata analisi dei paesi del Golfo, è il male cronico dell’area, divenuta sempre più marginale e povera dopo la chiusura della Marlane, stabilimento tessile punta di diamante dell’economia locale fin quando non ha disvelato la sua vera faccia, ovverosia quella di fabbrica di veleni causa e concausa di un numero indefinibile di morti.
    Il ricordo e la nostalgia dei bei tempi andati – raffrontati alla profonda depressione odierna – aizza la voglia di Basilicata e lo spirito secessionista dei tre centri di questa porzione estrema della regione.

    Praia, Aieta e Tortora alla Basilicata: si può fare?

    Ma, nei fatti, in Italia è possibile il passaggio di un comune o di una unione di comuni da una regione all’altra?
    Il percorso istituzionale è sicuramente erto. Anzitutto occorrerebbe raccogliere un cospicuo numero di firme, incluse quelle dei sindaci e dei membri dei consigli comunali, al fine di richiedere la istituzione di un referendum popolare. La concessione passerebbe dalla Corte di Cassazione. Dopodiché, a referendum ultimato con esito positivo, si dovrebbe attendere il placet delle due regioni interessate.

    Il Palazzaccio, sede della Corte di Cassazione a Roma

    Ma forse stiamo correndo troppo e questo è un passaggio di là da venire. Di fatti, ancora prima di giungere al Palazzaccio, l’istanza potrebbe dissolversi nel nulla. Non è affatto detto che il partito pro Lucania rappresenti la maggioranza dei praiesi, tortoresi e aietani messi assieme, così come non è scontato che le tre entità condividano le medesime opinioni.

    Volontà reale o carenza di attenzioni?

    Sulla autenticità del proponimento, di fatti, aleggia più di un dubbio. Oltre che una manifesta e lecita espressione di malessere, l’intenzione di passare alla Basilicata – di certo, absit iniuria verbis, non la regione locomotiva della Penisola – pare in certa misura una provocazione al fine di ricevere maggiori attenzioni da parte del governo regionale, dalla matrigna Calabria, la “Calabria infame”, direbbe il poeta Franco Costabile.

    E se Praia, Aieta e Tortora diventassero davvero lucane? L’ipotetico “cambio di casacca”, farebbe perdere alla Calabria, sommando i dati dei tre centri, una fetta di territorio pari a più o meno 130 chilometri quadrati e circa tredicimila abitanti. Si ridurrebbe così ulteriormente una popolazione già spremuta dalla emigrazione e ben al di sotto dei due milioni di abitanti con tendenza, per giunta, in continua diminuzione. E la Calabria perderebbe anche una località, Praia a Mare, che seppur lontana dai fasti di un tempo – la cittadina fu raccontata alla metà degli anni Cinquanta, in uno degli ultimi viaggi della sua lunga e ricca vita, dallo storico dell’arte Bernard Berenson – rappresenta comunque una delle destinazioni turistiche più importanti dell’intera proposta regionale.

    Utopie

    Secondo il comitato Passaggio a Nord Ovest, riunitosi in questi giorni a Tortora, i tre paesi di questo lembo estremo della Calabria nordoccidentale sarebbero pronti a guadare il Noce per raggiungere nuovi splendori.
    Magari non quelli della antica città enotria di BlandaBlanda Julia in epoca romana –, identificata proprio in territorio di Tortora, citata da Tolomeo e Plinio il Vecchio e presente in molte carte geografiche del passato come l’Itinerarium Antonini e la famosa Tabula Peutingeriana.

    blanda-mappa
    Dettaglio di una mappa del 1708 del Regno di Napoli con Blanda, la antica città enotria

    Le aspirazioni a Praia, Aieta e Tortora sono meno pretenziose e antistoriche, ma ben più concrete e comprensibili. I tre comuni calabresi – ancora per adesso – aspirano alla normalità. Uno stato che a certe latitudini e in certe periferie della Repubblica assume spesso le fattezze dell’utopia.

  • Il vittimismo di certa destra con o senza Hume

    Il vittimismo di certa destra con o senza Hume

    Alla fine voleva essere galante, cioè superiore ma senza esagerare, come suggerisce Hume. Spartaco Pupo, docente Unical che oggi grida di essere vittima di un attacco alla propria libertà di dire cose bizzarre citando il suo amato filosofo scozzese, sta mettendo in atto la consueta pratica del vittimismo, in cui dopo averla sparata grossa, si piange addosso per le critiche ricevute.

    Spartaco Pupo, docente dell’Università della Calabria

    Critiche, sia chiaro, e non richiami formali o censure, perché l’avvocata Stella Ciarletta, “consigliera di fiducia” dell’ateneo, rispettosa del suo ruolo e delle sollecitazioni ricevute da studenti e movimenti, con una mail privata si è limitata a chiedere maggior rispetto e di riflettere riguardo all’opportunità del post pubblicato dal docente di storia, noto esponente della destra. Per chi se lo fosse perso, con il garbo che si conviene ad un gentiluomo, Pupo celebra l’Otto marzo con una lunga citazione del filosofo di Edinburgo, pre illuminista e indicato come il padre del liberalismo costituzionale degli stati moderni.

    La frase scelta parla di superiorità dell’uomo, che però deve mitigare tale supremazia «dimostrando autorità in modo più generoso, se non meno evidente, ossia con le buone maniere, la deferenza, la considerazione, in breve con la galanteria», ma anche con «l’altruismo e con una calcolata riverenza e comprensione per le tendenze e le opinioni di lei». Pensava di suscitare gratitudine e invece comprensibilmente qualcuno si è arrabbiato .
    A far diventare un caso quello che invece è un banale (letteralmente) post su Fb è il soccorso cameratesco, che alza il tiro e il polverone, mentendo su richiami istituzionali che non ci sono, né potevano esserci, e sovrapponendo l’opinione di Pupo con quella della professoressa De Cesare a seguito della scomparsa di Barbara Balzerani. La cortina fumogena della distorsione dei fatti è utile sempre per lamentarsi della sinistra che occupa le università e sotto sotto suggerire qualche epurazione, perché certi passati storici restano nel Dna.
    Riguardo a Hume, che oltre ad alcune magnifiche cose diceva pure che «propendo a ritenere i negri e in generale le altre specie di uomini inferiori ai bianchi» chi lo cita dovrebbe stare attento: se prendi il peggio di un filosofo di trecento anni fa e quelle cose ti piacciono, quel peggio ti appartiene.

  • Repubblica Rossa di Caulonia: falce, martello e sangue contro i latifondisti

    Repubblica Rossa di Caulonia: falce, martello e sangue contro i latifondisti

    Degli sfruttati l’immensa schiera/

    La pura innalzi, rossa bandiera/

    O proletari, alla riscossa/

    Bandiera rossa trionferà.

    Una bandiera rossa garriva a Caulonia, seppur per un attimo. Quella che raccontiamo è una pagina poco nitida e menzionata della storia della Calabria, una vicenda maturata al termine della Guerra di Liberazione italiana, che, nella sua brevissima parabola, non rimase relegata ai circoscritti confini territoriali in cui ebbe luogo, ma si riverberò sul panorama nazionale.

    La Rivoluzione d’ottobre fa il bis

    6 marzo 1945. Mentre l’Armata Rossa prepara l’ingresso decisivo nella Germania nazista ed Evgenij Chaldej non sa ancora che fra poche settimane sul tetto del palazzo del Reichstag scatterà una delle fotografie più iconiche del secolo, in tutta Italia sono alle ultime battute le operazioni militari degli Alleati. L’intenzione è di formare un nuovo ordine nella Penisola precipitata nel marasma dopo la caduta del Fascismo, l’Armistizio di Cassibile, l’occupazione tedesca, la nascita dello stato fantoccio di Salò e la sanguinosa guerra civile.

    bandiera-rossa-germania
    La bandiera sovietica issata sul Reichstag nella più famosa foto di Evgenij Chaldej

    In questo scenario a dir poco caotico, a Caulonia, centro della Calabria sudorientale, scoppia una rivolta destinata ad aggiungere un capitolo nella cronistoria del centro che prende il nome dalla antica città magnogreca (fondazione achea dell’VIII secolo a.C.) di Kaulon (o Kaulonìa) che un tempo si credeva sorgesse entro i confini comunali dell’attuale Caulonia, prima delle scoperte archeologiche del primo Novecento che hanno attestato la corretta collocazione a Punta Stilo, nel territorio di Monasterace, circa quindici chilometri più a Nord.

    Falce e martello in un angolo di Calabria

    Il più esteso dei paesi della comunità montana Stilaro-Allaro-Limina, conosciuto come Castelvetere fino al 1863, all’epoca dei fatti contava una popolazione relativamente significativa, circa dodicimila abitanti, il doppio rispetto a quelli del XXI secolo, determinato dal progressivo abbandono del vasto centro storico partito negli anni ’50 del secolo scorso.
    In quei giorni di marzo del 1945 quello sconosciuto angolo della misterica Calabria – ulteriormente impoverita dalla guerra – balza agli “onori” della cronaca nazionale grazie al compimento di una sommossa sullo schema delle azioni criminali della Rivoluzione d’ottobre e successiva guerra civile nella Russia di circa un quarto di secolo prima.
    I moti, maturati negli ultimi giorni della stagione di sangue che culminò con la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, profittando quindi di una situazione sociopolitica oltremodo instabile, portano alla nascita della Repubblica Rossa di Caulonia.

    La Repubblica Rossa di Caulonia e gli scontri fra contadini e latifondisti

    Vessati dai latifondisti intenzionati a mantenere i propri privilegi anche in vista della nuova epoca oramai alle porte, i contadini di Caulonia decidono di unirsi e di insorgere contro i potenti padroni.
    La scintilla che fa scattare la rivolta è l’arresto del figlio del sindaco del paese, reo di avere rubato presso una proprietà di un notabile della zona. È vero, però, che l’arresto del giovane è soltanto il più classico casus belli, ché il clima nel paesino dell’odierna provincia di Reggio Calabria ribolliva da tempo. Già nel 1750 i braccianti di Castelvetere erano stati protagonisti di una insurrezione contro i Carafa, famiglia dominante dell’area. Negli anni susseguenti alla Grande Guerra, poi, si era registrato qualche nuovo acceso scontro.

    repubblica-rossa-caulonia-contadini
    Contadini al lavoro nei campi (Archivio Istituto Luce)

    Soprattutto, però, è dopo l’8 settembre che gli attriti fra contadini e possidenti, ovverosia fra braccianti rossi e agrari neri, si inaspriscono: ribelli comunisti si macchiano di aggressioni, convinti di potere usare violenza in quanto aderenti alla “giusta” lotta contro i fascisti. Emblematico è l’agguato che vede vittima il curato don Giuseppe Rotella, assalito e bastonato a sangue perché si permette di biasimare la brutalità dei rivoltosi.

    Pasquale Cavallaro issa la bandiera sul campanile

    Capopopolo della sollevazione di Caulonia è Pasquale Cavallaro, classe 1891, sindaco comunista del centro del Reggino, uomo di discreta cultura e grandi capacità oratorie, già oppositore del regime di Mussolini e pertanto confinato per circa quattro anni sulle isole carcere di Ustica e Favignana.
    Descritto come uomo ardito e inquieto, dai personali principi saldissimi, incentrati sulla “defascistizzazione pacifica” del suo paese, quel 6 marzo 1945 Cavallaro occupa l’ufficio delle poste e le caserme dei Carabinieri reali e delle guardie forestali, per poi proclamare la nascita della repubblica filocomunista issando sul campanile della chiesa la bandiera rossa con falce e martello.

    Eugenio Musolino
    Eugenio Musolino

    Già le primissime fasi della “conquista del potere” sono oggetto di discussioni. Uno dei protagonisti politici di quella stagione, Eugenio Musolino (segretario comunista e poi parlamentare del Pci dal ’48 al ’58, nonché membro dell’Assemblea Costituente), inviato sul posto perché chiarisse cosa stesse accadendo nel centro jonico e mediasse una rapida risoluzione della faccenda, riporta nel libro La Repubblica Rossa di Caulonia. Una rivoluzione tradita? che il sindaco rivoluzionario si era in parte ritrovato nel turbine dei tumulti a causa dell’incontenibile desiderio insurrezionale dei due figli.

    La Repubblica Rossa di Caulonia: caccia ai fascisti

    Quel giorno un gruppo di migliaia di contadini e operai sfruttati dell’are si unisce. I numeri non sono precisi: alcuni parlano di tremila, altri, fra i quali lo stesso Pasquale Cavallaro, addirittura di diecimila unità fra caulonesi e altri braccianti (fra cui anche centinaia di donne) provenienti dai vicini comuni di Camini, Stignano, Placanica, Monasterace, Riace e Nardodipace.
    Accade, però, che la necessità di ribellarsi alle soperchierie storiche dei proprietari terrieri, sul modello di un sistema feudale difficile da intaccare e rimasto praticamente immutato a Caulonia, come in altri angoli isolati del Mezzogiorno, si trasforma immediatamente in una sommossa segnata dalle violenze e dalle vendette personali, regolamenti di conti non soltanto contro i “nemici” fascisti.
    Contando sulla protezione delle montagne sovrastanti, nella Repubblica di Caulonia si alzano barricate, i compagni armati di fucili e mitraglie presidiano le porte del paese e le colline intorno, minano alcuni ponti verso la marina.

    L’umiliazione dei “nemici del popolo”

    I tumulti vengono soffocati già il 9 marzo, ma durante le quattro giornate di Caulonia si assiste a scene mostruose in cui numerosi notabili del paese vengono oltraggiati e torturati dagli insorti e alcune donne sono stuprate con la inammissibile scusante della libertà dei popoli oppressi. I nemici del popolo vengono processati sommariamente da un tribunale del popolo e le umiliazioni pubbliche ai danni di sostenitori dei fascisti, reali o presunti, si succedono. A pagare il prezzo più alto è soprattutto il parroco Gennaro Amato, amico d’infanzia del Cavallaro e simbolo di un mondo che i cosiddetti “mangiapreti” intendono distruggere. Ucciso dall’esercito popolare all’alba della sommossa, il prelato è la sola vittima sulla coscienza della Repubblica Rossa di Caulonia.

    Per quattro giorni l’euforia e il terrore corrono per le stradine del centro agricolo. Infine è l’arrivo della polizia di Reggio Calabria a sedare la ribellione, già affievolitasi con il manifestarsi delle violenze più belluine, chiaramente disapprovate da gran parte della comunità. Il dissociarsi della brava gente di Caulonia non è la sola ragione che porta alla conclusione della parentesi anarchica. Ce ne sono almeno altre due che portano al fallimento, pratico e ideologico, la rivolta della Repubblica caulonese: i ribelli non trovano né il sostegno dei dirigenti provinciali del Pci, né tantomeno l’approvazione della malavita locale, entità che, nel bene o nel male, avrebbero potuto dare consistenza al golpe abortito di Cavallaro e compagni.

    La Repubblica rossa di Caulonia a processo

    Il sindaco/presidente della Repubblica si dimette il mese successivo, le bandiere rosse vengono strappate dai tetti delle abitazioni e circa trecentocinquanta fra i più feroci rivoluzionari di Caulonia sono arrestati con l’accusa di costituzione di bande armate, estorsione, usurpazione di pubblico impiego, violenza a privati e, in ultimo, di omicidio, per l’assassinio del parroco Amato.
    Al processo partito nel marzo 1947 alla Corte di Assise di Locri, per la quasi totalità degli imputati non si procede perché i reati sono dichiarati estinti a causa della controversa amnistia (decreto presidenziale numero 4 del 22 giugno 1946) proposta dal Ministro di grazia e giustizia Palmiro Togliatti, storico segretario generale del Pci.
    Solamente Pasquale Cavallaro e i due assassini materiali dell’omicidio Amato sono condannati a otto anni di reclusione.

    tribunale-locri
    Il tribunale di Locri oggi

    Un esempio di liberazione dal servilismo

    «Io volevo, questo in modo assoluto, farla finita con le disparità, con le angherie, il servilismo verso questo o quel signorotto, verso questo o quel prevalente messere; io volevo che tutti si avesse una dignità umana degna di essere ammirata e degna di rispetto da parte di tutti. Questi erano i miei intendimenti precisi, chiari, inequivocabili. […] Fatto sta che a Caulonia si è dato un grande esempio, l’esempio della liberazione del servilismo».
    È un estratto dell’intervista di Pasquale Cavallaro con Sharo Gambino, scrittore, giornalista e intellettuale meridionalista, contenuta nel volume succitato La Repubblica Rossa di Caulonia. Una rivoluzione tradita?, che raccoglie scritti di Pasquino Crupi, Sharo Gambino, Vincenzo Misefari e Eugenio Musolino relativi alla Repubblica Rossa di Caulonia.

    Episodio campale della sequenza di ribellioni delle classi oppresse del Sud Italia che negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso lottarono contro le vessazioni dei latifondisti e per la distribuzione delle terre incolte e una legittima riforma agraria, il caso della Repubblica Rossa di Caulonia del ’45 è di fatto scivolato nell’oblio, trovando appena qualche eco nei racconti popolari tramandati per via orale.

    Una piazza per ricordare la Repubblica Rossa di Caulonia

    Recentemente è stata avanzata la proposta di dedicare una piazza a quella rivolta popolare, pare, al tempo, encomiata anche dallo stesso Iosif Stalin, leader del più potente partito comunista del globo, e, negli anni, da taluni riconsiderata, in maniera a dir poco acrobatica, come antipasto della Repubblica italiana. Comunque sia, i propositi celebrativi si sono scontrati con chi invece considera quella breve parentesi, forse troppo mitizzata, certamente contraddistinta da punti tutt’oggi oscuri e di una ricostruzione lacunosa, una pagina da dimenticare considerate le azioni violente esercitate nel corso delle quattro giornate e pure il numero dei contadini puniti successivamente al ripristino dell’ordine.

    Iosif-Stalin
    Stalin, segretario del PCUS negli anni dell’insurrezione calabrese

    Per approfondire meglio la complicata storia del governo rosso di Caulonia esiste una ampia e sfaccettata letteratura. Segnaliamo alcuni altri testi: In fitte schiere. La repubblica di Caulonia di Sharo Gambino (Frama Sud), La Repubblica di Caulonia di Simone Misiani (Rubbettino), Cavallaro e la Repubblica di Caulonia di Giuseppe Mercuri (Vincenzo Ursini Editore), Operazione “Armi ai partigiani”. I segreti del Pci e la Repubblica di Caulonia di Alessandro Cavallaro (Rubbettino) e La Repubblica di Caulonia tra omissioni, menzogne e contraddizioni di Armando Scuteri (Rubbettino).

  • Eranova, cronaca (e romanzo) di un assassinio di Stato

    Eranova, cronaca (e romanzo) di un assassinio di Stato

    Si può avere il coraggio di cancellare un intero paese, sradicare centinaia di migliaia di alberi per costruire un’acciaieria consci della crisi dell’industria siderurgica e, per giunta, che il progetto non sarà mai realizzato?
    Si può, purtroppo si può. Ed è il sunto della storia amara di Eranova, della truffa ordita negli anni Settanta del secolo scorso ai danni della Calabria, una terra fra le più povere del Continente, da sempre subordinata a forze superiori e spolpata dai massicci flussi emigratori; una storia che, se non fosse realmente accaduta, potrebbe apparire un romanzo a metà fra l’umorismo – tendente alla satira – e la distopia.
    Una storiaccia che, in effetti, proprio un romanzo ha riportato recentemente a galla, in un momento storico in cui tanto ci si interroga sull’opportunità di certi nuovi mirabolanti progetti pensati per la Calabria, per strappare i calabresi dalle secche dell’“insostenibile” sottosviluppo economico e infrastrutturale e schiudere loro inaspettati orizzonti di benessere.
    La vicenda di Eranova, il fu centro agricolo della Piana di Gioia Tauro, rivive nelle pagine di Un paese felice, l’ultima fatica letteraria dello scrittore Carmine Abate.

    Piana_Gioia_Tauro_-_Vista_da_San_Giorgio_Morgeto01
    La Piana di Gioia Tauro

    Eranova, il paese profumato di zagara

    Prima che scoccasse l’ora fatale, Eranova era una frazione costiera del comune di Gioia Tauro, distinta dall’inebriante profumo di zagara e dalle distese di vigneti, uliveti e agrumeti che ne tingevano di colori il territorio parallelo alla spiaggia, dirimpetto alle Eolie.
    Un luogo paesaggisticamente meraviglioso che era stato fondato nel 1896 da un gruppo di braccianti stanchi di sottostare alla tirannia dei padroni della vicina San Ferdinando. Uomini e donne anelanti libertà, ché “la libertà è tutto nella vita di un uomo, come l’aria che respiriamo”.
    Un’aria fresca e pulita che d’un tratto, susseguentemente al famigerato Pacchetto Colombo (dal Presidente del Consiglio dei Ministri Emilio Colombo che lo annunciò) volto ad acquietare gli animi di parte dei calabresi dopo le rivolte di Reggio Calabria del 1970 – causate dalla decisione del governo di conferire a Catanzaro il titolo di capoluogo di regione –, venne inquinata dal limaccio e dai miasmi del denaro, della sopraffazione, del compromesso e degli intrighi politici in nome della parola-bestemmia degli ultimi cinquanta, sessant’anni della storia d’Italia: il progresso.

    I Moti di Reggio
    I Moti di Reggio

    Eranova: l’origine del disastro

    Moti di Reggio e successivo Pacchetto Colombo, dunque. Originano un po’ tutti da lì i mali della Calabria degli ultimi decenni.
    Il progetto del quinto centro siderurgico con annesso porto commerciale, di fatti, fu assegnato a Gioia Tauro nel 1972 come compensazione della rivolta reggina. Una assegnazione avvenuta senza una chiara programmazione ma indirizzata principalmente a placare gli spiriti inferociti e diretta a un settore, quello dell’acciaio, già in aperta crisi per via della stagnazione sia dell’edilizia sia della cantieristica – l’acciaieria di Bagnoli registrava perdite paurose e per quella di Piombino si pensava alla chiusura –; una crisi ampliata dopo l’apertura, nel 1965, dell’impianto di Taranto, che deturpò la città sullo Jonio e la sua piana punteggiata da ulivi secolari, da un giorno all’altro bollati come testimoni di un mondo arcaico, inutile cordone con una civiltà contadina da lasciarsi alle spalle senza troppi dispiaceri.

    bagnoli-eranova
    Quel che resta delle acciaierie di Bagnoli

    La bella Taranto, abbracciata dal mare e cantata nei secoli da poeti e viaggiatori – Pasolini nel suo viaggio in Italia del 1959 la definì “una città perfetta” –, sparì, lasciando spazio a un’area industriale che spianò per Taranto la strada verso il titolo di città fra le più insalubri del pianeta. Quel precedente, però, non fece squillare alcun allarme alle orecchie turate di una buona porzione dei calabresi e dei governi nazionali e regionali.

    Mille miliardi gettati al vento

    Appalesatesi presto i primi segni del prevedibile inganno, gli abitanti della città offesa dalla mancata assegnazione del capoluogo, nella cui provincia sarebbe ricaduta l’opera con tutti i suoi utopistici benefici, furono i primi a non mollare di un centimetro affinché il disegno del centro siderurgico della Piana non fosse rimodulato o accantonato. Già in quegli anni settanta, di fatti, era stata stabilita la antieconomicità del progetto dell’acciaieria e delle infrastrutture collegate, con quell’investimento statale monstre di mille miliardi di lire che sarebbe stato impossibile da recuperare, tanto che anche Finsider e Iri avevano consigliato di spostare l’impresa in zone più propense alla sua realizzazione, vale a dire Lamezia Terme e Crotone.

    La-zona-del-5°-centro-siderurgico-durante-i-lavori-nel-1976-Michele-Marino2
    I lavori per la realizzazione del polo siderurgico, 1976 (foto Michele Marino)

    Titolò La Stampa, il 24 agosto 1973: “Reggio vuole a tutti i costi il 5° ‘Centro’ di Gioia Tauro”. Un fermo sostegno da parte della città più popolosa della regione per scongiurare un ripensamento, un cambio di rotta – il quale, chiaramente, sarebbe stato visto come di matrice politica – che, qualora fosse sopraggiunto, avrebbe condotto i reggini di nuovo in piazza per riaprire la tutt’altro che sopita polemica circa il capoluogo.
    Una posizione ferrea che assumeva la forma di un ricatto morale a cui lo Stato italiano si piegò ma che di vittime non ne mietette presso i palazzi del potere, bensì soltanto nella disgraziata Calabria.
    Soprattutto in quel piccolo centro di Eranova, il paese felice del romanzo di Abate, un libro testimonianza che si fa portavoce di tutte le ingiustizie subite dalla Calabria e dai calabresi, un’opera che, grazie all’incoraggiamento “di un coro di voci veritiere” – come afferma lo stesso autore originario di Carfizzi –, permette di fare emergere una storia drammatica seppellita dalla mala coscienza nazionale e locale.

    Il disastroso impatto ambientale

    Dietro la promessa da marinaio della creazione di circa 7.500 posti di lavori offerti ai calabresi – molti dei quali, emigrati in Alta Italia, in Germania, nelle Americhe, già pregustavano il sognato ritorno a casa: «Ci sarà il progresso finalmente! Non possiamo vivere solo di zappa e partenze» –, a Eranova si procedette allo sbancamento della spiaggia e all’esproprio di 500 ettari di terreno. Fu un sacrificio che il deputato socialista Giacomo Mancini, fra i maggiori sostenitori dell’impresa fallimentare, definì “minuscolo” considerati i cinquantamila ettari coltivati nell’area.
    Si assistette così all’abbattimento impietoso di circa 700.000 alberi – cifra abnorme che pure se non fosse corrispondente al vero dà comunque la misura dello spaventoso abuso perpetrato contro la natura – e della folta pineta marina che riparava dal vento e dalla salsedine i prosperosissimi uliveti, vigneti e agrumeti, quest’ultima coltivazione, ritornata col tempo un fiore all’occhiello della Piana, oggi nuovamente strozzata dalle politiche europee.

    eranova-quinto-polo
    Andreotti, Mancini e l’allora sindaco Gentile posano la prima pietra del Quinto polo

    Una serie di azioni scellerate che estirparono per sempre il profumo di zagara che contraddistingueva quel tratto della Piana e stravolsero le vite di centinaia di famiglie.
    Il polo siderurgico di Gioia Tauro non è stato mai realizzato e il porto commerciale della città – costruito per dare supporto all’acciaieria fantasma inondando l’area interessata con due milioni e mezzo di metri cubi d’acqua – si staglia oggi come unica testimonianza tangibile di quella promessa che cinquant’anni fa illuse per l’ennesima volta i calabresi; un impegno puntualmente non mantenuto dalla Repubblica e che si trasformò in un imponente sperpero di fondi pubblici, nonché in un colossale affare per politici e mafiosi.

    Un memento per i calabresi

    L’avanzare delle voraci gru, delle ruspe e delle draghe, la lenta e inesorabile cancellazione del paesino di Eranova, le proteste dei pochi eranovesi non lasciatisi incantare dagli unicorni delle favole e corrompere dal dio denaro, il blocco dei cantieri per i ritardi circa l’arrivo degli indennizzi per gli espropri e i trasferimenti verso i nuovi alloggi allestiti presso anonimi quartieri di Gioia Tauro e San Ferdinando.

    carmine-abate-presenta-ultimo romanzo-villa-rendano
    Lo scrittore Carmine Abate

    Sono tutti aspetti e riflessioni che, attraverso la storia romanzata di Un paese felice, Carmine Abate ci racconta, risvegliando il ricordo di una cicatrice mai rimarginata e stimolando il popolo calabrese – cui sovente, nella storia, si è ritorta contro la sua acquiescenza e la sua proverbiale accoglienza – a tenere sempre alta la guardia dinanzi ai canti ammaliatori dei signori del “progresso” e ai nuovi piani di ripresa e “pacchetti” di varia forma e natura che oggi o domani potrebbero essere offerti come manna dal cielo.

  • Aspromonte: Ente Parco nella bufera? Politici tutti zitti

    Aspromonte: Ente Parco nella bufera? Politici tutti zitti

    Come è ormai noto, le vicende legate alla complicata e controversa gestione dell’Ente Parco Aspromonte diffuse da questo giornale sono volte al peggio. Questo peggio non riguarda solo l’operato dell’ormai ex presidente Leo Autelitano, rimosso per le gravi criticità gestionali richiamate dal relativo decreto del ministro Pichetto-Fratin.
    Il commissariamento di un ente pubblico è una sconfitta su tutta la linea. Lo è per gli amministratori coinvolti, per la politica che vi ruota intorno, per le funzionalità dell’ente stesso ridotte al solo disbrigo degli affari correnti. Lo è anche e soprattutto per i portatori di interesse la cui azione è informata da (e cammina con) gli indirizzi politici e gestionali – l’ipotetico “buon governo” – di una pubblica amministrazione. Mi riferisco, ad esempio, agli operatori turistici e a tutti coloro che lavorano con e per la montagna.

    Ente Parco Aspromonte: tutti decaduti tranne uno

    A maggior ragione anche questo commissariamento, come i molteplici che si sono susseguiti in Calabria e non solo, paralizza l’azione del Parco. Annulla tutte le sue attività di pianificazione. Congela la progettazione e la programmazione di cui aveva parlato Pino Putortì, direttore amministrativo dell’ente, unico a restare in sella dopo il triste epilogo. Assieme ad Autelitano è, infatti, decaduto anche il Consiglio Direttivo.
    Questo significa che il famoso e recentemente approvato Piano Integrato di Attività e Organizzazione 2023-2025 con il nucleo della nuova programmazione diventa carta straccia. E con esso tutte le nuove linee programmatiche sulle maggiori difficoltà da sbrogliare. In primis il riordino della zonizzazione, fondamentale per superare le criticità legate alla governance dei territori, ossia dei 37 (!) Comuni ricadenti nell’area del Parco.
    Tutti dettagli che, considerata la forma di diarchia pura tra presidenza e direzione amministrativa, giocano a favore di una necessaria revisione della legge 394 in una direzione che garantisca il buon andamento dell’ente e ne scongiuri la paralisi.

    Leo Autelitano, il presidente dell’Ente Parco dell’Aspromonte

    Ente Parco Aspromonte: silenzi e milioni di euro

    Più in generale, fa impressione non aver letto una riga di dichiarazioni da quei Comuni che, insieme alla Città metropolitana di Reggio e alla Regione Calabria, formano la Comunità del Parco: quella che designa, tra personalità di chiara esperienza nel settore, quattro tra i componenti del Consiglio Direttivo oggi sciolto.
    Ora, sorvolando sul “dettaglio” che quelli che la norma indica come esperti, siano sempre stati pure e mere espressioni politiche, si arriva comunque a un bivio. O questo tacere è una forma di silenzio-assenso verso i provvedimenti ministeriali (e allora si è portati a pensare che il muto assenso di oggi sia la complicità muta, cieca e sorda di ieri) o è un tacere interessato. Un’occasione utile per riassettare equilibri, ribilanciare pendenze e stringere nuovi accordi.
    Sul piatto balla un avanzo di bilancio di 5 milioni e 200mila euro, assieme ad altri 6 (cifra arrotondata per difetto): il valore delle quattro schede programmatiche presentate mesi fa alla dirigenza del Settore parchi ed aree naturali della Regione. Decadranno anche quelle? O verrà trovato il cavillo per attingere a quelle risorse?

    Oneri e onori

    Di certo, per un Ente Parco Aspromonte depauperato in modo quasi irreversibile delle risorse umane per mandarlo avanti, la strada è tutta in ripida salita. I moltissimi che vedono nel Parco la casa di tutti gli amanti della natura, gli operatori e le associazioni che si occupano di turismo montano, escursionismo, ricerca, tutela di flora, fauna, territorio e ambiente hanno ora l’onore e l’onere di vigilare più di prima, e di battersi come troppo timidamente fatto prima. Perché il Parco non sono quei loro che ne hanno fatto cosa loro. Il parco siamo noi ed è un pezzo cruciale del futuro dei nostri territori e della loro strategia di crescita e sviluppo.

    Il mare a due passi dalla montagna: meraviglie del trekking d’Aspromonte

    Verso le elezioni

    Lo scorso maggio 2022, secondo l’ultima classifica redatta da Openpolis sulle aree metropolitane più verdi d’Italia, Reggio Calabria si piazzava al terzo posto su 14. Un dato che trova riscontro nella presenza del Parco Aspromonte e, di riflesso, dell’Ente. Il prossimo candidato sindaco di Reggio, assieme agli altri dell’area metropolitana – più tutta la cosiddetta società civile, imprenditoria compresa – dovrebbero ben tenere a mente questi punti: non solo perché sono il cardine delle future politiche nazionali ed europee, ma perché rappresentano la vera e peculiare prospettiva di sviluppo di una città e un’area metropolitana “di montagna” affacciate sul mare. È arrivato il momento delle convergenze, abbandonando i conflitti.

  • Benvenuta al Sud, Angela Finocchiaro, però…

    Benvenuta al Sud, Angela Finocchiaro, però…

    La Calabria ha un nuovo teatro comunale, “inaugurato” il 30 dicembre, proprio sul finire dell’anno nella città di Vibo Valentia e a dirigerlo sarà Angela Finocchiaro. Questa è la storia di uno spazio pubblico iniziata nel 1999 con un finanziamento da parte del Ministero della Cultura e che, inevitabilmente, è andata avanti in un continuo alternarsi di forze politiche per quasi un quarto di secolo.
    Il taglio del nastro è sempre qualcosa che piace molto alla politica, solitamente funziona come una medaglia da attaccare alla giacca per un risultato frutto della semina di altri.
    Maria Limardo, prima cittadina di Vibo, durante la conferenza stampa insieme alla vicepresidente della Regione Giusy Princi e all’ Assessore allo Sviluppo economico Rosario Varì ha comunque ribadito quanto questo risultato sia frutto del lavoro di tutte le amministrazioni alla guida della città in questi anni.

    princi-teatro-vibo-angela-finocchiaro
    Giusy Princi intervistata durante la presentazione del teatro

    In attesa della prima, prevista per metà gennaio, alcune considerazioni su quella che Giusy Princi ha definito «una bella pagina della Calabria, rappresentazione di quando la cultura diventa espressione di civiltà, di un popolo, di una città, in questo caso di Vibo», bisogna farle, però.
    Magari cominciando proprio dalla nomina del direttore artistico e poi in merito ai primi appuntamenti in cartellone a Vibo.

    Angela Finocchiaro prima di Vibo

    La nomina di una donna alla direzione artistica di un teatro calabrese non si può trattare come una questione di genere, si rischierebbe di scadere nella faziosità riduttiva delle tifoserie maschi contro femmine. Angela Finocchiaro è sicuramente una grande artista che ha alle sue spalle una carriera di alto profilo e il suo volto è noto al grande pubblico. Il cinema e la televisione l’hanno resa famosa molto di più del suo impegno in campo teatrale. Questa non vuole essere una critica, ma una semplice constatazione. Che diventa un po’ più amara quando, a garanzia della sua professionalità, qualcuno ricorda che ha vinto due David di Donatello come attrice non protagonista nei film La bestia nel cuore Mio fratello è figlio unico.
    Bene! Anzi, benissimo! Però…

    Teatro, questo sconosciuto…

    Però forse sarebbe stato più appropriato se avesse vinto un Premio Ubu. O, più banalmente, forse più che le sue apparizioni sullo schermo – ricordiamo, tra le tante, La Tv delle ragazze e l’esilarante Benvenuti al Sud – a Vibo qualcuno avrebbe fatto meglio a ricordare l’impegno teatrale di Angela Finocchiaro negli anni ’70 con la compagnia sperimentale Quelli di Grock.
    Ma ancora una volta la politica calabrese che si vuole occupare di cultura fa confusione sui diversi livelli. Scambia il piano della spettacolarizzazione con quello della cultura, quasi come se stesse sponsorizzando un prodotto televisivo.
    Ecco in risalto le caratteristiche più commerciali e quelle conosciute dal pubblico più vasto. E il teatro? In qualche scantinato della cultura, come un reperto destinato all’oblio ed esposto alla mummificazione.

    finocchiaro-angela-reggio-vibo
    Finocchiaro sul palco del Teatro Cilea di Reggio Calabria qualche anno fa con lo spettacolo Ho perso il filo (foto Aldo Fiorenza)

    Tv o palcoscenico?

    A conferma di questo orientamento consumistico troviamo i primi appuntamenti del cartellone della stagione teatrale: niente di più che spettacoli cabarettistici.
    Nessuno si perderà nulla, chi non riuscirà ad occupare la platea potrà tranquillamente sintonizzarsi sulle reti Mediaset.
    Niente contro Paolo Ruffini, Ale & Franz o il truccatore Diego Dalla Palma, ci mancherebbe. Ma lo capiamo immediatamente che non stiamo parlando di teatro, quanto di spettacoli che cambiano location: dagli studi televisivi alle tavole di un palcoscenico.
    Non si tratta di dire cosa sia meglio o peggio,  è che una stagione di un teatro pubblico appena inaugurato non dovrebbe esordire con degli spettacoli televisivi.

    Vibo: Angela Finocchiaro e Parioli sì, Calabria no

    Possiamo chiederci perché nessuno abbia pensato di inserire delle produzioni di compagnie calabresi. Oppure perché non si inauguri la stagione con il sei volte Premio Ubu Saverio La Ruina, soprattutto in virtù dell’ultimo riconoscimento ricevuto solo qualche settimana fa. Potremmo anche chiederci perché non si è pensato di coinvolgere il fondatore della Compagnia Krypton, Giancarlo Cauteruccio, tornato a vivere in Calabria dopo molti anni di direzione artistica del Teatro Studio di Scandicci e un’esperienza in campo teatrale tale da farlo annoverare tra i maestri delle avanguardie del ‘900.

    la-ruina-ubu-via-del-popolo
    Saverio La Ruina in scena con il suo Via del popolo (foto Angelo Maggio)

    Forse si potevano invitare Francesco Colella o Marcello Fonte, giusto compromesso tra popolarità ed esperienza in campo teatrale. Infine mi viene in mente Manolo Muoio, la sua collaborazione con Julia Varley e con Eugenio Barba.
    Chissà se a Vibo o Germaneto ne hanno mai sentito parlare.
    Non è finita: per l’allestimento della prima stagione c’è un accordo con il Teatro Parioli di Roma. Come se in Calabria nessuno sapesse allestire una stagione teatrale. Come se il nome Parioli potesse bastare a garantire un buon successo di pubblico.

    Cultura e globalizzazione

    Non è una questione di campanilismo, quanto una rivendicazione di un’identità culturale ripetutamente calpestata da parte di una politica proiettata costantemente verso l’erba del vicino, cieca verso un patrimonio culturale che merita di essere valorizzato.
    Nell’epoca della globalizzazione a qualcuno potrà sembrare riduttiva una critica verso la scelta di affidare la direzione artistica a una professionista del Nord. Ma c’è un aspetto da non sottovalutare: le diseguaglianze culturali all’interno di una società, proprio a causa della globalizzazione, sono suscettibili a maggiori accentuazioni. La situazione è chiara a livello economico per quanto riguarda i paesi industrializzati e i Sud del mondo. E lo stesso concetto si può applicare a livello culturale tra Nord e Sud. O, meglio, tra Nord e Calabria.

    2024, fuga dalla Calabria

    Sì, proprio la Calabria, perché le altre regioni del Sud hanno solo da insegnarci in materia di gestione delle politiche culturali. In una terra come la nostra, in cui nessuno investe in cultura, trovarsi nella situazione di essere “colonizzati” da professionisti provenienti da altre regioni, senza nessuna possibilità di fare rete oltre il nostro territorio, significa rimanere schiacciati sul piano culturale, continuare ad assistere inermi alla fuga di cervelli e di maestranze artistiche.
    Alla fine sul nostro territorio non rimarrà nulla, perché l’identità culturale di un luogo può essere costruita, recuperata e valorizzata solo da chi in quel territorio c’è nato o da chi ha deciso di viverci.

    Teatro-Vibo-V_interno
    Il nuovo teatro di Vibo vuoto

    Benvenuta a Vibo, Angela Finocchiaro

    Di certo non abbiamo bisogno di esperti a tempo determinato e neanche di “missionari evangelizzatori”. Abbiamo un patrimonio e promesse culturali per poterci porre sul piano della sinergia con altre regioni e non di certo su quello dell’occupazione intellettuale.

    leonida-repaci
    Leonida Repaci

    Il teatro comunale di Vibo Valentia non è stato ancora intitolato a nessuno. Allora vorrei ricordare che il calabrese Leonida Repaci, oltre che scrittore e critico teatrale, è stato anche drammaturgo, i suoi drammi li ha rappresentati tutti a Milano tra il 1925 e il 1930.
    Nella speranza di un giusto riconoscimento al nostro teatro, quello di ieri e quello di oggi, ad Angela Finocchiaro auguro buon lavoro a Vibo: benvenuta al Sud.

  • Propaganda e poca ricerca: se lo Stretto sembra il bis del Vajont

    Propaganda e poca ricerca: se lo Stretto sembra il bis del Vajont

    «Il ponte tra Calabria e Sicilia sarà il ponte sospeso più lungo al mondo, una eccellenza dell’ingegneria italiana»

    Con questo slogan il Ministero per le Infrastrutture e Trasporti presentava, per l’ennesima volta, il progetto del ponte sullo Stretto di Messina, una vecchia idea che affonda le radici nel 1840. Progetto che è risultato divisivo sin dalle sue origini e oggetto di proteste da parte della popolazione locale e parte della comunità scientifica, sia per il suo impatto ambientale su uno dei panorami più belli d’Italia che per i rischi relativi alla geologia dell’area.
    Infatti, dal 28 dicembre 1908, quando un terremoto di magnitudo 7.1 e relativo tsunami distrussero le città di Reggio Calabria e Messina provocando la morte di circa 120.000 persone, lo Stretto di Messina è considerato da un punto di vista sismico una delle aree a maggior rischio dell’intera regione mediterranea.

    Sismograma
    Il sismogramma del terremoto del 1908

    Ponte sullo Stretto di Messina e geologia

    Popolazione e comunità scientifica hanno sollevato alcuni dubbi legati a

    • il potenziale impatto di un terremoto di simile o maggiore magnitudo di quanto registrato nel 1908 sul ponte, Reggio Calabria e Messina
    • la mancanza nell’area di dati recenti acquisiti con tecnologie avanzate per meglio comprendere la geometria, attività ed evoluzione di un assetto tettonico molto complesso, e l’organizzazione stratigrafica e proprietà meccanica delle rocce.

    Le risposte dei sostenitori dell’opera alla possibilità del verificarsi nell’area di un terremoto (impossibile da predire ma statisticamente possibile) sono

    • il progetto del ponte considera questo aspetto
    • il ponte sarà capace di resistere a terremoti con magnitudo maggiore di quanto registrato nel 1908.

    Gli stessi dimenticano però di riportare che ad oggi i materiali necessari per la costruzione del ponte come previsto dal progetto preliminare, e che resista agli stress normali ed eccezionali richiesti da un ponte di tale portata, non esistono ancora.

    messina-terremoto
    Il lungomare di Messina dopo il terremoto del 1908

    Inoltre, a seguito del terremoto del 1908, le città di Reggio Calabria e Messina furono ricostruite senza particolare attenzione nel seguire procedure antisismiche. Questo significa che anche se gli ingegneri riuscissero a costruire un ponte capace di resistere a forti terremoti, il risultato sarebbe di avere una bellissima struttura ingegneristica che collegherebbe due aree completamente distrutte.

    Tanta propaganda, pochi fondi per la ricerca

    Allo stesso tempo, non è chiaro quali e quante strutture a supporto del ponte sono state pensate e quale possa essere l’impatto delle stesse sul territorio e sulle comunità che ci vivono.
    Dove e quanto cemento sarebbe previsto?
    Quale l’impatto su un precario assetto idrogeologico già caratterizzato da fenomeni franosi?
    Molto si parla in modo propagandistico del ponte sensu stricto. Poco o niente si dice del suo impatto sulle comunità locali che nelle aree interessate dal ponte vivono.

    ponte-stretto-messina-opere
    Stretto di Messina, una delle opere accessorie nel progetto del ponte

    Non molta diversa la storia rispetto alla mancanza di fondi destinati alla ricerca per la comprensione della geologia a terra, dove il ponte dovrebbe essere ancorato, ed a mare.
    Ad oggi, con l’Italia che destina solo l’1.35% del suo PIL alla ricerca scientifica (circa la metà della media degli altri stati europei) non deve sorprendere se gli eccellenti studi di ricerca pubblicati nell’area si basino su dati limitati che lasciano importanti domande ancora aperte.
    Per esempio, non c’è ancora consenso nella comunità scientifica su quale faglia sia stata responsabile del terremoto del 1908.

    stretto-messina-faglie-ponte
    Foto aerea dello Stretto di Messina con rappresentazione di alcune delle faglie che controllano la sua evoluzione Credit: Dorsey et al., 2023

    Una foglia di fico?

    Per un progetto così ambizioso, prima di prendere qualsiasi tipo di impegno verso la costruzione del ponte e spendere soldi che si potrebbero investire diversamente (si stima che ad oggi la spesa ammonti già a circa 300 milioni di Euro, per un costo totale dell’opera di 14,6 miliardi di Euro), ci si aspetterebbe quindi un grosso investimento di risorse e fondi per finanziare progetti di ricerca e l’acquisizione di dati utili a comprendere il contesto geologico e ambientale dentro il quale si voglia costruire l’opera.

    il-ponte-sullo-stretto-strabone-wired-passando-salvini
    Matteo Salvini e i presidenti di Calabria e Sicilia, Roberto Occhiuto e Renato Schifani, di fronte a un plastico del ponte

    Il recente annuncio dell’inizio dei lavori relativo alla realizzazione del foglio Villa San Giovanni come parte del progetto nazionale CARG è sicuramente una notizia positiva che contribuirà ad aumentare le conoscenze dell’area. L’uso di quello che dovrebbe essere un aggiornamento regolare delle conoscenze geologiche del territorio atteso da decenni e sempre posticipato, però, potrebbe rappresentare una foglia di fico per distrarre l’attenzione dalla mancanza di studi specifici.
    Inoltre, la recente notizia che Sicilia e Calabria dovranno aumentare il loro contributo finanziario per la costruzione del ponte, senza che lo stesso sia stato discusso e approvato dalle regioni, solleva qualche dubbio sulla sostenibilità finanziaria dell’opera.

    Stretto di Messina e Vajont: il ponte come la diga?

    Se guardiamo al recente passato, l’Italia ha già intrapreso un simile ambizioso progetto con la costruzione della diga del Vajont. Considerato come si è drammaticamente concluso per la popolazione locale e il suo territorio, le similitudini tra i due progetti non sono confortanti.
    Il progetto della diga del Vajont risale al 1920. La costruirono tra il 1957 e il 1960 per realizzare una riserva di acqua da usare per supportare la produzione di elettricità.
    Il 9 ottobre 1963 una mega frana causò uno tsunami che produsse grosse inondazioni e distruzione dei paesi di Erto e Casso posizionati sulle rive del lago e di Longarone e altri paesi lungo la valle del Piave. Morirono circa 2.000 persone. La diga rimase intatta.

    La si può osservare ancora oggi, a testimonianza che da un punto di vista ingegneristico il lavoro fu progettato ed eseguito correttamente. La ferita inferta al territorio e alla popolazione locale, però, ne azzerano il presunto valore.
    Indagini post disastro hanno evidenziato come gli indicatori geologici per prevedere l’instabilità del fianco della montagna erano già presenti prima della frana.
    La mancanza di studi specifici nelle fasi preliminari e la mancanza di coinvolgimento dei geologi durante la realizzazione del progetto, con tutte le decisioni chiave lasciate in mano agli ingegneri, crearono le perfette condizioni per il disastro.

    vajont
    Il dolore dopo il disastro del Vajont

    Bene, bravi… bis?

    Ora guardiamo a come le autorità nazionali presentarono il progetto della Diga del Vajont nel 1943: La più alta diga ad arco al mondo. Il biglietto da visita per il lavoro italiano all’estero. Per il ponte sullo Stretto di Messina assistiamo alla riesumazione dello stesso tipo di propaganda che usarono per convincere la popolazione 80 anni fa ad accettare un’opera faraonica.
    Antonio Gramsci diceva che «la Storia insegna, ma non ha scolari». Speriamo che questa citazione non sia valida per il ponte sullo Stretto di Messina. E che questo progetto non si concluda con un bellissimo e intatto ponte che collega due città fantasma.

    disegno chiarella
    Disegno originale raffigurante il ponte sullo Stretto di Messina che collega due aree metropolitane non provviste delle necessarie infrastrutture per supportare l’eventuale traffico veicolare prodotto dal ponte